Binari che dividono. La ferrovia Monfalcone – Cervignano

Un esempio di tecnostoria. Cioè, una narrazione esplicativa di come una innovazione tecnologia (in questo caso, la progettazione e la realizzazione di una linea ferroviaria in Friuli Venezia Giulia) poi in qualche modo cagiona modificazioni di  natura sociale, economica, culturale.

Trovato qui.

Sbuffi di fumo – La ferrovia Monfalcone-Cervignano. Le cause storiche ed economiche di una polemica fra Gorizia e i centri della pianura
di Donatella Cozzi

Lo sviluppo ferroviario nei territori della Principesca Contea di Gorizia e Gradisca può essere suddiviso in due momenti cronologicamente distinti. La prima fase fu quella della costruzione della “Ferrovia Meridionale” e del tronco di collegamento con Gorizia e Udine. La “Meridionale”, com’è noto, fu realizzata per collegare Vienna con il suo porto adriatico, Trieste. Avviata alla metà dell’800 come impresa statale, essa fu portata a termine fra il 1857 e il 1859 appunto dalla k.k. Priv. Südbahn Gesellschaft. La seconda fase, invece, iniziò alla fine degli anni ’80 e nei primi anni ’90, quando venne progettata e costruita la congiunzione fra la “Meridionale” e la Bassa friulana, la Monfalcone-Cervignano, tronco austriaco del nuovo collegamento diretto fra Trieste e Venezia; e proseguì poi, nei primi anni di questo secolo, con la realizzazione della ferrovia “Transalpina”, seconda congiunzione con l’interno della Monarchia, che si inserì nel complesso di linee dei Tauri e delle Caravanche (1).
In questo articolo ci occuperemo in particolare della costruzione della linea Monfalcone-Cervignano, e delle polemiche che accompagnarono la realizzazione di questo progetto: cercheremo di illustrare i motivi per cui i comuni della pianura (Monfalcone, Ronchi, Cervignano), pur con qualche divergenza – come vedremo -sul tracciato, ne caldeggiarono la costruzione, mentre Gorizia, invece, manifestò contro di esso una forte ostilità.
Occorre premettere che già nella fase di progettazione del collegamento fra la “Meridionale” e Udine era stato sollevato il problema dei collegamenti fra l’alta e la bassa pianura goriziana. Allora, da parte della pianura, era stata espressa la preoccupazione che un tracciato ferroviario ad essa troppo sfavorevole (inizialmente godeva credito l’ipotesi di realizzare la congiunzione con Gorizia attraverso il Vallone) potesse danneggiarla ed emarginarla economicamente. Ed erano state avanzate delle proposte di tracciati alternativi, che per Gorizia prevedevano soltanto un raccordo supplementare, mentre la linea principale avrebbe dovuto raggiungere direttamente Udine, o lungo la direttrice Sagrado-Versa-Palmanova, oppure più a Sud, unendo Monfalcone a Palmanova attraverso Pieris (2).
Ma, com’è noto, non se ne fece nulla, e quindi il completamento della “Meridionale”, realizzato alla fine seguendo l’attuale percorso Monfalcone – Sagrado Gorizia, lasciò irrisolto il problema di una più diretta comunicazione fra la Destra Isonzo e i centri urbani di Trieste, Gorizia e Udine.
Successivamente, la stasi degli investimenti, conseguente al crollo della Borsa di Vienna del 1873, bloccò, come si sa, per oltre un decennio lo sviluppo ferroviario nei territori dell’Impero. Così dei collegamenti ferroviari attraverso la parte meridionale della pianura goriziana si ricominciò a parlare solo alla fine degli anni ’70, ma, come tenteremo di mostrare brevemente, il problema della creazione di questa infrastruttura ferroviaria si inserì questa volta in un contesto economico e sociale, ma anche politico-nazionale, notevolmente mutato rispetto agli anni ’50.
Il distretto di Cervignano, sorto dall’unione dei distretti di Aiello e di Monastero, era la più estesa zona agricola della pianura della Contea. Esso aveva conosciuto fino alla metà dell’Ottocento una notevole prosperità agricola. E se i contatti commerciali più intensi continuavano ad essere, come nel ‘700, quelli con il Friuli occidentale e con il Veneto, considerevolmente cresciuti erano anche i rapporti con Trieste, città in espansione, verso la quale sempre di più ci si rivolgeva per l’esportazione della ricca produzione vinicola locale. I legami e gli scambi economici con Gorizia erano invece rimasti sempre modesti, ma l’identità di lingua, di cultura e di valori dei ceti agrari dominanti (scarso era ancora il peso a Gorizia della borghesia urbana commerciale e delle libere professioni) era sufficiente a dare il senso di una comunanza di fondo fra il capoluogo e i vari territori della pianura.
La crisi agraria degli anni ’50, provocata dalle malattie che colpirono dapprima la produzione vinicola (ciò che determinò la perdita del proficuo mercato di Trieste, il quale si orientò verso i vini istriani e dalmati), e in seguito quella del baco da seta, modificò radicalmente la situazione precedente (3). Già di per sé grave, in quanto aveva investito un sistema agricolo ed economico arretrato, la crisi venne successivamente dilatata dalla delimitazione dei nuovi confini nel 1866, in quanto i nuovi vincoli doganali privarono il Cervignanese dei tradizionali sbocchi commerciali di Palmanova e Udine.
Sebbene dopo il 1866 il paese di Cervignano (come, in misura inferiore, Cormons e Gradisca) traesse un certo beneficio dal fatto che cominciò a configurarsi come centro urbano di scambio e di mercato, proprio in virtù della perdita dei mercati di Palma e di Udine, e alla conseguente crescita della circolazione delle merci all’interno del distretto, e per quanto sorgessero alcuni piccoli stabilimenti industriali (4), la situazione economica complessiva della zona andava continuamente peggiorando. Dopo il cattivo raccolto del 1879 cominciarono ad emergere anche le conseguenze sociali della prolungata crisi, e si diffusero progressivamente la miseria endemica, la disoccupazione, l’alcolismo e la pellagra. Così, tra la fine degli anni ’70 e la fine degli anni ’80 il Cervignanese venne – assai più duramente delle altre aree della Contea – investito dall’esodo migratorio verso l’America, segnale drammatico questo, della decadenza economica che ormai travagliava in modo cronico la zona (5).
Si può ben capire perciò come il ceto commerciale e imprenditoriale cervignanese accogliesse con grande fervore il ventilato progetto di congiunzione ferroviaria con Trieste (e con Venezia). Lo scalo fluviale sull’Aussa, che garantiva un quotidiano collegamento con Trieste, era reputato ormai del tutto insufficiente, e quindi Cervignano con sempre maggior forza e decisione, sostenuta dal consenso degli altri comuni della bassa pianura, cominciò a premere per la realizzazione della nuova ferrovia, ritenuta strumento indispensabile per risollevare “le Basse” e riportarle all’antica prosperità.
Ben diverso fu invece l’atteggiamento assunto da Gorizia di fronte a questa via di comunicazione. Il capoluogo provinciale aveva conosciuto fra il 1860 e il 1880 un discreto sviluppo. Grazie a Ritter, si era verificato un ampliamento e un potenziamento delle attività industriali, mentre la funzione commerciale della città si era andata rafforzando, in quanto né la zona del Collio, con i suoi vini pregiati, né la vallata del Vipacco, in cui si andava sviluppando la produzione ortofrutticola e la viticoltura, erano state investite dalle malattie e dalla crisi che aveva colpito la bassa pianura. Agli occhi della borghesia urbana italiana (ora molto più consistente) questa situazione, tuttavia, appariva preoccupante. Essa, infatti, dopo il 1866, si dimostrava sempre più attenta a salvaguardare la propria identità nazionale (auspicando in tal senso una più stretta unione con la pianura), e guardava quindi con sospetto una crescita che vedeva Gorizia diventare sempre di più centro di scambi commerciali per i contadini e i piccoli proprietari del suo circondario sloveno, dal quale proveniva anche la maggior parte degli operai occupati nelle fabbriche, mentre di fatto sempre più esili diventavano i rapporti e gli scambi con il distretto di Cervignano (6).
Gli italiani di Gorizia, insomma, sentivano che mentre in città cresceva la presenza ed il peso economico degli sloveni, i legami con il retroterra friulano e italiano si stavano progressivamente allentando, e temeva che tutto ciò in prospettiva finisse per determinare una situazione di debolezza per la loro componente. D’altronde il favore con cui la borghesia liberalnazionale aveva accolto e incoraggiato, alla fine degli anni ’70, lo sviluppo indutriale nel Gradiscano e nel Monfalconese, non aveva certo contribuito a rendere più solidi i rapporti con questi distretti, poiché aveva alienato ad essa le simpatie di molti proprietari terrieri, preoccupati dei fenomeni di dissoluzione del vecchio ordine economico-sociale che le fabbriche avrebbero potuto innescare (7).
E’ comprensibile perciò che tutti coloro i quali ritenevano essenziale impedire che Gorizia finisse per gravitare sempre di più nell’area slovena della provincia vedessero come un gran pericolo la costruzione della Monfalcone-Cervignano, che avrebbe contribuito ulteriormente a decentrare il capoluogo dalle correnti di traffico della pianura.
Ma non furono solo coloro cui stava a cuore la fisionomia nazionale della città a fare opposizione. Negli anni ’80 Gorizia cominciava anch’essa a risentire della generale recessione economica che aveva colpito l’intera Monarchia. Languivano le industrie, era in crisi il settore serico (che assegnava al capoluogo la funzione di polo di smercio per i bachicultori di tutta la provincia), cresceva la disoccupazione e segnali di stagnazione si cominciavano ad avvertire pure nel campo delle attività commerciali (8). Tutto ciò, quindi, favorì il coagularsi di un dissenso pressoché unanime nei confronti della progettata linea ferroviaria, che, si disse, avrebbe provocato un danno economico gravissimo alla città e ne avrebbe causato la “rovina”.
Queste preoccupazioni e questa ostilità, tuttavia, non emersero in seno alla Dieta provinciale. Dopo i primi contatti tra il governo austriaco e quello italiano, che si erano tenuti – mediatore l’ingegnere cervignanese Giacomo Antonelli – nel 1882, la Dieta nel 1885 incaricò l’ing. Stummer di stendere il progetto della linea, e nel 1889 si pronuciò a favore della sua realizzazione. Ciò avvenne perché in quella sede si determinò una convergenza tra i deputati italiani dei comuni e delle borgate della pianura e quelli sloveni, i quali dal canto loro premevano per la costruzione del tronco di collegamento diretto fra Gorizia e la “Meridionale”, da realizzare a Postumia o Loitsch (Logaec) attraveso la valle del Vipacco (9).
L’opposizione alla Monfalcone-Cervignano fu quindi un fatto essenzialmente cittadino. Si schierarono contro la ferrovia il “Corriere di Gorizia”, organo della borghesia liberalnazionale, con trasparenti (anche se non esplicite) motivazioni di ordine nazionale, la Camera di Commercio che si soffermò invece sulle ragioni di natura economica, e infine il Consiglio comunale, nel quale i due ordini di considerazioni finirono per sovrapporsi. Con una certa cautela e prudenza si mosse soltanto il foglio cattolico “L’Eco del Litorale” (10).
La presa di posizione del Consiglio comunale venne redatta al termine di una serie di riunioni abbastanza tormentate. Il 19.11.1889, nella prima seduta dedicata all’argomento, a dar voce all’opposizione più intransigente fu il conservatore indipendente on. Marzini. Egli, confutando la relazione presentata alla Dieta da Luigi Pajer, dichiarò che la ferrovia, oltre a causare un danno incalcolabile a Gorizia, non avrebbe giovato significativamente neppure ai comuni direttamente interessati dal tracciato. Il gruppo liberale, che per ragioni di autodifesa nazionale avrebbe volentieri fatto proprie queste posizioni, ma che temeva al tempo stesso di arrivare ad una rottura troppo netta con i “fratelli” del Cervignanese (ciò che dal punto di vista nazionale era altrettanto pericoloso), demandò ad una commissione lo studio delle iniziative da prendere (11). In questa sede, tuttavia, non si riuscì a giungere a conclusioni unanimi e, mentre in città si stampavano dei volantini rivolti alla cittadinanza e si raccoglievano migliaia di firme contro la ferrovia (12), la relazione di maggioranza presentata al Consiglio finì per attenuare l’opposizione, in quanto si limitava a chiedere che prima di costruire la Monfalcone-Cervignano si realizzasse un piano di trenovie locali, indipendenti dalla “Meridionale”, che servissero a collegare in modo più stretto Cervignano a Gorizia (13). In aula sorsero nuove divergenze e non si riuscì ad arrivare ad un voto definitivo. Il consigliere liberale Nardini non esitò a dichiarare apertamente che alla Dieta gli sloveni avevano appoggiato la costruzione della nuova ferrovia perché erano interessati a indebolire Gorizia come centro italiano (14).
A dar forza al partito degli oppositori intransigenti intervenne anche la risoluzione negativa votata dalla Camera di Commercio. Così alla fine, il 23.12.1889, venne redatta una petizione da rivolgere all’Impertaore, in cui si dava corpo in forme esplicite alle proteste e alla contrarietà di Gorizia alla linea (15). Unica voce di dissenso fu quella del conte Coronini, il quale lamentò la miopia della città che voleva imporsi, a suo giudizio, sui voleri e sulle necessità dei comuni della Bassa. Egli confutò tutti i supposti svantaggi del tracciato, e dimostrò come in realtà la crisi che travagliava Gorizia fosse imputabile a motivi che travalicavano la situazione locale, in quanto derivava da cause generali come le spinte protezionistiche, l’eccesso di produzione, l’elevata pressione fiscale e le esorbitanti spese militari, tutti fattori con cui la costruzione della ferrovia aveva ben poco a che vedere (16). Benché godesse di grande prestigio anche fra i liberalnazionali, il Coronini venne duramente criticato per questo suo intervento dal “Corriere di Gorizia” (17).
Non abbiamo fin qui accennato alle posizioni che di fronte al progetto ferroviario emersero a Trieste. La linea offriva il vantaggio di ridurre la lunghezza del tragitto Trieste-Venezia di ben 70 km, evitando il lungo giro per Udine-Conegliano-Treviso. Ciò in breve avrebbe permesso a Trieste di battere la concorrenza della città lagunare nel traffico con il Levante, offrendole al tempo stesso un ingresso più diretto verso Occidente. Ma Trieste aveva interesse a ricercare anche un “avvicinamento” con il Monfalconese e con il basso Friuli. Esaurita la funzione di emporio mercantile, e spinta alla ricerca di una alternativa industriale alla crisi che aveva colpito il porto negli anni ’60, la città che era priva di un immediato retroterra agricolo, che aveva notevoli problemi di rifornimento alimentare ed era povera di risorse idriche necessarie per alimentare le industrie, aveva cominciato proprio in quel periodo a rivolgere il proprio sguardo alla pianura occidentale, abbondante di corsi d’acqua, fertile e adatta all’insediamento di nuove fabbriche anche per la disponibilità di mano d’opera a basso costo (18).
E’ naturale pertanto che la stampa triestina caldeggiasse la realizzazione della nuova ferrovia e criticasse aspramente la posizione assunta da Gorizia, che essa giudicò di semplice difesa “campanilistica” (19). La Società degli Ingegneri ed Architetti di Trieste approvò all’unanimità, nel congresso del 27 dicembre 1889, una mozione a favore della direttissimo Monfalcone-Cervignano (20), mentre nel marzo 1890, nel presentare al Consiglio comunale di Trieste una relazione sulla questione ferroviaria, l’on. Angeli sottolineò i profondi legami che già univano la città con i distretti di Monfalcone e Cervignano (21).
Incoraggiata da questi appoggi, anche Cervignano decise di scendere in campo per far sentire la voce della pianura e controbattere l’ostilità di Gorizia.
Il 12 gennaio 1890 si tenne nel capoluogo distrettuale una grande manifestazione a favore della ferrovia, cui parteciparono i podestà delle località interessate (22), una rappresentanza della Società Ingegneri e Architetti di Trieste, il rappresentante governativo Giovanni Battista Wingschgau e numerose personalità politiche della provincia. Il successo della riunione fu tale che gli stessi liberal-nazionali di Gorizia dovettero prendere atto dell’importanza politica che assumeva una così vasta aggregazione attorno a questa rivendicazione (23). Tutti i relatori, infatti, sottolinearono con enfasi il ruolo che la ferrovia avrebbe avuto nel risorgimento economico della zona, mentre una commissione venne incaricata di redigere un memoriale da inviare all’Imperatore a sostegno della linea (24).
Dalle informazione che si possono desumere dalla stampa locale, risulta che le proteste di Gorizia non erano state accolte con molto favore a Vienna, anche perché, mentre la linea Cervignano veniva giudicata importante non solo per motivi economici, ma anche per ragioni strategico-militari, la richiesta che il capoluogo provinciale faceva di altre congiunzioni ferroviarie appariva al momento irrealizzabile, data la scarsa disponibilità di fondi (25). Perciò, quando giunse la risposta ufficiale ai due contrapposti memoriali, in cui si affermava che si sarebbe aiutata la pianura badando di non danneggiare Gorizia, tutto lasciò capire che, per quanto riguardava il governo, la vicenda era da considerarsi ormai chiusa, con l’assenso alla costruzione della linea, cui doveva soltanto aggiungersi, in sede legislativa, la definitiva sistemazione degli oneri finanziari e del tracciato (26).
Ma proprio su quest’ultimo punto, cessata la disputa di fondo (la stampa liberale di Gorizia finì per fare buon viso a cattivo gioco, per non aggravare ulteriormente la profonda frattura verificatasi con Cervignano(27)), si aprì una seconda controversia, sia pure di minor portata, relativa al punto di allacciamento della nuova ferrovia alla “Meridionale”, a Ronchi o a Monfalcone, alternativa che fino a quel momento non era stata approfondita, essendo in discussione la realizzazione stessa della linea.
A prima vista, considerata la vicinanza dei due centri, si potrebbe pensare che si trattava di una decisione di scarso rilievo, ma in realtà va ricordato come dietro ciascuna delle due ipotesi finirono per ritrovarsi nuovamente degli interessi contrapposti.
A spalleggiare Ronchi, che cercò ovviamente di mettere in campo le ragioni a proprio favore (28), si schierò infatti Gorizia, che si trovò a difendere questa scelta come il male minore, in quanto, sia pure di poco, le permetteva di ridurre la propria distanza dal nuovo tronco ferroviario.
Trieste, invece, puntò con decisione all’allacciamento a Monfalcone e sostenne questa tesi con l’argomentazione che il Monfalconese era la zona da privilegiare nelle comunicazioni, in quanto era destinata a svilupparsi industrialmente con capitali triestini (29). Anche Monfalcone, naturalmente, si adoperò per conseguire la soluzione più vantaggiosa per i propri interessi, e in tal senso presentò anche un ricorso alla Dieta provinciale di Gorizia, per confutare le tesi di quanti erano favorevoli all’allacciamento a Ronchi (30).
Questa querelle durò tre anni e si protrasse fino al 1893 con un’abbondante produzione di memoriali, prove e studi in appoggio all’uno o all’altro tracciato. Per quanto riguarda Cervignano, cui premeva soprattutto la rapida costruzione della linea, la sua podesteria dichiarò la propria disponibilità per entrambe le soluzioni, nell’interesse dei suoi abitanti e dei paesi vicini (31).
L’allacciamento a Monfalcone venne alla fine deciso il 21 marzo 1893 e, oltre al peso politico ed economico delle motivazioni addotte da Trieste, giocò a favore di questa scelta anche la considerazione che l’amministrazione italiana avrebbe acconsentito a trasformare il proprio tronco in linea di prima categoria, dotandola dei necessari requisiti solo se in territorio austriaco questa avesse raggiunto nel modo più celere un centro di movimento commerciale come, appunto, Trieste (23).
Il progetto di legge approvato alla Camera di Vienna (33) prevedeva, congiuntamente al prestito di 1.300.000 fiorini da estinguersi in 75 anni -emesso a condizione che i comuni dei distretti interessati e la provincia di Gorizia si impegnassero ad acquistare le azioni della società concessionaria (34) – una derivazione con trenovia a vapore per Porto Rosega, ed altre due per Aquileia-Belvedere e Villavicentina-Gradisca. La società della “Meridionale” da parte sua rinunciò al diritto di priorità sul territorio attraversato dalla Monfalcone-Cervignano, conferitole con la concessione del 23.09.1858.
Da Monfalcone la linea raggiungeva Pieris, oltrepassava il nuovo ponte di ferro sull’Isonzo, poggiante su sette pilastri di 50 m. di campata, costruito dalla Società alpina di Graz, per continuare fino a Cervignano. Tre anni più tardi si sarebbe completata la congiunzione Cervignano-San Giorgio di Nogaro, realizzando così il collegamento diretto con Venezia.
L’inaugurazione della direttissima Monfalcone-Cervignano avvenne il 10 giugno 1894 (35). Se al momento tutti fecero mostra di accogliere con gioia l’evento, in realtà assai profonda era la lacerazione che la vicenda di questa ferrovia aveva messo in luce e certamente aggravato.
Se ne era avuto un primo segnale già nel corso degli incontri fra gli esponenti liberalnazionali della provincia per la designazione dei candidati alle elezioni parlamentari del 1891. In una riunione di podestà, tenuta a Romans, si verificò una netta frattura fra i fautori del “goriziano” Marani e i sostenitori del “cervignanese” Lovisoni, e benché in minoranza i rappresentanti dei comuni delle “Basse” finirono per imporre il loro candidato: si sostenne che era ora di finirla con il “giogo goriziano”, e che era necessario che la provincia si “emancipasse” dalla “schiavitù” (politica, s’intende) in cui la teneva il capoluogo (36). Il risultato fu che, benché i tempi andassero mutando e lo spirito laico e liberale cominciasse a penetrare anche nei piccoli centri della provincia, la vittoria finì per andare ancora una volta al sacerdote candidato dai cristiano-sociali (37).
Innescato (o quanto meno dilatato) dalla polemica sulla ferrovia Monfalcone-Cervignano un velo di incomprensione e di diffidenza scese così a corrodere la reciproca fiducia fra gli esponenti della borghesia liberalnazionale delle Basse e di Gorizia e si protrasse nel tempo, rendendo particolarmente difficile a queste forze, quando alla fine del secolo furono investite dalla serrata polemica sociale del partito cattolico, ritrovare un comune terreno d’intesa.
Anche perché, grazie alla ferrovia, Monfalcone e Cervignano finirono per legarsi economicamente molto di più a Trieste che a Gorizia, la quale – le trenovie locali, come si sa, non vennero mai costruite – vide aggravarsi in tal modo il suo isolamento dai territori della pianura.

Nel frattempo, l’Agenda Digitale del Veneto

Focus Group per l’Agenda Digitale del Veneto

Dotarsi di un’Agenda Digitale, vale a dire di uno strumento programmatico per la promozione della conoscenza, dell’innovazione, dell’istruzione e della società digitale, rappresenta una priorità sancita a livello europeo, ora rilanciata anche a livello nazionale in Italia. Nel Veneto ciò significa dare continuità e nuovo impulso a processi pianificatori intrapresi da tempo.

Per questo la giunta regionale il 7 agosto scorso ha autorizzato la realizzazione dell’Agenda Digitale del Veneto e, a tale scopo, è stato individuato un “focus group” di esperti che si è insediato oggi a Palazzo Balbi e  che contribuirà alla redazione di questo importante documento programmatico.

Componenti Focus Group

  • Marco Camisani Calzolari, CEO di Speakage e docente IULM
  • Michele Vianello, Direttore Parco Scientifico VEGA
  • Stefano Micelli, Docente Economia Ca’ Foscari e VIU
  • Riccardo Donadon, CEO di H-Farm
  • Carlo Mochi Sismondi, Presidente di ForumPA
  • Stefano Quintarelli, Direttore dell’Area Digital del Gruppo 24 ORE
  • Ernesto Belisario, Presidente Associazione Italiana per l’Opengovernment

La stesura di un’Agenda Digitale del Veneto non è nella mia visione un punto di arrivo,  ma  èun assetto e una modellazione organica degli interventi che già abbiamo messo in cantiere per il rilancio della cultura ed economia digitale nel nostro territorio. L’Agenda Digitale del Veneto rappresenta quindi un punto di partenza per implementare questa prima fase e sapersi orientare all’interno di nuovi scenari di grande impatto economico e sociale.

In questi miei  primi due anni di mandato, la Regione ha dato attuazione a un ampio programma di lavoro su queste tematiche, comprendendo tra l’altro:

  • l’abbattimento del DigitaI Divide Infrastrutturale con la diffusione della Banda Larga, progetto per il quale sono stati messi a disposizione 40 milioni di euro ed è prossimo  un ulteriore finanziamento;
  • l’abbattimento del DigitaI Divide Culturale con la creazione di luoghi (Centri P3@) infrastrutturati orientati a soddisfare le esigenze di connessione, ma soprattutto di acculturazione informatica, in tutti i comuni veneti. Attualmente con 2 milioni di euro ne sono stati già aperti 167 ma la Regione si adoperando per raggiungere la totalità dei comuni del territorio veneto;
  • la diffusione del modello del “cloud computing” attraverso il finanziamento di 23 progetti delle PMI venete che operano nel campo dell’ Information & Communication Technology. Su questo ambizioso progetto, prima esperienza assoluta a livello nazionale, la Regione ha messo a disposizione 2.3 milioni di euro e, attualmente sta operando per stimolare la domanda verso questi servizi, offrendo incentivi alle PMI che non appartengono al settore dell ‘ICT, con altri 2 milioni di euro;
  • la diffusione della cultura della trasparenza e del dato aperto con più di 100 dataset nel portale veneto degli Open Data e molti altri che si stanno aprendo, anche grazie alla collaborazione con gli Enti e le Agenzie pubbliche di tutto il territorio veneto.

Facendo tesoro di questo bagaglio di progetti  è stato disegnato il proseguimento di un percorso con cui saranno definite le strategie digitali del Veneto per i prossimi anni. Servirà anche al rilancio di quei settori produttivi che, adottando il paradigma digitale, potranno competere a livello globale dimostrando ulteriormente il loro talento e l’indiscussa creatività che li ha sempre contraddistinti.

I temi da affrontare sono di primaria importanza come le start-up d’impresa, le reti di nuova generazione, le smart-cities e molto altro ancora. Con l’Agenda Digitale ci attende una sfida epocale che sono certo potremo affrontare mettendo in prima linea capacità e risorse per raggiungere i risultati che ci siamo prefissati per fare del Veneto una regione di primissimo livello nel campo delle comunicazioni tecnologiche”.

Martedì 18 settembre 2012 | Palazzo Balbi | Venezia

Vice Presidente e Assessore al  sistema informatico ed e-government
Regione del Veneto On. Marino Zorzato

Fonte: marinozorzato.it

Le scuole digitali, subito

Un articolo sulle difficoltà del progetto nazionale per la Scuola digitale, l’ho trovato su Agenda digitale
Subito dopo incollo le indicazioni del ANSAS del sito ministeriale Scuola-digitale per l’iniziativa Cl@assi2.0 (e smettiamola con questa @ nel nome, so nineties), giusto per dare un’occhiata alle tendenze diffuse più aggiornate rispetto alle metodologie didattiche mediate, e valutare appieno la distanza, avere orizzonti più ampi, osare. Perché l’azione di Cultura digitale tutta (dalle competenze digitali in classe per una cittadinanza piena, alle elementari fome di alfabetizzazione, alla riduzione del digital divide con banda ultralarga, all’adozione di dispositivi mobili connessi, alla ideazione e promozione di format di narrazione adeguati al contesto tecnologico e mediatico dell’apprendimento, all’organizzazione scolastica) sulla Scuola è necessaria e impellente, niente meno.
Scuola digitale ostacolata da classi senza internet e dal caos sui nuovi libri

 di Martina Pennisi

 Il ministero dell’Istruzione si accorda con le Regioni per attrezzare gli istituti. Le aule connesse però sono ancora troppo poche. E manca un modello condiviso di editoria digitale

Mentre procede il piano del Miur sulla Scuola digitale, emergono tutti gli ostacoli da superare per raggiungere gli obiettivi. In particolare la lacuna fondamentale sono le connessioni internet nelle classi, come evidenzia uno studiodell’Università La Cattolica. E c’è ora il caso di 3.800 scuole che, per motivi economici, perderanno la connessione all’Spc dal 20 ottobre. Regna inoltre, ancora, la confusione sulla nuova editoria scolastica digitale.

Gli ultimi passi avanti

Il tutto mentre nei giorni scorsi c’è stata una storica stretta di mano con 12 Regioni e 40 milioni di euro messi sul piatto: il ministero dell’Istruzione presieduto da Francesco Profumo spinge sulla digitalizzazione della scuola, in attesa che l’argomento faccia capolino all’interno dell’Agenda digitale. Il decreto sulle norme volte ad aggiornare il Paese dal punto di vista tecnologico e dell’innovazione verrà presentato a fine mese, come annunciato dal ministro dello Sviluppo Economico Corrado Passera in occasione della presenza del rapporto sulle startup. Profumo ha cominciato a muoversi nell’area di sua competenza a fine dicembre 2011, lanciando il progetto La scuola in chiaro e rendendo disponibili i recapiti e le caratteristiche principali di 11mila scuole italiane. In luglio è stata la volta della presentazione del portale UniversItaly, per aggregare le informazioni sugli atenei nostrani. 
Il primo giorno dell’anno scolastico 2012/2013 è stato occasione per annunciare lo stanziamento di 31,836 milioni di euro per portare un computer in ogni classe delle medie (34.558) e superiori (62.600) e l’intenzione di consegnare un tablet a ogni insegnante del 64,5% delle scuole di Puglia (599 istituti), Campania (712), Sicilia (584) e Calabria (233). La stretta di mano odierna con le regioni del nord, che contribuiscono con 16 milioni, vede Abruzzo, Basilicata, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Molise, Piemonte, Toscana, Veneto e Umbria spendersi per portare nelle aule 5.906 lavagne interattive, fornire agli studenti 77.073 tablet, realizzare 2.764 Cl@assi 2.0 (una lavagna interattiva, un device per alunno e per insegnate, accesso alla Rete e a contenuti didattici digitali) e 17 Scuole 2.0 (produzione digitale di processi e contenuti, orari scolastici compresi). Rimangono fuori solo Sardegna, attiva autonomamente con il progetto Scuola Digitale, Veneto, Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta.

I problemi

A fronte di un tale, e (pro)positiva, convinzione sul dispiegamento delle macchine sono due le valutazioni da fare: prima di tutto quella relativa alle connessioni a Internet degli istituti e, soprattutto, delle aule dei singoli istituti. E in seconda battuta sulla formazione dei docenti, che dovranno per forza di cose imparare a dialogare con i dispositivi di nuova generazione e trovare uno spazio agli stessi nel processo didattico. Il primo àmbito non è di competenza diretta del Miur: trattasi di cablaggio degli edifici pubblici, che è già stato menzionato fra le priorità della più ampia agenda. Di lavoro da fare ce n’è, a fronte di un 7% delle scuole con tutte le classi in grado di navigare e un 10,96% che si connette solo da alcune aule, parlando delle medie, e un 7% circa delle superiori dotato di collegamento wireless. La percentuale degli istituti cosidetti secondari con accesso alla Rete in tutte le classi sale al 13%. I dati sono contenuti in una ricerca dell’Università Cattolica di Milano del 2009/2010, commissionata da Scuola digitale. L’ufficio statistico del Miur accorpa tutti gli istituti e individua un 73% di scuole connesse, anche solo in biblioteca e segreteria, e un 33% in cui il segnale arriva nelle aule. L’Adsl è presente nel 44,8% dei casi. Riavvolgendo il nastro al Programma per l’informatica e la telematica voluto da Luigi Berlinguer, correva l’anno 1998 e si tratta dell’ultimo sforzo significativo prima di quello in esame, si parte dal 39,4% degli istituti collegati. Mentre ora si apprende che 3.800 scuole perderanno internet il 20 ottobre. Lo rivela una nota della Direzione generale per gli studi, la statistica ed i sistemi informativi del Miur; comunica la fine del progetto Spc scuole: “Ridotti i fondi stanziati per un’iniziativa che è interamente a nostro carico”. “Spc è un progetto finito e riguarda solo servizi in più, di segreteria. Non c’entra con la didattica”, ribatte Giovanni Biondi al nostro sito. E’ il responsabile di questi temi per il Miur. “Nell’Agenda prevediamo un piano di cablature e connessione delle scuole”. Altre scuole in digital divide dovrebbero essere coperte dal piano nazionale banda larga del ministero allo Sviluppo economico (ora in fase di approvazione; risorse comunitarie di 1,08 miliardi di euro che serviranno principalmente a dare banda larga di base alle case).
La variabile internet è determinante, come tiene a sottolineare il professore dell’Università meneghina Bicocca Paolo Ferri e consulente per l’innovazione del Miur, perché “senza Internet, senza la banda larga le macchine non servono. Il cablaggio di scuole e uffici pubblici deve essere la priorità assoluta”. L’approccio di Profumo, “che si è trovato senza soldi e al cospetto di una situazione a macchia di leopardo”, è da considerarsi positivo in termini di “attenzione al tema” e in un contesto in cui non si assiste a un “intervento strutturale da 12 anni”, la riforma Berlinguer appunto. La formazione dei docenti è il secondo aspetto su cui è necessario concentrarsi: “Qualcosa è già stato fatto, 4-500mila insegnanti sono stati formati in questi anni, ma bisognerebbe permettere l’incentivazione contrattuale nei confronti di chi si dimostra ricettivo”. “Se non”, provoca Ferri, “introdurre una carriera dell’insegnamento, ma la Cgil non lo permetterebbe mai”. Con la stessa urgenza, passando al terzo intervento auspicabile, bisogna “occuparsi dei contenuti”. Fra le voci evidenziate dal Miur è presente quella dedicata all’Editoria digitale scolastica e, secondo quanto stabilito da Tremonti nel 2009, i libri pubblicati dal 2011/2012 devono essere misti. Manca però un modello comune agli editori: negli Stati Uniti, spiega Ferri, “il libro digitale viene venduto al 50% del prezzo di copertina con funzioni aggiuntive”. Così facendo si è anche superata la riluttanza dei medio piccoli, il 40% del nostro mercato, che temono di rimetterci economicamente nella transizione al digitale. Profumo ha messo a disposizione 10mila euro a progetto per una ventina di spunti, ma “c’è il problema dei diritti d’autore da affrontare: il bando prevede che i contenuti realizzati siano di proprietà della scuola e possano essere sfruttati da terze parti”. Sulla possibilità che siano gli insegnanti a pubblicare i libri, l’iniziativa si chiamaBook in progress, Ferri è abbastanza scettico, “è uno scenario utopico e gli editori sono troppo legati al loro business tradizionale, non rendendosi conto che nell’arco di 5 o 6 anni i contenuti digitali saranno la maggior parte”. Così si spiegano anche alcune disavventure su cui, con il nuovo anno scolastico, si cimenta l’ironia dei blogger.
L’aspetto che desta meno preoccupazione è quello legato alla penetrazione dei dispositivi: “Hanno un costo ormai ridotto e l’80% dei genitori italiani ne possiede uno. E secondo i dati Istat, la percentuale degli insegnanti ad avere il computer è pari al 95%”. Oltre a essere una buona notizia in termini di alfabetizzazione digitale, quantomeno potenziale, potrebbe essere il punto da cui partire per organizzare una rivoluzione strutturale con le poche risorse economiche disponibili. Secondo un dossier de Lavoce.info servirebbero 10 miliardi di euro per portare la didattica nostrana al livello di quella britannica, banda larga ovunque, lavagne interattive e quattro o cinque computer connessi per aula. Una soluzione intermedia, spiega Ferri, dovrebbe partire dal “cablaggio delle scuole supportato dallo stato”, passare per “agevolazioni per le famiglie che investono in tecnologia”, tenendo conto della buona diffusione di partenza; e “trovare un accordo solido con gli editori”. La rondine di questi mesi non fa (ancora) primavera, ma ci sono buone ragioni per essere ottimisti. Le altre sono da ricercarsi nel decreto di fine settembre
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Da Scuola-digitale.it

Per il raggiungimento degli obiettivi previsti dal progetto Cl@ssi 2.0, che ha, a livello internazionale, dei “progetti gemelli”- in Spagna il progetto Escuela 2.0 e in Inghilterra il progetto CAPITAL – è necessario tenere presente alcune tendenze diffuse negli ultimi anni nell’ambito dei servizi e degli strumenti a supporto dell’apprendimento. Questi infatti si presentano come applicazioni di facile uso che non richiedono specifiche competenze e rendendo quindi indipendente l’utente. Tra queste tecnologie rientrano anche le Lavagne Interattive la cui rapida diffusione ha dimostrato l’alto  potenziale delle ICT nel guidare il cambiamento degli ambienti di apprendimento.
Terminati i processi di diffusione delle tecnologie su larga scala a scuola, anche a livello europeo, è urgente verificare se e quanto le tecnologie siano state integrate all’ambiente di apprendimento e se la loro presenza abbia apportato delle modifiche/cambiamenti alle metodologie didattiche al fine di sostenerne  il processo di stabilizzazione.
Alcune tra le tendenze diffuse (EU Digital Agenda, Marzo 2010, 2020 Vision – Report of the Teaching and Learning in 2020 Review Group) rivelano che:
  • I modelli pedagogici, costruttivista e sociocostruttivista,  includono le ICT come strumenti per potenziare la didattica tradizionale che privilegi un approccio attivo, compiti aperti che mirino alla riflessione sul processo ed alla personalizzazione dei percorsi di apprendimento.
  • Un ulteriore concetto ormai ampiamente condiviso, anche se ancora poco sperimentato realmente, riguarda il ruolo dell’insegnante che si configura come il punto chiave nel processo di trasformazione delle azioni di apprendimento. La presenza sempre più diffusa e naturalizzata nella scuola da qui a dieci anni delle tecnologie renderà necessario all’insegnante sviluppare e mettere in campo competenze oggi ancora timidamente espresse.
  • Gli spazi dell’apprendimento a livello strutturale probabilmente resteranno immutati, ma la differenziazione dei modelli di apprendimento sarà orientata prevalentemente alla  collaborazione tra studenti e alla personalizzazione dei contenuti/percorsi sia per il modello classe tradizionale che per modelli diversi da questa con il supporto delle ICT  (es. classe diffusa).
  • I vincoli strutturali sono stati superati in questi anni dall’estensione dello spazio classe con ambienti di apprendimento virtuale (VLE) e sistemi di gestione dei contenuti, LMS (Learning Management System), a cui si sono associati strumenti del Web 2.0.
  • Sul fronte contenuti didattici digitali si rileva la produzione di contenuti autoprodotti dall’utente che potrebbe restare la tendenza più diffusa se si trovassero standard descrittivi adeguati.
  • La grande diffusione delle lavagne Interattive Multimediali e di superfici interattive in generale avvierà l’ampliamento del numero di device tecnologici (tablet, netbook, ebook, risponditori…) che orienteranno l’attività didattica sempre più verso la collaborazione.
  • La valorizzazione dell’apprendimento informale sarà un ulteriore fattore chiave. In questa direzione l’uso di giochi, ambienti immersivi e augmented reality  richiederà ulteriori approfondimenti di ricerca per far si che questi vengano considerati come potenziali scenari di apprendimento.
  • Gli esiti di alcuni progetti in paesi europei ed extraeuropei hanno rivelato che la formazione degli insegnanti sia metodologica che tecnologica rivela l’estrema importanza della qualità della stessa e della necessità di identificare nuovi modelli di formazione continua adeguati alle esigenze della popolazione insegnante (OECD – Education at a glance).
  • La presenza diffusa delle nuove tecnologie sia in forma di strumenti (risponditori..etc) che in forma di applicazioni web 2.0 (wiki, blog, contenuti digitali o altro) consente di attivare processi di valutazione degli apprendimenti e di identificare le preferenze degli studenti. L’uso di questi strumenti probabilmente modificherà la valutazione formativa, mentre la valutazione sommativi manterrà un approccio basato sulla misurazione degli apprendimenti a partire da prove oggettive di valutazione (es. OCSE-PISA e INVALSI)
  • Un ultimo elemento chiave da non sottovalutare è il ruolo dei genitori sempre più coinvolti e partecipi nel processo di crescita e formazione dei figli. Questi ultimi si mostrano favorevoli all’adozione di nuovi strumenti.
L’azione Cl@ssi 2.0 intende offrire la possibilità di verificare come e quanto, attraverso l’utilizzo costante e diffuso delle tecnologie nella pratica didattica quotidiana, l’ambiente di apprendimento possa essere trasformato.
La logica del progetto tende a valorizzare l’attuazione di più modelli di innovazione che possano generare un contagio nel territorio anche tra quelle scuole che non partecipano all’iniziativa. In quest’ottica si auspica che si realizzi una casistica eterogenea di modelli di miglioramento nell’ottica dell’autonomia scolastica. In tal senso il processo di miglioramento che il progetto vuole promuovere comprende più livelli, dall’aspetto organizzativo a quello aspetto didattico nella gamma di azioni del processo insegnamento/apprendimento che, a partire dall’analisi dei bisogni della scuola, prevedano l’integrazione delle tecnologie (sia in termini strumentali che metodologici). Il focus non ruota attorno alla tecnologia in senso stretto, ma alle dinamiche di innovazione che può innescare.

Udine e Pordenone, distanze smart

Sullo scranno del Sindaco di Udine, due figure. Una indossa il pètaso, il cappello con le ali, si capisce che è Hermes Mercurio, l’altra rappresenta un fabbro, ci sono l’incudine e il martello, c’è anche una ruota dentata sulla destra, un Efesto Vulcano. Il Dire e il Fare. La Comunicazione e la Tecnologia, diciamo.
Speriamo che tutto questo sia di buon auspicio per progettare e realizzare Udine come smart-city, dove l’hardware di Vulcano – la città connessa, la cablatura in fibra ottica, le aree wifi – incontra un software sociale e partecipativo, ambienti online per la libera espressione delle varie forme di cittadinanza digitale.
Luoghi sociali che dovranno essere pubblici, cioè non privati/commerciali, visto che sopra gireranno dei contenuti, conversazioni discussioni e votazioni, riguardanti la gestione della cosa pubblica e  l’amministrazione del territorio, prodotti dai cittadini. Un e-government trasparente, preciso, dall’impostazione conversazionale saprà offrire contenitori digitali per la partecipazione della collettività, l’e-democracy iperlocale nel tempo scolpirà meglio i servizi e gli ambienti e gli strumenti, l’utilizzo indicherà forme migliori o modalità più feconde.
Udine ha appena varato un Piano Regolatore, lo ha sottoposto alle osservazioni dei cittadini in una fase partecipativa. Ma ho come l’impressione che questo di Udine sia la ciliegina sulla torta di una cultura progettuale novecentesca. E’ stato fatto tutto al meglio, per come si poteva concepire di realizzare un nuovo Piano regolatore. Le procedure erano quelle, i nodi di interesse erano quelli, ci si è mossi nel 2009 avendo in mente certi parametri per impostare il lavoro. Si parlava già di smartcity, ma non era certo parola diffusa come oggi, tra quanti si occupano di territorio o paesaggio o sistemi territoriali o cartografie o sensoristica o connettività o citizen engagement o sistemi economici cittadini o di meccanismi di partecipazione social web.
Pordenone promuove ora il proprio nuovo Piano regolatore, e i ragionamenti su smart-city e smart-community sono per così dire nativi dentro le prime mosse di progettazione. Son passati solo tre anni, tre anni in cui l’approccio teorico e pratico alla progettazione del futuro di una città è cambiato radicalmente. C’è un gruppo di lavoro misto, ci sono strumenti partecipativi classici e moderni, social web.
Sabato scorso a Pordenone c’era un convegno per lanciare i ragionamenti collettivi e collaborativi, tutto il progetto lo trovate sul sito Pordenone più facile, si prevede di organizzare le tematiche intorno alle parole Sostenibile, Mobile, Accogliente, Resiliente, Trasparente, S.M.A.R.T., al convegno c’erano Luca De Biase, Michele Vianello, Alberto Cottica, Elisabetta Tola, Enrico Finzi. Sergio Maistrello presentava l’incontro, si occupa anche dei media e partecipa alla progettazione, garanzia del fatto che Pordenone si faranno le cose per bene, con qualità. Si sono potuti ascoltare dei bei ragionamenti, parole nuove, approcci adeguati.
Mi piacerebbe Udine si muovesse, sì.

Soldini per la scuola digitale

Il Ministro dell’Istruzione Francesco Profumo, annuncia lo stanziamento di 40 milioni di euro per lo sviluppare del piano per la digitalizzazione della scuola. Siglati, inoltre, gli accordi con 12 Regioni (Abruzzo, Basilicata, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Piemonte, Toscana e Umbria) per il potenziamento e l’implementazione del piano nazionale. I finanziamenti verranno, infatti, sia dal Ministero (24 milioni) sia dalle regioni (16).
Condivisione e innovazione digitale sono i principi alla base dell’azione di Profumo. Gli accordi permetterebbero, infatti, di “condividere le esperienze per costruire un Paese migliore“, portando “al sistema Paese le migliori esperienze realizzate dalle scuole a livello territoriale”. L’obiettivo è offrire a studenti ed insegnanti la possibilità di “imparare e insegnare con l’innovazione digitale“.
I fondi stanziati andranno a finanziare e permettere l’implementazione delle quattro linee d’azione individuate per la Scuola Digitale: Lim, Cl@ssi 2.0, Centri scolastici digitali e Scuola 2.0.
La prima linea d’azione (Lim in classe) riguarda l’introduzione nelle classi delle lavagne digitali, in modo da favorire l’utilizzo di contenuti digitali. La seconda (Cl@assi 2.0) prevede di dotare studenti ed insegnanti di PC o tablet in modo che possano dialogare con la lavagna digitale e accedere alla rete e ai contenuti digitali. La terza linea d’azione (Centri scolastici digitali) mira a collegare tramite satellite le scuole con pochi iscritti in modo che possano continuare ad esistere e, come precisa il Minsitero, senza sostituire l’insegnante con il PC. L’ultima linea d’azione (Scuole 2.0) si propone di utilizzare le tecnologie digitali per trasformare l’insegnamento e le scuole, in particolare per quanto riguarda l’Editoria digitale. Con il progetto “Book in progress”, ad esempio, verranno realizzati, direttamente dalle scuole e dagli insegnanti, nuovi contenuti digitali.

AAA Direttore Agenda Italia Digitale cercasi

Qui di seguito, alcuni degli obiettivi dell’Agenda per l’Italia Digitale, quelli riportati dal bando per la selezione del Direttore generale.

Animo, ragazzi, che siamo nel 2012, e queste cose potevano essere tranquillamente progettate e pian piano realizzate nel corso degli ultimi dieci anni.

  • la realizzazione degli obiettivi dell’Agenda digitale italiana, in coerenza con gli indirizzi elaborati dalla Cabina di regia di cui all’articolo 47 del decreto-legge 9 febbraio 2012, n. 5, convertito in legge con modificazioni dalla legge 4 aprile 2012, n. 35, nel quadro delle indicazioni dell’Agenda digitale europea, di cui alla comunicazione della Commissione europea COM (2010) 245 definitivo/2 del 26 agosto 2010;
  • la diffusione dell’utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, allo scopo di favorire l’innovazione e la crescita economica, anche mediante l’accelerazione della diffusione delle Reti di nuova generazione (NGN);
  • l’elaborazione di indirizzi, regole tecniche e linee guida in materia di omogeneità dei linguaggi, delle procedure e degli standard, anche di tipo aperto, per la piena interoperabilità e cooperazione applicativa tra i sistemi informatici della pubblica aministrazioe tra questi e i sistemi dell’Unione Europea;
  • l’assicurazione dell’uniformità tecnica dei sistemi informativi pubblici destinati ad erogare servizi ai cittadini ed alle imprese, garantendo livelli omogenei di qualità e fruibilità sul territorio nazionale, nonché della piena integrazione a livello europeo;
  • il supporto e la diffusione delle iniziative in materia di digitalizzazione dei flussi documentali delle amministrazioni, ivi compresa la fase della conservazione sostitutiva, accelerando i processi di informatizzazione dei documenti amministrativi e promuovendo la rimozione degli ostacoli tecnici che si frappongono alla realizzazione dell’amministrazione digitale e alla piena ed effettiva attuazione del diritto all’uso delle tecnologie di cui all’articolo 3 del Codice dell’amministrazione digitale;
  • la vigilanza sulla qualità dei servizi e sulla razionalizzazione della spesa in materia informatica, in collaborazione con CONSIP Spa, anche mediante la collaborazione inter-istituzionale nella fase progettuale e di gestione delle procedure di acquisizione dei beni e servizi, al fine di realizzare l’accelerazione dei processi di informatizzazione e risparmi di spesa;
  • la promozione e diffusione delle iniziative di alfabetizzazione informatica rivolte ai cittadini, nonché di formazione e addestramento professionale destinate ai pubblici dipendenti, anche mediante intese con la Scuola Superiore della pubblica amministrazione e il Formez, e il ricorso a tecnologie didattiche innovative;
  • il monitoraggio dell’attuazione dei piani di Information and Communication Technology (ICT) delle pubbliche amministrazioni, sotto il profilo dell’efficacia ed economicità proponendo agli organi di governo degli enti e, ove necessario, al Presidente del Consiglio dei Ministri i conseguenti interventi correttivi.

Tablet a scuola, a Pordenone

PORDENONE. Rivoluzione tablet in terza liceo scientifico: la scuola digitale è nel Don Bosco, a Pordenone. Per 20 liceali didattica digitale 2012-2013 avanti tutta già da oggi con la prima campanella. Costo previsto del progetto Sdi, cioè Sistema didattico integrato in collaborazione con l’azienda Kne di San Donà di Piave: 20 mila euro. Pagano il Don Bosco e un benefattore privato che è sponsor dell’impresa.
E-book, tablet, lavagna digitale e la classe di viale Grigoletti diventa i-cloud, con la “nuvola” a portata di clic. Prima scuola nel pordenonese con e-book, testi condivisi, presentazioni interattive, blog, piattaforma di istituto: per cinque discipline che sono italiano, matematica, fisica, inglese, scienze naturali. Il progetto ridurrà il salasso del caro-libri per le famiglie: 50 per cento nel 2012-2013. Poi, la scuola digitale si spalmerà a onda nelle altre classi e indirizzi classico ed economico.
«Il cuore del progetto è la piattaforma open source a cui accedono i ragazzi e professori – ha spaziato don Silvio Zanchetta direttore della casa salesiana di Pordenone con il professore di matematica Francesco Saitta tutor dell’operazione -. Niente più libri cartacei, speriamo: entro il 2015 ogni studente avrà un tablet con tutti i libri di testo. E’ una sfida educativa: primo bilancio alla fine del primo quadrimestre, in gennaio».
Disco verde alle tecnologie in aula, con video-proiettore multimediale, computer e tablet. I pacchetti didattici costruiranno un data-base con testi digitali, contenuti multimediali, arricchiti dai contributi degli studenti e il social reading, con le note condivise.
«E’ una rivoluzione nel metodo di apprendimento e di insegnamento – sono entusiasti i liceali -. Lo start-up sarà per una ventina di compagni, ma ci saranno novità per tutti gli studenti: wi-fi in tutto l’istituto e potremo attingere agli iper-testi, video e altro». Per esempio: la videata del tablet ha icone varie, compreso “mio diario” che si clicca e si entra in “lezioni”, per scaricare dispense, segmenti di e-book di scienze, matematica e altre discipline. «La rivoluzione tecno si innesta su una grande tradizione scolastica – dicono al Don Bosco -. Il tablet si carica alla sera, a casa, per infilarlo nello zaino al posto dei libri. Una “tavoletta” che diventa libro, quaderno e banca-dati con un clic sulla piattaforma di istituto». Contenti i “nativi digitali”, con la pagella elettronica in dote.
Chiara Benotti

Crowdfunding civico

Un Comune che predispone una piattaforma web per far finanziare progetti di migloramento urbano, magari anch’essi emersi (proposti e votati) dalla collettività. Non so se sia corretto, non credo. Come cittadini paghiamo già delle tasse, affinché la Pubblica Amministrazione provveda a fornire servizi, ottimizzare qua e là, distribuire risorse materiali o immateriali.
Parliamo di “impegnarsi coi soldi”, che qua mi sembra stia diventando il modo per impegnarsi, o forse lo è sempre stato, nelle campagne civiche, per coinvolgersi nella vita pubblica. Come fa Obama, su altra scala, in quegli USA dove chi raccoglie più soldi in campagna elettorale vince… e da Giovanna Cosenza qui potete leggere cosa dice Obama, e cercare di decifrare il suo tono nel chiedere donazioni, di portarvi su Contribute Barack Obama, la piattaforma di fundraising a suo sostegno.
Però tornando a piattaforme di proprietà pubblica, non credo dovrebbero essercene. Piattaforme per la partecipazione e l’ideazione collettiva di ottimizzazioni della macchina governativa, a ogni livello, sì. Chiedere soldi, no.
Però privati cittadini potrebbero promuovere piattaforme di crowdfunding, e il Comune partecipare con finanziamenti per qualcosa voluto e votato da molti cittadini, purché si tratti di cose apartitiche e dichiaratamente per il bene della collettività. O far proprio il progetto e gestire i soldi raccolti da privati per loro conto, nella logistica della realizzazione del bene comune. Ecco, meglio.

Brevettare l’umano

Il design che ricorre a una semiotica naturale, si sarebbe detto. Quel mondo là fuori e qui dentro la mia testa e su di me senza soluzione di continuità, quel mondo che è già linguaggio e narrazione per le sue qualità sensibili – fisiche, biologiche, chimiche. Pensate al famoso gesto cinematografico di utilizzare un osso come protesi del braccio, e colpire con più forza, un gesto vecchio di qualche milione di anni, che nasce nel dialogo tra sviluppo corporeo e habitat naturale, è come una frase nel discorso della specie umana rispetto all’ambiente di vita di questo pianeta. Impugnare qualcosa per l’uomo è naturale, e il pollice opponibile è proprio una nostra caratteristica (non siamo gli unici), e le forme del fare che una mano permette hanno condizionato nei millenni il nostro pensare, vadasé.
E se vedo una foto piccolina sullo schermo di un smartphone mi viene abbastanza naturale provare a ingrandirla stiracchiandola con due dita. Come se fosse di pongo, elastica. L’ho già fatto con altre cose, nel corso della mia vita. Si può fare certo in altri modi, dipende da quale concetto guida la tua mano, per come il nostro vivere in un ambiente naturale e sociale dipenda dalle metafore del “funzionamento” della realtà che abbiamo appreso. Esistono le porte, esistono i cardini le maniglie le serrature le chiavi. Impariamo, fissiamo il senso nelle credenze (il destino di ogni segno), automatizziamo il fare nelle abitudini, ne ricaviamo pattern di comportamenti a cui diamo vita, nell’occasione, con il nostro corpo. Un mondo significante, che giunge a noi già significante, impastato di natura e cultura.
Una volta c’erano i carri, e chi li guidava teneva le redini per gestire i cavalli. Un oggetto millenario, il morso è un’invenzione, stringhe di cuoio comode e efficienti, per gestire un cavallo. Poi è arrivata l’automobile, e chissà perché si è deciso di utilizzare un volante come interfaccia per le azioni di sterzo. Oppure due leve, o una cloche, quello che volete. Tanto sono tutte macchine che realizzano tecnologicamente una metafora e un modello di intervento sulla realtà, e ci risultano facili da apprendere, proprio perché basate su semiotiche del mondo naturale. Alto-basso, destra-sinistra, vicino-lontano. Un volante, tondo, che gestisce in modo analogico l’angolo di sterzata delle gomme, e un bambino di due anni non ha difficoltà a gestire la complessità cognitiva e motoria del gesto.
E nessuno che io sappia ha provato a brevettare il volante.
Mentre qui ora si brevettano i gesti, dice Luca DeBiase. I gesti diventano proprietà.
Le interfacce diventano trasparenti perché vanno a cercare i gesti nelle grammatiche del corpo, e picchiettare o zoomare con due dita sono i fonemi o le sillabe del linguaggio della mano, come stringere a pugno o ruotare o afferrare o indicare. Siamo vicini alla soglia bassa della semiotica, dove la cultura si scioglie nel fisiologico, a sua volta frutto di un dialogo con l’ambiente della nostra forma di vita, dei nostri geni. 
Credo si potrebbe arrivare al “darsi al mondo”, al nostro essere gettati in una vita, con un corpo. E quei gesti diventano manipolazione del mondo, e quindi segno, e quindi valore. Universale, perché credo nessuno sul pianeta abbia trovato assolutamente inconcepibile l’operazione di zoomare con due dita.
E insomma, non si brevetta questa roba qui.

Ma se i gesti naturali possono diventare proprietà intellettuale vuol dire che qualcosa sta andando storto.

Il punto è che la proprietà intellettuale è diventata un campo sofisticatissimo nel quale si intrecciano brevetti e copyright, marchi e segreti industriali, storytelling e pubblicità. Ogni nuova piattaforma digitale è in realtà un mondo di senso, abilitato da funzionalità tecniche ma utilizzato in base a una metafora che a sua volta discende da un’identità e una narrazione e si comprende solo attraverso un design. Non se ne esce facilmente.

La privacy in classe

La privacy in classe, dal tablet alla pagella elettronica. (fonte: Sole24ore)

Obbligo del consenso per video e foto sui social network. Scrutini e voti pubblici. Sì alle foto di recite e gite scolastiche. No alla pubblicazione on line dei nomi e cognomi degli studenti non in regola coi pagamenti della retta. Su cellulari e tablet in classe l’ultima parola spetta alle scuole. A pochi giorni dall’apertura degli istituti il Garante per la protezione dei dati personali fornisce a professori, genitori e studenti le indicazioni generali per la tutela della privacy sui banchi di scuola

Cellulari e tablet L’uso di cellulari e smartphone è in genere consentito per fini strettamente personali, ad esempio per registrare le lezioni, e sempre nel rispetto delle persone. Spetta comunque agli istituti scolastici decidere nella loro autonomia come regolamentare o se vietare del tutto l’uso dei cellulari. Non si possono diffondere immagini, video o foto sul web se non con il consenso delle persone riprese. La diffusione di filmati e foto che ledono la riservatezza e la dignità delle persone può far incorrere lo studente in sanzioni disciplinari e pecuniarie, ma anche in veri e propri reati. Stesse cautele vanno previste per l’uso dei tablet, se usati a fini di registrazione e non soltanto per fini didattici o per consultare in classe libri elettronici e testi on line.

Iscrizione e registri on line, pagella elettronica In attesa di poter esprimere il previsto parere sui provvedimenti attuativi del ministero dell’Istruzione riguardo all’iscrizione on line degli studenti, all’adozione dei registri on line e alla consultazione della pagella via web, il Garante auspica l’adozione di adeguate misure di sicurezza a protezione dei dati.

Questionari per attività di ricerca L’attività di ricerca con la raccolta di informazioni personali tramite questionari da sottoporre agli studenti è consentita solo se ragazzi e genitori sono stati prima informati sugli scopi delle ricerca, le modalità del trattamento e le misure di sicurezza adottate. Gli studenti e i genitori devono essere lasciati liberi di non aderire all’iniziativa.

Recite e gite scolastiche Non violano la privacy le riprese video e le fotografie raccolte dai genitori durante le recite, le gite e i saggi scolastici. Le immagini in questi casi sono raccolte a fini personali e destinati a un ambito familiare o amicale. Nel caso si intendesse pubblicarle o diffonderle in rete, anche sui social network, è necessario ottenere il consenso delle persone presenti nei video o nelle foto.

Retta e servizio mensa È illecito pubblicare sul sito della scuola il nome e cognome degli studenti i cui genitori sono in ritardo nel pagamento della retta o del servizio mensa. Lo stesso vale per gli studenti che usufruiscono gratuitamente del servizio mensa in quanto appartenenti a famiglie con reddito minimo o a fasce deboli. Gli avvisi messi on line devono avere carattere generale, mentre alle singole persone ci si deve rivolgere con comunicazioni di carattere individuale. A salvaguardia della trasparenza sulla gestione delle risorse scolastiche, restano ferme le regole sull’accesso ai documenti amministrativi da parte delle persone interessate.

Telecamere Si possono in generale installare telecamere all’interno degli istituti scolastici, ma devono funzionare solo negli orari di chiusura degli istituti e la loro presenza deve essere segnalata con cartelli. Se le riprese riguardano l’esterno della scuola, l’angolo visuale delle telecamere deve essere opportunamente delimitato. Le immagini registrare devono essere cancellate in generale dopo 24 ore.

Temi in classe Non lede la privacy l’insegnante che assegna ai propri alunni lo svolgimento di temi in classe riguardanti il loro mondo personale. Sta invece nella sensibilità dell’insegnante, nel momento in cui gli elaborati vengono letti in classe, trovare l’equilibrio tra esigenze didattiche e tutela della riservatezza, specialmente se si tratta di argomenti delicati.

Trattamento dei dati personali Le scuole devono rendere noto alle famiglie e ai ragazzi, attraverso un’adeguata informativa, quali dati raccolgono e come li utilizzano. Spesso le scuole utilizzano nella loro attività quotidiana dati delicati – come quelli riguardanti le origini etniche, le convinzioni religiose, lo stato di salute – anche per fornire semplici servizi, come ad esempio la mensa. È bene ricordare che nel trattare queste categorie di informazioni gli istituti scolastici devono porre estrema cautela, in conformità al regolamento sui dati sensibili adottato dal ministero dell’Istruzione. Famiglie e studenti hanno diritto di conoscere quali informazioni sono trattate dall’istituto scolastico, farle rettificare se inesatte, incomplete o non aggiornate.

Voti, scrutini, esami di Stato I voti dei compiti in classe e delle interrogazioni, gli esiti degli scrutini o degli esami di Stato sono pubblici. Le informazioni sul rendimento scolastico sono soggette ad un regime di trasparenza e il regime della loro conoscibilità è stabilito dal Ministero dell’istruzione. È necessario però, nel pubblicare voti degli scrutini e degli esami nei tabelloni, che l’istituto eviti di fornire, anche indirettamente, informazioni sulle condizioni di salute degli studenti: il riferimento alle “prove differenziate” sostenute dagli studenti portatori di handicap, ad esempio, non va inserito nei tabelloni, ma deve essere indicato solamente nell’attestazione da rilasciare allo studente.

Insegnanti, svegliatevi, osate

Anni e anni  a parlarne, siam sempre lì.
Una svolta importante nella mia vita fu quando vidi un’insegnante di quinta elementare (sì, ok, primaria) FARE IL DETTATO alla classe, usando Word.
“Bambini, aprite Word, e scrivete quello che vi detto”.
Uno strazio, vedere i bambini con quelle ditine che cercavano le lettere sulla tastiera. E nella loro mente si andava formando l’idea del computer come macchina per scrivere però bella, con lo schermo.
Bambini che a 5 anni sanno usare quasi tutti un mouse, mentre solo il 10% sa allacciarsi le scarpe. Non so se ci siamo capiti, anche se sono anni e anni che…

Vabbè, insegnanti, datevi da fare. E metteteci tutta la vostra intelligenza e professionalità nell’inventarvi i nuovi modi di far didattica, con tutti gli strumenti che avete già intorno.
Aspettando una connessione seria in banda larga per tutte le scuole, che civiltà dovrebbe aver già imposto da anni.

Qui un bel sito in inglese con decine di buone idee per una “didattica mediata” http://edudemic.com/

Durante i concerti, la gente fa i videi col telefonino

Abbiam tutti in tasca un telefono che è sempre meno usato come telefono e sempre più come macchina per raccontare storie multimediali a qualcuno, da qualche parte. Il testo è una macchina, sì, mentre la macchina crea il testo. Lo informa, anche. E ci vengono in mente idee per fare cose che dipendono dagli strumenti che abbiamo, dagli usi che permettono. E bisognerebbe pensare a cominicare a realizzare cose che oltre a fare il loro lavoro, racchiudono in sé una germinazione di idee, di fughe su possibili utilizzi. Se sono tecnologie abilitanti, almeno cerchino di essere “consapevolmente” abilitanti, no? Ovvero che mostrino di sapere che loro e il loro utilizzo innesca fughe.

Telefonini, con cui vien facile raccontare il territorio. Gli eventi, le emozioni del paesaggio, le occasioni sociali, i luoghi significati per molte persone. Tagghi, e quello emerge. Narri, e magari il tuo pacchetto di informazione viene mostrato nei motori di ricerca, viene catturato da aggregatori metti turistici, viene likato e diventa sintomo di un Luogo. Lo chiamo sintomo, per scherzare su quell’essere “fisicamente” connesso alla realtà che intende rappresentare, quel segno. Perché la rappresentazione mediatica dei Luoghi realizzata da milioni di persone con multimedialità e ipertestualità e rigettata negli ambienti sociali non è una fotografia del territorio. E’ il territorio, per come viene visto e vissuto, in tempo reale. E’ come viene narrato.

Infatti ci sono dei siti dove la cura e l’impostazione grafica estetizzano il flusso delle “cartoline” dei ricordi, i file audiovideotesto che scriviamo in Rete. Ti guidano a una rappresentazione determinata, per alcuni aspetti. Oppure le app sui telefoni ti lasciano confezionare un pacchetto informativo per la narrazione dei Luoghi e delle collettività, poi spediscono il tutto da qualche parte che ne ricava un’altra app che poi i viaggiatori turisti possono scaricare per saper qualcosa del luogo in cui si trovano. Su certi social avrò certi strumenti, resterò sintonizzato su certi Luoghi, ma alla fine tutto sarà dappertutto, tra pochi anni il materiale documentativo per ogni singolo luogo del pianeta sarà enorme, le discussioni saranno migliaia, nasceranno strumenti che ritagliano l’orizzonte, come i telefonini.

Progettare una smart-city

Un bell’articolo di Salvatore Iaconesi e Oriana Persico, su CheFuturo.it. Lo copio integralmente qui su NuoviAbitanti, mi piace molto. L’articolo tratta della progettazione partecipata di un Ecosistema digitale per la città di Trieste.

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Vi è mai capitato di riprogettare in una settimana il sistema di comunicazione urbana di un’intera città coordinando un gruppo di 15 futuri designer e architetti? Una città, fra l’altro, che avreste sempre voluto visitare ma dove la vita non vi aveva ancora portato? A noi sì, circa un mese fa. La città in questione è Trieste  e l’occasione è stata offerta da Insegna Trieste, un workshop intensivo promosso da ISIA Firenze in collaborazione con l’Amministrazione Comunale che ha coinvolto cinque atenei: l’ISIA di Firenze e di Urbino (design), lo IUAV di Venezia e l’Università di Trieste (architettura), l’Università di Nova Gorica (new media art). Per chi fosse interessato ad aggiornamenti in tempo reale, è attiva una pagina Facebook.
Il progetto ha preso da subito una piega interessante, trasformandosi in uno scenario di near future sulle smart city dove gli open data si mischiano con le retiwireless e le tecnologie ubique. Una città tanto più smart quanto più è capace di farsi piattaforma di espressione, relazione e comunicazione oltre che opportunità per la pluralità di soggetti che la popolano, la attraversano e la usano. In una parola: un nuovo ecosistema digitale urbano in cui agire e interagire, contribuire e condividere, produrre conoscenza e remixarla, fruire di informazioni e servizi, e crearne di nuovi. Il tutto accessibile sia dallo spazio fisico della città, sia da ogni angolo del pianeta, attraverso la rete.
1. La Città Piattaforma: teoria e pratica per una Human Centered Smart City
Lo scenario proposto è quello della Human Centered Smart City, in cui la città diventa un luogo sensibile, attivo, polifonico, libero, resiliente, ricombinante, emergente. La sua intelligenza si basa prima di tutto sulle persone, sulle relazioni e le interazioni. Prendendo spunto dalle architetture delle tecnologie Internet, si può infatti immaginare che una città si trasformi in una vera e propria piattaforma aperta, su cui costruire l’Ecosistema Digitale Pubblico. Qui la città diventa un sistema aperto e accessibile grazie ad infrastrutture tecnologiche quali il cloudcittadino, le reti WiFi e meshed, i network di sensori capaci di registrare i dati ambientali in tempo reale, la mobilità, la comunicazione, l’uso dell’energia, le forme di espressione, informazione e comunicazione digitale a disposizione di persone e organizzazioni.
Nel progettare un sistema di comunicazione urbana per la città, ci siamo ben presto resi conto che sarebbe stato impossibile affrontare questo compito in maniera significativa senza assumere un approccio olistico, orientato all’innovazione radicale e sistemica. È così che abbiamo affrontato il nostro compito servendoci di uno strumento complesso: l’Ecosistema Digitale (DE, Digital Ecosystem). Nel DE, la Città Piattaforma prende corpo, realizzando un ambiente umano e tecnologico capace di aprirsi alla società civile per consentire di esprimere desideri, aspettative, visioni, opportunità, disponibilità, necessità e capacità. Il tutto cercando collaborazione, aggregazione, iniziativa, sostegno, scambio.
 Un framework per l’espressione, l’informazione e la comunicazione, in cui sono disponibili strumenti per creare contenuti e per ascoltare la vita digitale pubblica.
Il DE è come un social network di nuova generazione, capace di uscire fuori dallo schermo e collegare tanto i profili dei cittadini quanto tutte le cose che ci sono e avvengono in città. Di conseguenza, il DE permette alle persone di esprimersi (“ecco quello che mi piace fare a Trieste”), di coordinarsi (“chi vuole organizzare questa cosa con me in città?”), di fare business (“facciamo filiera su questo processo!”) e, più in generale, di trasformare saperi, capacità, opportunità e progetti in risorse disponibili per l’intero ecosistema.
Così, strumenti come Facebook escono dallo schermo del computer grazie alle tecnologie ubique e al Web 3.0 e si trasformano  in sistemi umani che appartiengono alla città e ai suoi cittadini: interconnettono persone, cose, aziende e istituzioni per creare benessere ed opportunità. Infine, c’è anche la trasparenza: nel nuovo ecosistema cittadino le informazioni sono distribuite sotto forma di open data, offerti in formati standard e accessibili che diventano una risorsa pubblica, un nuovo “commons digitale” a disposizione di tutti.
Ecco come si esprime Fabio Omero – assessore allo Sviluppo economico e Fondi comunitari, Turismo, Aziende partecipate e controllate del Comune di Trieste e promotore del progetto con Elena Marchigiani, assessore alla Pianificazione Urbana, Mobilità e Traffico, Edilizia Privata, Politiche per la casa, Progetti Complessi – secondo il quale la Città Piattaforma è anche un modo per rispondere alla crisi:
Mi ha colpito che a distanza di pochi mesi ci siamo imbattuti in due mondi apparentemente tra loro distanti, ma che alla fine hanno parlato lo stesso linguaggio. Mi riferisco al dottor Mauro Bonaretti, direttore generale del Comune di Reggio Emilia, che in un seminario organizzato dal nostro Comune ha proposto il concetto di rete tra pubblico, impresa, lavoratori e terzo settore per affrontare in questa situazione di crisi il governo dell’economia, della società e del territorio con un’idea sistemica e integrata della città. E mi riferisco al workshop dell’ISIA di Firenze e all’idea di Città Piattaforma emersa dai lavori: una città dove non solo le istituzioni, i grandi operatori e le piccole associazioni, ma gli stessi cittadini – nati, immigrati o solo in transito – mettono in rete i propri saperi, scambiano informazioni, rendono leggibile la città e in definitiva comunicano. Che poi queste reti intelligenti stiano dentro all’idea di smart city a cui il Comune – con grave ritardo – sta lavorando, è solo un’altra coincidenza. Ma essendo la terza, non è più un caso, non è nemmeno più un indizio: è ormai una prova“.
2. Il workshop
Per entrare nel vivo del progetto, è interessante seguire lo sviluppo del workshop, che Stefano Maria Bettega, Direttore di ISIA Firenze, riassume così:
L’esperienza triestina rappresenta una sperimentazione esemplare per molti aspetti. Didatticamente efficace: ibrida i saperi svincolandoli da una logica strettamente disciplinare; mette a confronto studenti provenienti da diverse strutture; obbliga alla finalizzazione del lavoro con il decisivo contributo di una committenza (l’amministrazione comunale di Trieste) che mai come in questo caso ha svolto ruolo di stimolo e indirizzo rispetto al rispetto del mandato progettuale. Le necessità della PA nel settore del design non sono ancora riconosciute in modo strutturato se non recentemente con il fenomeno open data. È merito degli amministratori triestini quindi l’aver intercettato un bisogno reale e intrapreso una strada innovativa che sono certo possa portare alla realizzazione di economie e all’ottenimento di risultati di qualità, in un processo di ricerca e produzione che coinvolge in maniera attiva la componente accademica”.
Simone Paternich, docente ISIA e responsabile della collaborazione della città di Trieste con ISIA Firenze, sorride ricordando la genesi del nome: “Quando ad Aprile abbiamo incontrato gli assessori Omero e Marchigiani ci hanno illustrato la necessità del Comune di riprogettare la cartellonistica della città (le insegne), ma allo stesso tempo di evolvere l’idea stessa di insegna aprendola all’allestimento/arredamento urbano e alle tecnologie digitali. Da qui, nel titolo, l’abbinamento di “Insegna” (insegna come cartello e insegna come insegnare) al nome della città: Insegna Trieste“.
Il workshop, strutturato in 7 densi giorni, inizia con una una serie di incontri in cui sono invitati a parlare esponenti dell’amministrazione comunale e regionale, dell’Agenzia Turismo Friuli Venezia Giulia, del Consorzio Promo Trieste, delGruppo Eurotech Spa e di progettualità cittadine di matrice associazionistica. Discussioni su temi come turismo, caratterizzazione e identità della città di Trieste, strategie di comunicazione, approcci e sistemi tecnologici hanno offerto elementi rilevanti per la comprensione della città, aiutandoci a chiarire le esigenze progettuali e il contesto locale.
Trieste è stata dipinta come una città priva di centro, una città dove non esiste un attrattore unico capace di fungere da driver per il turismo e lo sviluppo, ma una molteplicità di centri. Una città il cui valore sta principalmente nella qualità della vita (benessere diffuso), nell’attività di centinaia di associazioni culturali e gruppi di cittadini, nelle spiagge, nei castelli, nella diversità culturale, nel patrimonio ambientale ed enogastronomico. Sviluppare la capacità di passare nei prossimi anni da “un turismo” a “tanti turismi” è presentata come altamente strategica. Tutto ciò coinvolge operatori di grandi dimensioni ma anche centinaia di piccole nicchie diverse impegnate a creare esperienze per turisti non convenzionali, appassionati di sport, cucina, fantascienza o qualsiasi altro segmento sia possibile immaginare.
L’associazione Manifetso2020 – con Marco Svara e Marco Barbariol insieme all’architetto Claudio Farina – ci ha accompagnato in un peculiare tour cittadino in cui abbiamo avuto l’occasione di attraversare Trieste e i suoi paradossi, coma hano sottolineato gli organizzatori. Enormi da opportunità per realizzare progetti come l’ex-opp (l’ex Ospedale Psichiatrico di S. Giovanni) e il complesso del Vecchio Porto (qui un articolo del Corriere per i cuiriosi), fino alla possibilità di incontrare operatori della cultura e dell’intrattenimento ed esponenti dell’architettura e della progettazione. Non limitandosi a luoghi e monumenti, la concezione del tour ci ha consentito di accedere ad una visione etnografica della città, con l’osservazione sul campo dei modi e dei ritmi della vita quotidiana triestina. Dall’andare al mare alPedocin o sui marciapiedi affollati di Barcola, allo spritz, alle innumerevolicommunity e gruppi che riempiono la città. A tour concluso siamo pieni di stimoli e informazioni e si entra nel vivo del workshop.
3. La progettazione
Per la progettazione abbiamo scelto un approccio basato sulle metodologie di co-creazione e abbiamo usato una sequenza di esperienze costruttiviste, seguite da sessioni di progetto, disegno e sviluppo collaborativo. Il primo passo è consistito nella definizione dell’obiettivo: un sistema di leggibilità e navigazione dello spazio urbano. Il progetto è cominciato, quindi, dall’immaginare come fosse fatta l’architettura dell’informazione di una città come Trieste. Di quali informazioni hanno bisogno le persone quando sono lontane dalla città? Quali mentre viaggiano per arrivare a Trieste? E quando giungono in città? Di quali informazioni necessitano quando vi si fermano per un minuto, un’ora, un giorno, un mese, un anno o per tutta la vita, seguendo le traiettorie del turismo, del lavoro, della famiglia, del desiderio, delle emozioni, delle passioni, o della scienza?
Come ci si orienta in città dal centro di una candida piazza, da dentro un parco, dalle mura di un castello, dal marciapiede del porto o da una larga strada che attraversa edifici di archeologia industriale abbandonati? Come è fatto un sistema di navigazione della città, capace di rendere leggibili, visibili e accessibili e interattive queste tipologie di informazione e le loro declinazioni? Per capirlo abbiamo applicato le metodologie dell’Architettura dell’Informazione (AdI) nella progettazione della nostra Human Centered Smart City: la Città Piattaforma.
Lavorando sull’AdI ci siamo confrontati innanzitutto con la necessitè di descrivere una “città semantica” in cui ogni elemento fosse collegato agli altri attraverso legami di significato. In maniera simile a come si fa progettando un sito web, ci si è domandati come poter realizzare un sistema di navigazione semantica per la città, articolato su tre livelli:
  • globale – navigare la città secondo i grandi temi, quali i servizi, la cultura, l’ambiente, la storia, il divertimento;
  • locale – scelto un tema: cosa offre la città a riguardo?
  • contestuale – “ok, sono qui: cos’altro c’è?”, per trovare servizi correlati, cose compatibili o simili, o anche solo vicine.
Questa strategia determina una visione innovativa della città, in cui le informazioni digitali e fisiche si incontrano in uno spazio pubblico nuovo, pensato per visualizzarle attraverso una molteplicità di media, strumenti e modalità differenti. Ad esempio, combinando i segni grafici classici (ad esempio, la cartellonistica) con le tecnologie che si insinuano nel tessuto urbano in modi diretti (ad esempio, attraverso l’uso di app per smartphone, chioschi digitali, QRCode, RFID e così via) e in altri più inaspettati quali le esperienze di interazione naturale e gestuale.
4. Risultati: il prodotto
L’ultima parte del workshop è stata, infatti, dedicata alla progettazione di alcuni concept che rappresentassero la visione globale del progetto. Il risultato non poteva che avere una forma Ecosistemica. Già dalla definizione del target è emersa la metafora della “Città della Coda Lunga”. Le caratteristiche stesse della città, assieme all’idea del passaggio “dal turismo ai turismi”, ci hanno portato a configurare il nostro target come la somma delle infinite nicchie, grandi e piccole, che generano la domanda e l’offerta di mercato, proprio come teorizzato a suo da Anderson nel suo noto articolo “The Long Tail”.
Trieste come “Amazon”, dunque: una piattaforma in cui operatori di ogni dimensione possano trovare uno spazio di esistenza e azione. Tutto ciò è abilitato dall’esistenza dell’Ecosistema Digitale (DE) che, come detto in precedenza, è stato immaginato come un social network pubblico di nuova generazione che esca dallo schermo del computer, capace di interconnettere persone, organizzazioni, luoghi e processi della città.
Accedendo alla piattaforma gli operatori possono pubblicare tutte le proprie iniziative all’interno dell’ecosistema: ogni elemento pubblicato – tra alberghi, eventi, ristoranti e quant’altro – viene corredato da un insieme di informazioni e metadati, che consentono di classificarlo nello schema dell’Architettura dell’Informazione della città. Gli operatori, inoltre, possono indicare le relazioni che intercorrono tra i vari elementi, contribuendo alla formazione della Città Semantica. All’altro capo del diagramma, le persone (tra cittadini, residenti e turisti) possono beneficiare di diverse modalità per navigare la città, inclusa una modalità casuale per perdersi in maniera intelligente nella città. Avete presente Stumbleupon? Pensatelo applicato ad una intera città che, se volete, potete navigare randomicamente.
Nel corso dell’esperienza in città, le persone possono di nuovo partecipare all’arricchimento dell’ecosistema, pubblicando valutazioni, feedback, emozioni o altri contenuti quali video e immagini. L’ecosistema fornisce infine agli operatori (ad esempio il Comune) anche una modalità di fruizione dashboard, tramite cui osservare la vita della città e modulare i parametri di comunicazione e interazione, al fine di ottimizzare le esperienze e coinvolgimento dei cittadini. Una volta definito il framework generale, abbiamo progettato diversi modi in cui l’ecosistema si manifestasse nello spazio fisico della città.
Siamo partiti dalla segnaletica urbana, capace di offrire alla vista una rappresentazione chiara del sistema di navigazione cittadina. I segni grafici utilizzati, inoltre, sono usabili attraverso smartphone. Sono, infatti, dei QRCode e dei marker per accedere alle informazioni digitali in tempo reale associate a luoghi ed eventi all’interno dell’ecosistema. Abbiamo poi immaginato diversi tipi di esperienze interattive. Alcune, come il grande schermo urbano mobile che permette di interagire con l’ecosistema digitale, sono da considerarsi dei landmark mobili della città. Uniscono alla suggestione visionaria la possibilità di attivare interessanti dinamiche di spostamento e diffusione dei centri di interesse della città, così da creare dinamiche di sviluppo diffuso (pensate ad un “Colosseo mobile” che l’amministrazione può spostare da una zona all’altra della città).
Altre, realizzano funzioni più espressamente dedicate alla pubblica utilità, fornendo esperienze interattive che consentano di utilizzare le informazioni in tempo reale in maniera accessibile ed usabile. E, infine, gli Experience Spot: questi dispositivi a basso costo sono disseminati per la città e permettono di realizzare micro-esperienze sensoriali capaci di ospitare informazioni utili tanto quanto piccoli segreti, sorprese e giochi. Distribuendo i piccoli supporti fisici degliExperience Spot e mettendoli in rete, la Città Piattaforma consente di ricombinare relazioni sociali e di creare reti distribuite in modo diffuso sul territorio triestino. Tutti i supporti sono collegati tra loro e hanno la possibilità di scambiare e pubblicare informazioni in tempo reale, generando una nuvola di dati che si estende su tutta la città.
Inoltre, un apposito kit consente alle persone di progettare nuove micro-esperienze, e di distribuirle sul territorio, anche organizzando innovativi modelli di business. Ma non solo: l’uso dei kit è insegnato a scuola: giocando da piccoli, e fino all’università, si impara ad usare la città, i suoi dati, le sue informazioni e l’intelligenza espressa dalla sua popolazione per inventare, costruire, visualizzare, remixare, attivare coordinare luoghi, risorse, visioni, desideri, emozioni ed aspettative. Il cerchio si chiude con la presenza di un “logo generativo”, a ripensare radicalmente il concetto di  identità visiva della città. Ad ogni elemento pubblicato nell’ecosistema viene associato in maniera automatica un segno, un marker univoco che permette sia di identificare l’elemento (due differenti elementi avranno markerdifferenti), sia di utilizzarlo per accedere in realtà aumentata alle informazioni digitali associate all’elemento e aggiornate in tempo reale.
Il marker è un segno grafico generativo che codifica in maniera visuale le principali informazioni dell’elemento pubblicato: il titolo, la location, la dimensione temporale e la sua caratterizzazione all’interno della architettura dell’informazione della Città. Un logo, ogni volta differente e unico, emerge dalla vita dell’ecosistema diventando una nuova risorsa per i suoi attori.
Ciò significa che, ad esempio, un operatore  può usarlo come certificazione (essere parte dell’ecosistema digitale di Trieste) e in altri modi interessanti. Pensiamo ad un evento: il marker-logo è fatto per essere facilmente riconoscibile da una app e viene stampato sul materiale informativo (poster, locendine etc). Inquadramdolo con lo smartphone, si accederà alle informazioni aggiornate in tempo reale in base al cloud cittadino e alle conversazioni sui social network che parlano di quell’elemento dell’ecosistema (che siano recensioni su Trip Advisor, conversazioni su Facebook e Twitter o immagini su Instagram). Il tutto previsto a livello di piattaforma cittadina.
5. Perchè questa esperienza è importante
Dall’analisi e dal racconto di questo progetto emergono una serie di riflessioni estremamente innovative riguardo modi di concepire, vivere, utilizzare una città. Queste mettono in luce alcuni elementi rilevanti nella definizione smart city, qui presentata nell’accezione di “human centered smart city”:
  • l’idea di Ecosistema Digitale come nuova infrastruttura pubblica cittadina: un ambiente umano e tecnologico accessibile in maniera ubiqua, che diventa unframework di espressione e di ascolto alla base della vita e dei processi della città;
  • l’idea di Città Piattaforma in cui non solo è possibile accedere ed utilizzare informazioni e servizi, ma soprattutto attivare i cittadini e gli operatori al fine di crearne e realizzarne di propri, sia direttamente che attraverso remix/ricombinazione di informazioni, servizi, competenze ed opportunità presenti nella città;
  • la Città-Cloud che, al pari di un sistema come Amazon, consente a operatori grandi, piccoli o piccolissimi di utilizzare e coordinare l’ecosistema per creare impresa, cultura, emozione, poesia, politica, divertimento. Non un centro singolo, ma le molteplicità potenzialmente infinite che riescono ad esprimersi attraverso la Città Piattaforma;
  • la città Open Source, nel senso che l’amministrazione rilascia le API (Application Programming Interfaces) cittadine e un vero e proprio kit per lo svilupposoftware (SDK), offerto ai cittadini come strumento per la libera creazione di applicazioni, esperienze, operazioni creative ed artistiche, di servizi, culture, coordinamenti, filiere nuove e inaspettate. Un elemento talmente importante da essere intgrato nell’intero ciclo di vita scolastico, proprio come si impara a leggere, a scrivere e a far di conto.
E sull’immagine di una classe di bambini intenta a smontare e rimontare il nuovo SDK cittadino insieme ai propri maestri, vi lasciamo con una frase di William Mitchell, nel suo bellissimo “The City of Bits”.
Le strutture civiche e le disposizioni spaziali che emergono nell’era digitale modificheranno in profondità la nostra possibilità di accedere ad opportunità economiche e ai servizi pubblici, le tipologie e il contenuto del discorso pubblico, le forme dell’attività culturale, l’esercizio del potere, e le esperienze che danno forma e tessuto al nostro quotidiano”.
Roma, 31 agosto 2012
ORIANA PERSICO E SALVATORE IACONESI

Obama sul web, scrive e risponde

Barack Obama su Reddit risponde realtime alle domande che gli vengono poste. Surprise chat. Chiedetemi quello che volete.
Dico, che idea di democrazia avete voi, adesso? Magari il fatto che accadano queste cose potrebbe instillare idee nuove di partecipazione civica e gestione della cosa pubblica, no?
La “democrazia” è un valore, è un concetto che vive nelle nostre teste. Se lo consideriamo auspicabile, adottiamo una forma di governo del territorio che con strumenti e attori sociali cerca di avvicinarsi il più possibile al valore ideale. Che credo sia il dare la possibilità a chiunque di esprimere la propria opinione sulla qualità del benessere sociale raggiunto, e poter suggerire ottimizzazioni nel funzionamento della cosa pubblica.
Ma cento anni fa le strade erano sterrate. La Pubblica Amministrazione, per come la pensavamo, era un’altra cosa. Giorni di cavallo, ecco come pensavamo, o treni per Roma. Perché le tecnologie della comunicazione condizionano la pensabilità della realtà. Certe idee nascono solo quando si apre una porta. E ci sono le Tecnologie della Democrazia. Anche inventare i partiti, come strumento del consenso della collettività, è tecnologia. Una volta servivano intermediari (i partiti), che coagulassero certi flussi di pubblica opinione, scuole di pensiero, organi di stampa. Lo strumento che abbiamo inventato, i sistemi elettorali. Mille possibilità. E parlo solo di quelle pre-Internet.
Ora parliamo col Presidente, lui ci risponde. Proponiamo leggi a una comunità, inneschiamo discussione, la proposta viene ritenuta valida nell’interesse della collettività, dalla collettività stessa nella sua partecipazione civica su piattaforme web municipali o governative. Si vota, anche connettendosi. Disintermediazione, una delle parole chiave del web. Quali modelli servirebbero, basati su qualcosa che funziona un po’ meglio di cavalli, telegrafo, telefono, televisione, telex, fax, telefono wireless. Che poi le tecnologie della Democrazie sono le Tecnologie della Comunicazione, usate con un fine. Si possono fare dei progetti pilota? Sperimentazioni locali, per vedere come varie soluzioni riescano o meno a interpretare correttamente il contesto, e permettere forse di fare un piccolo passo in avanti verso quell’ideale di democrazia?
Question:
We know how Republicans feel about protecting Internet Freedom. Is Internet Freedom an issue you’d push to add to the Democratic Party’s 2012 platform?
Answer:
Internet freedom is something I know you all care passionately about; I do too. We will fight hard to make sure that the internet remains the open forum for everybody – from those who are expressing an idea to those to want to start a business. And although there will be occasional disagreements on the details of various legislative proposals, I won’t stray from that principle – and it will be reflected in the platform.

Arredo urbano per aree connesse

Un’isola urbana, materiale e connessa con l’immateriale. Attrezzata, innanzitutto concettualmente, per abitare con dignità moderna i luoghi urbani. Esteticamente gradevole, o per lo meno il mio plauso per aver cercato di uscire da figuratività eccessivamente connotata di tecnologia e di futuristico, che spesso diventa una cosa fredda, disumana, disumanizzante.
Qui  http://www.mathieulehanneur.fr/projet_gb.php?projet=174#  l’idea progettuale dell’Escale Numérique, già installata sugli Champs-Elysées a Parigi. 
Via Mante, Eraclito.
 

Aggiungo una riflessione sulle smart-maps, “Self-Mapping. Mappare le città: fra geoblogging, pratiche di progettazione urbana ed etnosemiotica”, trovata qui su Augenblick, il blog di Ocula.