Figura e sfondo: il libro e la società connessa

Un mese fa, durante l’Ebookfest 2010 a Fosdinovo, a un certo punto come già scrivevo ero dentro una tavola rotonda, a discettare fantasiosamente di web filosofia, il mio argomento psichedelico preferito.
Tra il pubblico c’era Lucia Montauti, che non conosco personalmente, la quale qualche giorno fa mi ha scritto una mail dove mi raccontava le sue impressioni positive sul convegno, e al contempo mi chiedeva una articoletto sulle tematiche di quella tavola rotonda, da mettere in un ebook di immediata pubblicazione tutto dedicato ai ragionamenti intorno all’ebook come oggetto tecnico e come nuovo nodo del sapere in quanto supporto digitale che modificherà la forma stessa della conoscenza e del conoscere, come sempre le tecnologie fanno.
En passant, faccio notare come nei primi cinquant’anni dall’invenzione di Gutemberg siano stati stampati circa 30.000 titoli (una fonte qua) in qualche milione di copie complessive, e non è difficile notare come l’enorme ruota della comunicazione umana abbia da queste innovazioni ricevuto una spinta notevole, a giudicare dai sommovimenti rilevabili da una storia delle idee: in parallelo stavano succedendo cose che ora identifichiamo come nascita della modernità. In italia oggi si stampano circa 60.000 libri all’anno.
Ebbene, Lucia aveva sicuramente in mano un indice del suo libro, una traccia dell’impostazione della pubblicazione 2010 che è solita curare, credo di aver capito, per Data Manager.
Questa pubblicazione, in formato .pdf, è stata presentata da Lucia Montauti oggi nel corso di Innovation Festival a Milano. E’ un bel libro, ci sono un sacco di interventi di vari personaggi coinvolti nel mondo dell’editoria digitale, ci sono buone riflessioni.
E mi fa impressione pensare che Lucia abbia potuto organizzare la proposta e la raccolta dei contributi in pochissimi giorni, costruendo rapidamente il suo libro, rendendolo disponibile per il download gratuito.
Un’opera collettiva che magari qualche secolo fa per banali motivi lgistici avrebbe richiesto un anno per essere realizzata, è stata dignitosissimamente confezionata in poche ore.
Cioè, il discorso che intendevo riguarda la rapidità con cui qui verrà giù di tutto, nel giro di pochi anni. Le solite secolari prassi sociali, i meccanismi industriali, il modo di muovere il mondo, le cose e le persone e le idee. Pensavamo queste cose fossero montagne solide, e invece sono le montagne fatte coi Lego che ci costruiamo per arredare la vita. Un piccolo rigagnolo, un’infiltrazione liquida smuove il terreno secolare, inizia la frana. Guardate quante teste si girano di scatto.

Narrazioni di comunità, visioni condivise, scorci di futuro

Ho sete di narrazioni territoriali. Ma di  più: le collettività hanno sete, vogliono abbeverarsi con le rappresentazioni di sé allestite sul mediascape, il paesaggio mediatico.
Riassunto delle puntate precedenti:
  • c’è stato un cambiamento nei technoscape, nei paesaggi tecnologici. Abbiamo tutti per le mani strumenti di espressione nuovi, potenti e raffinati, abitiamo in Rete. E’ un momento aurorale, perché stanno nascendo nuovi format, nuove nicchie e flussi dentro l’ecosistema della conoscenza (fino a ieri biblioteche e quotidiani come imperi costruiti sulla carta, sulla pesantezza; seguiva maturazione dell’opinione pubblica lenta, partecipazione limitata, broadcast ineluttabile)
  • le collettività producono senso vivendo, e lo mostrano nello specchio della letteratura e nelle arti (come fare riflessivo, guarda un po’), tanto quanto nell’urbanistica, o nei modelli economici praticati, nella progettazione della logistica territoriale, e aggiungiamo le possibilità odierne di mostrare dinamicamente in tempo reale i comportamenti delle persone e dei gruppi tramite georeferenzialità e dispositivi connessi ubiqui… risulta oggi facile e semplice darne rappresentazione mediatica adeguata, di tutte ‘ste cose e flussi di persone e idee. Tutto nutre i mediascape, l’insieme degli atti comunicativi, la nuvola del dire di una comunità
  • nei momenti di crisi, conviene avere un serbatoio di possibilità differenti da giocarsi, per meglio adeguarsi al mutato contesto ambientale. Solito parallelo con il dialogo della selezione naturale, e al fatto che siamo tutti mutanti: succedesse qualcosa guarda caso ci sarebbe qualcuno che porta in sé una mutazione fino a quel momento ininfluente, ma che ora potrebbe diventare decisiva per far sopravvivere la specie (sto parlando di sperimentalismo, sì, in ogni settore sociale produttivo e socioculturale, nei format con cui pensiamo e storicamente realizziamo il nostro abitare). Idee per sopravvivere.
  • per potenziare l’efficacia di questo auto-pensarsi delle collettività, costruire contenitori di visioni e di progettazioni sociali, Luoghi partecipativi dove tutti possano esprimere la loro percezione e le loro linee direttrici del desiderio rispetto al futuro del territorio, alla qualità del Ben-stare su di esso come collettività in modo consapevole dell’impronta ecologica e dell’ottimizzazione delle risorse (materia energia e informazione, produzione e distribuzione), all’organizzazione sociale, alla costruzione condivisa di Grandi Narrazioni capaci di dare identità alle comunità locali, per come quele emergono dal calderone della Grande Conversazione, sotto cui abbiamo alzato il fuoco (tecnologie connettive) causando un più rapido rimescolarsi dei contenuti, nella comunicazione
  • ci sarebbe da raccontare come sulla superficie del pentolone si stiano formando aggregazioni di senso imprevedibili, cluster di memi capaci di tessere nuove forme significanti, come isole nei fiumi, luoghi di regolarità nel frattale della pubblica opinione. Non c’è più nessuno (ok, dài, i giornali potrebbero fare molto, se nativamente ripensati) a dirci quali sono gli argomenti importanti, ciò di cui val la pena parlare viene a galla nella Rete.
  • e-Government e e-Democracy non vivono nei pensieri, hanno bisogno di ambienti dove poter depositare e far maturare approcci e metodologie, tematiche e partecipazione
  • c’è di mezzo un aspetto civico del problema, che mi fa pensare che simili Luoghi di elaborazione del sentimento di appartenenza a una collettività (nel senso di aver-cura), i luoghi riflessivi autopoietici, dovrebbero essere pubblici, ovvero appartenere alla collettività. Come cittadini vogliamo che l’amministrazione pubblica renda disponibili piazze e parchi e biblioteche e spazi sociali per il pubblico dibattito e faciliti la circolazione delle opinioni. Poi le idee possono nascere dappertutto, nei caffè o su Facebook, ma là dentro dovrebbero assumere forma organizzata, orientata esplicitamente a costruire nel tempo l’archivio delle narrazioni autodirette di una comunità. Là dentro il ribollire dei punti di vista, delle consultazioni, potrebbe assumere aspetti concreti di promozione territoriale, come proposizione di linee e politiche d’intervento. L’alambicco che distilla.
Dicevo. Di simili Luoghi del “fare identità” territoriali e darne rappresentazione mediatica ne stanno nascendo un po’ ovunque, io stesso sto collaborando per realizzare qualcosa di simile, di cui racconterò più avanti. Gli Urban Center (Torino; Milano, Bologna, altre info) possono essere visti come gangli nervosi per l’elaborazione dei flussi informativi territoriali, gli esperimenti di Urban Experience danno visibilità alle nuove forme dell’abitare e del fruire gli spazi sociali.
A esempio, la Camera di Commercio di Udine ha messo giù un progettone per raccogliere le idee e le visioni della collettività friulana, si chiama Friuli Future Forum, lo trovate descritto anche qui, date una letta.
“L’ambizione è comunicare un progetto che contribuisca a trovare una nuova idea di Friuli. Ricostruiamo il concetto della nostra regione mattone dopo mattone, idea dopo idea, partendo dalle radici culturali e territoriali e individuando i valori di base sui quali poggiare le fondamenta per sostenere i sogni e le aspettative del futuro dei friulani” dicono i due professionisti coinvolti, l’uno più pubblicitario (annusare tendenze sociali e stili mediatici) e l’altro più tecnologo, docente universitario specializzato in location awareness e strumenti per rendere eloquenti le collettività.
E se la questione gira intorno al rendere visibili i flussi partecipativi dei cittadini, a organizzare e e distillare narrazioni centrate sul territorio e la qualità dell’abitare create dagli abitanti stessi, forse servirebbe anche una sorta di agenzia territoriale capace di offrire consulenze ai singoli o alle istituzioni o comunque agli attori sociali per costruire la propria narrazione, il proprio apporto alla Grande Conversazione.
Servirebbero dei Centri per la Narrazione gestiti con professionalità e orientati a progettare format di racconto per le collettività, capaci di fornire soluzioni comunicative adeguate con moderni strumenti di espressione (mappe e geotagging e blog urbani e reti civiche e mediateche e sensori ambientali e internet delle cose e teatri sociali di elaborazione, consultazione e decisione).
E quando le tematiche riguardano il fare civico, queste Agenzie di comunicazione potrebbero tranquillamente essere uno dei servizi offerti alla Cittadinanza da quegli Urban Center di cui parlavo più sopra.
Son dieci anni e più che unendo le mie competenze sulle conversazioni e sui media al mio interesse per la qualità dell’abitare sui territori provo a progettare e allestire community territoriali. Con tutto questo fiorire di ambienti per la socialità aumentata, chissà mai che non possa trovare un lavoro decente.

 

Voglio Carosello sulla webtv

Certo, il claim di GoogleTV ci promette che andremo dritti ai nostri canali preferiti. Qualsiasi essi siano. Tenete presente il punto. E quindi la battaglia sarà da parte dei propositori di contenuto quella di riuscire a essere i preferiti più preferiti degli altri, quelle pagine web che riescono a essere in homepage sul televisore.

Anzi, magari riuscire a sapere quali sono le pagine che milioni di persone mettono in home, per le metriche.

Il fatto è che i broadcaster storici non hanno più il potere di mettere raiuno sull’uno, raidue sul due, e canalecinque sul cinque.

Nella mia homepage di GoogleTV, ci metterei un po’ di bei tumblr, per dire.

E ne approfitto anche per fare il discorso contrario: per cosa pagherei? Perché seguo lui e lei e non altri? Ognuno di noi che abita anche qui dentro vede centinaia di fonti e di notizie e di nuclei narrativi, tutto in un sol giorno. E quello che lo colpisce lo riblogga, da cui il suo lifestreaming.

Quindi ecco emergere un personaggio.

Siccome ognuno di noi potrebbe aver la sorte di essere al posto giusto al momento giusto con in mano qualcosa di connesso, ecco l’occasione.

Ognuno in futuro avrà l’occasione di essere il lifestreaming più seguito, per quindici minuti.

Vediamola come un lavoro del futuro, conquistare l’attenzione, riuscire a vendere il proprio stile, la linea. Che possiamo distinguere nella capacità di rendere leggibile la propria idiosincratica isotopia interpretativa degli eventi (l’orizzonte di senso che ognuno proietta sul testo degli accadimenti, il fil rouge che ciascuno di noi tesse vivendo e leggendo il mondo, ciascuno a modo suo, originale e irripetibile) insieme alla capacità di confezionare il messaggio in uscita in un certo modo, spontaneamente o con arte, e risultare chiaro e distinto nel calderone della conversazione. Un giornale, un giornalista, un blogger, gente che parla. Spero sia finita l’epoca del “guardatemi, sono più cinico di un cane”, c’è un mucchio di bella gente in giro che legge molto, metabolizza, ripropone arricchendo del proprio punto di vista.

E anche lo stile, sì, è una posa da uccidere. Più volte. Pugnalarsi. Ma anche questo è uno stile. Come fregarsene dello stile. Insomma, vediamo di trasformare l’agire in fare.

La forza social dell’organizzazione

Tempo fa postavo qui un ragionamento sulle tecnologie della comunicazione a disposizione della scuola, e intendevo proprio la singola Istituzione scolastica nel suo essere organizzazione e attore sociale con una sua voce specifica e una identità nella Grande Conversazione del web, non parlavo di didattica con i nuovi strumenti.
Lo spunto allora mi era stato dato da una riflessione tratta da intranetmanagement.it, dove si analizzava la portata e le sfere di azione degli strumenti del web20 in relazione alla progettazione di una intranet aziendale, o comunque di spazi interattivi interni e esterni di una organizzazione lavorativa.
Ora Giacomo Mason ha pubblicato un’altra bella grafica, dove fotografa i cambiamenti delle intranet, il loro diverso arredamento come spazi sociali lavorativi, l’accento differente messo sugli strumenti dall’avvento del social web e dei processi emergenti.
E anche stavolta, senza modificare nulla, suggerisco a chi lavora nel mondo della Scuola di provare a immaginarsi il proprio ambiente scolastico digitale realizzato secondo queste indicazioni, e le potenzialità che potrebbero derivarne in termini di efficienza della macchina organizzativa.

Mo’ mi morsico la nuca

Quella vecchia storiella, secondo cui il passato, ciò che vedo, è davanti a me.
Quindi il futuro è alle spalle, e sto camminando all’indietro. Capirete che il piede va a tentoni.
Provi a buttare l’occhio, ti fai una visione, uno scorcio sguincio, una teoria. In effetti, ci sono farfalle luminose, qua e là. E emergono strutture, collegamenti, posizioni, climi affettivi, interumanità, nicchie, onde del mare, perfino palazzi e strade, robe di paesaggi da abitare. Ma non del destino del tutto, ma solo di quello del libro pensiamo qui, e ormai libro non significa più nulla di quello che fino a ieri. Vive libero, immateriale ma appare il mille forme, un dio che talvolta si sustanzia, e siamo nell’aura del numinoso, una storia che costruisce anima, una storia chiusa in sé eppure opera nativamente aperta, nei tempi lunghi di una cultura fatta di libri e convegni, oppure istantanea di link e feed.
Feedare il contesto, questa era l’ideuzza. Tracciare la nostra relazione con lo specifico oggetto culturale (atto-degno-di-menzione, romanzo, news, accadimento, chiacchiera, informazione, tutto ciò che è narrato e narrabile), avere uno spime capace di recar seco (apperò!) la storia dell’interazione tra l’umano e l’opera, tirandosi dietro anche pezzi della situazione di enunciazione, contesto, e re-immettendoli nel flusso.
E se pensiamo a un opera connessa, che vive e si modifica nel tempo seguendo oscure nuvole di conversazioni in rete, e dialoga in tempo reale, eppure riesce a essere ancora “storia” nella nostra testa, pensiamo subito alla relazione tra l’opera e il lettore, tra quest’ultima e il web tutto.
Stralci di una chiacchierata: sto bloggando conversazioni, ho già modificato l’ecosistema.

V’è il momento in cui anche il pigro ginnico deve saltare. Ha provato a allungarsi, ma non basta più. S’inventa una presa: reggerà? Ogni tentativo cambia il gioco.

Sul testo come edificio lessi qualcosa, chissà dove chissà quando. Testi abitabili, con porte e finestre, e reti tecnologiche (collegamenti materia, energia, informazione… relative interfacce ormai simbiotiche con gli Umani). Ma non penso tanto ai testi che si richiamano, da sempre e per forza, in quanto veicolati dagli stessi supporti (sempre noi, gli Umani), quanto per converso al nostro *fare testo*. Quindi penso più ai collegamenti fatti dalle persone che abitano questi Luoghi testuali, e ne hanno cura: sono loro che portano il senso di qua e di là, tessendo. E il testo è diventato “atto degno di menzione” nell’ecosistema, sia esso un monoblocco lungo un sillogismo o una tragedia one-line o un’opera gigantesca e labirintica e polivocalica. Quindi, son da rendere visibili le tracce del nostro peregrinare nella città dei memi, e aggiungere il senso che produciamo vivendo al senso di ciò in cui ci imbattiamo, interagendo con i testi. Le scie dei punti di vista.[edit: palmasco nel concetto di frattali di contenuto che si riversano, è vicino a questo che ho scritto]

Yess, teatri della memoria, Giulio Camillo. Ma là siamo nella mnemotecnica, e il funzionamento della macchina (l’intero edificio e i percorsi di senso percorribili dall’Umano al centro della struttura) dipende da una combinatoria finita. Qui stiamo parlando di testi-edifici già collegati tra loro, tutto con tutto, e del nostro abitare (muoverci, vivere, fruire, consumare e produrre) che produce ulteriore senso che si aggiunge ed è rintracciabile (ogni tentativo cambia il gioco, dicevo sopra scherzando). Quindi cercavo di uscire da una visione “struttura” per andare verso una percezione del “processo”, come al solito, e quindi pensavo a scie sulla superficie (@bgeorg: ops) come pulci d’acqua nello stagno, toh.

E’ solo un testo che pretende per sé il suo mostrarsi più strutturato, si vuole così, e rientra nel range delle forme di narrazione. Poi se intendi scavare dentro l’Autore, sai che non posso farlo, sono sulla soglia della semiotica. A meno di non volere pertinentizzare come testo oggetto di analisi proprio quel testo dato dalla “personalità dell’autore”. per come essa viene percepita nell’enciclopedia la “rigidità” di quel testo in un luogo di testi fluidi crea contrasto, rigioca lo sfondo-figura, ci mostra particolari sfuggiti, fa sgorgare senso, sì. E possiamo essere benissimo al di là dell’intenzionalità dell’autore, indifferente qui allo scorcio (squarcio) di visione che ci permette di praticare sull’universo del discorso. Siamo qui: stiamo patteggiando tra di noi, qui in questo thread o nel nostro abitare quotidiano nella Grande Conversazione, il modello, la visione dello sfondo, il contesto da cui ben studiati sappiamo dipende sempre il senso enunciato del messaggio. Quando per prove e errori (qualcuno più su diceva “sperimentazioni”) avremo negoziato un concetto stabile (una credenza, sempre ipotetica e fallibile etc.) di come sia fatto lo sfondo (la rete, il rizoma oggi visibile, la città dei memi con metafora urbanistica, la viabilità delle idee, l’ambiente culturale connesso in cui le collettività vivono, la mente fuori di noi e tra noi, l’ecosistema della conoscenza, il bosco delle narrazioni) vedremo emergere modelli maggiormente attagliati, nativi, e non adeguamenti oltre al tuo intenzionale moltiplicare quell’oggetto culturale (bloggandone una recensione o innescando una fanfic), mi viene in mente che potrebbe essere tracciata *la tua relazione* con quell’oggetto cultura, se vuoi porzione di contenuto, se vuoi testo anche conchiuso. Se il dispositivo di lettura tracciasse (e alimentasse flussi in Rete) il tuo ritmo di lettura, le pause, l’eyetracking di cui si parlava, il sonoro ambientale che lo circonda, anche il tuo fare in Rete parallelo, e tutto questo venisse reimmesso nel calderone, potrebbe veder la luce un’opera cangiante, che mentre tu procedi lineare fruendo il testo quest’ultimo si modifica, cambia il capitolo 8 mentre tu sei al 7. Un’opera situazionale, dove il testo è un attore. Pausacaffèdelirio/off, ma quel “tetragono” mi sembrava eccessivo, chi può mai dire c’è l’opera che vive tranquilla in splendida solitudine, standalone. Può rientrare nella conversazione nei nelle recensioni, nelle continuazioni, che diventano magari col tempo dei cotesti (e potrebbero vivere di vita propria, come la letteratura sgorgata dai commentarii medievali, autonoma). E quella progettata e che vive connessa, sul bagnasciuga, con i piedini a mollo nelle onde del mare. Dal mare è nutrita, verso il mare sgocciola. Lo spime qui è dato dalla relazione testo-lettore, per ciascuno idiosincratica, capace però di confluire in certi flussi che poi possano ritornare verso l’opera, modificando il gioco, tracciando il contesto e reimmettendolo.

I media non sono più intelligenti delle persone che li abitano

Ieri ho partecipato telefonicamente a una trasmissione di Radio1 che riguardava i social network.
Mi ha chiamato una tipa il giorno prima, mi ha chiesto cosa facevo, mi ha chiesto qualcosa sui soliti argomenti.
La trasmissione era una pagliacciata. Il filo del discorso era già stabilito, era un discorso “a tesi” dal profilo basso, molto basso. Ragionamenti obsoleti, disinformazione, scandalismo spicciolo.
Solite sciocchezze: rischi e pericoli della Rete, la diffamazione online, i giovani che signora mia passano le ore davanti al computer e poi vivono del delirio. Sarebbe stata imbarazzante nel 2002.
Anzi, nel 2000/2001/2002 ho organizzato convegni che erano già in grado di porre concretamente il problema educativo rispetto ai minori e alla loro frequentazioni web, senza fermarsi alle chiacchiere da mercato e agli aspetti eclatanti.
Prima di me hanno intervistato Sergio Maistrello e Enrico Maria Milic, e su loro metterei la mano sul fuoco: siamo tutta gente che abita qui dentro da almeno una dozzina d’anni, e che professionalmente prova a riflettere su queste cosucce da molto tempo… sarebbe sufficiente leggere quello che abbiamo scritto in giro, con rapida ricerca. 
Non ho sentito tutta la trasmissione. Io ho provato a demolire l’uso continuato della parola “virtuale”, connotandola come obsoleta e inadeguata, nonché a accennare qualcosa di educazione alla cittadinanza digitale. Prima di me parlava un avvocato che sottolineava gli aspetti legati alla diffamazione online, dopo una domanda dai toni preoccupati. Dopo di me sono stati chiesti dei pareri a un medico, che si è subito prodigato  nel renderci edotti delle “patologie di Internet”, gli stati di allucinazione (sic) in cui cade chi sta troppe ore davanti al computer e poi a cena coi genitori non è ben sintonizzato col mondo, e addirittura udite udite si è dilungato nello spiegarci che online, signora mia, può capitare che qualcuno assuma una finta identità, e poi sotto quelle mentite spoglie vada sui socialnetwork a tacchinare il proprio partner, per vedere come quest’ultimo reagisce. 
Robe da matti, eh, questa strana internet.
Magari Simona Regina, che conduceva il programma qui su RadioRai da Trieste, potrebbe contattare me o Sergio o Enrico, la prossima volta: una bella consulenza non si nega a nessuno, e si potrebbe cercare di imbastire una trasmissione radiofonica che perlomeno abiti nel 2010, e sappia centrare le tematiche di cui oggi val la pena trattare (e magari non utilizzi gli ospiti come puntello per il proprio discorso, dal filo già stabilito).
Simona, se ti fai domande vecchie non capirai mai cosa fanno diciassette milioni di italiani su facebook, credimi. 

Piattaforme

Che Facebook sia un salotto e non una piazza, l’abbiam capito. Eppure lì dentro avvengono troppe cose rilevanti. Mozioni civiche, elaborazione opinione pubblica, messa in scena della collettività a sé stessa.

E non mi piace che avvenga là dentro.

Se per ipotesi ci fosse una piattaforma governativa, Piazza Italia etc., dove tessiamo le nostre reti relazionali, amicali e professionali. Dove se vogliamo cazzeggiamo, ma dove possiamo esprimere posizioni a casa nostra, una casa di tutti, e non a casa di qualcuno (che ci guadagna sopra). Posizioni etiche, espressioni di partecipazione alla vita sociale, anche atti linguistici più forti come petizioni o sottoscrizioni con identità certificata.

Che poi cazzeggiare verrebbe sicuramente meglio su altre piattaforme, anche commerciali, che raccolgono iscritti per affinità tematica o geografica.

Ma alcune robe serie no, le voglio pubbliche, aperte, dove tutela massima andrebbe posta nel fatto che nulla venga censurato. Dove vigono leggi, per rispettarsi. Dove Giorgio Jannis è Giorgio Jannis, che abita qui e lì a quell’indirizzo, che dice e fa, e gli altri lo sanno, e le sue parole hanno il peso del cittadino che si esprime.

Ma leggi che tengano conto nativamente che questo è un mondo senza atomi, e nell’immateriale alcune cose cambiano. Le nuove leggi che il mondo dovrà darsi nei prossimi dieci anni, per adeguarsi.

Più volte ho scritto che l”idea stessa di piattaforma mi sembra obsoleta, tutto questo dover concentrare le persone negli stabilimenti, luoghi chiusi. Uno schema di pensiero non più adeguato. E parlavo di tecnologie traccianti, per poter seguire le discussioni e le relazioni interpersonali in modo indifferente alla situazione di enunciazione, ovunque il senso appaia. Perché il mio dire, taggato e contestualizzato, troverebbe pertinenza da sé nelle varie nicchie della Rete, secondo i contenuti veicolati. Apparirebbe negli aggregatori e nelle bacheche giuste, avrebbe gambe per muoversi, vivere.

E come lo Stato arreda una piazza, così dovrebbe provvedere agli spazi sociali pubblici, perlomeno offrire luoghi di conversazione per una comunità che costruisce sé stessa dialogando, nel tempo. Dove poter fare tutti insieme progettazione sociale collaborativa, ottimizzando i territori e i comportamenti delle collettività che li abitano.

Chissà se funzionerebbe.

La gente, i milioni di persone che abitano in Rete, non fa cose facilmente predicibili. Un video o una battuta possono diffondersi in modo esplosivo, per caso, per complessità emergenti dei percorsi, secondo narrazioni mai viste. Cose pianificate e ben finanziate possono naufragare rapidamente in pochi mesi.

Ma di certo la nuvola della conversazione a sfondo civico di una intera nazione (anche oltre i confini geografici, nei linguaggi di chi paga le tasse) non può abitare su un social network privato.

Empowering communities

Un bell’articolo di Ernesto Belisario, su Apogeonline.

L’Open Govenrment è un’opportunità concreta di ottenere, attraverso la rete, un’amministrazione più efficiente e una migliore democrazia. Quest’opportunità, però, può essere colta solo a patto di comprendere che il vero cambiamento è fuori dal Palazzo e che la vera innovazione non è nelle tecnologie.

#ebookfest

Su, che devo bloggare il mio resoconto del supercampconvegnofest di Fosdinovo. Anzi, rispondendo a caldo dentro un ambientino sociale, ho scritto:

… devo dirti che è andata bene. Non per l’organizzazione logistica e copertura media (avrei dovuto strimmare parecchio, e niente; però ho 50 giga di video da spammare in giro, ora) resa complicata dall’essere dentro un castello medievale, o spalmati per il borgo. Ma proprio la location ha fatto molto, secondo me, e ha creato un clima eccezionale. Non starò a farti le pippe su grammatica situazionale, contesto e semantica degli spazi, tranqui :) Però puoi immaginare, incontri in piccole stanze arredate strane, atmosfera informale, botta e risposta caldi (pensa ai migliori camp a cui hai assistito), dibattiti che dopo aver personalmente forzatamente chiuso cacciando fuori tutti a calci in culo – sennò i seminari duravano otto ore – vedevo continuare lungo i corridoi e le terrazze panoramiche del castello, nei ciarlieri capannelli di illustri e di sconosciuti. Maragliano chiacchierava con Quadrino, a Quadrino stesso in veste inedita ho fatto intervistare Roncaglia, Guaraldi che rideva forte con Maria Grazia Mattei, la quale mi prendeva in giro per la perizia con la quale le ho collegato il videoproiettore, e una tavola rotonda con Marco Ghezzi e Guaraldi che sembrava un copione di sceneggiata napoletana, per quanto era effervescente, e invece era semplicemente una bella chiacchierata tra persone competenti. E i problemi sul tavolo erano quelli grossi, amazon che arriva, mondadori e rcs che hanno rotto il cazzo, drm una cippa, cultura digitale quasi sempre ben compresa, e non imparaticcia, se non dai soliti tecnosauri prontamente litigati da tutti. Nelle loro stesse parole, nelle parole dei personaggioni, un’ottima occasione di incontro vero tra studiosi e operatori del settore. Un anno di lavoro ci aspetta, a me, Noa Carpignano di BBN, Mario Guaraldi, tutta la crew, e chissà cosa succederà nel frattempo, ma vediamo cosa riusciamo a migliorare per il prossimo anno – a esempio, speriamo che arrivi l’adsl in castello :)

Riprendendo le parole di Mario Rotta, aggiungo due riflessioni.
Molti di coloro che hanno parlato nei seminari e nelle tavole rotonde lasciavano trasparire nei loro discorsi il giusto approccio rispetto ai nuovi modelli economici e logistici innescati dalle pratiche di Rete, a esempio riguardo le questioni della proprietà intellettuale o dei DRM. Eppure sentivo mancare in loro una vera cultura digitale, per come essa sorge in chi abita in Rete per un certo tempo con una certa assiduità.
Queste persone hanno raggiunto la posizione adeguata al mutato contesto con un percorso faticoso, fatto di piccoli miglioramenti apportati al vecchio modello economico editoriale e distributivo, e quindi sia reso loro l’onore del traguardo raggiunto. Ma nelle loro parole c’erano metafore sbagliate, contesti obsoleti del discorso, da cui poi discendono quelle incomprensioni e quelle modalità di conversazione in presenza eccessivamente polemiche, in quanto poggianti su fondamenta traballanti, quando in realtà lo sfondo tutto su cui inquadrare il fenomeno dei cambiamenti dell’editoria è sempre quello delle modificazioni culturali e sociali ampie e epocali, quale quella di internet che stiamo vivendo.
Gente brava nonostante, mi viene da pensare, nonostante il loro non essere abitanti consapevoli.
Come un bambino che passa dalla macchina per scrivere al pc, che capisce quanto un programma di videoscrittura possa essere più performante rispetto alla prima, ma ancora non ha modificato il suo sguardo in direzione di un orizzonte più vasto, dove vengono ripensate le stesse pratiche umane di scrittura (soprattutto quando si lavora connessi).
Nel mio intervento durante la tavola rotonda che mi vedeva partecipante, sono stato esplicitamente provocato da Mario Guaraldi a dare una lettura “filosofica” delle questioni in ballo, e come filosofo catastrofista ho risposto: ho provato a dipingere i cambiamenti sociali radicali in atto, ho mostrato come di qui a cinque anni il mondo dell’editoria e non solo potrebbe essere completamente diverso, ho messo in guardia su quelli che infervorati asseriscono oggi cose che domani stesso potrebbero essere differenti. Ma ho chiuso con nota positiva, essendo il mio l’ultimo intervento della giornata: ho parlato dei valori della Rete, della compartecipazione della condivisione, della fiducia e della reputazione, e ho riproposto il soltio parallelo del messaggio e del contesto in cui esso cade, da cui soltanto possiamo disambiguare i significati giungendo a un senso compiuto di una frase effettivamente pronunciata, le frasi che gli editori stanno provando a dire, nel loro fare, nel fronteggiare in modo nuovo la Grande Conversazione.
“Dare and share”, come si diceva in Rete tanti anni fa: “osa e condividi”, dove gli sperimentalismi assolutamente necessari trovano risonanza e validazione nella comunità sociale dei portatori di interesse.
Le solite cose: c’è di mezzo il fatto che ci sono in giro case editrici, persone appassionate di libri e di lettura, che queste cose non le capiscono, e su questi dinosauri incombe inesorabile la Morte, mentre già piccoli mammiferi a sangue caldo, più agili e adattati al mutato ambiente, stanno conquistando il mondo.

Ebookfest, un bel po’ di gente, gustose chiacchiere

Ok, oggi si parte.
Noa Carpignano di BBN editore si è fatta in quattro e ha imbastito questa tre giorni di ragionamenti intorno al mondo dell’ebook, qui a Fosdinovo. Tanti relatori, tanti spazi espositivi, titoli interessanti per cogliere lo stato dell’arte, per lanciare lo sguardo su scenari futuri.
Il wifi non è disponibile ovunque, in paese non arriva l’adsl, però vedrò di gestire al meglio lo streaming video dei seminari importanti, cercherò di twittare o comunque di dare rapide segnalazioni sullo svolgimento.
Personalmente parteciperò a una tavola rotonda dal titolo Il futuro del libro si chiama biblioteca: biblioteche, ricerca semantica e folksonomy, insieme anche all’eccezionale Andreas Formiconi, moderata dall’inarrivabile Mario Guaraldi, dell’omonima casa editrice: proverò a dire qualcosa di sensato su alcune tendenze che vedo svilupparsi nella cultura digitale, sugli eterni atteggiamenti ambigui che adottiamo dinanzi al cambiamento.
Trovate tutto sull’evento qui http://www.ebookfest.it/.
Rock’n’roll.

Il balletto degli eventi

Mantellini segnala un bell’articolo di Vittorio Sabadin sulla Stampa, leggetelo.
L’articolo parla del balletto che avviene tra la Redazione di un giornale online e l’insieme dei lettori. 
A ogni mossa sul piano delle tematiche trattate corrisponde un passo di danza da parte dei fruitori, e viceversa ogni spostamento dell’attenzione corale di questi ultimi modifica la percezione dei redattori riguardo la notiziabilità degli eventi nonché la loro rappresentazione attraverso le forme storiche dell’industria dell’informazione (il concetto stesso di “giornale quotidiano”, il carattere tipografico prescelto, la “prima pagina”, l’organizzazione semantica degli spazi di scrittura, il tipo di relazione tra giornalista e editore). 
Questo balletto, uguale per secoli, oggi è costretto a imparare nuovi passi di danza, perché i lettori non si fanno solo trascinare passivamente, ma interagiscono attivamente con la creazione e la distribuzione delle notizie, costruiscono la propria realtà in modo autonomo con percorsi di lettura personali e idiosincratici, pronunciano pubblicamente commenti e osservazioni che insieme all’atto-degno-di-menzione originale costituiscono il testo completo, l’universo locale di discorso su un determinato argomento o su un comportamento di fruizione.
E sul digitale, posso misurare molte cose.
Mi ha colpito quell’immagine della redazione giornalistica, che alla riunione di primo mattino osserva sui monitor in tempo reale le statistiche di fruizione del sito web giornalistico, potendo facilmente tracciare i trend dei comportamenti dei lettori, la predilizione cangiante per questa o quell’area di contenuti nel corso dell’ultimo mese o dell’ultimo anno.
Pensate a questa comunicazione bidirezionale, dove feedback e messaggio non han più senso forte di differenziazione (non ha senso azione e reazione) perché sul puntuale potrei stabilire una linea cronologica degli eventi, dalla notizia ai commenti e quindi la parola di nuovo ai giornalisti, ma in realtà se solo provo a pensare in termini “ambientali” quello che emerge è il dialogo incessante nel tempo dell’opinione pubblica, il calderone di quello che val la pena sia narrato, una scena dove il pubblico che fino a ieri poteva solo sbraitare o spedire lettere al direttore, ma certo non argomentare dignitosamente, è diventato un autore e un attore a tutti gli effetti.
Di gusti pessimi, peraltro, perché madimmiunpotu a guardare quelle statistiche sui monitor del traffico web pare emerga che il popolino sia soprattutto interessato a puttanatine, boxini morbosi, gossip finto ma comunque flamboyante e bombastico (che parole strane), caratteri cubitali, strilloni e imbonitori.
Qui va a finire, questo il problema evidenziato dall’articolo di Sabadin, che la Redazione segue pedissequamente le aree tematiche più visitate, moltiplicando le percentuali delle puttanate, e quindi si innesca la spirale nera, il gorgo della mediocrità che trascina tutto verso il basso. Il balletto si avvita in un corpo a corpo prevedibilissimo, stereotipato e sguaiato. 
Certo, il ragionamento dice che siccome è tempo di crisi gli editori dell’informazione fanno spallucce alla deontologia professionale, vedono branchi di pesce, buttano la rete a strascico che tira su tutto, usano esche facili per lettori di bocca buona. Così fanno traffico, e si fregiano e ottengono soldi per quei numeri da vantare presso gli inserzionisti, si concentrano sulle tette della sciantosa di turno e di quelle tette raccontano fotograficamente le gesta sui palcoscenici mediatici.
Per una volta, non sto qui a ragionare di cosa si potrebbe fare per migliorare la qualità di vita di una collettività, portandola a leggere e commentare cose più nobili e utili a tutti come l’economia o la politica o i ragionamenti per aumentare il benessere del nostro abitare i territori; per queste cose esiste la Scuola e l’educazione, e sono cambiamenti profondi da concepire in ottica generazionale.
Quello che non si può confutare è la fotografia della società italiana, per come emerge dai flussi di frequentazione e partecipazione al mondo dell’informazione, e stiamo parlando di milioni di persone, delle loro scelte e dei loro comportamenti. 
E’ notorio come in italia, a guardare le percentuali di analfabetismo di ritorno, la propensione a fruire cultura (libri o eventi, cinema o quotidiani) sia ridicolarmente bassa, da vergognarsi, e il cittadino medio italiano è più stupido e ignorante di quanto pensate. Ok.
Mi preoccupo più di questa deriva al peggio da parte dei professionisti, mutuata dai meccanismi profondi dell’ambiente stampa-televisione (broadcast) che però oggi su web non si rivelano adatti, e anzi fanno scorgere in loro l’incapacità di pensare i nuovi Luoghi della socialità e in particolare quelli dell’informazione e della narrazione del mondo in modo adeguato ai tempi e al mutato contesto ecologico.
E quindi il giornale deve parlare di tutto, come se noi frequentassimo solamente l’edicola del paese e avessimo soldi e tempo solo per un quotidiano, dove il supporto cartaceo continua a pre-ordinare la mentalità dei confezionatori di notizie con le sue regole, dove le dinamiche televisive portano ancora l’attenzione alla quantità.
Ma non abitiamo più, noi e i contenuti culturali, in un ambiente dove le risorse sono limitate, e quindi in una economia che strutturalmente precondiziona l’esistenza solamente di un certo numero di attività editoriali, di testate giornalistiche, lasciando al tempo e alle pratiche umane l’individuazione di quel punto di equilibrio tra domanda e offerta di contenuti culturali o riguardanti gli accadimenti. 
Il gradino del cartaceo, ovvero quel salto che separa le parole pronunciate dalla loro diffusione di massa su un supporto più performante della voce, non costituisce più un ostacolo, e scomparendo rende obsoleto il proprio essere una sorta di filtro selezionatore, che nelle cose determina cosa meriti la pubblicazione e cosa possa restare flatus vocis.
Oggi tutto può essere pubblicato, ogni singolo pensiero dell’umanità, ogni chiacchiera ogni conversazione, ogni atto videoripreso, spontaneo o costruito; siamo tutti autori e lettori, il nostro fare contribuisce alla realizzazione collettiva dell’arazzo della società e della socialità, variopinto come mai e sempre cangiante.
E c’è oggi lo spazio per alloggiare tutta questa massa di contenuti, non siamo limitati a qualche migliaio di pagine di giornale. Non abbiamo limite.
Quindi è inutile, come in tempo di carestia dei supporti della conoscenza, che ciascun nodo si senta in dovere di coprire molte aree tematiche, per poi baruffarsi i clienti e ingraziarseli con manovre di basso ventre.
In una visione ecologica, possono esistere diverse realtà, specializzate in differentissime nicchie, e il lettore nelle sue traiettorie di partecipazione mediatica soggiornerà qui e là, nel suo abitare nomade.
Ma una cosa i giornali potrebbero fare, quelli che intendono fare informazione e nutrire l’opinione pubblica in maniera seria e consapevole: togliere tutti i boxini morbosi.

Scrivere storie sulle geografie

L’argomento è quello della partecipazione delle collettività alla costruzione simbolica dell’identità di un territorio, lo stile e le azioni delle comunità che lo abitano. Ma non solo di immaginario stiamo parlando: le forme di emersione di nuove dimensioni e orientamenti dell’opinione pubblica locale possono tranquillamente farsi carico di tematiche molto più concrete, a esempio l’organizzazione logistica del tessuto urbano, la viabilità o lo spostamento di cose e persone, o dell’informazione quando ragioniamo di piattaforme istituzionali per la partecipazione della cittadinanza a forme di progettazione sociale condivisa e collaborativa, la vera conversazione tra Ente locale e cittadini.
Nel primo caso il fare comunicativo della comunità locale, l’insieme dei discorsi e delle posizioni dei parlanti riguardo a descrizioni fisiche o sul funzionamento concreto di un ambiente urbano, come pure valutazioni estetiche sul paesaggio o sulle filiere di distribuzione economiche e produttive locali, contribuiscono con la loro polivocalità a dipingere l’immagine dinamica di quel territorio, per come essa emerge dall’incessante conversazione sociale oggi potenziata e resa visibile e perfino abitabile dal web moderno.
Banalmente e prendendo l’esempio con le molle, proviamo a pensare ai primi cento risultati che Google offre ricercando “Friuli Venezia Giulia”, e avremo una fotografia statistica (e dinamica) di questo territorio, dove solo alcune voci saranno comunicazione istituzionale progettata e pubblicata, mentre altre occorrenze emergeranno dai ragionamenti pubblicati da qualche blog importante della zona, da forum di discussione, da conversazioni tenutesi su qualche social network, da siti commerciali che fanno del collegamento al territorio un loro punto di forza nel marketing, da testate giornalistiche che riflettono gli accadimenti locali. 
Il FVG agli occhi del mondo è questo. L’insieme delle narrazioni autoriferite di un territorio è la sua carta d’identità, è una scrittura collettiva di una storia (o meglio, storie) sopra una geografia, per dirla con parole di Carlo Infante, dove diventa possibile far interagire autopoiesi delle collettività umane (il continuo produrre senso connaturato al fare umano) con le mappe satellitari, diventa possibile concepire dei geoblog e altre diavolerie capaci di connotare gli accadimenti in modo georeferenziato. 
E’ dove l’orizzontalità dei sistemi relazionali umani incontra la verticalità di uno sguardo più ampio del proprio cortile e della propria cerchia amicale, avendo come fine talvolta esplicito innanzitutto la “messa in scena” del territorio, e in seguito la sua eventuale ottimizzazione, se stiamo indagando quei Luoghi di comunicazione dove tutti insieme potremmo provare a studiare e decidere le mosse migliori da compiere per il bene della collettività.
In questo secondo caso abbiamo a che fare concretamente con la partecipazione della cittadinanza nella progettazione e nel miglioramento della qualità della vità di un dato territorio, grazie a quei Luoghi riflessivi costituiti dalle piattaforme web per la partecipazione civica, in misura consultiva e nel prossimo futuro anche in misura decisionale, secondo le indicazioni di una e-Democracy intesa in senso forte.
Qui però ci sono degli ostacoli diciamo così tecnici, perché sebbene questi Luoghi web di partecipazione esistano già da qualche anno (le reti civiche telematiche essendo i progenitori), solo recentemente e solo grazie a una impostazione nativamente 2.0 ovvero centrata sulla produzione e distribuzione di contenuti da parte degli utenti stessi si è riusciti a mettere online dei software-piattaforma che permettano di svolgere dignitosamente questa notevole attività di intercettazione, visibilità e organizzazione delle tematiche “calde” che emergono da una comunità geolocalizzata.
Gigi Cogo oggi segnala una piattaforma interessante, e condisce il tutto con altrettanto interessanti ragionamenti (anche qui e qui).

Muori, cagna

Questa schermata l’ho trovata qui, è una nota su FB.

Sia chiaro: non sto soffiando su nessun fuoco, non mi frega nulla segnalare alcunché al pubblico ludibrio, me ne fotto della morbosità, è già stato fatto prima, mi interessa documentare l’umanità con uno screenshot, i giornali nei boxini ci campano giorni, questo o un altro uguale arriverà anche sui tg alla ricerca di fregnacce per imbonire a’ggente, me ne frego anche di lasciare tutti i nomi delle persone come li vede uno che è iscritto a FB perché se mi dicono che in quel bar ci sono un bel po’ di persone che parlano così io prendo la vespa a vado a vedermi lo spettacolo dinanzi a miei occhi esattamente tale e quale a questo, e poi mi fa ridere, ecco. 
Son ragazzini, ma già non capiscono un cazzo. Parlo dei commenti, avevate capito.
Mi piace l’escalation, il montare del livore, l’immaginazione concentrata sulla punizione e l’epiteto. Puzza d’umanità, qui, molto troppa.

eBookFest a Fosdinovo

Sto dando una mano qui a Fosdinovo per organizzare l’eBookFest.
E avremo da divertirci. Andate sul sito ebookfest.it e troverete il programma, l’elenco dei relatori, qualche ragionamento.
Racconto tra qualche giorno qualcosa, intanto ecco un lancio.

e-bookFest

A Fosdinovo va in scena il libro digitale

Organizzata da Associazione Tecknos, Bibienne e da Guaraldi editore, nella suggestiva cornice del Castello Malaspina di Fosdinovo (Massa Carrara), dal 10 al 12 di settembre 2010 si terrà la prima edizione del Festival dedicato al mondo degli e-books. Visita subito il sito della manifestazione:www.ebookfest.it 

Gli editori che a settembre si potranno incontrare a Fosdinovo non sono più interessati alla stampa in quanto tale: sono, come già 500 anni fa, ai tempi della rivoluzione gutenberghiana, quelli che guardano al futuro: si parlerà di ebook e di come cambierà il modo di “fare editoria”. Si parlerà di “nuove scritture” e di distribuzione, di digitalizzazione e di distribuzione di contenuti digitali da parte delle biblioteche, delle nuove forme di diritto d’autore. E si parlerà molto di scuola, perché la normativa prevede dal 2011 l’adozione di libri scolastici digitali e i problemi sono tanti, a partire dalla situazione informatica delle scuole. Gli incontri, che inizieranno venerdì 10 settembre alle 14, sono aperti a tutti e l’accesso sia ai camp che  ai seminari e  alla zona espositiva, è gratuito. A fare da corollario ai dibattiti ci sarà anche l’eBookShow, dove scuole e università presenti presenteranno i loro progetti sperimentali, e le aziende esporranno i loro prodotti digitali. Sarà anche possibile vedere e provare i nuovi eReader per eBook.

Ecco un anticipo della nutrita serie di seminari e tavole rotonde:

* La nuova filiera dell’editoria digitale, dalla produzione alla distribuzione.
* La guerra dei formati e diritto d’autore.
* Le biblioteche e le piattaforme di pubblico accesso
* Le nuove scritture: non lineari, plurali, ipermediali e multimodali, autoprodotte.
* Il testo digitale nella formazione e nella didattica: potenzialità e nuovi scenari
* Accessibilità: disabilità sensoriali e cognitive: il problema della forma e quello dei contenuti.

L’evento, che si propone di diventare un appuntamento annuale, discende direttamente da due barcamp sul “mondo ebook” di ottimo successo: il BookCamp (Rimini 2008) e lo SchoolBookCamp(Fosdinovo 2009). Attraverso il confronto tra professionisti, operatori del settore, studiosi, docenti universitari, insegnanti, blogger, rappresentanti delle istituzioni, e appassionati delle nuove tecnologie, l’eBookFest intende far luce sullo stato dell’arte dell’editoria digitale.

500 anni dopo: la Lunigiana culla dell’ebook 

La Lunigiana torna ad essere, dopo 500 anni, la culla dell’innovazione editoriale. Per tre giorni, dal 10 al 12 settembre, Fosdinovo ospiterà il più grande e significativo evento fino ad oggi organizzato sull’editoria digitale: la seconda edizione di due barcamp, 22 seminari, 20 presentazioni di progetti e sperimentazioni, alcune tavole rotonde e una zona espositiva animeranno il paese a partire dal castello Malaspina. La Lunigiana è storicamente terra di stampatori: nel 1458 nasce a Pontremoli una delle prime attività librarie e a Fivizzano intorno al 1470 furono utilizzati i primi caratteri tipografici italiani. Montereggio è detto ancora oggi il “paese dei librai” e da qui ha origine il premio Bancarella. Il primo fu, nel cinquecento, Sebastiano da Pontremoli. L’attività proseguì per molte generazioni e raggiunse il massimo sviluppo nell’ottocento. In quegli anni a Mulazzo nasce Emanuele Maucci, un grande editore che diede origine alla più ampia “catena” di librai del mondo con sede in Barcellona e consorti in Genova, Milano, Buenos Aires, Habana, Caracas. Ancora oggi i discendenti dei Librai Pontremolesi posseggono importanti librerie, e le strade di Montereggio sono dedicate ai più celebri editori italiani, da viale Luigi Einaudi a Borgo Feltrinelli.

Ecosofia e grassroots

Copio qui un articolo divulgativo intitolato “Ecofilosofia, Ecosofia e il Movimento dell’Ecologia Profonda“, trovato sul portale di bioetica.
Interessante anche il ragionamento sulla cultura dei movimenti grassroots, l’emergere locale di valori e posizioni etiche della collettività, e come la logica orizzontale reticolare si attagli e possa essere fortemente potenziata oggi dalla presenza di una Rete globale, Internet.

EcofilosofiaEcosofia e il Movimento dell’Ecologia Profonda

Durante gli ultimi trent’anni, i filosofi occidentali hanno criticato gli argomenti di base della filosofia moderna riguardo ilmondo naturale. Questa maturazione è stata solo una parte della continua espansione del lavoro filosofico che ha coinvolto studi comparati sulle opinioni del mondo e sulle più recenti filosofie. Siccome gli studi filosofici occidentali hanno spesso ignorato il mondo naturale e siccome la maggior parte degli studi etici si sono focalizzati sui valori umani, gli approcci che mettono in risalto i valori ecocentrici hanno preso il nome di ecofilosofia. Così come la sofia o la saggezza sono la meta della filosofia tradizionale, così il traguardo dell’ecofilosofia è l’ecosofia o la saggezza ecologica. La Procedura dell’ecofilosofiaè un’indagine continua, vasta e profonda, nei valori, nella natura del mondo e nel sé.

La missione dell’ecofilosofia è quella di esplorare tutti i punti di vista che riguardano i rapporti e le relazioni tra uomo e Natura. Essa fa proprie le relazioni armoniose e più profonde tra il luogo, il sé, la comunità e il mondo naturale. Inoltre si accresce attraverso la comparazione delle diverse ecosofie con le quali le gente sostiene i principi della piattaforma del movimento, vasto e globale, dell’ecologia profonda.

Ecco la definizione originale di ecosofia di Arne Naess: «Per ecosofia intendo una filosofia di equilibrio, e armonia, ecologico. Una filosofia, del tipo sofia (o) saggezza, è apertamente normativa; essa contiene norme, regole, postulati, dichiarazioni di priorità di valori ed ipotesi che riguardano lo stato degli avvenimenti nel nostro universo. Saggezza vuol dire politica saggia, norma, non solo descrizione e previsione scientifica. I dettagli di una ecosofia avranno molte varianti in quanto esistono delle diversità che sono dovute a significative differenze non solo nei “fatti” come l’inquinamento, le risorse, la popolazione ecc. ma anche nelle priorità dei valori.» (Vedi A. Drengson e Y. Inoue, 1995, pag. 8.)

Nel 1973 (Inquiry 16, pp. 95-100) il nome deep ecology movement, ovvero “movimento dell’ecologia profonda”, venneintrodotto nella letteratura ambientale dal professore filosofo e scalatore norvegese Arne Naess. (Per una ristampa dell’articolo vedi Drengson e Inoue 1995.) L’ambientalismo nacque come movimento politico popolare, grass root, negli anni 1960 con la pubblicazione del libro Primavera silenziosa, Silent Spring, di Rachel Carson. Coloro i quali erano già attivi nelle battaglie della conservazione/preservazione vennero affiancati da molte altre persone preoccupate per gli impatti ambientali negativi della moderna tecnologia industriale. Andando indietro nel tempo potremmo considerare come vecchi membri del movimento gli scittori e attivisti Thoreau e Muir, mentre la consapevolezza della nuova corrente è più vicino alla filosofia della saggia conservazione di persone come Gifford Pinchot.

L’articolo di Naess era basato su un intervento che fece a Bucarest nel 1972 alla Conferenza sulla Ricerca del Futuro del Terzo Mondo, Third World Future Research Conference. In quell’intervento Naess discusse il vasto retroterra del movimento ecologico e le sue connessioni col rispetto per la Natura e il valore inerente degli altri esseri viventi. In quanto amante delle montagne che aveva scalato in tutto il mondo, Naess aveva avuto l’opportunità di osservare le azioni politiche e sociali nelle diverse culture. Sia storicamente che nel movimento contemporaneo Naess vide due forme di ambientalismo, non necessariamente incompatibili l’una con l’altra. Una la chiamò “il vasto movimento dell’ecologia profonda”, long-range deepecology movement, l’altra “il movimento ecologista superficiale”. La parola “profondo” si riferiva anche al livello di ragionamento sulle nostre intenzioni e sui nostri valori quando discutiamo dei conflitti ambientali. Il movimento “profondo” riguarda il porsi quelle domande che vanno direttamente alla base dei principi fondamentali. Quello superficiale si ferma prima.

Analizzando comparativamente i movimenti sociali e politici di base, grass root, nella sua struttura ecofilosofica Naessdistingue quattro livelli di ragionamento (vedi la tabella sotto). Durante la formazione dei movimenti culturali trasversaliglobali, si sviluppano delle idee condivise generali che mettono a fuoco il movimento attraverso dei principi piattaforma (questo è il caso di molti movimenti di letteratura, filosofici, sociali, politici, ecc.), così come lo sono i principi di giustizia sociale, o i principi di pace e non violenza, o i principi del movimento dell’ecologia profonda, deep ecology movement (DEM). I principi di questi movimenti emergono dalla base e per questo vengono chiamati grass root movements (come nella tradizione gandhiana), e non sono caratterizzati da un potere gerarchico che va dall’alto al basso.

Lo scopo dell’ecofilosofia è quello di raggiungere una visione totale, completa, della nostra condizione, sia come genere umano umana che come singolo individuo. La completezza comprende l’intero contesto globale, con noi in esso, noi che condividiamo un mondo di diverse culture e di diversi esseri viventi. Ci muoviamo verso una visione totale ponendoci domande profonde – sempre chiedendoci perché – verso norme e condizioni supreme, anche attraverso la formulazione (o l’applicazione) di politiche e azioni. Molto del lavoro culturale integrato viene svolto al livello dei principi della piattaforma, e le nostre opinioni trovano un’ampia convergenza a questo livello che Naess chiama Livello II. Dal questo livello possiamo iniziare impegnandoci in questioni profonde e procedere ad una elaborazione della nostra ecosofia personale, che può basarsi su alcune delle principali filosofie o religioni, come ad esempio il Panteismo o la Cristianità. Questo livello che comprende le filosofie supreme è chiamato Livello I. C’è una diversità considerevole a questo livello. Dai principi del Livello II possiamo sviluppare delle specifiche raccomandazioni e formulazioni politiche, che stanno al Livello III. L’applicazione delle politiche del Livello III porta alle azioni pratiche del Livello IV. Esistono grandi diversità di opinioni a livello delle politiche e ancor di più a livello pratico.

Nel porci domande profonde ci muoviamo verso presupposti e norme supremi [dal livello II al livello I – n.d.T.]. Nel processo di acquisizione e di applicazione ci muoviamo verso un sostegno alla piattaforma e verso politiche di sviluppo ed azioni pratiche [dal livello II ai livelli III e IV – n.d.T]. Questo è un processo continuo di avanti e indietro che mantiene la nostra conoscenza e le nostre azioni in armonia con il mondo che cambia. L’approccio profondo, quindi, diventa evolutivo, cambiando al cambiare delle condizioni naturali. (Per esempio, la “new corporation”  [o comunità] deve impegnarsi in questo movimento di avanti ed indietro e così richiede una completa partecipazione degli impiegati, dei diversi leader e dei decisori). Nei tre movimenti grass root  menzionati prima, i principi sono individuali e internazionali. E’ importante notare che c’è unagrande diversità al livello delle filosofie supreme. Non abbiamo tutti l’obbligo di sottoscrivere le stesse filosofie ecologiche supreme per lavorare assieme per il beneficio del pianeta e delle sue comunità di esseri viventi. Il fronte è molto ampio e ognuno di noi ha dei valori per dare il proprio contributo nella realizzazione di qualità di vita globalmente migliori. Dobbiamo lavorare a diversi e svariati livelli. 

Alan Drengson (Tratto da: The Trumpeter: Journal of Ecosophy, Vol 14, No. 3, Summer 1997, pp. 110-111)

Risponde l’esperto in studio

Ucchequasimidimenticavo. 
Saran venti giorni che su Radio Onde Furlane (qui su Facebook) stanno andando in onda delle conversazioni tra me e il Diretôr Mauro Missana, dei piacevoli botta e risposta sulle tematiche della Cultura digitale. Sui cambiamenti che le innovazioni tecnologiche stanno apportando alla nostra vita quotidiana, in particolare, nella socialità e nelle istituzioni.
Abbiam parlato di Pubblica Amministrazione, di Scuola, dei nuovi modelli di funzionamento dell’editoria e del mondo dell’informazione giornalistica, di digital divide e di potenziamento della partecipazione delle collettività alla pubblica opinione, dell’industria culturale al tempo dell’mp3 e delle webtv.
E di altro, immagino: avevamo registrato sedici interventi di circa dodici minuti l’uno, all’inizio di agosto, che poi sono stati trasmessi da Onde Furlane il venerdì e il sabato mattina, per tutto agosto. Potete ascoltare le ultime puntate in questi giorni, anche in streaming dal sito della radio, verso le 10.30 di mattina.
Poi vedrò di recuperare le registrazioni e magari le metto da qualche parte.
E’ già previsto un ulteriore ciclo di chiacchierate, ne parliamo a metà settembre. La radio è cosa meravigliosa.