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Del marketing moderno

– Che lavoro fai?
– Beh, lavoro in un’agenzia pubblicitaria di quelle moderne… ci inventiamo delle campagne di comunicazione per promuovere certi libri, per conto degli editori.
– Il pubblicitario insomma… perché dici moderno?
– Beh, se metti vicino digital e social hai già capito.
C’è questa pagina che si presenta un po’ come un comunicato, un po’ come una presentazione aziendale. Una pagina ponderata, scritta da gente che se ne intende, dove a ogni capoverso vedi e apprezzi il lavoro di lima per raccontare (sinteticamente, professionalmente, tecnicamente, suggestivamente) uno di quei lavori che cinque anni fa non molti intravedevano, e dieci anni fa pochi pensavano potesse esistere nel futuro.
Un servizio di comunicazione virale dedicato al mondo dell’editoria.
Gente che si mette in mezzo tra editori e bookstore, e fa in modo che un titolo della casa editrice venga conversato. “Quel libro è stato conversato abilmente” si dirà in qualche modo un domani.
Ci sono un paio di frasette un po’ roboanti, tenete presente a chi la comunicazione è rivolta, lì dove dice “esponenziale”, a esempio, oppure dove parla di social media massivi (intendendo dire molto frequentati? di massa? lol), ma prima dello stile guardiamo di cosa parla, visto che a me interessa qui sottolineare una di queste cose nuove che appaiono nel mondo connesso.
Le campagne pubblicitarie moderne già da anni non si concentrano più sul prodotto. C’è da costruire un mondo narrativo che si incastri con i memi circolanti in una data sottocultura in un dato momento, e provvedere gambe alle idee affinché queste possano circolare negli ambienti sociali digitali. C’è da capire quali caratteristiche dell’oggetto possano fornire spunti alla sua spreadability, bisogna confezionare un’acconcia veste di racconto, prevedere i flussi imprevedibili del passaparola. Non si tratta quindi solo di favorire la situazione di vendita online, molto del lavoro ovviamente riguarda l’edificazione del contesto, alla luce del quale assumerà senso quel testo, quel messaggio costituito dal singolo libro di cui fare marketing virale.
Interessantissima appunto la Digital Identity Building, dove si tratta di costruire e mantenere “l’immagine dell’editore sulle diverse piattaforme di social media”, usando come grancassa 15 pagine di Facebook e dieci accounts (sic), gestite direttamente dall’agenzia, insieme a quindici account su Twitter e 3 canali YouTube.
Guardiamo i verbi: quali sono le azioni, i servizi che vendo? Creare, catturare, coinvolgere, conversare, collaborare. Perfetto, son le cose da fare in questo social dove abitiamo.
Serve modernità nelle forme di racconto e di interpellazione del destinatario, che viene dipinto come un “pubblico diverso, nomade, trasversale, molto frazionato”, e quindi chi offre queste consulenze viene specularmente connotato dal punto di vista narrativo dal suo proporre (aver le competenze per) una comunicazione “innovativa, interattiva, relazionale, virale, user generated ed esperienziale”.
Abbiamo questo Eroe (questa Agenzia) che si presenta al Re, ovvero alle case editrici, in qualità di Aiutante, e dice di avere competenze (un saper-fare, un poter-fare) per dissodare i terreni sociali, per pettinare i flussi, per innescare passaparola, per costruire situazioni mediatiche che poi tornano utili al programma narrativo del Mandante, ovvero vendere libri.
Ci sono anche testualmente espressi gli strumenti che l’Aiutante utilizzerà per raggiungere il suo scopo, ovvero Social, Buzz, Viral, Guerrilla e Ambient.
Vedete, una volta la gente lavorava molto di più su cose concrete, legno ferro e pietra, e una minoranza campava maneggiando concetti. Oggi, postindustriale e blabla, la maggior parte di noi per lavoro gestisce informazioni, dati, o cose che non posso toccare. E certe avanguardie professionali (che sono sempre esistite, sono quelle “sulla frontiera”) paradossalmente riescono oggi a mettere le mani dove fino a ieri non si pensava di poter arrivare, nella gestione del consenso, nell’illuminare di desiderio certi oggetti materiali, nel progettare lo stile di vita dei personaggi, nel ricavare informazioni e tendenze di collettività ampie, nel tracciare i flussi della pubblica opinione, nel costruire e far circolare valori come la fiducia e la reputazione, nella conversazione connessa e nel passaparola degli ambienti sociali digitali. 
Stiamo osservando in tempo reale, per prove e errori, la nascita di nuovi strumenti capaci di operare su nuovi oggetti culturali, prima mai pertinentizzati da un pensiero riflessivo in quanto né percepiti né forse percepibili. 

Narrazioni di comunità, visioni condivise, scorci di futuro

Ho sete di narrazioni territoriali. Ma di  più: le collettività hanno sete, vogliono abbeverarsi con le rappresentazioni di sé allestite sul mediascape, il paesaggio mediatico.
Riassunto delle puntate precedenti:
  • c’è stato un cambiamento nei technoscape, nei paesaggi tecnologici. Abbiamo tutti per le mani strumenti di espressione nuovi, potenti e raffinati, abitiamo in Rete. E’ un momento aurorale, perché stanno nascendo nuovi format, nuove nicchie e flussi dentro l’ecosistema della conoscenza (fino a ieri biblioteche e quotidiani come imperi costruiti sulla carta, sulla pesantezza; seguiva maturazione dell’opinione pubblica lenta, partecipazione limitata, broadcast ineluttabile)
  • le collettività producono senso vivendo, e lo mostrano nello specchio della letteratura e nelle arti (come fare riflessivo, guarda un po’), tanto quanto nell’urbanistica, o nei modelli economici praticati, nella progettazione della logistica territoriale, e aggiungiamo le possibilità odierne di mostrare dinamicamente in tempo reale i comportamenti delle persone e dei gruppi tramite georeferenzialità e dispositivi connessi ubiqui… risulta oggi facile e semplice darne rappresentazione mediatica adeguata, di tutte ‘ste cose e flussi di persone e idee. Tutto nutre i mediascape, l’insieme degli atti comunicativi, la nuvola del dire di una comunità
  • nei momenti di crisi, conviene avere un serbatoio di possibilità differenti da giocarsi, per meglio adeguarsi al mutato contesto ambientale. Solito parallelo con il dialogo della selezione naturale, e al fatto che siamo tutti mutanti: succedesse qualcosa guarda caso ci sarebbe qualcuno che porta in sé una mutazione fino a quel momento ininfluente, ma che ora potrebbe diventare decisiva per far sopravvivere la specie (sto parlando di sperimentalismo, sì, in ogni settore sociale produttivo e socioculturale, nei format con cui pensiamo e storicamente realizziamo il nostro abitare). Idee per sopravvivere.
  • per potenziare l’efficacia di questo auto-pensarsi delle collettività, costruire contenitori di visioni e di progettazioni sociali, Luoghi partecipativi dove tutti possano esprimere la loro percezione e le loro linee direttrici del desiderio rispetto al futuro del territorio, alla qualità del Ben-stare su di esso come collettività in modo consapevole dell’impronta ecologica e dell’ottimizzazione delle risorse (materia energia e informazione, produzione e distribuzione), all’organizzazione sociale, alla costruzione condivisa di Grandi Narrazioni capaci di dare identità alle comunità locali, per come quele emergono dal calderone della Grande Conversazione, sotto cui abbiamo alzato il fuoco (tecnologie connettive) causando un più rapido rimescolarsi dei contenuti, nella comunicazione
  • ci sarebbe da raccontare come sulla superficie del pentolone si stiano formando aggregazioni di senso imprevedibili, cluster di memi capaci di tessere nuove forme significanti, come isole nei fiumi, luoghi di regolarità nel frattale della pubblica opinione. Non c’è più nessuno (ok, dài, i giornali potrebbero fare molto, se nativamente ripensati) a dirci quali sono gli argomenti importanti, ciò di cui val la pena parlare viene a galla nella Rete.
  • e-Government e e-Democracy non vivono nei pensieri, hanno bisogno di ambienti dove poter depositare e far maturare approcci e metodologie, tematiche e partecipazione
  • c’è di mezzo un aspetto civico del problema, che mi fa pensare che simili Luoghi di elaborazione del sentimento di appartenenza a una collettività (nel senso di aver-cura), i luoghi riflessivi autopoietici, dovrebbero essere pubblici, ovvero appartenere alla collettività. Come cittadini vogliamo che l’amministrazione pubblica renda disponibili piazze e parchi e biblioteche e spazi sociali per il pubblico dibattito e faciliti la circolazione delle opinioni. Poi le idee possono nascere dappertutto, nei caffè o su Facebook, ma là dentro dovrebbero assumere forma organizzata, orientata esplicitamente a costruire nel tempo l’archivio delle narrazioni autodirette di una comunità. Là dentro il ribollire dei punti di vista, delle consultazioni, potrebbe assumere aspetti concreti di promozione territoriale, come proposizione di linee e politiche d’intervento. L’alambicco che distilla.
Dicevo. Di simili Luoghi del “fare identità” territoriali e darne rappresentazione mediatica ne stanno nascendo un po’ ovunque, io stesso sto collaborando per realizzare qualcosa di simile, di cui racconterò più avanti. Gli Urban Center (Torino; Milano, Bologna, altre info) possono essere visti come gangli nervosi per l’elaborazione dei flussi informativi territoriali, gli esperimenti di Urban Experience danno visibilità alle nuove forme dell’abitare e del fruire gli spazi sociali.
A esempio, la Camera di Commercio di Udine ha messo giù un progettone per raccogliere le idee e le visioni della collettività friulana, si chiama Friuli Future Forum, lo trovate descritto anche qui, date una letta.
“L’ambizione è comunicare un progetto che contribuisca a trovare una nuova idea di Friuli. Ricostruiamo il concetto della nostra regione mattone dopo mattone, idea dopo idea, partendo dalle radici culturali e territoriali e individuando i valori di base sui quali poggiare le fondamenta per sostenere i sogni e le aspettative del futuro dei friulani” dicono i due professionisti coinvolti, l’uno più pubblicitario (annusare tendenze sociali e stili mediatici) e l’altro più tecnologo, docente universitario specializzato in location awareness e strumenti per rendere eloquenti le collettività.
E se la questione gira intorno al rendere visibili i flussi partecipativi dei cittadini, a organizzare e e distillare narrazioni centrate sul territorio e la qualità dell’abitare create dagli abitanti stessi, forse servirebbe anche una sorta di agenzia territoriale capace di offrire consulenze ai singoli o alle istituzioni o comunque agli attori sociali per costruire la propria narrazione, il proprio apporto alla Grande Conversazione.
Servirebbero dei Centri per la Narrazione gestiti con professionalità e orientati a progettare format di racconto per le collettività, capaci di fornire soluzioni comunicative adeguate con moderni strumenti di espressione (mappe e geotagging e blog urbani e reti civiche e mediateche e sensori ambientali e internet delle cose e teatri sociali di elaborazione, consultazione e decisione).
E quando le tematiche riguardano il fare civico, queste Agenzie di comunicazione potrebbero tranquillamente essere uno dei servizi offerti alla Cittadinanza da quegli Urban Center di cui parlavo più sopra.
Son dieci anni e più che unendo le mie competenze sulle conversazioni e sui media al mio interesse per la qualità dell’abitare sui territori provo a progettare e allestire community territoriali. Con tutto questo fiorire di ambienti per la socialità aumentata, chissà mai che non possa trovare un lavoro decente.

 

Voglio Carosello sulla webtv

Certo, il claim di GoogleTV ci promette che andremo dritti ai nostri canali preferiti. Qualsiasi essi siano. Tenete presente il punto. E quindi la battaglia sarà da parte dei propositori di contenuto quella di riuscire a essere i preferiti più preferiti degli altri, quelle pagine web che riescono a essere in homepage sul televisore.

Anzi, magari riuscire a sapere quali sono le pagine che milioni di persone mettono in home, per le metriche.

Il fatto è che i broadcaster storici non hanno più il potere di mettere raiuno sull’uno, raidue sul due, e canalecinque sul cinque.

Nella mia homepage di GoogleTV, ci metterei un po’ di bei tumblr, per dire.

E ne approfitto anche per fare il discorso contrario: per cosa pagherei? Perché seguo lui e lei e non altri? Ognuno di noi che abita anche qui dentro vede centinaia di fonti e di notizie e di nuclei narrativi, tutto in un sol giorno. E quello che lo colpisce lo riblogga, da cui il suo lifestreaming.

Quindi ecco emergere un personaggio.

Siccome ognuno di noi potrebbe aver la sorte di essere al posto giusto al momento giusto con in mano qualcosa di connesso, ecco l’occasione.

Ognuno in futuro avrà l’occasione di essere il lifestreaming più seguito, per quindici minuti.

Vediamola come un lavoro del futuro, conquistare l’attenzione, riuscire a vendere il proprio stile, la linea. Che possiamo distinguere nella capacità di rendere leggibile la propria idiosincratica isotopia interpretativa degli eventi (l’orizzonte di senso che ognuno proietta sul testo degli accadimenti, il fil rouge che ciascuno di noi tesse vivendo e leggendo il mondo, ciascuno a modo suo, originale e irripetibile) insieme alla capacità di confezionare il messaggio in uscita in un certo modo, spontaneamente o con arte, e risultare chiaro e distinto nel calderone della conversazione. Un giornale, un giornalista, un blogger, gente che parla. Spero sia finita l’epoca del “guardatemi, sono più cinico di un cane”, c’è un mucchio di bella gente in giro che legge molto, metabolizza, ripropone arricchendo del proprio punto di vista.

E anche lo stile, sì, è una posa da uccidere. Più volte. Pugnalarsi. Ma anche questo è uno stile. Come fregarsene dello stile. Insomma, vediamo di trasformare l’agire in fare.

Il balletto degli eventi

Mantellini segnala un bell’articolo di Vittorio Sabadin sulla Stampa, leggetelo.
L’articolo parla del balletto che avviene tra la Redazione di un giornale online e l’insieme dei lettori. 
A ogni mossa sul piano delle tematiche trattate corrisponde un passo di danza da parte dei fruitori, e viceversa ogni spostamento dell’attenzione corale di questi ultimi modifica la percezione dei redattori riguardo la notiziabilità degli eventi nonché la loro rappresentazione attraverso le forme storiche dell’industria dell’informazione (il concetto stesso di “giornale quotidiano”, il carattere tipografico prescelto, la “prima pagina”, l’organizzazione semantica degli spazi di scrittura, il tipo di relazione tra giornalista e editore). 
Questo balletto, uguale per secoli, oggi è costretto a imparare nuovi passi di danza, perché i lettori non si fanno solo trascinare passivamente, ma interagiscono attivamente con la creazione e la distribuzione delle notizie, costruiscono la propria realtà in modo autonomo con percorsi di lettura personali e idiosincratici, pronunciano pubblicamente commenti e osservazioni che insieme all’atto-degno-di-menzione originale costituiscono il testo completo, l’universo locale di discorso su un determinato argomento o su un comportamento di fruizione.
E sul digitale, posso misurare molte cose.
Mi ha colpito quell’immagine della redazione giornalistica, che alla riunione di primo mattino osserva sui monitor in tempo reale le statistiche di fruizione del sito web giornalistico, potendo facilmente tracciare i trend dei comportamenti dei lettori, la predilizione cangiante per questa o quell’area di contenuti nel corso dell’ultimo mese o dell’ultimo anno.
Pensate a questa comunicazione bidirezionale, dove feedback e messaggio non han più senso forte di differenziazione (non ha senso azione e reazione) perché sul puntuale potrei stabilire una linea cronologica degli eventi, dalla notizia ai commenti e quindi la parola di nuovo ai giornalisti, ma in realtà se solo provo a pensare in termini “ambientali” quello che emerge è il dialogo incessante nel tempo dell’opinione pubblica, il calderone di quello che val la pena sia narrato, una scena dove il pubblico che fino a ieri poteva solo sbraitare o spedire lettere al direttore, ma certo non argomentare dignitosamente, è diventato un autore e un attore a tutti gli effetti.
Di gusti pessimi, peraltro, perché madimmiunpotu a guardare quelle statistiche sui monitor del traffico web pare emerga che il popolino sia soprattutto interessato a puttanatine, boxini morbosi, gossip finto ma comunque flamboyante e bombastico (che parole strane), caratteri cubitali, strilloni e imbonitori.
Qui va a finire, questo il problema evidenziato dall’articolo di Sabadin, che la Redazione segue pedissequamente le aree tematiche più visitate, moltiplicando le percentuali delle puttanate, e quindi si innesca la spirale nera, il gorgo della mediocrità che trascina tutto verso il basso. Il balletto si avvita in un corpo a corpo prevedibilissimo, stereotipato e sguaiato. 
Certo, il ragionamento dice che siccome è tempo di crisi gli editori dell’informazione fanno spallucce alla deontologia professionale, vedono branchi di pesce, buttano la rete a strascico che tira su tutto, usano esche facili per lettori di bocca buona. Così fanno traffico, e si fregiano e ottengono soldi per quei numeri da vantare presso gli inserzionisti, si concentrano sulle tette della sciantosa di turno e di quelle tette raccontano fotograficamente le gesta sui palcoscenici mediatici.
Per una volta, non sto qui a ragionare di cosa si potrebbe fare per migliorare la qualità di vita di una collettività, portandola a leggere e commentare cose più nobili e utili a tutti come l’economia o la politica o i ragionamenti per aumentare il benessere del nostro abitare i territori; per queste cose esiste la Scuola e l’educazione, e sono cambiamenti profondi da concepire in ottica generazionale.
Quello che non si può confutare è la fotografia della società italiana, per come emerge dai flussi di frequentazione e partecipazione al mondo dell’informazione, e stiamo parlando di milioni di persone, delle loro scelte e dei loro comportamenti. 
E’ notorio come in italia, a guardare le percentuali di analfabetismo di ritorno, la propensione a fruire cultura (libri o eventi, cinema o quotidiani) sia ridicolarmente bassa, da vergognarsi, e il cittadino medio italiano è più stupido e ignorante di quanto pensate. Ok.
Mi preoccupo più di questa deriva al peggio da parte dei professionisti, mutuata dai meccanismi profondi dell’ambiente stampa-televisione (broadcast) che però oggi su web non si rivelano adatti, e anzi fanno scorgere in loro l’incapacità di pensare i nuovi Luoghi della socialità e in particolare quelli dell’informazione e della narrazione del mondo in modo adeguato ai tempi e al mutato contesto ecologico.
E quindi il giornale deve parlare di tutto, come se noi frequentassimo solamente l’edicola del paese e avessimo soldi e tempo solo per un quotidiano, dove il supporto cartaceo continua a pre-ordinare la mentalità dei confezionatori di notizie con le sue regole, dove le dinamiche televisive portano ancora l’attenzione alla quantità.
Ma non abitiamo più, noi e i contenuti culturali, in un ambiente dove le risorse sono limitate, e quindi in una economia che strutturalmente precondiziona l’esistenza solamente di un certo numero di attività editoriali, di testate giornalistiche, lasciando al tempo e alle pratiche umane l’individuazione di quel punto di equilibrio tra domanda e offerta di contenuti culturali o riguardanti gli accadimenti. 
Il gradino del cartaceo, ovvero quel salto che separa le parole pronunciate dalla loro diffusione di massa su un supporto più performante della voce, non costituisce più un ostacolo, e scomparendo rende obsoleto il proprio essere una sorta di filtro selezionatore, che nelle cose determina cosa meriti la pubblicazione e cosa possa restare flatus vocis.
Oggi tutto può essere pubblicato, ogni singolo pensiero dell’umanità, ogni chiacchiera ogni conversazione, ogni atto videoripreso, spontaneo o costruito; siamo tutti autori e lettori, il nostro fare contribuisce alla realizzazione collettiva dell’arazzo della società e della socialità, variopinto come mai e sempre cangiante.
E c’è oggi lo spazio per alloggiare tutta questa massa di contenuti, non siamo limitati a qualche migliaio di pagine di giornale. Non abbiamo limite.
Quindi è inutile, come in tempo di carestia dei supporti della conoscenza, che ciascun nodo si senta in dovere di coprire molte aree tematiche, per poi baruffarsi i clienti e ingraziarseli con manovre di basso ventre.
In una visione ecologica, possono esistere diverse realtà, specializzate in differentissime nicchie, e il lettore nelle sue traiettorie di partecipazione mediatica soggiornerà qui e là, nel suo abitare nomade.
Ma una cosa i giornali potrebbero fare, quelli che intendono fare informazione e nutrire l’opinione pubblica in maniera seria e consapevole: togliere tutti i boxini morbosi.

Muori, cagna

Questa schermata l’ho trovata qui, è una nota su FB.

Sia chiaro: non sto soffiando su nessun fuoco, non mi frega nulla segnalare alcunché al pubblico ludibrio, me ne fotto della morbosità, è già stato fatto prima, mi interessa documentare l’umanità con uno screenshot, i giornali nei boxini ci campano giorni, questo o un altro uguale arriverà anche sui tg alla ricerca di fregnacce per imbonire a’ggente, me ne frego anche di lasciare tutti i nomi delle persone come li vede uno che è iscritto a FB perché se mi dicono che in quel bar ci sono un bel po’ di persone che parlano così io prendo la vespa a vado a vedermi lo spettacolo dinanzi a miei occhi esattamente tale e quale a questo, e poi mi fa ridere, ecco. 
Son ragazzini, ma già non capiscono un cazzo. Parlo dei commenti, avevate capito.
Mi piace l’escalation, il montare del livore, l’immaginazione concentrata sulla punizione e l’epiteto. Puzza d’umanità, qui, molto troppa.

Socialità in Rete

Come funziona la socialità in Rete?
Internet ha reso insignificante il concetto di distanza geografica, e gruppi di persone da tutto il pianeta, accomunati dall’interesse per tematiche specifiche, convergono sugli stessi Luoghi digitali e scambiano informazioni e opinioni e costruiscono oggetti culturali da re-immettere nel circuito della comunicazione.
O di converso, teniamo in considerazione anche una comunità locale che prende coscienza di sé, specchiandosi nei paesaggi mediatici che emergono dal proprio ininterrotto produrre comunicazione e contenuti, e che si scopre molto più ricca e variegata grazie alla coralità di voci che ora possono partecipare alla pubblica discussione.
Già da qualche decennio discipline quali la sociologia della comunicazione, la psicologia sociale, l’antropologia provano a illustrare i meccanismi tramite i quali si viene strutturando una forma sociale in una data collettività, i rituali e i cerimoniali, le tribù e i clan, la propaganda e la creazione del consenso, la nascita di tematiche condivise capaci di alimentare l’agenda collettiva, e la loro distribuzione presso i gruppi sociali, di cui spesso abbiam detto conviene darsi una rappresentazione di tipo ecosistemico, partendo a esempio dal modello delle nicchie ecologiche.
La nostra appartenenza a deteminati gruppi sociali e la relativa esposizione a determinati argomenti e punti di vista, la nostra frequentazione di determinate cerchie amicali o professionali costituisce un “filtro” attraverso cui percepiamo il mondo, dando senso agli accadimenti; in Rete avvengono gli stessi identici fenomeni di socialità, partecipiamo a conversazioni nei vari ambienti digitali, maturiamo la nostra opinione sui fatti in un confronto continuo con persone selezionate serendipicamente, di cui apprezziamo la competenza e lo stile.
Galatea ha scritto una riflessione su queste dinamiche sociali in Rete: ora io la incollo qui, ma cliccando qui la leggete direttamente sul suo blog.

Internet, il branco, il villaggio e l’utilità della fantesca globale

Stamattina, sulla Stampa, è apparso un bell’articolo di Ethan Zuckerman, traduttore e attivista della rete di Voci Globali. È un pezzo denso, di cui mi ha colpito però la riflessione riguardante l’apertura e la “chiusura” della rete. Posto che internet è ormai aperta a tutti, dice Zuckerman, e quindi tramite i social network persone di ogni parte del mondo possono entrare velocemente e spontaneamente in contatto le une con le altre, resta però un fatto che si tenda ad aggregarsi in “gruppi” che poi risultano abbastanza chiusi ed impermeabili fra loro: dei “branchi”, li chiama lui, in cui si ritrovano persone con interessi, cultura e provenienza razziale o culturale simile. Il risultato è che fra loro questi gruppi tendano a parlare solo di determinate cose (quelle che interessano loro) e rimanere sordi, anzi non entrare proprio in contatto con tutto il resto. Tanto che se una notizia o un tormentone vengono lanciati in internet all’interno di un determinato gruppo, persino molto numeroso, può addirittura accadere che il resto dell’universo dei navigatori nemmeno se ne accorga, o, se se ne accorge, non sia minimamente in grado di capire di che cosa stiano parlando gli altri.

Trovo l’osservazione di Zuckerman profondamente azzeccata. Internet, come tutti i prodotti dell’uomo, riflette la logica secondo cui è strutturata la società che l’ha prodotta. E la società umana si organizza, dalla tribù al globo, secondo logiche di appartenenza e di cooptazione. Ognuno di noi costruisce attorno a sé, sia nelle rete che nella vita, una cerchia che è il suo punto di riferimento fisso e che contribuisce a definire la sua identità: in sostanza ha un circolo ben definito di “conoscenti” di cui si fida o che frequenta per motivi di lavoro e di contatti sociali. Tutte le informazioni con cui l’individuo entra in contatto sono in un certo senso “filtrate” dalla sua cerchia: o perché gli arrivano indirettamente dai racconti di membri di essa o perché, anche se sono cose che vede succedere di persona, senza apparenti mediazioni, i fatti vengono interpretati attraverso i modelli culturali della cerchia di appartenenza, che determina cosa debba essere considerato “positivo” o “negativo”, “bello” o “brutto”, importate o trascurabile.

La novità di internet, semmai, è rappresentata dalla possibilità di allargare e rendere trasversali o multiple le nostre “cerchie”. Per secoli lo sviluppo del pensiero umano e del talento singolo erano molto vincolati non solo al tempo in cui l’individuo si trovava a vivere, ma dalla sua posizione geografica. In un mondo in cui gli spostamenti erano lunghi e difficili, la cerchia di amici con cui si poteva rimanere in contatto e scambiare idee era forzatamente ridotta a coloro che vivevano vicini. Lo scambio di idee e di informazioni, che è il presupposto per ogni crescita intellettuale, è legato alla creazione di una rete efficiente e veloce. Gli intellettuali hanno sempre costruito “reti” di questo tipo (dal reticolo di monasteri in continuo scambio epistolare del medioevo alle accademie di letterati nei secoli seriori): è impossibile diventare intelligenti se si passa il tempo a conversare solo con citrulli o si possono leggere quattro libri, magari neppure eccelsi. Ma finché non si è avuta la possibilità di una diffusione capillare ed immediata della parola “scritta” lo scambio intellettuale era patrimonio esclusivo di una élite: quella che si poteva spostare per viaggi e convegni, spedirsi lettere e scambiarsi tomi.

Oggi internet (con i social network, i forum, etc.) permette invece anche a persone “normali” di crearsi una propria rete di frequentazioni e conoscenze transnazionali, anche se non ci si può muovere da casa o lo si fa di rado. Resta però il problema, ma questo è un portato naturale, che queste cerchie si “costruiranno” in maniera spontanea cercando coloro che hanno interessi simili ai nostri. Gli appassionati di pesca cercheranno appassionati di pesca dall’altra parte del globo, ma sempre di pesca parleranno.

La logica con cui sono costruiti i social network, in realtà, favorisce l’incontro di chi ti è simile: si legge coloro cui si è concessa l’amicizia e l’accesso alle nostre pagine o thread, quindi a persone che già conosciamo o ci vengono segnalate da altri amici (o da algoritimi pensati per questo) perché hanno interessi comuni a noi. Per questo alcuni gruppi possono essere del tutto impermeabili a notizie che sono propagate al di fuori del gruppo stesso: esistono, sulla rete come nel mondo, delle nicchie, ed alcune sono particolarmente chiuse. Ciò che la rete però permette è quello di gestire più cerchie in contemporanea e in tempo reale. Chi ha esperienza di social sa che, dopo un certo numero di contatti, tutti dividono gli “amici” in liste, determinate sulla base degli interessi specifici e differenti dei vari membri che vengono là inseriti: la lista dei “maniaci” di internet distinta dagli “amici d’infanzia”, i compagni di calcetto divisi da quelli di partito o dai colleghi, e così via. Siccome l’individuo non è mai un monolite, internet permette di gestire contemporaneamente ed in tempo reale comunicazioni con più cerchie costituite da membri con interessi in parte diversi, e legati magari solo dall’avere tutte un contatto con x in comune. Il passaggio di informazioni (modi di dire, trend) sulla rete è garantita da questi individui-ponte, che possono mettere in contatto, casualmente, persone di provenienza ed interessi diversissimi fra loro.

Un tempo l’informazione “generalista” era affidata alla stampa generalista, appunto: uno comprava il giornale al mattino e leggeva un po’ di tutto nella prima pagina, poi approfondiva solo le notizie che gli interessavano, sulla base del proprio carattere, lavoro, formazione o bisogno. L’avvento di servizi specifici come Google News e Allert ha in parte ridotto l’apporto di informazioni generaliste, nel senso che uno può anche scegliere che gli vengano inviate a priori solo alcuni tipi di notizie, e beatamente ignorare il resto. Sui social network, in un certo senso, si è creato naturalmente lo stesso tipo di filto: ricevo twit ed aggiornamenti solo dalle persone che ho preselezionato e che quindi, nel 90% dei casi, parlano di cose che abbiamo in comune. Divengono perciò importanti, sulla rete, ai fini della diffusione dell’informazione, quegli individui che hanno molteplici interessi, molti contatti e in qualche modo partecipano a molte cerchie trasversali. Questi possono permettere che informazioni presenti solo nella cerchia A passino anche alla cerchia B, che, altrimenti, potrebbe bellamente ignorarle. Non necessariamente costoro sono i cosiddetti “guru” del web, o blogstar: anzi, di solito l’autore di un sito o di un blog tende a crearsi una personalità ben riconoscibile, e affrontare quindi solo determinati argomenti. Questi “ponti” fra le cerchie possono essere anche personaggi molto anonimi: basta che la loro rete trasversale di contatti permetta di innescare, per effetto domino, una specie di tam tam in ambienti che solitamente non sono in contatto. Un po’ come la vecchia fantesca del villaggio, che nessuno considerava un personaggio importante, ma, andando di casa in casa, finiva col diffondere in tutti gli strati sociali le novità del giorno. Internet è un villaggio globale. In tutti i sensi.

Dover fare il Fatto Quotidiano

Che strana perorazione, proclama, forma di coinvolgimento, interpellazione diretta, esposizione, annuncio di cooptazione ha pubblicato Il Fatto Quotidiano. A firma di Gomez e Travaglio. Un testo fattitivo, prescrittivo, di quelli impostati sul far-fare qualcosa al destinatario. Qui il link.
Vuole tamtam, partecipazione, opera di diffusione, coinvolgimento nostro personale e dei nostri Luoghi web. Una crociata imposta, per come viene emanata.

Del titolo, lasciate perdere “sbarca sul web”, so nineties, e guardate quel chiedere aiuto, che stabilisce la cornice dell’atto comunicativo, connotandolo. Già abbiamo l’azione, e le posizioni attoriali, dove pescando nell’enciclopedia comune ciascuno di noi si sente coinvolto nel rispondere, come prestiamo attenzione appunto a una esplicita invocazione d’aiuto. Qualcuno è in difficoltà, deve superare una prova, e come puoi non prodigarti. Catturata l’attenzione in quel modo, sei affettivamente preso.

Però poi il testo insiste fortemente sul nostro dovere aiutare (“tutti … devono dare una mano”, nel sottotitolo), pubblicare, alimentare, insomma fare cose. Chi mi chiede aiuto mi impone di farlo, portando l’accento sull’obbligo? Sul mio dover fare? Curioso. Anzi, sul mio dover poter fare, quindi secondo una figura di manipolazione affine all’Intimidazione.
Si potrebbe parlare dello stile con cui la comunicazione è stata redatta, stringato e “concreto” (compreso un berlusconismo come “siamo al lavoro”), spezzettato e operativo.
Poi si ribadisce un “dovrà avere tantissimi visitatori”, e questo dovere viene sostenuto dal valore della sopravvivenza del sito stesso, e anche qui siamo dentro una manipolazione che qualcuno potrebbe definire “ricatto morale”.

Lentamente, un “dobbiamo” diventa un “vogliamo”, e cambia la manovra e la strategia retorica.

“Vogliamo che tutti, ma proprio tutti, sappiano che il nuovo sito de il Fatto Quotidiano sta venendo alla luce”. Qui cambia la figura della manipolazione sul destinatario, si cerca di far leva sul far sapere, ovvero tra la Seduzione e la Provocazione, per come veniamo coinvolti nel nostro volere/dovere sapere.

L’eroe ci chiede di essere suoi aiutanti, brandisce la libertà di informazione come Oggetto di Valore, manipola la nostra coscienza e i nostri affetti (argomenti e richiami “morali”, il tono/stile prescelto), il nostro essere e il nostro fare, con una comunicazione ben specifica.
Ci concede un “se siete disposti a ospitare” banner e elementi di rimando ipertestuale verso il sito de Il Fatto, e qui ci innesca come attori performativi, visto che in seguito alla nostra scelta cosciente e all’azione concreta di ospitare e aiutare diventiamo personalmente promotori dell’iniziativa, ovvero secondo la figura della Tentazione veniamo coinvolti a questo punto nel nostro voler poter fare.

E quindi, tra dichiarazioni esplicite e richiami a universi di discorso sottointesi, il Fatto le prova tutte. Corre su tutto il quadrato (vedi immagine). Cerca in tutti i modi persuasivi, con schiettezza, di renderci attivi nell’aiutarlo.

Tutti quei “ci siamo” iniziali, “lavoriamo”, “vedremo ascolteremo lanceremo”, insomma quel noi che è sempre un io che si riferisce soltanto al personaggio multiplo (la redazione) rappresentato da il Fatto e che parla soltanto di sé, non comprende in realtà il destinatario nel discorso. Lo tiene distinto.

Solo dopo averci circuìto in tutti i modi, instillando ri-orientamenti morali e facendo leva su precisi valori, solo dopo averci costretti nel dover fare, appare un vero Noi interpersonale nel discorso che riesce a includere l’intelocutore in modo collaborativo e rispettoso, scegliendo come verbo modale un poter fare, lì dove dice “Perché l’informazione libera è un bene di tutti e solo tutti assieme possiamo difenderla”.

Uno che chiede aiuto, e fa richieste dettagliate e circostanziate. C’è il richiamo all’Oggetto di Valore, e poi la difesa, la minaccia, l’urgenza morale, la delineatura di un contesto guerrigliero, la chiamata nel coinvolgimento, il dover comportarmi così e cosà.
Chissà se Gomez e Travaglio l’hanno progettata, una simile strategia enunciativa, o se gli è venuta così di getto, essendo loro stessi coinvolti affettivamente nella nascita del nuovo contenitore giornalistico. Mettetevi nei loro panni, capirete tutti quei “dovete dovete dovete”.

Ma non mi piace. Questione di stile, eh. Si può far di meglio, nel motivare la blogosfera e quelli che posseggono e gestiscono spazi web personali di informazione e opinione, confidando maggiormente nella Conversazione, senza quei toni impositivi.

Buzz, privacy, ecologia relazionale

Oggi ne parla anche DeBiase: “La dimensione pubblica è il grande territorio nel quale emergono i materiali di idee e informazioni con i quali si formano le decisioni collettive ed è bellissimo che si allarghi – con i media sociali – al contributo attivo di molte più persone. Ma quelle persone devono poter scegliere che cosa delle loro idee e personalità è pubblico e che cosa è privato. E questo avviene soltanto grazie alla loro consapevolezza.”

Questo perché Buzz ha osato molto. Rende visibili le cerchie sociali basandosi sui contatti frequenti della Gmail, dimodoché tutti possono a partire dal mio profilo venire a conoscenza di chi frequento, e la gente ti giudica a seconda di chi frequenti. Metti che scambi mail con uno zoppo, molti penseranno che il tuo vero nome sia Claudio.

Ma il pensiero della privacy non mi preoccupa, di certo già ora non può più essere normato dall’alto stabilendo la legittimità di utilizzare immagine pubbliche di cose e persone, proprio perché il concetto di pubblico (una piazza, un social network) è radicalmente cambiato. Giustamente, serve consapevolezza. So di essere in pubblico, e agisco di conseguenza: il mio fare e il mio dire sono pubblici, se compiuti in pubblico, e non mi appartengono più.

Quindi Buzz rendendo percepibili le reti relazionali, innazitutto a me stesso, le ha fatte emergere dal calderone ambiguo su cui pensavo di avere magari un certo controllo, e ci obbliga lateralmente a diventare consapevoli. Induce segmentazione nell’indifferenziato. A me spetta decidere quanto voglio far trapelare di me in pubblico. Buzz ci costringe a esplicitare a noi stessi le nicchie ecologiche mentali e operative dentro cui posizioniamo i contatti amicali o professionali, quindi sta svolgendo una funzione educativa, poco da fare, come già Facebook e relativi scandaletti di pubblicazione di materiale inopportuno ci insegnano, e tutti ci siamo affrettati a comprendere le opzioni di privacy permesse dall’ambiente social specifico, dove i progettisti del software lasciano tutto aperto (in fondo, son luoghi pubblici, no?) e a noi spetta decidere quanto chiudere.
Per una volta, un’Etica della responsabilità di stampo nordico, che significa avere consapevolezza delle conseguenze delle nostre azioni, piuttosto che un’Etica mammona molto latina, dove tutto è strettamente regolato e agli utenti visti come adolescenti ribelli non resta che infrangere limiti per divenir soggetti adulti.
Qui non c’entra il senso di Colpa, roba da confessionale cattolico, privato, qui siamo in ambienti sociali, qui quello che funziona è la Vergogna, da espiare in pubblico.

#Buzz

Così, Google l’ha fatto. Parlavo l’altro giorno di dispositivi che rendessero visibili i flussi relazionali, auspicando una reperibilità dei contenuti e dei contesti di enunciazione che andasse oltre il semplice tracciare i link tra le persone, ma fosse in grado di mostrare le reti di affinità, l’alone identitario.

Dice Jeff Jarvis che Google ha fondamentalmente sempre fallito nei suoi tentativi di costruire strumenti che insistessero sulla triade Social, Local e Live.
GoogleBuzz interagisce con le reti sociali cui già apparteniamo, tramite la rilevazione dei contatti dalla mail, da GTalk, dal GReader, da Youtube, dalle condivisioni che operiamo con Twitter e Friendfeed (clicca qui per la tua Cerchia Sociale), via GProfile.
GoogleBuzz reca traccia geotaggata dei propri messaggi, funziona interagendo con GMaps installato sul cellulare, ovvero con Latitude.
GoogleBuzz è flusso vivo di conversazione, anche se a mio parere non c’entra molto con GWave o con Friendfeed, vivendo molto più sulla nuvola che ora chiamerei CrowdCloud, e la nuvola tocca terra (e molti paventano diventi nebbia, cioè confusione) dentro la mia GMail, non dentro una pagina web, e un domani anche dentro l’aggregatore GReader, il che mi pare più pertinente per nutrire la nuvola di contenuti che vadano oltre il ciaociao, qui c’è il sole.
Che l’abbiano messo dentro la mail, non è cosa che viene ben vista. si tratta di invasione di luogo privato, per come la casella di posta viene percepita.
C’è da comprendere come funzioni GoogleVoice, come si intende interfacciare l’eloquente territorio (le segnalazioni anche commerciali dentro GMaps) con le reti sociali, nei flussi di lifestreaming.

Vi dirò: l’idea mi piace. Dobbiamo acquisire competenze sul suo significato e sul suo utilizzo concreto, superare l’impressione di caoticità del condividere “tutto con tutti ovunque sempre” (il mio primo buzz), ma si tratta di una porta verso la status-sfera e oltre indipendente dagli “stabilimenti d’umanità” (Facebook e similia), indifferente ai Luoghi, che ci porta ad abitare direttamente la Rete come nuvola relazionale, senza creare account su socialnetwork, ma semplicemente accedendo alla Grande Conversazione con la nostra googleidentità.

Linko giusto Jarvis su BuzzMachine (un precog), un articolo su TechCrunch che prende le mosse dalle reazioni a Buzz di Buchheit, inventore di GMail e Friendfeed, un altro articolo su TechCrunch dedicato agli aspetti social, i Googlisti, una discussione su Friendfeed.

… what we have been waiting for, da mo’

Ne ho parlato molte volte, ma non ho nessuna voglia né mi piace autolinkarmi: usate il motore qui a fianco, sul blog. Venite a trovarmi. Parole chiave come websocialità, tecnologia tracciante, l’emergere e la visibilità delle reti sociali, prossemica digitale, abitanza… ecco, cercate “blogroll” e troverete dei nuclei di ragionamento pertinenti.

Perché nei blog, primi Luoghi conversazionali identitariamente connotati, i blogroll erano le boe di segnalazione delle reti sociali di partecipazione, erano cotesto che provvedevano contesto, legittimamente rientravano nell’interpretazione degli scritti e del loro autore.
L’elenco dei blog seguiti delineava conseguentemente la nostra appartenenza a determinati cerchi di affinità tematica o stilistica, permettendo in chi ci leggeva di raffigurarsi la nuvola di socialità digitale dove collocarci. Nasceva la percezione di un ecosistema, nicchie e habitat, come da sempre l’umanità è fatta di gruppi che si intersecano, e una volta bisognava essere un gruppo grande per avere la forza di diventare visibili (costruire torri, fondare partiti politici).
Ma quei blogroll erano espressione della nostra volontà di dare immagine della nostra nicchia ecologica, erano segnaletica negoziata e patteggiata nello scambio link, erano frutto di frequentazione assidua e duratura di altri blog, quando non c’erano i feed, non c’erano aggregatori automatici, bisognava recarsi di persona fin dai nostri a mici e andare a trovarli a casa loro, insomma era tutto romanticamente unopuntozero, e saper mettere un
al posto giusto ti salvava tutta la grafica sbilenca.

Poi, sappiamo, ci fu la grande esplosione del web sociale, di cui i blog sono primissima espressione grazie a quel bottone “Commenti” che abilita il dialogo; un blog con i commenti chiusi non è considerato un blog nell’accezione comune, ma una pagina di espressione personale, quando i blog erano ancora web-log, senza scintille di socialità. Peraltro credo che le grammatiche della socialità allora sancite (esistevano da prima, alla base ci sono i valori diffusi della condivisione e dell’orizzontalità del web stesso) dai blog facciano tuttora sentire il loro effetto sulla conversazione in Rete, tant’è che in giro ci sono guerricciole tra chi vorrebbe rimanere vicino a quegli stili comunicativi, e chi invece formatosi già dentro i social network pratica differenti approcci alla conversazione online, adotta diversi atteggiamenti rispetto a esempio alla necessità di provvedere contenuti articolati, di provare a fornire apporti originali, di aver cura degli spazi interpersonali al fine di offrire ospitalità e garantire apertura al dialogo.
Non che questo oggi non avvenga, ma i barbari hanno il loro stile, tutto qui. Nuove forme di civiltà nasceranno, perché siamo sempre dentro un dialogo tra le esigenze di espressione personale, strumenti per comunicare, e ambienti sociali dove una innovazione tecnologica o una modificazione minima dei comportamenti induce cambiamenti negli altri componenti e quindi nell’intero ecosistema. Chi per primo ha colonizzato questi Luoghi antropici digitali, acquisendo autorevolezza agli occhi degli altri per la propria capacità di aver saputo individuare e abitare ben arredandola una precisa nicchia conversazionale, si trova un po’ a disagio ora che tutto sta cambiando in direzione di una socialità talmente ampia e esplosa da non poter essere inquadrata e governata con un semplice blogroll.

Il problema è la visibilità ovvero la percezione delle reti sociali digitali, dicevo.
Il blogroll era un segno (un sintomo, per la precisione, in quanto segno “fisicamente” connesso con ciò che era da riportare) della mia rete sociale, ma con l’esplosione dei Luoghi digitali abitati quali communities, stabilimenti di umanità come i socialnetwork planetarii, gli ambienti di lifestreaming, con milioni di nuove persone che accedono al web e con il moltiplicarsi del mio dire in decine di discussioni e posti diversi, come tenere traccia della mia partecipazione alla Grande Conversazione, come riuscire a avere una rappresentazione adeguata della mia identità sociale, come poter indagare le reti relazionali su web? Come si propagano le idee?
Teniamo presente che un mucchio di gente è interessatissima a questa cose, sociologi e psicologi e webantropologi, microinterazionisti, analisti conversazionali dei social media, professionisti del marketing attenti alle profilature degli utenti e ai loro comportamenti più o meno nomadi o stanziali, giornalisti, animatori di communities ludiche o professionali, designer di software per dispositivi mobili connessi, operatori dell’industria culturale consapevoli del valore odierno del passaparola e del virale e della disintermediazione, economisti e pedagogisti e formatori, progettisti della pianificazione territoriale e delle nuove forme urbanistiche.

Beh, figuratevi, ci han sempre provato a costruire queste rappresentazioni della socialità online. Classifiche di blog che emergevano da algoritmi per il calcolo della notorietà fondati su analisi dei link in ingresso e in uscita, dei click effettuati, rimandi su rimandi intertestuali da organizzare magari graficamente per meglio comprendere a colpo d’occhio l’intersecarsi delle galassie conversazionali, troppo complesse per essere descritte.

In ordine di tempo, spetta a Vincenzo Cosenza aka Vincos l’ultimo tentativo nell’aver provato a rendere visibili le reti sociali digitali, realizzando una buona mappa della blogosfera e affini con strumenti specifici per l’analisi di “strutture di comunità”. Oltre alla rappresentazione quantitativa offerta dal numero dei collegamenti, in grado comunque di far emergere i maggiori hub della Rete italiana, Vincenzo sta curando la pubblicazione di ulteriori post in cui prendere in considerazione i “naturali” raggruppamenti dei blog analizzati secondo cluster capaci di mostrare appunto le affinità tematiche.
In realtà, come facevo parlando di tecnologie traccianti, a me interesserebbe avere strumenti per poter percepire le nebulose della partecipazione, poter raffigurare i commenti e gli interventi ovunque essi appaiano, che potessero mostrare il mio abitare attivo e le intersezioni con persone e gruppi.

Vi è poi un’altra possibilità di analisi, per l’emersione delle reti sociali a cui partecipiamo. Ne parlavo anche di questo, cercate Connect su in alto, quando qualche mese fa sono comparsi dei widget (Google Friend Connect, Google Profile, Facebook Connect) da mettere o da sottoscrivere qui e là sui nostri luoghi di frequentazione.
Google deve averli fatti un po’ girare, e questi dispositivi cominciano a dare dei frutti, permettendo di cogliere la cerchia sociale dentro cui sguazziamo. Ma si può fare decisamente di meglio.

Internet per la pace?

Ora, c’è in giro questa proposta di candidare Internet al Nobel per la Pace del 2010. L’idea è promossa da Wired USA GB e Italia, vede numerosi sottoscrittori tra cui appunto un premio Nobel, personalità mondiali e in Italia tra gli altri Umberto Veronesi e Giorgio Armani, grosse aziende commerciali come Sony Ericsson, Tiscali, Fineco, Fastweb, Microsoft Italia, Telecom Italia, Unendo Energia, Vodafone Italia, Citroën e H3G.
All’indirizzo internetforpeace.org trovate il sito di riferimento, se volete potete firmare per manifestare il vostro sostegno all’iniziativa.

A me l’idea non piace.
Non mi piace la sua genesi commerciale: la scintilla delle buone idee umanitarie può certo venire anche alle aziende, intendiamoci, le quali però in questi casi creano delle fondazioni con organi rappresentativi e amministrativi super partes, ovvero degli enti morali da eventualmente sovvenzionare collettivamente per la promozione di una buona causa.
Non mi piace la scommessa su Internet in quanto strumento di pace, perché sappiamo che gli strumenti sono neutri, e il risvolto etico dipende dall’uso che le persone (e le multinazionali, e le lobby, e i governi) ne faranno nei prossimi anni. Nel caso di governi e aziende, stiamo parlando di persone che da pochissimo tempo si occupano “ufficialmente” di questi nostri territori digitali spesso per regolamentare e normare cose che non capiscono ma che avvertono come pericolose, e si muovono sulla scorta di mappe sbagliate, mutuate dalla comprensione dirigistica o mercantile dei massmedia tradizionali del Novecento, senza la cultura abitativa basata su valori di condivisione paritetica, apertura, disintermediazione, conversazione.
Non mi piace l’idea che si premi lo strumento stesso, o se volete l’ambiente: in quanto tecnologia abilitante, quelle che vanno premiate sono le persone che hanno saputo promuovere appunto lo sviluppo del Web in una direzione etica, quelli che qui dentro hanno lavorato per migliorare la qualità del nostro Ben-Stare su questo pianeta. Se volete premiate Berners-Lee in quanto simbolo, o meglio ancora venga dato collettivamente il premio alle cento o mille personalità che hanno costruito tecnicamente e umanisticamente questi Luoghi digitali negli ultimi quarant’anni, con un lavoro spesso oscuro e misconosciuto.
Oppure che il Nobel venga dato (in tal modo aiutandola: ci vorrebbero stanziamenti governativi promossi dall’ONU, a mio parere, per lo 0,02 del PIL di ogni nazione mondiale) a Wikipedia, la quale incarna nella propria filosofia e nel proprio operato l’idea di una libera circolazione delle idee (e potrebbe fare anche meglio).

Quello che mi piace sono le parole che hanno scelto per raccontare la proposta di Internet per la Pace, perché colgono il punto (e i copywriter sanno fare il loro lavoro).

Internet per la Pace
Abbiamo finalmente capito che Internet è molto di più di una rete di computer. E’ un intreccio infinito di persone. Uomini e donne, a tutte le latitudini, si connettono tra loro, grazie alla più grande interfaccia sociale mai conosciuta dall’umanità.
La cultura digitale ha creato le fondamenta per un nuovo tipo di società.
E questa società sta promuovendo il dialogo, il confronto e il mutuo accordo attraverso la comunicazione.
Perché da sempre la democrazia germoglia dove c’è apertura, accoglienza, discussione e partecipazione. E da sempre l’incontro con l’altro è l’antidoto più efficace all’odio e al conflitto.
Ecco perché Internet è strumento di pace.
Ecco perché ciascuno di noi in rete può essere un seme di non-violenza.
Ecco perché la rete merita il prossimo Nobel per la Pace.
E sarà un Nobel dato anche a ciascuno di noi.

Identità digitale, socialità in rete, progettazione di ambienti

L’aula scolastica è l’ambiente dove ha luogo la situazione sociale di apprendimento, e non è un luogo neutro. L’arredamento, la disponibilità di supporti alla didattica, perfino il colore diverso della tinteggiatura delle pareti potrebbe modificare nei partecipanti la percezione dei flussi comunicativi gruppali tramite cui avviene apprendimento. Facebook non è uno strumento, è un ambiente. Non è certamente neutro, non è trasparente, e non è il più indicato per attività didattiche. Non è nemmeno un luogo democratico. Quale messaggio di educazione alla cittadinanza digitale ‘passerebbe’ agli allievi? Dov’è la capacità critica degli insegnanti, nel valutare innanzitutto gli stessi (oggetti, parole, libri, strumenti, situazioni, ambienti) supporti alla conoscenza?

Ok, dopo aver reiterato i miei dubbi per le attività didattiche che certi insegnanti (persone che sono arrivate in Rete ieri, evidentemente, e si comportano come bambini in un negozio di giocattoli) svolgono dentro Facebook, procedo con una di quelle liste di segnalazioni che talvolta metto giù per prendermi degli appunti.

Avete presente quando si dice che il web è un posto caldo, fatto di relazioni? Ne parlava il buon Livraghi anni e anni fa. Beh, siccome il web moderno è definito social web, ecco che un tot di sociologi e antropologi e social designer e media strategist e narratologi specializzati nelle dinamiche affettive delle conversazioni e delle strategie identitarie dei gruppi (ehm) stanno provando a individuare le peculiarità delle nuove forme di socialità su web.
Ad esempio, visto che il passaparola è fondamentale per l’evoluzione della specie umana, quando mi serve qualcosa a chi posso chiedere? Ecco uno schemino per una esplicitazione delle competenze digitali secondo una sorta di prossemica sociale.

L’altro giorno dovevo augurare buon compleanno a un tipo. La domanda era: dove? Si tratta di una mia conoscenza di tipo professionale, ma abbiamo condiviso anche momenti informali con buon feeling interpersonale. Telefonargli a casa, telefonargli al cellulare, sms, facebook, altri social network, strumenti di lifestreaming tipo Friendfeed, mail? In occasione dei rituali più strutturati, la competenza sulla scelta del mezzo e sul tono da tenere risulta decisiva, perché in quei casi la situazione comunicativa dice ben più del messaggio stesso. Non è importante cosa si dice agli sposi o a un funerale, le frasi sono sempre quelle, assai più importante è compredere la grammatica dei tempi e dei modi, per evitare gaffe. Codici, sissignori. Possedere i codici interpretativi della circostanza e delle aspettative altrui, secondo cultura di appartenenza.
Nel caso di ambienti online, queste diventano appunto competenze digitali, che non c’entrano nulla con l’alfabetizzazione informatica, tanto quanto – vecchio parallelo – saper come funziona un motore quattrotempi o come si cambiano le marce (cultura tecnologica, consapevolezza dell’interfaccia) in un’automobile ha poco a che fare con il sapersi comportare in autostrada.
Nel mio caso personale, dovendo anche per lavoro portare in superficie queste grammatiche di socialità digitale inespresse che molti di noi dopo molti anni in rete possiedono senza saperlo, sono riuscito ad appoggiarmi a dei ragionamenti per stabilire quale fosse il giusto media da utilizzare.
Per rifarmi al caso degli insegnanti sopraespresso, non sono sicuro della loro capacità di far chiarezza in se stessi rispetto all’adeguatezza degli ambienti di socialnetworking, soprattutto in relazione alla specificità della didattica e dell’organizzazione scolastica.

Piercesare Rivoltella offre sempre riflessioni interessanti: qui su Medialog ragiona su autonomia e narrazione, in occasione di un seminario dedicato a “Media, storia, cittadinanza”. In particolare, Rivoltella organizza il suo pensiero sulle forme della socialità digitale intorno a tre coppie di termini: sfera pubblica / sfera privata, apprendimento insegnato / apprendimento non insegnato, autonomia / eteronomia.
Sempre su Medialog, in aprile, un bel post provava a “riflettere sulla necessità di dare risposte da parte della scuola agli aspetti che riguardano l’uso sociale dei nuovi media. Tra i tanti, l’economia dell’attenzione che essi comportano (diversa da quella implicata dalel forme più convenzionali di comunicazione) e la pluricollocazione nello spazio e nel tempo dei soggetti”. Interrogandosi sul rapporto esistente nuovi media, educazione e cittadinanza, Rivoltella descrive tre cornici: il frame alfabetico; il frame critico; il frame autoriale. Tre approcci differenti (ma da intendersi forse come sfaccettature della stessa realtà) da tenere in considerazione per una scuola che intenda far ragionare le nuove generazioni sulla partecipazione alle forme di cittadinanza digitale, che va da sé non può essere disgiunta da una seria Media Education.

Ragionando di identità personale, ecco un articolo di Luciano Floridi da “Philosophy of information”

“Who are you online?” is a question with enormous practical implications, and yet, crucially, individuals as well as groups seem to lack a clear, conceptual understanding of who they are in the infosphere and what it means to be an ethically responsible informational agent online.

Qui trovate invece qualcosa per ragionare di integrazione tra network di sensori e network sociali, per meglio provvedere informazioni di contesto. Stiamo già parlando di socialità dentro la Internet delle cose (vedi anche qui e qui per argomenti attinenti).

La Microsoft ci racconta dell’utilizzo di tecnologia per i mercati emergenti: “The research in this group consists of both technical and social-science research. We do work in the areas of ethnography, sociology, political science, and economics, all of which help understand the social context of technology, and we also do technical research in hardware and software to devise solutions that are designed for emerging and underserved markets, both in rural and urban environments.”
Ad esempio, coinvolgere agricoltori in progetti di educazione informale alle tecniche di coltivazione mediante l’utilizzo di video digitale; usare interfacce utente di tipo non testuale, per popolazioni non alfabetizzate, elaborando con supporto di studi etnografici alcuni principi per il design; studiare pc multi-utente; creare reti sociali tra microimprese; avviare interventi di miglioramento in campo sanitario, supportati da utilizzi avanzati di tecnologia a basso costo.

Molte delle riflessioni riguardano la centralità di una progettazione (delle reti informatiche, delle interfacce, dei luoghi di comunicazione pubblica per imprese o pubbliche amministrazioni, delle organizzazioni lavorative, delle architetture di informazioni) che sia in grado di porre l’utente al centro dell’approccio speculativo. Anzi, qui non si tratta più di progettare l’interazione con l’utente, ma proprio di ragionare sulla progettazione dell’esperienza dell’utente, quella che in gergo viene detta UX, ovvero User Experience, l’nsieme dato dalle componenti cognitive e patemiche nella “convergenza tra design digitale e industrial design, tra hardware e software, tra applicazioni e servizi, che a volte sfocia perfino nella progettazione degli spazi (interni ed esterni) in cui l’esperienza avviene. In questo caso la sfida più grossa è quella della multicanalità e della multidimensionalità dell’esperienza, e di quelle che Joel Grossman chiama “esperienze ponte”. Tutto questo lo trovate su questa pagina di UXmagazine.

Cosa vuol dire progettare l’esperienza utente? Ci sono tante risposte. Storicamente è un’attività strettamente connessa allo User Centered Design, da cui ha tratto filosofia di base, metodi e strumenti. Qualcuno la definisce mettendo insieme le competenze o gli ambiti disciplinari che concorrono al progetto (Steve Psomas), oppure elencando cosa non è. Qualche anno fa Peter Morville propose un modello con sette facce che descrivono le qualità dell’esperienza utente . Più recentemente Nathan Shredroff ha proposto un modello simile basato su sei dimensioni.

In realtà, in tempo di socialnetwork, qualcuno sta giustamente pensando di passare da un “user-centered experience design” a un “group-centered experience design”, proprio perché appare sempre più chiaro (per via dell’emergere alla visibilità di questi processi finora immersi nella complessità, grazie ai socialcosi) che le linee dei comportamenti sociali digitali – il marketing virale, la diffusione dei memi, i meccanismi del passaparola, la status-sfera, la folksonomia degli oggetti culturali di qualità, le reti relazionali umane – dipendono dalle dinamiche dei gruppi online, dalla loro capacità di essere organizzatori di senso, o banalmente trend-setter, in grado poi di connotare con la loro sanzione esplicita, positiva o negativa, una configurazione riconoscibile delle conversazioni online con una veste di “accettabilità” o di “novità” o di “sei out se non sai/fai questo o quello”. Per dire, il meccanismo in Facebook è riconoscibilissimo, nella circolazione delle appartenenze ai gruppi e nei dispositivi di condivisione delle informazioni, anche se viene persa la significatività specifica a causa del calderone in cui tutto viene riversato, della cornice onnivora che vampirizza il senso delle singole discussioni, livellandole verso il basso (il famoso cazzeggio).

Qui su Ibridazioni (ne parla anche con buoni esempi Alberto Mucignat) c’è una proposta di riflessione (un bel documento da scaricare) sulla progettazione basata sull’esperienza gruppale, a partire da un design di tipo motivazionale, fondato quindi sugli utenti e non sulle piattaforme, ad esempio per avviare ambienti sociali per le organizzazioni lavorative:

La nostra proposta metodologica si fonda su quattro concetti chiave:
1. Bisogni Funzionali: gli obiettivi di progettazione rivisti in chiave di necessità.
2. Usabilità Sociale: l’usabilità rivista in dinamica sociale (partendo dalla definizione di Nielsen).
3. Motivazioni Relazionali: il concetto di motivazione rivisto in chiave relazionale (one-to-one e sociale).
4. Flusso di Attività Circadiano: ovvero le attività abituali delle persone durante la giornata.

Fra queste, le componenti caratterizzanti sono, come intuibile, Usabilità Sociale e ancora più Motivazioni Relazionali. La prima definisce quattro proprietà RICE: Relazioni interpersonali, Identità, Comunicazione ed Emergenza dei gruppi, mentre la seconda quattro motivazioni CECA: Competizione, Eccellenza, Curiosità, Appartenenza.

Il Design Motivazionale si applica sia ai Sistemi a Social Newtwork presenti nel Web che alle Intranet e Community Aziendali che vogliono sfruttare le nuove prassi collaborative che si sono evolute nel Web 2.0 (l’ormai nota Enterprise 2.0).

I ragionamenti sulla condivisione della conoscenza nelle organizzazioni aziendali (Enterprise 2.0) sono certo fondamentali, ne parla anche RobinGood qui, dove la Torre (gerarchia e verticalità) incontra la Nuvola del bottom up e delle relazioni orizzontali.

Putting People First riporta l’attenzione sul service design, grazie alla segnalazione di un articolo scientifico di Daniela Sangiorgi, dove si prova a ristabilire una prospettiva basata sulla considerazione dell’interfaccia (da intendere come l’intera situazione dove l’esperienza ha luogo), rispetto ai “prodotti” di un’attività di design, nella definizione di servizi, dove soggetti azioni norme ruoli e artefatti vanno tutti considerati senza troppo spezzettare lo sguardo, per una comprensione più ampia dei fenomeni, e soprattutto in ottica groupware.

Alla base di molti approcci scientifici recenti allo studio delle socialità in Rete e della human-computer interaction (qui il link per il blog di Luca Chittaro – direttore dell’HCI Lab dell’Università di Udine – su Nova100 ilSole24ore, vi è indubbiamente quella che viene definita “Activity theory” (vedi Wikipedia)

Activity theory is a psychological meta-theory, paradigm, or framework, with its roots in the Soviet psychologist Vygotsky’s cultural-historical psychology. Its founders were Alexei N. Leont’ev (1903-1979), and Sergei Rubinshtein (1889-1960) who sought to understand human activities as complex, socially situated phenomena and go beyond paradigms of psychoanalysis and behaviorism. It became one of the major psychological approaches in the former USSR, being widely used in both theoretical and applied psychology, in areas such as education, training, ergonomics, and work psychology [1]. Activity theory theorizes that when individuals engage and interact with their environment, production of tools results. These tools are “exteriorized” forms of mental processes, and as these mental processes are manifested in tools, they become more readily accessible and communicable to other people, thereafter becoming useful for social interaction.

Ora metto un paio di fotografie. Si tratta di anziani in casa di riposo che usano la Wii Nintendo.
Ne trovate altre qui: occhio che è un sito che contiene anche robe pornelle :)

Facebook, PA, il Garante della privacy e gli ambienti sociali.

Recentemente in Friuli Venezia Giulia la Pubblica Amministrazione regionale (politicamente schierata a destra) ha proibito la navigazione su Facebook dei propri dipendenti, impedendone tecnicamente l’accesso dai computer degli uffici.
La Provincia di Udine (politicamente schierata a destra) dal canto suo non ha mai avuto simili problemi, avendo sempre inibito pesantemente la navigazione libera sulla Rete durante l’orario di lavoro.
Il Comune di Udine (politicamente schierato a sinistra) invece lascia completamente libero l’accesso a Internet, avendo fiducia nei propri impiegati e considerando la frequentazione della Rete come un’opportunità di auto-formazione alla socialità digitale, nonché come concreta risorsa professionale. Inoltre, i sistemi di valutazione non segnalano alcuna flessione negativa del rendimento lavorativo dei dipendenti comunali (intervista sul Gazzettino Udine del 16 maggio all’assessore Paolo Coppola).

Proibire non è una soluzione duratura.
Domani nasceranno altri socialnetwork o situazioni simili, e altri problemi si presenteranno, visto che non viene presa in considerazione né la grammatica specifica della socialità online dentro i nuovi ambienti digitali, né la stessa Internet viene compresa nella sua natura tecnica e quindi nelle nuove potenzialità offerte alla Società della Conoscenza, in cui tutti noi viviamo.

Pochi giorni fa, sempre su Facebook, sono state pubblicate da un’incauta infermiera dell’Ospedale di Udine delle fotografie che ritraggono normali momenti lavorativi in corsia, con i medici in posa vicino a dei pazienti, ledendo sicuramente il diritto alla privacy di questi ultimi, impossibilitati a firmare liberatorie.
L’infermiera era in buona fede, non credeva che le fotografie potessero essere viste da qualcuno esterno alla propria rete digitale di amicizie (in realtà quelle foto non potrebbero essere nemmeno essere affisse su una bacheca di sughero nell’atrio dell’Ospedale, né mostrate a nessuno nel proprio salotto senza ledere il diritto alla privacy dei soggetti ritratti), non aveva adeguatamente impostato le opzioni di pubblicazione e di condivisione dei propri materiali, ripresi poi da altri e quindi resi disponibili a tutti.

Il problema qui è la mancanza di educazione ai comportamenti da tenere nei Luoghi di socialità digitale, e purtroppo le stesse sensate indicazioni del Garante della privacy che trovate in apertura di questo post non sono affatto rese note alla popolazione, non sono illustrate a scuola o sugli ambienti di lavoro, né mostrate a chi si iscrive ai socialnetwork.

Educare è una soluzione duratura.
L’educazione alle nuove grammatiche dell’abitare digitale permette l’instaurarsi in noi di punti di vista in grado di prendere in considerazione anche eventi futuri non ancora immaginabili, permette di sviluppare competenze, in questo caso di cittadinanza digitale, che poggiano sulla consapevolezza delle persone rispetto all’adeguatezza dei comportamenti nei Luoghi pubblici.

Qui sotto trovate questa mia posizione espressa sul Gazzettino Udine 16 maggio, in seguito a intervista telefonica fattami da Lorenzo Marchiori.

Fin qui, stavamo scherzando

Siete pronti, Siete caldi? Anch’io! (cit.)

Sono ormai anni che parliamo del web come Grande Conversazione, ma in queste ultime ore sta veramente esplodendo il giocattolo. Tutto diventa flusso, tutte le piattaforme stanno arredando i propri salotti pubblici o privati con dispositivi di lifestreaming socializzato in tempo reale, muovendoci in giro in Rete o sul mondo tramite cellulare avremo sempre con noi amici o sconosciuti che potranno commentare il loro/nostro fare e inoltrarlo ovunque.
Youtube vi permette di socializzare tramite flussi, Facebook si twitterizza, FriendFeed diventa un posticino dove si vengono finalmente a conoscere gli stili dialogici conversazionali dei grossi nomi della blogosfera italiana – tono prevalente adottato: “regazzi’, fatte da parte”, sintomo forse di infantilismo dialettico mai maturato nel confronto interpersonale dentro strumenti sincroni, fossero anche le chat su IRC di dieci anni fa.
Insomma, ne vedremo delle belle, come al solito, come ogni sei mesi la Rete ci fa dire dinanzi alle novità. E le novità saranno tutte robe sociali e chiacchierose, nei prossimi, va da sé. Lì c’è la bellezza, e lì molti pensano ci sia anche il business.
Munitevi di strumenti per restare sintonizzati, aggregatori identitarii di flussi personali, ambienti per racimolare e radunare quello che si dice e si fa in giro, su cui volete mantenere la presa su ciò che scorre. Questa è tutta roba liquidissima, rapida, e purtroppo non lascia traccia stabile, nemmeno come innesco per approfondimenti successivi. Tecnologie traccianti, sì, ne parlavo qui e qui.

Lavorare su Facebook (anche per insegnanti)

Rimango fermo sulle mie idee: in Rete esistono Luoghi migliori di Facebook per provare a fare didattica online, specificamente disegnati per le esigenze degli insegnanti e degli studenti, ovvero pensati nativamente come ambienti di apprendimento.

Sto parlando di ambienti 2.0, totalmente web-based – l’unico software necessario per la partecipazione è costituito dal browser – ed escludo per seguire il filo del ragionamento quegli ambienti ad esempio di e-learning come Moodle, che richiedono di essere installati su un proprio spazio web acquistato presso un provider, configurati e amministrati anche tecnicamente da parte nostra. In questi giorni si vocifera di una peraltro lungamente attesa integrazione tra Moodle e GoogleApps, che riuscirebbe a rompere l’esclusività e la percezione di Luogo conchiuso che caratterizza Moodle, aprendolo ai flussi da e verso il web, permettendo di arredare ad esempio l’ambiente di apprendimento scolastico (ogni scuola dovrebbe offrire “spazi attrezzati” su qualche proprio dominio) con le produzioni documentali che normalmente alloggiamo sui siti specializzati nell’ospitare video o presentazioni mutlimediali.

Perché credo che sia buona cosa che gli insegnanti abbiano comunque i loro molteplici luoghi personali di pubblicazione su web (vedi PLE Personale Learning Environment), da riproporre e linkare dentro gli ambienti di apprendimento reticolari, piuttosto che svolgere la loro attività esclusivamente dentro questi ultimi, senza che il loro fare risulti visibile e condivisibile all’esterno.

Tralascio anche le considerazioni di tipo “etico” sull’utilizzo di Facebook, se siete interessati ho provato a parlarne qui e qui.

Ogni insegnante, oppure ogni classe, potrebbe predisporre un proprio ambiente di social networking usando Ning (anche Eelg è piattaforma simpatica, di quelle però da scaricare e installare come Moodle), dove grazie alle tecnologie di tracciamento offerte dai feed RSS e alle finestre di visibilità widget da allestire sulle proprie pagine sul socialnetwork risulterebbe facile far confluire tutta la produzione documentale elaborata dal gruppo classe e altrove allocata, e insieme provvedere strumenti per la valutazione della comprensione da parte dei discenti, quali forum e bacheche specifiche per le discussioni corali sulle tematiche proposte dagli insegnanti.

Avendo le proprie presentazioni o documenti .doc .pdf su Slideshare o su Scribd, i propri video su YouTube o su Vimeo, incastrando video e presentazioni con Zentation, mostrando le vostre foto su Flickr, lavorando attivamente sulle mappe satellitari della propria zona arricchendole di contenuti originali sviluppati nel corso delle attività didattiche, collaborando sui wiki creati con PBWiki o Wikispaces o Wikia, sfruttando a fondo le potenzialità offerte dagli strumenti del vostro account Google quali GMail o il Calendario condiviso e collaborativo, l’imprescindibile GoogleDocumenti per scrivere e pubblicare pagine web, l’altrettanto fondamentale aggregatore Reader per nutrire e tenere aggiornata la cultura del gruppo di lavoro, e riportando tutte le attività che ogni singolo partecipante svolge autonomamente su web su tutti questi e su altri Luoghi all’interno del “social network di classe”, già ottengo un ambiente flessibile e potente, capace di accentrare le funzionalità operative e quindi connotato identitariamente in modo stabile, riconoscibile nel tempo in quanto esplicito Luogo di apprendimento online ufficialmente firmato dalla scuola e dall’insegnante.

Se proprio proprio volete insistere su Facebook, tramutatelo almeno in un ambiente meno dispersivo, arredandolo con degli applicativi web di terze parti che potranno concorrere a rendere più efficace il vostro quotidiano lavoro di insegnanti su quella piattaforma.
A questo indirizzo su Selectcourses.com trovate cento 100 risorse per la produttività personale e per l’insegnamento da utilizzare dentro FB, organizzate secondo categorie: ci sono strumenti per mettere in luce le connessioni sociali, la gestione dei documenti e la loro condivisione, per le funzioni di ricerca delle informazioni, per la gestione dei gruppi di lavoro, per l’organizzazione lavorativa, nonché strumenti specifici per l’apprendimento e lo studio, da utilizzare anche con approccio ludico.

Enjoy and happy teaching.

Web is a-changing

Da un commento a una battuta gambelunghe di Fabio Giglietto su FriendFeed, mi appunto qui un’osservazione.
FriendFeed, come già Facebook settimane fa, è in fase di restyling dell’interfaccia. E’ già successo, ci saranno i soliti putiferii su “meglioprima/meglioadesso”, poi ci si abitua. In realtà sappiamo che modificare (oppure nascondere vs. promuovere) la disposizione dei bottonètti sulle pagine riconfigura nella nostra testa anche la percezione delle possibilità operative, i comportamenti che pratichiamo – e tralascio l’impatto del look&feel sul nostro sentire emozionale rispetto l’interfaccia, importantissimo.
Ma la nuova interfaccia di FF ha un bottone “pausa” (è sempre in real-time sui post), perché siam passati da un web dove le cose statiche andavano aggiornate (consumare il tasto F5, insomma) ad un web dove le cose vanno fermate.
Certo AJAX in quanto tecnologia soggiacente il web20 ci ha abituato alle pagine dinamiche, con gli oggetti movibili e i refresh rapidi. Semplicemente ora il web è veramente fatto di flussi, e FriendFeed rimane il miglior esempio di lifestreamer sociale che conosco. Vediamo se la nuova interfaccia ancora in beta metterà l’accento sui contenuti pubblicati o sulle dinamiche relazionali, ad esempio.