Ecco, dichiaro ignoranza.
Non è una grossa fatica, finché riesco a rimanere fedele al mio motto personale riguardo l’atteggiamento da tenere nei confronti della conoscenza e del conoscere, ovvero “Vai verso l’ignoto”.
Lavoro con argomenti che non ho studiato a scuola ma ho appreso sul campo, sposto continuamente la mia attenzione su quello che non so, cammino in paludi con le scarpe sbagliate ed inizialmente faccio un sacco di fatica, però ne esco fortificato (ai muscoli delle gambe soprattutto).
Non ho nessuna scienza a cui appoggiarmi, essendo la semiotica nient’altro che una disciplina, un punto di vista, un metodo per guardare proprio lì dove sgorga il senso, dove s’accende la scintilla della significazione.
Poi nelle sfere altissime della cultura planetaria si parla da decenni dell’importanza della multidisciplinarità, e spesso incontro universitari che sono dei cretini specializzati. Cheppalle.
Sei un ingegnere? Prova a ragionar di psicologia cognitiva e di apprendimento per tre anni, con degli insegnanti preparati e motivati. Sei un archeologo? Prova putacaso a “divertirti” per qualche tempo con le nanotecnologie: arricchirai te stesso, l’archeologia, i nanotecnologi ed il mondo intero, perché porterai un punto di vista nuovo in territori prima mai attraversati da persone con simile bagaglio culturale, e acquisterai a tua volta un paio di occhiali che magari (benedetta serendipità) ti permetteranno in seguito di scoprire novità nel giardinetto di casa tua.
Senonché, mi piccavo di essere un buon conoscitore della cultura musicale degli anni sessanta, soprattutto british. Ho persino dato il mio contributo a delle voci sulla wikipedia (magici Zombies).
Anzi, più che limitarmi alla sola musica pop e alle analisi più o meno musicologiche, mi piace investigare il “contorno”, i fenomeni culturali, gli ambienti di crescita degli stili giovanili… sociomusica.
Indagare cosa significa essere teddyboy, mod, freak, grunge, dark, glam, punk, raver non solo negli stilemi musicali, ma anche nell’abbigliamento e nelle idee politiche e nell’atteggiamento dinanzi al mondo. Perché tutti siamo stati giovani, e le idee che aleggiavano nei nostri ambienti di crescita, in cui ci siamo per sorte imbattuti nella nostra adolescenza, diventano cardini fondanti e spesso rimossi della nostra personalità.
E che ci crediate o no tutti noi, ovvero il modo in cui pensiamo il pensabile, il modo in cui siamo stati ribelli a diciassette anni e conformisti a ventisei, è tuttora frutto di idee germogliate negli anni sessanta.
Si è magari aggiunto il “no future” del settantasette come scenario esistenziale, il don’t-believe-the-hype hip-hop degli ottanta come riflessione esplicita sui media, l’accesso a fonti e culture planetarie come nei novanta, le nuove forme di “intimismo elettronico” come in questa decade, ma leggendo i sixties inglesi e americani mi accorgo che si tratta appunto di forme, di nuove vesti e paramenti di contenuti già espressi altrove ed in altri tempi, e che la loro rivisitazione permette il progredire della consapevolezza (per gli adolescenti di ogni tempo, l’iniziale presa di coscienza delle forme di essere al mondo) perché traduce in linguaggi e codici aggiornati i soliti grandi temi delle narrazioni umane, le mitologie ormai pop della nostra cultura occidentale. Amore, destino, solitudine, eroismo, squallore, tradimento… “E’ sempre la stessa canzone che va, la stessa di 1200 anni fa” pseudoreppava Jovanotti prima di essere per fortuna solo Lorenzo.
Perché i punk ballano musica reggae e indossano scarpe creepers con inserti in pelle leopardata? Se vi interessa rispondere a questa domanda, vi consiglio il classico “Sottocultura: il fascino di uno stile innaturale” di Dick Hebdige, Costa e Nolan 1983.
Bene, torno sull’argomento principale.
Ascoltavo Joanna Newsom, una delle grandi scoperte musicali del 2006 (belle cose, bei testi, ma non mi piace), e vedo che gli arrangiamenti sono di Van Dyke Parks, la produzione è di Steve Albini e il mixaggio è di Jim O’Rourke. Però. Guardate Parks in questa foto qui a lato, e ditemi se non sembra un giovanotto di oggi, mentre in realtà l’immagine risale alla prima metà degli anni sessanta.
E’ famoso soprattutto per i lavori con Brian Wilson dei Beach Boys, ma il punto non è questo.
Mi sono chiesto ad un certo punto perché in California a fianco del surf in quegli anni ci fosse questa “scuola” di musicisti e produttori decisamente non-rock, anzi di estrazione orchestrale, acculturati, capaci di badare alle costruzioni armoniche delle canzoni (fatto per me importantissimo, perché le riff-based songs mi stufano presto), portatori di un estetica musicale peculiare. Da dove venivano? Chi erano?
Ecco, ho trovato questo bell’articolo di Fred Cisterna, e ho capito che mi mancava una fetta importantissima di cultura sociomusicale dei sixties. Per dire, adesso anche i Doors mi sembrano molto più chiari, nello spiegarmi quella strana commistione di generi presenti nei loro primi due LP (gli altri dischi, quelli dei Doors blues, sono abbastanza inutili), del perché il batterista si dicesse “venisse dal jazz” (locuzione linguistica odiosa… “sai, Tizio Sempronio viene dal jazz…”, e dove sta andando, per curiosità?) ed il chitarrista avesse una passione per i ritmi caraibici o sudamericani.
Poi surfando sui link della Wikipedia giungo a Jack Nicholson, altro tipico figlio della cultura californiana di quegli anni: mi era giunta una notizia secondo cui sarebbe stato scoperto da Dennis Hopper durante “Easy rider”, poiché fino a quel momento altro non sarebbe stato che un giovane contestatore/capopopolo (po po po, come gli WhiteStripes: trovatevi i loro primi dischi) nei movimenti giovanili universitari della Bassa California, un po’ come un Mario Capanna chiamato a fare per caso l’attore.
Tutto falso: Nicholson ha fatto gavetta come attore e sceneggiatore fin dalla fine degli anni ’50, si è costruito una carriera con le proprie mani, ma soprattutto non sapevo avesse scritto la sceneggiatura assai sperimentale di The Trip, un film del 1966 dichiaratamente allucinogeno con la regìa di Roger Corman, dove gli attori protagonisti sono proprio Peter Fonda e Dennis Hopper.
Come dire: Easy Rider a questo punto mi sembra la versione per famiglie.
Tra il pop orchestrale di Los Angeles e il Trip di Nicholson, mi tocca ora rivedere tutti i miei collegamenti mentali per cercare di dare un senso compiuto ai mille rivoli di quel fiume in piena che è stata la cultura giovanile californiana post-beat, il calderone dove han preso forma gli atteggiamenti innanzitutto mentali di una generazione che ha cambiato veramente il mondo, e di cui noi siamo tuttora figli somigliantissimi.