Stavo scrivendo, sforzandomi di pensare in un’altra lingua, eppure rimuginavo, inventavo e disponevo parole per un’altra cosa. Qualcosa che riguarda l’Unità d’italia, i miei sentimenti, il poter dire magari tra un po’ di tempo, sotto la spinta di cambiamenti che vedo intorno a me, “Vedi? io l’ho detto e l’ho scritto, prendi questo link”.
Ma prima un paio di brevi premesse.
Innanzitutto, sia ben chiaro a tutti che amo l’italia. Lo scrivo minuscolo da mesi, italia, solo perché in questo momento non è nemmeno all’altezza di essere uno Stato serio tra gli altri. Amo un’italia matta e piena di colori, struggente da strapparmi il cuore, vivace da farmi sorridere sempre. E se mi gioco la retorica, è perché la retorica sui sentimenti è cosa italianissima, dentro una stilistica o strappalacrime o canzonatoria, da generazioni e generazioni.
Una narrazione secolare e tutta italiana che conosco bene, nella lingua e nella letteratura, nelle arti e nella musica e nel teatro, nei mille canovacci di una Commedia dell’Arte che è vita verissima italiana dal bar all’angolo al Palazzo, negli arrotolamenti barocchi e capziosi ma ficcanti di linee intellettuali che han saputo nutrire la storia delle idee di questo pianeta. Nella pizza e nella furberia, nelle peculiarità del vivere di ciascuno dei suoi diversissimi abitanti, nelle linee del paesaggio, nel design e nello stile.
Come seconda cosa, vorrei dire
nuovamente NO ai leghisti, alla loro ignoranza e al loro volersi appropriare delle cose storiche, rinominandole e banalizzandole, e usarle come stendardo della loro battaglia.
Tanto quanto mando vaffa quelli che, ignoranti anch’essi, non sanno contrapporre ai leghisti giusto un paio di argomenti circostanziati, evitando in tal modo di cadere dentro una dialettica “italia sì, italia no, se famo du’ spaghi”, che poi torna tutta a vantaggio dei primi.
Io credo che i tempi per uno Stato italiano, amministrativamente unitario, siano superati.
Vi erano necessità storiche – peraltro secentesche nell’impianto (Francia, Inghilterra) e in seguito pronunciate con la forza rivoluzionaria del fine ‘700… ma qui noi arriviamo sempre dopo, con il Risorgimento – di avere certe conformazioni governative sul territorio, certi sistemi che richiedevano una bacino d’utenza di un certo ordine di grandezza, per innescare certi sentimenti e valori e organizzazioni statali, province e regioni e podestà e prefetti e parlamenti nazionali e tecnologie per la democrazia, nell’inventarsi il modo con cui dare rappresentatività al popolo nell’espressione di sé, nei meccanismi governativi.
Il modello dello Stato che abbiamo è stato pensato secoli fa. Con i postiglioni e i cavalli, con la penna d’oca, parlando francese o veneziano o spagnolo o una delle molte lingue della nostra penisola.
Non credo automaticamente sia ancora il più adeguato.
E forse quel sentimento patriottico, in me debolissimo e nullo se comparato al fanatismo di certi, è stato indebitamente esteso su retoriche che non comprendo, su realtà geografiche semplicemente al di là del mio orizzonte antropologico.
E forse quel sentimento patriottico per una porzione di territorio arbitraria e storicamente mutevole induce pensieri di appartenenza e contrapposizione agli altri in cui non mi riconosco, che non sento vivere in me, e potrebbero se manipolati dare propulsione a concetti bassamente nazionalistici, come il Novecento ci ha mostrato.
Io credo che la dimensione regionale sia maggiormente adeguata oggidì al governo del territorio e all’espressione di sé delle collettività che lo abitano.
Con i massmedia diffusi, con i sistemi di trasporto di merci e persone sviluppati negli ultimi cinquant’anni, possiamo far emergere molta ricchezza narrativa da aree geografiche di superficie molto minore rispetto alle dimensione degli Stati europei, su cui poter innestare più efficienti forme di governo locale, maggiormente adeguate alla specificità dei luoghi e delle genti, più efficaci nel comprendere e nel progettare in modo partecipativo il presente e il futuro dell’abitare su un dato territorio.
Regioni che potrebbero anche essere ridisegnate, sulla base di referendum per l’autodeterminazione, e dar luogo a estensioni geografiche ben diverse, magari con confini (odiosi confini) tracciati in modo meno arbitrario, più
ancorato all’orizzonte antropologico degli abitanti di una certa area locale.
Sto pensando molto semplicemente a un federalismo vero.
Sto pensando abbastanza ai Lander tedeschi, come forma storica realizzata più vicina di altre a un ideale di federalismo reale.
E giusto per collegarmi a un pensiero che ritengo dignitosissimo e tuttora modernissimo, per giunta
recentemente elogiato dallo stesso nostro Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, un ragionamento che definitivamente scacci stolidi spettri leghisti per la sua radicalmente diversa impostazione politica e filosofica, dico espressamente che ho fiducia in un’Europa delle Regioni, in un
federalismo europeo e perché no, mondiale.
Non si sono disposto a tollerare ignoranti di destra e di sinistra che si cimentano con il gioco delle tre carte, nascondendo e camuffando la verità con gesti abili e parole di propaganda interessata, e approfittando dell’altrui ignoranza ridisegnano il significato dei sentimenti dell’abitare e dell’appartenere ai Luoghi.
Sono e rimango cosmopolìta, tutelo e proteggo la diversità culturale umana e le minoranze linguistiche perché ritengo siano la ricchezza della specie umana, tutte senza distinzioni.
Semplicemente dico che vorrei abitare in un mondo fatto di unità amministrative governative locali di taglia inferiore rispetto agli attuali Stati nazionali, in possesso di propri strumenti costituzionali di tipo legislativo giudiziario e esecutivo per gestire il proprio territorio autonomamente, e che rispondono a un’autorità di respiro europeo.
Non penso all’italia, penso agli italiani, e alle possibilità di organizzare meglio, di ottimizzare il loro abitare sulla Penisola.
E libero da pastoie, spero di poter finalmente dire “Viva il centocinquantenario”, per celebrare l’inizio di una fase storica che l’italia doveva necessariamente vivere e attraversare, per prendere maggiormente consapevolezza di sé in contesti geopolitici più ampi, nei sentimenti della propria nazionalità.
Ma senza cristallizzazioni, senza blocchi evolutivi, senza voler irrigidire quello che deve scorrere: il farsi della civiltà, in molteplici forme, lo sperimentarsi, il crescere nel rispetto di tutti.