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Insegnanti, vi voglio vedere

L’Inghilterra ha appena varato una riforma scolastica decisamente innovativa.
Le materie di studio curricolari alla scuola primaria passano da tredici a sei (inglese, comunicazione e linguaggi, matematica, scienze e tecnologie, scienze umane sociali ed ambientali, scienze della salute e del benessere, arti e design), molti argomenti ad esempio di storia scienze o geografia non verranno più affrontati in quanto destinati comunque ad essere ripresi nelle scuole secondarie medie e superiori, ma soprattutto verrà dato un peso notevolissimo all’alfabetizzazione informatica e alle competenze digitali. Nel corso degli anni di scuola elementare, i bambini dovranno avere imparato a usare strumenti come le email, i podcast, Wikipedia e Twitter, e la scrittura al computer sarà parificata a quella manuale nella pratica quotidiana.

Perché muoversi foss’anche a tentoni in un mondo che cambia è sempre meglio di restare immobili, e venir travolti.

Ci sono insegnanti che leggono, qui? O persone comunque interessate alla tematica? Il dialogo è aperto, la ragion d’essere di un blog è la presenza di quel bottone “commenti”, qua sotto.

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Massimo Mantellini per PuntoInformatico

Giovanni Arata nei giorni scorsi ha dedicato un articolo su questo giornale alle recenti ipotesi di innovazione nel mondo dell’istruzione inglese. Se ne è parlato molto nei giorni scorsi anche sugli altri media italiani, spesso con toni a metà fra lo stupito ed il canzonatorio. Colpa forse di Twitter, piattaforma sociale di recente fama che in Gran Bretagna, forse con qualche avventatezza, vorrebbero elevare a materia di insegnamento nelle scuole.

L’argomento è interessante per un numero ampio di ragioni. Intanto perchè non esiste al riguardo alcuna certezza. Vi interessano studi scientifici che riguardino l’influenza delle nuove tecnologie sulla didattica o sullo sviluppo psichico degli adolescenti? Nessun problema, ne troverete moltissimi, capaci di sostenere con ragione, numeri e dotte conclusioni qualsiasi sfumatura fra le molte posizioni possibili, da quella dell’irremovibile luddista a quella del tecnofanatico.

Molti studi neurofisiologici dicono cose piccole e intuitive, per esempio che il nostro cervello sta cambiando, in relazione agli stimoli che riceve. Esattamente come è sempre stato. Non ci sono giudizi di merito in molte di queste osservazioni: ci stiamo abituando a processare più informazioni di quanto non ci accadesse in passato, più velocemente, attraverso strumenti emotivamente avvolgenti che fino ad un decennio fa nemmeno immaginavamo. Paghiamo per questo un prezzo in termini di elaborazione culturale, sedimentazione dei contenuti, meditazione, calma? Probabilmente sì, lo dicono gli scienziati e ce ne accorgiamo in parte anche noi stessi, ogni giorno.

Se il governo inglese decide di includere con maggior vigore le nuove tecnologie e gli strumenti che le abitano nella didattica fa una cosa certamente ragionevole, ancorché inevitabile, per lo meno in un paese che tenga nel giusto conto la crescita culturale delle proprie giovani generazioni. Ci sono ottime possibilità che lo faccia male, che vada per tentativi, che scelga percorsi che domani si riveleranno sbagliati, ma non c’è dubbio che sarà sempre meglio di non fare nulla. Non dobbiamo illuderci che l’immobilismo sia la rassicurante calda coperta di lana che non è. E’ invece vero il contrario.

E pensare che in molti casi non si tratta di esprimere giudizi di merito ma semplicemente di osservare il già successo. Pensate per esempio alla scrittura: quanti adulti oggi nel mondo del lavoro scrivono ormai con la penna?In qualsiasi ambiente professionale, impiegatizio, amministrativo in senso lato, nella stragrande maggioranza di quelle professioni in cui si usava carta e penna oggi, semplicemente, non la si usa più. E’ una constatazione, non un giudizio di valore sulla penna in sé. Io – per dire – ho una età tale che quando frequentavo le scuole elementari ci si allenava con il pennino e l’inchiostro: il pennino, l’inchiostro e la carta assorbente, non so se vi rendete conto. La Bic a quei tempi era ancora (per poco) tecnologia prossima ventura.

E’ certamente traumatico pensare alla calligrafia come ad un residuo del passato e non sarebbe nemmeno giusto farlo : ci sono mille ragioni sacrosante per conservarne per quanto possibile le abitudini. E non sarei contento se mia figlia che frequenterà la prima elementare quest’anno, non tornasse a casa con i suoi quaderni pieni di lettere ordinate e tutte uguali a riempire le pagine. Per il resto non ci sono santi: quello che doveva succedere è già successo ed i nostri figli, domani (in quel frammento brevissimo di tempo che è il domani), scriveranno con la tastiera di un computer (o con un sistema di riconoscimento vocale o con quello che vi pare a voi). In ogni caso, già adesso, non c’è alcuna possibilità di riportarli indietro al calamaio e nemmeno alla penna a sfera.

Io già li immagino i sorrisini imbarazzati o anche la palese costernazione di molti insegnanti ai quali si racconta che oltremanica usano Twitter a scuola, o Wikipedia o qualsiasi altra diavoleria mediata da Internet. Lo so bene, perchè quella imbarazzante costernazione è un po’ anche la mia, di tutti quelli che vedono il mondo cambiare sotto le dita, così come so bene che esiste una dinamica di rifiuto nota nei confronti dei repentini cambi di scenario.

Non abbiamo ancora capito se, come diceva Bill Clinton qualche anno fa, i computer debbano incontrare le nuove generazioni già ai tempi dell’asilo, non sappiamo se Twitter sia una buona idea per uno studente liceale, ma sappiamo che gli strumenti tecnologici hanno invaso le nostre vite comunque.
Noi abbiamo due compiti principali mi pare: il primo è quello di trovare una utile ragionevole mediazione che incastri utilmente l’utilizzo della tecnologia dentro le nostre vite, il secondo, specie negli ambienti sensibili ed importanti nei quali si forma la cultura di una paese come la scuola, è quello di immaginare le nuove tecnologie come la grande opportunità che sono e muoversi di conseguenza. Muoversi.

Hai prestato attenzione?

Da Spicchidilimone, via Laura Pozzar, trovo un video che si rivolge agli insegnanti, e lo fa in modo provocatorio.
Forse la fiducia che vien posta nelle tecnologie più o meno didattiche è eccessiva; o forse tale interpretazione dell’eccessivo entusiasmo ci arriva dal fatto che abbiano scelto un montaggio piuttosto veloce, dove le argomentazioni tendono a diventare slogan.

Però molti/e insegnanti faranno un salto sulla sedia, e inorridiranno sull’onda di qualche “mala tempora currunt” e diventeranno dei laudatori delle cose com’erano un tempo, e troveranno facili argomenti per ridicolizzare il filmato e le domande che pone, riguardo la stessa capacità della classe docente attuale di rendersi culturalmente conto delle modificazioni tecnosociali in atto, e del necessario nuovo ruolo della Scuola rispetto all’educazione dei giovanissimi.
E molto di quello che si dice nel video è realtà quotidiana.

Video introduttivo, a cura Associazione Docenti Italiani, dei lavori del seminario internazionale ADi 2009 che si è svolto a Bologna il 27 e 28 Febbraio 2009 dal titolo: DA SOCRATE A GOOGLE: Come si apprende nel nuovo millennio.

Le parole nello scanner

Fare didattica oggi a scuola (geografia, scienze, antropologia, educazione alla tecnologia, educazione alla cittadinanza) senza le mappe satellitari tipo googlemaps è perder tempo.
E come più volte si è detto in questo blog, non si tratta di una carta geografica (anche perché la parola “carta” non va più bene) da portare in classe e guardarla per un po’ e fare le fotocopie e magari tracciarci sopra delle righe a matita e tracciare aree con gli evidenziatori.

Per comprendere appieno una didattica capace di integrare armonicamente gli strumenti delle TIC nel flusso situazionale e conversazionale delle situazioni formative, nella mente dell’insegnante deve essere ben viva una rappresentazione dei Luoghi di apprendimento come indifferentemente fisici (l’aula scolastica, il territorio) e digitali (come le mappe online).
Questo perché la didattica poi trova visibilità e interazione nella pubblicazione social web di elementi originali frutto delle attività scolastiche su quella stessa mappa, sotto forma ad esempio di segnalibri con dentro video immagini e testo e collegamenti ipertestuali, e questo si chiama abitare la mappa, arricchendola di vissuto e risvolti antropologici socioterritoriali e connotandola come luogo identitario, che parla di me e del mio fare. La mappa è un ambiente, non uno strumento.

La mappa di Google è un ambiente digitale che però mette in scena l’ambiente fisico e relazionale, e questo cortocircuito ci confonde un po’ le idee. Qui raccontavo di come forse sia meglio oggi dire “il territorio è la mappa”.
Però credo anche che i siti dei Comuni e delle Regioni potrebbero tranquillamente usare una mappa digitale online come homepage, su cui appuntare spazi informativi e di navigazione: quale miglior modo di mostrarmi chi sei se non mostrandomi il tuo territorio, le sue peculiarità insediative, le collettività che lo abitano osservate nelle loro reti relazionali e conversazionali, nella loro unica e originale produzione mediatica?

Quello che vale per le mappe online, vale anche per l’aggregatore di classe (da cui distillare quotidianamente spunti per le attività scolastiche, restando sintonizzati sul mondo) e per il blog di classe (dove contrappuntare i flussi degli apprendimenti con commenti personali da parte degli stessi allievi, perché ri-raccontare agli altri ciò che si è appreso fa imparare meglio) e per molti altri Luoghi che già popolano la nostra vita di oggi, strumenti e ambienti di interazione sociale che per quelle piccole persone di nove anni costituiranno una presenza costante per tutta la loro vita.

Già integrare queste cose nel flusso situazionale dell’aula scolastica, si diceva sopra, significa svolgere concretamente Educazione alla Cittadinanza nel rendere consapevoli i minori dei propri diritti di accesso all’informazione e di espressione di sé; inoltre l’uso critico di questi stessi strumenti favorisce un corretto approccio di Media Education, rispetto alle retoriche della manipolazione mediatica; e ancora si promuoverebbe la corretta postura culturale (da cui pedagogica) dell’utilizzo del web sociale, dove le interfacce si “trasparentizzano” e si riesce finalmente a mettere a fuoco una delle vere mission delle generazioni umane che abitano e abiteranno il Ventunesimo secolo, ovvero riuscire a costruire “intelligenza collettiva”, Luoghi di socialità aperti e condivisi e partecipativi, Società planetaria della Conoscenza, nella certezza che l’incremento della circolazione di informazioni idee e opinioni possa contribuire in maniera determinante al miglioramento delle condizioni di qualità del nostro abitare, al ben-stare glocale su questo pianetino.

Ecco, guardare i computer e non vedere il web è purtroppo uno dei paraocchi che indossa chi oggi dovrebbe ragionare di fare scuola in modo moderno, come i ministri o molti dirigenti scolastici o molti insegnanti, ma di modernità non capisce nulla.
In tal modo, quando guardo il computer penso “informatica”, rendendo ancora più solide quelle interfacce che invece vorrei vedere trasparentizzarsi. Guardo il computer, e penso ancora “calcolatore”, non “socialità”; penso fogli di calcolo, non blog o community. A scuola creo i famigerati laboratori informatici, anziché provvedere connettività nelle classi. Mi invento i curricoli di informatica, e poi se va bene faccio un po’ di multimedialità, e non adotto nessuna metodologia didattica specifica in grado di migliorare l’apprendimento in ambienti ormai stabilmente abitati da Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione.
E io che sono qui a lagnarmi di scelte strategiche sbagliate, esito di scarsa Cultura Digitale, nello stabilire cosa vada valorizzato o meno nei ragionamenti sugli utilizzi delle TIC in classe, vengo come immagino molti insegnanti italiani raggelato dalle dichiarazioni di una FAQ del Ministero, dove si afferma che il laboratorio di informatica “non costituisce, soprattutto nella scuola primaria, un insegnamento prioritario”. Ne parla repubblica.it.

E’ chiaro che se alle scuole primarie diminuiscono le compresenze degli insegnanti, e alle scuole medie diminuiscono le ore di Educazione Tecnica, i bambini andranno sempre meno nell’aula informatica. Lì si può tagliare.
Che poi è assurdo che sia il prof di Educazione Tecnica che deve “fare computer”.
Che poi è assurdo che le ore di Educazione Tecnica diminuiscano, in un mondo tecnologico.
Che poi è assurdo che esistano le aule di informatica, e dei curricoli che prevedono informatica dentro le aule informatiche, alle scuole di base.

Lì potrebbe essere la chiave, nella frase sopra riportata. Nelle parole leggiamo l’approccio culturale di chi le ha scritte, e traspare una visione del mondo vecchia due volte. Non solo quel funzionario o quel ministro non sa cogliere il significato social delle tecnologie TIC nei settori della formazione, secondo precise indicazioni europee; non viene nemmeno più garantito l’uso dello strumento computer, indipendentemente dal fatto che sia connesso o meno. Questo perché i giovani quando entrano a scuola in realtà entrano in una capsula del tempo, e ritornano agli anni Ottanta quando non c’erano né il web né i cellulari. Meno divertente però il fatto che uscendo da scuola per lavorare e diventare cittadini si trovino a dover abitare un mondo decisamente tecnologico, su cui la scuola non ha saputo promuovere nessuna competenza o consapevolezza specifica.

L’errore non è che “non sia prioritario”, l’errore è considerare ancora il pc e il web come oggetto di insegnamento curricolare.

UPDATE: via Roberto Sconocchini, apprendo che quelli del Ministero hanno rimosso la frase incriminata dalle FAQ.

Formazione post-industriale

Evoluzione della Formazione al modificarsi dei modelli economici e organizzativi dell’industria. La riflessione è ripresa da Domenico Lipari e paragona la Formazione in tre grandi momenti storici:

  1. nell’era Fordista la logica d’azione della Formazione era l’istruzione; trasferire nozioni operative che permettano all’operatore l’utilizzo di macchinari e tecniche produttive.
  2. nell’era del Taylorismo la logica diventa l’interazione tra individuo ed organizzazione. La Formazione è organizzata nell’analisi dei bisogni, nella progettazione, la gestione didattica (aula) e la valutazione finale.
  3. Oggi, nell’era Post Industriale, la logica della formazione diventa la capacità di lavorare sulle esperienze capitalizzando la conoscenza (tacita e non formalizzata) che viene creata. La conoscenza è qualcosa cha va generata e l’apprendimento è il processo cui questo viene garantito.

Oggi, per realizzare una formazione qualitativamente elevata è necessario uscire dall’aula ed entrare nei processi informali di apprendimento.

Oggi l’apprendimento è molto più frequente quando avviene in modalità non strutturate e senza una pianificazione o una intenzione della committenza.

E’ iniziata l’era delle Community.

via Luigi Mengato

Piano e-Gov 2012

E’ stato presentato il piano generale dell’e-government in italia, e-Gov 2012, disponibile sui siti istituzionali del Ministero per la pubblica amministrazione e l’innovazione e della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Trovate la Presentazione, gli Obiettivi, il Management summary, la Sintesi e la Pianificazione di alcuni progetti, tutta roba in pdf che si legge velocemente.

Anche Quintarelli nel parla, e trae alcune puntuali osservazioni.

C’è una mancanza iniziale, come in ogni storia che si rispetti, rilevabile dalla bassa posizione dell’italia nelle classifiche europee di diffusione di TIC e cultura digitale; c’è un contratto da rispettare, le indicazioni di Lisbona; c’è una ammissione esplicita di incompetenza da parte della Pubblica Amministrazione, all’inizio della pagina 7 del Management Summary, nel suo ancora insufficiente apporto alla conversazione in rete, la qual cosa potrebbe in effetti essere una delle concause che inibiscono i cittadini italiani a frequentare maggiormente il web. E il Piano è il modo con cui il governo intende affrontare il percorso verso una maggior qualità della comunicazione tra Amministrazioni e Cittadini, e nel contempo cercare di risparmiare il 25% delle spese attuali grazie alle varie ottimizzazioni nei settori della Salute, Giustizia, Anagrafi, alle dematerializzazioni tipo la casella elettronica certificata per le operazioni con le PA. Il tutto per milletrecentottanta milioni di euro.
Nell’ultima pagina del Summary ci sono degli aspetti di monitoraggio e valutazione dell’applicazione del Piano, e ci sarà un portale e-gov2012 dove poter seguire gli avanzamenti. Tralascio la customer satisfaction e le faccine che smailano, però per fortuna vedo che sono previste espressamente attività di formazione (con Formez e Scuola Superiore PA) sia frontali sia online per tutti quelli dentro le PA, e gli argomenti parleranno di aspetti di processo, di project management, di comunicazione al cliente, di comunicazione interna, di gestione della trasformazione organizzativa.

Per la Scuola, si parla espressamente di diffusione di strumenti di innovazione nella didattica (lavagne digitali, pc, contenuti digitali, e‐book), nell’interazione scuola‐famiglia (pagella e registro elettronico, domande di iscrizione, accesso ai fascicoli personali degli studenti e prenotazione colloqui online) anche in modalità multicanale (tv, web, email, sms), nei servizi amministrativi e servizi allo studente (wifi nelle università), di 240 duecentoquaranta milioni di euro.


Avere tutte le scuole e magari le aule collegate veloce anche in wifi, produrre learningobject sia dal basso (gli insegnanti) sia dall’alto (case editrici) da rendere tutti disponibili su piattaforma nazionale per l’acquisto o la fruizione libera da parte delle scuole, puntare decisamente verso la comunicazione scuola-famiglia con la digitalizzazione di molti atti amministrativi e documentazione dell’allievo, creare una anagrafe nazionale per monitorare le politiche scolastiche, dotare gli studenti delle primarie di notebook personali, sponsorizzati da Intel, Telecom Italia e Microsoft.
Cose di cui si parla ormai da parecchi anni, e certamente sarebbe splendido accadessero (farei un paio di distinguo… gradirei più informazioni su filosofia dell’e-learning seguita, su risvolti commerciali della piattaforma, sugli sponsor commerciali), almeno per muovere un po’ le acque e aumentare lo stress di quei dirigenti scolastici e quegli insegnanti che non capiscono di cosa si stia parlando. In realtà, nel 2005 dicevamo sarebbero arrivate nel 2009, e invece l’italia è in ritardo. E le persone che devono agire questo cambiamento non lo comprendono: quelli bravi vedono il valore strumentale, solo qualcuno di essi magari riesce a riflettere sulle modificazioni stesse che stanno subendo gli ambienti di vita, e delle necessarie correlate innovazioni negli ambienti formativi, sia di tipo tecnologico sia metodologico. E la metodologia per essere insegnanti moderni, “registi” di situazioni di apprendimento attraversate da molti flussi informativi e conversazionali indifferentemente biodigitali, passa necessariamente attraverso una comprensione degli strumenti in quanto ambienti da abitare, foss’anche l’utilizzo di una mappa satellitare nella didattica.
Altrimenti le lavagne e i pc restano morti o mortificati, sappiamo come funziona.

Sarebbe di primaria importanza portare molte persone in Rete, a partecipare e a coinvolgersi nelle conversazioni, poi la serendipità fa il resto. Far nascere in loro, con la frequentazione, i valori di condivisione e apertura della Rete, di reputazione e civiltà dell’abitare anche digitale… poi nel pensare il sito web scolastico quella persona che magari fa di lavoro il dirigente scolastico riuscirebbe con maggior probabilità a comprendere i risvolti qualitativi della comunicazione pubblica dell’istituzione da lui diretta.
Essendo anche fruitore, saprebbe meglio giudicare e progettare la propria identità digitale come parlante istituzionale ratificato del territorio, gli spazi di conversazione.
Formare le persone, non gli insegnanti.
Ovvero fornire competenze digitali, piani di lettura della realtà moderna e luoghi di espressione di sé, che rendano le persone normali cittadini digitali.
Se ho un blog e frequento dei blog, so cosa fare di un blog scolastico.
Se mi vengono a insegnare come fare un blog e non so cosa sia, poi lo uso come bacheca e basta, ma mi sfugge il suo lato conversazionale.
Ma abitare non può essere insegnato, proprio perché è partecipazione e coinvolgimento relazionale. Soprattutto non può essere insegnato con addestramenti agli strumenti, formazione incapace di fornire orizzonti più ampi per inquadrare il cambiamento in atto, le modificazioni della quota di comunicazione che deve sostenere l’insegnante nel suo fare didattico e la scuola tutta nel suo essere soggetto attivo della comunità sociale.
Ruotare il proprio fare in direzione della pubblicazione e della conversazione imporrà grossi mutamenti alla struttura scuola. Una gestione seria anche solo della posta elettronica nelle PA, come descritta nel piano e-Gov quisopra, costringerà le vecchie procedure d’ufficio a torcersi fino a spezzarsi, a meno che qualcuno abbia il coraggio di riprendere in considerazione tutti i flussi documentali e ottimizzarli secondo nuove priorità, date dalla comprensione del nuovo habitat.
Siamo di nuovo lì: non posso spiegare l’abitare in Rete. Va vissuto, esperienzialmente. E al preside sessantenne che sproloquia di facebook senza esserci mai stato, o all’insegnante che non capisce wikipedia, servono dei “percorsi esperienziali” di cultura digitale, immersivi. Sarebbe assai utile per la civiltà dell’italia se tutti i dirigenti scolastici e gli insegnanti italiani passassero su web 15 ore alla settimana, toh, e lo facessero con passione nel seguir liberamente le loro passioni e interessi.
Altrimenti siamo sempre al dover dare la soluzione, della quale non so che farmene, se non ho la domanda.

“Vengo lì e ti formo”
“Uh. E perché?”
“Hai un problema”
“Non sapevo di avere un problema”
“QUESTO è il problema”

Non son cose che spieghi con un powerpoint, questo volevo dire.

Due schemi

Sostenuti da Cultura TecnoTerritoriale, comprendiamo il Territorio come intessuto di reti tecnologiche (i percorsi della materia, dell’energia e della informazione) dove tutto si tiene, e possiamo leggerlo come un ipertesto, esplorandone i collegamenti a partire dal singolo artefatto.

Immaginate di imbattervi in un contatore dell’elettricità, fuori da un capannone, lungo una statale. Lo guardate, lo esplorate (e qui c’è tutta la problematica del “saper osservare”, misurare modellizzare rappresentare simulare), lo scoprite come oggetto connesso, indagate i flussi in entrata e in uscita, arrivate da una parte fino al traliccio lungo la strada, dall’altra ad un tornio industriale dentro il capannone, sede di un’attività artigianale. Ora avete già una visione mentale sufficientemente ramificata per leggere il Tecnosistema formato da quell’insediamento produttivo, l’orizzonte può alzarsi a compredere i Luoghi, tutte le porzioni via via più ampie di territorio comunque legate da reti.

Se magari siete insegnanti e vorreste raccontare questo approccio culturale alle vostre classi, qui a seguire trovate uno schema di Paolo Gallici sulla esplorazione degli Artefatti, in grado di suscitare dei percorsi orientati o dei tecnoviaggi molto fruttosi.
Scegliete un artefatto nello schema polare, organizzato intorno al mondo del bambino e delle sue necessità: un oggetto tecnologico della casa, della scuola, un indumento, un alimento, spostatevi a sinistra, per indagare l’oggetto secondo le Azioni tecnologiche necessarie per produrlo. Poi potreste considerarne il “ciclo di vita” in relazione ai Luoghi, e procedere con eventuali esplorazioni del territorio fisico e/o digitale.

Il futuro non è più quello di una volta

NuoviAbitanti è stata chiamata a partecipare al convegno “Il futuro non è più quello di una volta“, Milano 18 e 19 gennaio 2009 (qui il programma).
L’evento è aperto alla partecipazione di tutti, e probabilmente risulterà disponibile anche qui sul blog e su facebook, sotto forma di collegamento video in streaming. Ulteriori informazioni nei prossimi giorni.

I lavori preparatori del convegno si sono tenuti su diversi luoghi online, da cui trarre indicazioni per i contenuti da affrontare nel corso del convegno stesso: su Ibrid@menti nella rubrica Mettiamoci in rete dove si discute su quali sono le competenze richieste dalla learning society agli insegnanti per la costruzione di una consapevole, critica, creativa, collaborativa cittadinanza digitale; su cittadinanzadigitale , il wiki che si è sviluppato dopo l’incontro del luglio scorso a Dobbiaco, troverai le riflessioni di esperti, non esperti, webnauti, docenti sugli strumenti necessari per promuovere la cittadinanza digitale; su LaboratorioFormazione, organizzatore del convegno di Milano, per partecipare alla discussione intorno a: “Le competenze digitali sono ancora un bisogno formativo per gli insegnanti italiani?”.

Qui di seguito, il testo introduttivo di Mario Rotta, curatore del convegno.

Il 19 e il 20 gennaio 2009, a Milano, si parlerà del futuro, che soprattutto quando ci si riferisce alla relazione tra scuola, didattica e innovazione tecnologica, non è decisamente più quello di una volta. Ma cosa accadrà esattamente in quei giorni? Come si affronterà l’oggetto del seminario? Per una volta, vorremmo provare a evitare l’impostazione abituale di questo genere di eventi e immaginare un approccio più pragmatico e allo stesso tempo decisamente programmatico. Ci piacerebbe che tutti i presenti fossero partecipanti attivi, e soprattutto che al termine delle due giornate prendesse forma una “carta” su come rendere effettiva l’innovazione nella scuola.

Dopo l’appuntamento di Dobbiaco abbiamo cercato di lavorare in rete per capire a cosa potevamo ragionevolmente riferirci, oggi, alludendo ai nuovi scenari della cultura digitale, alla scuola del futuro e al futuro della scuola. Tra le tante istanze in gioco, hanno cominciato a delinearsi alcune “direzioni” più nitide (anche se ancora in parte da esplorare) verso cui potremmo orientarci: i social networks, la scrittura collaborativa, i blog in quanto narrazione distribuita, i mondi virtuali, gli aggregatori di informazioni e gli strumenti avanzati per la ricerca di risorse in rete, gli ambienti di apprendimento e la cultura “open”, gli ambienti di comunicazione per la partecipazione attiva e il dialogo con il territorio. Non stiamo sostenendo che questi sono gli unici scenari possibili o che questi strumenti o ambienti rappresentano di per sé fattori di innovazione per la scuola: ci sembra però che capire come utilizzare questi stessi strumenti e come collocarli in una visione della didattica rappresentino oggi un potenziale di innovazione da non trascurare, oltre che un elemento essenziale della cittadinanza digitale.

Quello che ci piacerebbe fare a Milano è lasciare che dei gruppi di insegnanti si “incamminino” in queste direzioni, con l’aiuto di un animatore, per definire una sorta di “agenda” su ciascuno degli ambiti che raccoglierà un certo numero di interessati: agenda intesa come linee guida essenziali, ad esempio le 10 cose da fare e da non fare per inserire questi strumenti o questi ambienti nella scuola in modo che rappresentino un reale fattore di innovazione. Senza dimenticare un invito a discutere sulle competenze necessarie per applicare le linee guida che a poco a poco prenderanno forma. L’obiettivo è pragmatico e programmatico: poter dire, al termine del seminario, che cosa dovremmo realmente fare per costruire insieme un nuovo paradigma educativo. Una sorta di manifesto per una riforma “attiva” della scuola, fondata non sulla ristrutturazione (eufemismo che significa tagli e riduzioni) ma sull’innovazione tecnologica in quanto veicolo di innovazione metodologica. Del resto l’idea di un manifesto per una scuola innovativa è nell’aria: l’appuntamento di Milano potrebbe quindi rientrare in questa “catena di eventi ininterrotti”, e auspicabilmente rappresentarne l’anello mancante.

Ma non basterà organizzare dei gruppi di lavoro (o meglio, dei focus) su ciascuna delle direzioni indicate, né animarli e moderarli. Sarebbe molto utile e importante che nei gruppi fossero presenti (materialmente o virtualmente) esperti e protagonisti di sperimentazioni, ricerche o applicazioni su quegli stessi ambiti. Non tanto, tuttavia, come portatori di risultati o testimonianze, quanto piuttosto, per una volta, come “ascoltatori” o “osservatori”: l’agenda a cui punteremo non sarà infatti soltanto un programma concreto di lavoro, ma anche un’opportunità per tutti gli stakeholders, un modo per capire verso cosa indirizzare studi, investimenti, azioni di sistema, riforme. Diamoci tutti appuntamento a Milano, quindi, anche informalmente o virtualmente, per capire su cosa si dovrà lavorare nei prossimi anni per immaginare una scuola che torni a essere innovativa, e per condividere una traccia per un futuro che non sia più quello di tutte le volte che abbiamo sentito parlare invano di tecnologie e didattica…

Arrivano i barbari

Ormai da tanti anni entro nelle scuole e racconto ai ragazzi (ultimamente sempre più a insegnanti e dirigenti, e mi diverto meno) cosa si può fare con mappe satellitari, editor audiovideo e cellulari, blog, aggregatori.Ecco qui Michael, un tipo col ciuffo sui diciassette/diciotto, mio allievo anni fa, che mi chiama in chat a metà mattina, e lui è in Carnia, in classe a scuola


Essendo io notoriamente Grammar-Nazi, mi toccherà riprenderlo sull’accento del perché e su quello del dài, ma sorrido perché me lo immagino mentre si annoia a scuola. Il ragazzo è sveglio, curioso, e si sta esercitando ad assumere certe pose cool che neanche Humphrey Bogart. Sono quasi certo che dopo avermi rassicurato ha puntato il browser verso le peccaminose gallerie fotografiche della discoteca giovanile di riferimento della zona, dove questi ragazzi e ragazze possono vedere sé stessi direttamente “in scena” mentre lasciano libero il loro personaggio di vagare nella notte promiscua e decadente. Attori di sé stessi e spettatori di sé stessi insieme, poi passano la settimana su Netlog o sulle loro community giovanili e commentano tutto quello che è successo, e la Valeria che era ubriaca sul cubo e Gigi che voleva tirar su rissa con qualcuno e poi le corna e le occhiate e così come tutti come sempre a loro modo diventano grandi. Però mettono in scena tutto, è un rito pubblico mediatico.

Quel Michael della chat frequenta una scuola professionale IPSIA, ramo elettronica.
Se a qualcuno interessano i soliti discorsi sul mondo della scuola, in questo caso in relazione al futuro dei giovani nel mercato del lavoro, può leggere quello che ho scritto su NuoviAbitanti come commento al convegno “Quale riforma dell’Istruzione tecnica e professionale per il Friuli Venezia Giulia“, presenti buoni nomi della Scuola regionale dell’Industria e della PA regionale, a cui ho assistito lo scorso sabato mattina.

Come progetti una scuola per il futuro quando non puoi predire il domani?

Il titolo pone un problema, perché fino a ieri immaginarsi e progettare il fare scuola era piuttosto facile. Esistevano tradizioni di pensiero secolari riguardanti i valori pedagogici e la metodologia didattica e perfino l’organizzazione del tempo e dell’architettura scolastica da adottare (tutte cose che grossomodo derivano dall’impostazione delle scuole e dei collegi cattolici, poi passate nelle istituzioni statali e tuttora presenti), a cui poi il Novecento ha aggiunto degli approcci basati su una visione attiva del discente, su concezioni dell’apprendimento in grado di contemplare il ruolo del gruppo-classe nel processo di acquisizione di competenze, l’orientamento dei curricoli in direzione dapprima di una modernità fatta di industrie e di operai alla catena di montaggio e poi di impiegati del settore terziario.

Per ben progettare in ogni caso è determinante aver ben chiaro che stiamo “scommettendo” su una specifica rappresentazione del futuro (la quale orienta poi consapevolmente o meno il nostro “pensiero progettante”), e guarda caso la scuola non può che agire sul futuro, quale Luogo istituzionale deputato all’educazione delle nuove generazioni. E fino a quarant’anni fa era appunto piuttosto facile immaginarsi una società futura, nel senso che gli ambienti di crescita dei figli non sarebbero differiti poi molto (tranne nella fantascienza più onirica) da quelli dei padri: ad esempio le aule scolastiche non sarebbero state granché diverse, si sarebbe potuto pensare. I cambiamenti erano lenti.

In effetti le aule non sono poi cambiate molto nel ‘900, e un insegnante congelato nel 1904 avrebbe preso paura del mondo odierno (automobili e rumore, cemento dappertutto, pc, tv, radio, cinema, cellulari etc.) ma avrebbe subito riconosciuto un’aula scolastica, pressoché uguale in quanto arredata dalle stesse tecnologie di trecento 300 anni fa (banchi, cattedra, libri, lavagna, quaderni). Se la scuola assomigliasse al mondo (se non vivesse dentro una bolla in modo autoreferenziale) sarebbe piena di schermi e computer e sistemi di connettività, avrebbe così tante finestre da poter essere considerata senza muri, ma così non è, e conosciamo la problematica.

Oggi viviamo un’accelerazione tale delle innovazioni tecnosociali che ci circondano, che risulta difficile dire come sarà il mondo tra quindici anni. Pensateci: quindici anni fa cominciavano a prendere piede il web e il telefono cellulare, e quasi nessuno di noi sapeva cos’erano, e decisamente han cambiato la nostra vita.
Queste tecnologie di comunicazione rendono abitabile la distanza interpersonale, ci traghettano nell’Era digitale, hanno creato nuove forme di lavoro, rendono possibile nuove forme di didattica a scuola, interconnettono le reti interpersonali della società e al contempo rendono visibile il tessuto relazionale delle collettività, ci costringono a rinnovare e rimodellare la nostra identità e il nostro essere Abitanti, modificano i concetti di privacy e proprietà intellettuale, di pubblico e privato, di partecipazione individuale e collettiva ai meccanismi consultivi e decisionali della democrazia.

Quindi, urge chiedersi cosa significa progettare la scuola di questo nostro futuro esponenziale, quando i 10 lavori più richiesti del 2010 non esistevano nel 2004, e noi stiamo preparando studenti per lavori che ancora non esistono, che useranno tecnologie che non sono state ancora inventate, per risolvere problemi che ancora non conosciamo (dalle parole di una famosa presentazione web sui cambiamenti degli ambienti fisici, digitali e sociali degli ultimi anni).

Certo, progettare una nuova scuola è impellente, ma si tratta anche di argomento sì delicato, da far cadere i governi, e non si tratta affatto di una battuta, nella storia recente italiana.

Giusto una annotazione, corroborata da una foto: un buon punto di partenza sarebbe spostare decisamente il focus dell’organizzazione didattica dai curricoli centrati sulle discipline a quelli basati sulle competenze finali degli allievi, il che come nei buoni casi di comunicazione significa passare dal punto di vista dei fornitori di servizi (la Scuola, e quel pensiero vecchiotto del fare scuola che abita le menti di chi a scuola oggi ci lavora, insegnanti e dirigenti) al ragionare sul destinatario, quegli studenti da cui sempre bisogna ripartire quando si perde l’orientamento e ci si accorge che il proprio fare (preparare dei giovani ad essere parte attiva della società, magari in modo critico e consapevole dei propri diritti), non è più adeguato al contesto, in questo caso la società tutta profondamente modificata dalle recenti innovazioni tecnosociali.

Il discorso è chiaro: la scuola deve riorganizzare sé stessa avendo come orizzonte di riferimento le competenze (un saper-fare e un poter-fare concreto e operativo) di cui intende dotare i futuri cittadini. Le competenze possono essere descritte: ad esempio l’adeguatezza della preparazione professionale al mondo del lavoro, la consapevolezza del nostro essere consumatori, il saper riconoscere e promuovere qualità ecologica (concreto ben-stare) nel proprio abitare i territori ormai biodigitali.
Dovesse riprogettarsi secondo queste condizioni, la scuola si troverebbe a dover modificare parecchio della propria organizzazione attuale. Dall’edificio scolastico alle metodologie didattiche, tutto andrebbe rivisto secondo le nuove necessità.

Non sto parlando solo di competenze digitali; in ogni caso va da sé che alcune competenze di Cultura Tecnologica vadano assolutamente trasmesse alle giovani generazioni, visto che queste ultime crescono e abitano nativamente in ambienti differenti da quelli della nostra infanzia e adolescenza, dove troviamo quelle novità con risvolto antropologico offerte delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione.

Prendiamo un caso particolare: come re-impostare le scuole tecniche e professionali nella Regione Friuli Venezia Giulia, avendo a mente le richieste quantitative e qualitative del mercato del lavoro specifico, industriale e post-industriale. Al momento all’industria occorrono molti diplomati in materie tecniche, e qui invece tutti si iscrivono ai licei.

Ieri mattina (qui il programma) c’era il convegno “Quale riforma dell’Istruzione tecnica e professionale per il Friuli Venezia Giulia“, promosso dalla scuola ISIS di Gemona, dall’Ufficio Scolastico regionale, dall’Assessorato all’Istruzione regionale, e ospitato dalla Fantoni di Osoppo, quindi in luogo connotato da visioni tipicamente industriali (ciminiere, binari, rumore), da architetture inneggianti all’innovazione tecnologica.
La platea era composta da dirigenti scolastici e insegnanti, operatori del mondo della formazione.

Apre il convegno Tullio Bratta, al posto di Giovanni Fantoni: all’inizio parla dell’importanza storica delle scuole tecniche (il riferimento classico va all’istituto tecnico industriale Malignani di Udine) nel formare i quadri dirigenziali nelle industrie, sottolineando la formazione dello studente ad essere “capo” di qualcosa. Poi parla della secondo lui ormai vecchia “società della conoscenza” e dice che bisogna andare verso la “società del fare”. Mah, che dire. Un uomo apparentemente fuori dal mondo, ma è lì soprattutto a fare da anfitrione in nome dell’azienda Fantoni che ospitava l’incontro.

Giuseppe “Pino” Santoro, preside all’Istituto superiore di Gemona e moderatore dell’incontro, sottolinea l’importanza delle relazioni e delle progettazioni coordinate tra scuole superiori e tessuto industriale. Dice che abbiam forse schivato la liceizzazione delle scuole superiori, ed è necessario ragionare subito di emergenza tecnico-scientifica, per il fabbisogno espresso dal mondo del lavoro. Vengono ricordati i dati OCSE-PISA, e l’atmosfera diventa cupa: la situazione è preoccupante. Si cercano tecnici, e non ci sono. Inoltre Santoro pone giustamente l’accento sui finanziamenti alla scuola, sottolineando come sia alquanto sciocco pretendere competenze specializzate e giovani preparati mentre al contempo si tagliano le risorse per docenti e laboratori. Il discorso conseguentemente prende di petto le contraddizioni della legge 133 del 2008, ovvero i tagli della riforma Gelmini.

Poi tocca a Tonon, sostituisce Adriano Luci come rappresentante dell’Associazione Industriali di Udine; è importante continuare il dialogo tra la scuola e la confindustria; bisogna combattere contro l’idea che le scuole tecniche siano meno nobili, e in ogni caso il manifatturiero è risorsa del territorio, e industria non è una parolaccia. Puntare sull’alternanza scuola-lavoro, avere dei tutor scolastici e tutor aziendali che accompagnino i ragazzi verso la comprensione dei luoghi di lavoro, queste le indicazioni, insieme ai solleciti per rendere la scuola tecnica appetibile per i giovani, migliorando il prestigio sociale dell’istituzione.

Roberto Molinaro, assessore regionale, esordisce felicemente sottolineando il cambiamento strutturale, lento e ampio, che sta avvenendo nella cultura e nella società tutta, e ricordando che il Friuli Venezia Giulia è un luogo di eccellenza scolastica.
Conseguentemente viene ribadita la formazione in quanto asse strategico del cambiamento, e riaffermata quella qualità intrinseca delle buone prassi locali da cui prendere le mosse per la riprogettazione dell’offerta formativa anche tecnica della scuola regionale.
Si può ripartire dall’identità multiculturale della Regione, dalle connessioni forti scuola-territorio, dalle razionalizzazioni della rete scolastica esistente (questo ovviamente crea dei mugugni in sala).
Vi sono delle esigenze culturali: va rilanciata la cultura tecnica superiore. Meglio ancora, l’assessore parla di nuove competenze per il lavoro e per la cittadinanza, e accenna dei confronti con altre realtà europee.
In ogni caso, tornando a parlare di formazione tecnica, qui in Regione abbiamo tradizione e capacità innovativa, occorre mettere a sistema. Un problema può essere dato dall’integrazione tra istruzione statale (istituti tecnici) e formazione professionale: gli istituti professionali dipendono da Roma oppure dalla Regione? Questo è un nodo da risolvere, in direzione di una gestione regionale; è in piedi un dialogo con lo Stato per avere trasferimento di potere e risorse per l’organizzazione scolastica, coerentemente con l’autonomia scolastica e regionale. Occorre realismo.

Bruno Seravalli, ex dirigente scolastico ora incaricato presso l’Ufficio Scolastico regionale, espone dei dati di contesto regionale sulla riforma; parla di orientamento in entrata (mugugni), e di passerelle tra i percorsi formativi. Dal punto di vista dell’inserimento lavorativo, fa notare come il 33percento delle offerte di lavoro regionale richieda persone senza titolo di studio specifico; e come la percentuale di liceizzazione della Regione rimanga stabile nel tempo, su quote abbastanza alte di iscritti ai licei negli ultimi anni.

Arduino Salatin di Trento, consulente ministeriale per la Riforma scolastica di Fioroni, illustra molto lucidamente degli scenari di evoluzione dei sistemi di istruzione secondaria, distinguendo tra percorsi liceali e gli altri percorsi formativi, ribadendo la necessità di lifelong learning e di lavorare a stretto contatto con imprese, mostrando con grafici la realtà scolastica di altre nazioni europee.
Peculiarità italiana: solo da noi, il confronto è con l’Europa, ci sono 5 diversi percorsi scolastici post-obbligo, come pure siamo gli unici con una scuola superiore che arriva fino ai 19 anni.
Per quanto riguarda la formazione professionale, è possibile ravvisare tre modelli:
formazione professionale dentro la scuola (come in Scandinavia), formazione fuori da scuola nelle imprese (Germania), in modo misto come da noi, con molte complicazioni.
La liceizzazione è comunque fenomeno europeo, solo che da noi in più c’è il problema delle scuole professionale e apprendistato, ovvero percorsi che altrove non ci sono.
In particolare, le imprese chiedono specializzazione e soft skills (vedi wikipedia; “abilità morbide” potrebbero essere ad esempio come “disponibilitá ad assumersi responsabilitá, saper prendere decisioni, coraggio, saper essere chiaro nell’esposizione, saper risolvere conflitti e trattare, saper motivare sé e gli altri. Tutto si tramuta in una educazione formale in grado di offrire ai giovani dei percorsi flessibili, dove venga privilegiata la libera espressione di sé anche con gli strumenti TIC, percorsi da collegare con passerelle per agevolare la mobilità degli studenti alla ricerca della propria vocazione.

Proprio Salatin parla esplicitamente della crisi dei curricoli basati sulle discipline, e della necessità di andare verso curriculi basati sulle competenze (vedi sempre foto in alto).
Questo appunto significa adottare il punto di vista di chi impara, promuovendo innanzitutto sul piano istituzionale i collegamenti con il mondo dell’impresa e con la figura del tutor aziendale; in seguito bisogna rendere attrattivi, sul piano sociale, i percorsi di formazione; inoltre nel riprogettare la scuola italiana, o almeno l’istruzione tecnica e professionale, oltre alle otto competenze chiave indicate dalla Raccomandazione europea in un contesto di apprendimento continuo, risulta necessario concentrarsi su cose essenziali… non è possibile che i percorsi scolastici in Italia (e solo qui) prevedano 13/14 materie.
Sul piano metodologico, Salatin ribadisce l’importanza di percorsi flessibili, di passarelle, e di semplificazione rispetto ai bizantinismi di orari, moduli, integrazioni, corsi, diplomi e curricoli e attestati che troviamo solo in Italia… serve flessivilità istituzionale, curricolare, organizzativa.
Si prendono rapidamente in esame tre diversi modelli di offerta formativa tecnica e professionale, quelli seguiti dalla Francia, dalla Spagna, dalla Danimarca; anche solo dal semplice confronto lessicale dei documenti presentati, emergono parole chiave come “confronto tra scuole”, “innovazione didattica”, utilizzo omnipervasivo di tecnologie TIC.

Quali risposte dare? Salatin offre alcune suggestioni, parlando ad esempio di sistemi differenziati, della creazione di Istituti Comprensivi Superiori, di poli scolastici strutturati nella consapevolezza di una alternanza scuola-lavoro, parla di curriculi flessibili e di sistemi di valutazione adeguati al territorio, contestualizzati.

Alberto De Toni, già Presidente della Commissione per lo sviluppo dell’istruzione tecnica e professionale nello scorso governo Prodi, dice che la situazione è veramente complessa (eufemismo). Va comunque rilevato il progressivo conferimento di potere decisionale alle Regioni, il che dovrebbe fornire maggiori strumenti e risorse per una migliore programmazione delle modalità di incontro tra le offerte formative degli Istituti scolastici (almeno quelli professionali) e le richieste del mercato del lavoro. Anche De Toni parla delle opportunità offerte dalla progettazione di Poli formativi, e poi chiude il convegno con alcune interessanti considerazioni di carattere generale: mette bene in luce i cambiamenti epocali avvenuti negli ultimi anni, le rivoluzioni sociali oppure relative alla moderna Società della Conoscenza, dove risultano perfettamente obsolete e anzi controproducenti le vecchie suddivisioni ad esempio di Cultura Umanistica e Scientifica-Tecnologica, dove un’impostazione scolastica ancora fortemente crociana e gentiliana impedisce di cogliere la complessità sistemica di una offerta formativa allo studente capace di agire su tutti gli aspetti della sua personalità, dalle sue abilità tecniche alle sue competenze sociali. Qui De Toni parla espressamente della necessità storica di una rifondazione culturale.

Ribadisco le mie preoccupazioni: di tutti i relatori, solo Salatin e DeToni hanno pronunciato parole moderne come “rete” (non solo telematica) oppure preso in considerazione l’importanza delle TIC quale ambiente formativo, quindi mostrando l’utilità degli strumenti di dialogo e confronto con altre realtà scolastiche e con la società tutta (basta con le scuole isolate e isolazioniste, gestite come cittadelle feudali, che non offrono piani formativi commisurati alle esigenze del territorio); un plauso anche all’Assessore regionale per le parole concrete, frutto di una visione fortunatamente poco ideologica del territorio e del fare scuola.
La domanda è semplice: chi oggi è chiamato a progettare il futuro, è una persona moderna? Dovendo ragionare di istruzione tecnica e formazione professionale, preferirei che la cultura (la visione del mondo) dei decisori fosse nutrita da considerazioni attuali sulle caratteristiche post-industriali della nostra società, da una visione ecosistemica in grado di superare la fissità e la linearità dei vecchi modi di pensare, non più in grado di descrivere le nuove forme di Abitanza e di partecipazione attiva dei singoli e dei gruppi sociali alla vita della collettività di appartenenza.

Chiedo scusa per questi rapidi appunti: la prossima volta filmo tutto e ripropongo gli interventi qui su questo blog, dove tanto mi piacerebbe vedere qualcuno di quei presidi e di quei dirigenti scolastici e di quegli insegnanti presenti tra il pubblico del convegno lasciare un commento, aggiungere precisazioni, esporre la propria visione riguardo ai passi futuri da compiere in Regione per una riforma scolastica efficace.

Il territorio è conversazione.

Netstrike sul MIUR

Esatto. La protesta contro la riforma gelmina continua, mi segnala Gabriella Giudici che linkerei volentieri se avessi un link, e la modernità impone l’adeguamento dei mezzi di lotta.

Quindi, domani alle 14.00 andate tutti sul sito del Ministero dell’Istruzione, giusto per fare un giretto in due clic e vedere cosa non succede.

“Tecnicamente [il netstrike] si può definire come un attacco informatico non invasivo che consiste nel moltiplicare le connessioni contemporanee al sito-target al fine di rallentarne o impedirne le attività”, dice Wikipedia, e sia quest’ultima sia PuntoInformatico nell’articolo dedicato all’evento ci ricordano l’origine italiana di questa strategia agit-prop, nata nel 1995 grazie a Tommaso Tozzi.

Tecnologia, identità e narrazione: che cosa succede a scuola?

La Scuola, in questo momento storico, è incompetente: le manca un saper-fare, per poter-fare.

Già da molti anni le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione sono veicolo del nostro abitare il mondo, e la nostra partecipazione civica – fino a ieri passiva in quanto fruitori di massmedia tradizionali, oggi attiva in quanto produttori e distributori di contenuti nel web – alla Società (ecosistema) della Conoscenza passa attraverso la comprensione dei risvolti antropologici delle TIC, del loro essere ambiente sociale e non solo strumento di produzione documentale, del loro essere Luogo dialogico di crescita relazionale e non solo fonte informativa.

Ma la Scuola non riesce a concepire gli strumenti come ambienti formativi. Se mancasse la lavagna o il libro, il fare scuola avrebbe altre fisionomie. Senza il PC e il web la Scuola non può educare alla modernità intessuta di Cultura digitale le giovani generazioni permanentemente connesse, le quali trarranno il senso della propria identità anche dalla ricchezza degli scambi interpersonali e dalla consapevolezza critica con cui abiteranno i Luoghi online.

Il problema è che la Scuola difficilmente riuscirà a essere competente, e quindi a perseguire i propri obiettivi formativi, se prima non modifica la percezione che ha di sé e del proprio ruolo sociale, in relazione ai cambiamenti epocali veicolati dalla diffusione del web.

Tutto questo lo dico in modo ancor più farraginoso, involuto e prolisso su Apogeonline, che ringrazio per la pazienza con cui aspettano che io impari a scrivere. L’articolo lo metto anche qui sotto, ma cliccate e leggetelo di là, per dare a voi stessi l’opportunità di imbattervi in molte altre cose interessanti.

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Tecnologia, identità e narrazione: che cosa succede a scuola?
di Giorgio Jannis

Secondo i programmi ministeriali, un quattordicenne dovrebbe essere in grado di usare le nuove tecnologie, padroneggiare i linguaggi multimediali, dominare la ricerca di informazioni. Nella pratica, accade di rado. Una storia di Re, Eroi, Draghi e Streghe per raccontare un pezzo di Paese alle prese con un mondo che cambia.

Ecco lo schema classico di una storia: un Re promette metà del regno a chi gli riporterà la figlia rapita da un Drago. L’Eroe parte, e probabilmente subirà una prima sconfitta; ritiratosi depresso nel bosco, incontrerà una Strega che inizialmente sembrerà nemica, ma una volta rotto un qualche incantesimo l’Eroe riceverà da quest’ultima putacaso tre pietre magiche che lo aiuteranno a superare la prova decisiva dello scontro con il Drago, e quindi diventerà Principe, con tanto di nozze regali e happy ending.

Ognuno di noi è un Eroe: onorando un contratto con la Società, uccidendo il drago dell’anarchia e dell’anomia, diventando cittadini con diritti&doveri, riceviamo in cambio uno status sociale riconosciuto, l’accesso legittimo a fonti economiche in cambio di prestazioni lavorative, la sicurezza di poter vivere e crescere dei figli in un ambiente ripulito da passatori e tagliagole. Ma come Cittadini, dobbiam venir educati a vivere in società, dobbiam superare dei riti di passaggio capaci di sancire la nostra competenza.

Gli stati nazionali, da Napoleone in poi, hanno compreso l’importanza dell’Educazione formale laica e hanno deputato la Scuola a essere il Luogo ufficiale dell’acculturazione dell’individuo, al fine di costruire funzionalisticamente un Cittadino adeguato: bisogna conseguentemente qui intendere la Scuola come l’Aiutante della nostra storia, colei che viene socialmente incaricata di fornire competenze (cognitive e performative, saper-fare e poter-fare) all’Eroe.

Ma nel particolare, qual è il programma narrativo della Scuola? Leggendo a sua volta l’Aiutante come un Eroe, vediamo come anch’essa abbia bisogno di acquisire competenze specifiche per portare a termine il proprio compito educativo, abbia la necessità per esempio di sorreggere le proprie scelte metodologiche e contenutistiche sulla base di teorie pedagogiche aggiornate, nonché di trovarsi nelle condizioni materiali (edifici scolastici adeguati, editoria specializzata, sussidi didattici, organizzazione del tempo, risorse umane) per poter svolgere la propria attività formativa in modo ottimale, al fine di ri-consegnare alla Società un quattordicenne dalla personalità armonica, in grado di comprendere sé stesso e di relazionarsi agli altri in modo eticamente responsabile, di rappresentare i fenomeni e capire i processi del mondo naturale e costruito in cui vive, capace di operare scelte autonome nel progettare il proprio futuro (obiettivi tratti dai testi ministeriali di una qualsiasi riforma scolastica degli ultimi quindici anni).

A sua volta (questa storia è piena di streghe), la Tecnologia in classe rappresenta uno degli Aiutanti di cui la Scuola si avvale per rendere più efficace l’acculturazione degli alunni, sostenendo l’apprendimento con sussidi didattici tecnologici quali innanzitutto la scrittura, e quindi i libri e le lavagne peraltro oggetti ora interattivi e connessi, le mappe geografiche oggidì satellitari, i videoregistratori e infine il computer connesso, quale strumento che racchiude in sé quasi tutte le potenzialità del produrre e distribuire informazione in modo multimediale.

L’introduzione innovativa di strumenti tecnologici in classe non è un atteggiamento tipico solo di questi ultimi anni: a partire dalla fine dell’Ottocento la pedagogia comprende infatti l’importanza (senza dubbio su impulso di necessità legate al mondo del lavoro) di provvedere ai discenti una formazione basata su attività manipolatorie concrete da svolgere dentro aule/laboratori allestiti come officine meccaniche oppure come atelier di tessitura, quale maggior garanzia per un apprendimento significativo (learning by doing) di competenze professionali; particolarmente interessante per i ragionamenti sulle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione risulta la posizione di Célestin Freinet, il quale nella prima metà del Novecento introduce le macchine tipografiche a scuola, insieme a precise indicazioni su come moltiplicare gli scambi a distanza con altre realtà scolastiche, in una concezione comunitaria e collaborativa degli ambienti formativi.

Grammatica dei media e strumenti critici
Tuttavia, anche se la Scuola ha portato in classe le novità tecnologiche che il Novecento ha via via sviluppato nel campo dei mass media, quali la stampa e la radio, il cinema e la televisione e infine il computer e Internet, in realtà non ha mai saputo seriamente sollevare a dignità educativa una riflessione sulle implicazioni psicologiche e sociologiche di questi strumenti di comunicazione, ponendo quindi una seria Media Education al centro delle proprie attività didattiche.

La consapevolezza che molti valori esistenziali, molti atteggiamenti cognitivi affettivi ed etici, la gran parte delle informazioni e delle opinioni pubbliche sul senso della realtà sociale vengano oggi percepiti e vissuti in modo mediato (il gioco di parole è notoriamente calzante), e che la nostra stessa identità personale e pubblica sia in qualche modo continuamente negoziata e narrata nello scambio relazionale che intratteniamo con gli altri, con gli oggetti culturali e con gli strumenti grazie a cui questi oggetti giungono a noi, risulta ormai diffusa seppur in modo “ingenuo” presso la maggior parte della popolazione; eppure la Scuola nulla fa per fornire grammatiche di lettura e strumenti critici in grado di mostrare la non-trasparenza dei media, il loro essere narrazioni potenzialmente manipolatorie, la falsità del loro pretendersi semplice “finestra sul mondo”.

La Tecnologia è un valore antropologico, e i valori vivono e si maneggiano da sempre attraverso le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione: da tutti questi ragionamenti sul carattere formativo degli strumenti di comunicazione di massa dovrebbero “naturalmente” discendere dei percorsi di innovazione didattica in grado di coinvolgere tanto il curricolo (quindi una riflessione sul ruolo odierno delle discipline tradizionali alla luce delle potenzialità trasversali offerte dalle TIC, nonché sulle nuove aree di sapere che costituiscono le “discipline di scopo”, dall’ecologia alle trasformazioni sociali, dall’intercultura alla cittadinanza anche digitale, dalla Cultura Tecnologica alla salute pubblica), quanto soprattutto la formazione dei docenti.

Se insegnante fa rima con abitante
Questi ultimi andrebbero rapidamente aggiornati dal punto di vista professionale innanzitutto secondo una considerazione attuale della Società della Conoscenza nel paradigma dell’Abitanza digitale e della Scuola Connessa; poi edotti sulle dimensioni comunicative e relazionali degli ambienti di apprendimento sia in presenza sia a distanza, visto che la sinonimia tra classe e aula comincia a perdere validità; e infine resi consapevoli dei meccanismi psicologici di sintesi tra esperienza del mondo e formazione dei concetti e delle idee, acquisendo stabilmente nella didattica – proprio per ottimizzare l’insegnamento – l’utilizzo di competenze e conoscenze apprese dagli allievi in ambiti extrascolastici, ponendo l’accento sulla transdisciplinarietà, comprendendo l’apprendimento significativo come massimamente garantito dalla narrazione (osservazione, analisi, manipolazione, problematizzazione, riprogettazione, allestimento discorsivo multimediale) che l’allievo compie a sé stesso e agli altri delle nozioni apprese, nel ri-giocare la realtà, ad esempio attraverso un uso intelligente dei blog scolastici.

Purché il blog di classe sia visto come pratica espressiva formativa relazionale e quindi identitaria, Luogo dell’Abitare della scuola sul web, e non solo come un sussidio didattico. Purché le TIC tutte e il web stesso siano percepiti e vissuti come ambienti formativi, e non solo come strumento informatico. L’utilizzo stesso della parola informatica, a meno che non si tratti effettivamente di scrivere codice in linguaggi di programmazione come negli istituti tecnici, pone l’oggetto computer e il web a scuola dentro una cornice interpretativa fuorviante. Nominare le attività con il computer come informatica ha portato per lunghi anni, e tuttora accade, a concepire l’informatica stessa come disciplina curricolare, cosicché oggi nelle scuole medie dopo l’ora di italiano c’è l’ora di “informatica”, che poi consiste nell’andare in laboratorio multimediale e usare programmi di videoscrittura o di presentazioni (quasi sempreprogrammi commerciali, nonostante precise indicazioni ministeriali per approcci open source nelle pubbliche amministrazioni) oppure navigare un po’ a caso sulla Rete, disattendendo completamente la funzione trasversale delle tecnologie TIC rispetto ai curricoli scolastici, nonché ignorando le tematiche etiche soggiacenti a una ormai impellente Educazione alla Cittadinanza digitale.

La Scuola sulla carta
Cosa dicono attualmente le indicazioni del Ministero dell’Istruzione riguardo le competenze sulle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione che gli allievi dovrebbero possedere al termine della scuola di base? Secondo i programmi d’aula, un quattordicenne «è in grado di usare le nuove tecnologie e i linguaggi multimediali per sviluppare il proprio lavoro in più discipline, per presentarne i risultati e anche per potenziare le proprie capacità comunicative. Utilizza strumenti informatici e di comunicazione in situazioni significative di gioco e di relazione con gli altri. È in grado di usare le nuove tecnologie e i linguaggi multimediali per supportare il proprio lavoro, avanzare ipotesi e validarle, per autovalutarsi e per presentare i risultati del lavoro. Ricerca informazioni e è in grado di selezionarle e di sintetizzarle, sviluppa le proprie idee utilizzando le TIC e è in grado di condividerle con gli altri. Conosce l’utilizzo della rete sia per la ricerca che per lo scambio delle informazioni». Come si può vedere, nel contratto che la collettività mediante le indicazioni ministeriali propone alla Scuola per educare le nuove generazioni, esistono chiari e condivisibili riferimenti a degli obiettivi di qualità e di modernità; la scuola però risulta inadeguata a portare a termine il proprio compito.

Vi è forse una mancanza di competenza performativa nella scuola, nel suo poter-fare? In Friuli Venezia Giulia, secondo statistiche disponibili sul sito dell’Ufficio Scolastico Regionale, escluse le Scuole dell’Infanzia (dove i ragionamenti sul computer in classe trovano altro significato) il 90% delle scuole è provvisto di un laboratorio multimediale, e il 40% delle Primarie sono connesse in ADSL, il 60% delle scuole medie, l’85% delle scuole superiori. Dal punto di vista della connettività, la situazione non è rosea, e probabilmente in altre regioni italiane le statistiche sono ancor meno confortanti, nonostante siano ormai passati dieci anni dai primi seri piani nazionali di informatizzazione scolastica, sia dal punto di vista della dotazione tecnologica sia da quello dell’aggiornamento professionale dei docenti.

Vi è forse una mancanza nel saper-fare? C’è forse in questa storia un problema di competenze, qualche incantesimo o qualche antagonista che impedisce all’Eroe-Scuola di comprendere la tecnologia TIC come Aiutante nel portare a compimento la propria missione formativa? Se l’obiettivo è preparare i giovani ad essere consapevolmente e responsabilmente Cittadini di un mondo tecnologico e mediatico, perché la Scuola si avvale poco delle tecnologie TIC per il proprio insegnamento, né pone riflessivamente attenzione a una lettura critica di quelle stesse tecnologie (educazione ai media, non solo educazione con i media) grazie a cui entriamo in contatto con il mondo, così determinanti nel forgiare la nostra identità?

L’autonomia in una società che cambia
L’ostacolo principale potrebbe essere costituito dalla stessa mentalità con cui storicamente la Scuola pensa sé stessa, dal proprio de-finirsi e voler trarre identità dall’essere autonoma, per non dire avulsa e anacronistica, rispetto alle novità della società attuale e alla modernità costituita dal sistema mediatico, sia dal punto di vista dei contenuti didattici e delle metodologie d’insegnamento, sia da quello della propria organizzazione interna in quanto “meccanismo” sociale deputato formalmente all’Educazione anche in termini di Cittadinanza delle nuove generazioni “digitali”.

Tutto questo riguarda senza dubbio il cambiamento che la società tutta sta intraprendendo, per tentativi ed errori, nell’adeguare le proprie strutture all’Epoca della Cultura Digitale, e sappiamo come il cambiamento tanto negli individui tanto nelle organizzazioni lavorative, percepito come minaccia, provochi ansia e conseguenti resistenze e difese, come irrigidimento delle “posture esistenziali” e delle identità storicamente consolidate.

Certo, sono le persone ad animare le istituzioni, e senza tema di smentita le innovazioni tecnologiche oggi a Scuola sono quasi ovunque promosse da singoli individui, “missionari” ed “evangelisti” (neanche le TIC fossero cosa spirituale o metafisica, e non concreto ambiente di crescita e di relazione interumana) che spesso lottano contro l’incomprensione e la sottovalutazione del loro lavoro da parte dei colleghi e dell’istituzione scolastica. Ma se il senso del discorso e della narrazione dell’attore Scuola rimane imprigionato dentro una falsa coscienza di sé e del proprio ruolo sociale, se le rivoluzioni tecnologiche come la nascita della rete Internet non vengono recepite e metabolizzate dalla Scuola con il giusto rilievo antropologico rispetto alla portata del cambiamento sociale di cui sono foriere, gli insegnanti e i dirigenti scolastici non troveranno certo fuori di sé le spinte al cambiamento, né troveranno dentro di sé motivazioni valide per innescare ammodernamenti nel fare scuola.

Come il posizionamento dentro l’adeguata cornice interpretativa – ambiente di apprendimento, nonsolo strumento didattico – conferisce senso formativo all’utilizzo di un laboratorio multimediale scolastico o al singolo computer nella pratiche di insegnamento, a sua volta una concezione ampia e innovativa della Scuola come Luogo educativo osmoticamente attraversato da flussi concreti di persone e idee provenienti dalla società “esterna” e dal territorio potrà donarle quelle competenze che le sono necessarie per onorare il contratto con la collettività, conferendole al contempo in tal modo un sentimento identitario rinnovato e commisurato al contesto della sua azione in quanto legittimo Attore sociale. Perché l’identità è sempre somma olistica dell’Io e della circostanza che lo contiene, e il mondo è cambiato.

Cambiamento e organizzazioni lavorative

Riporto anch’io questo schema elaborato da ADFOR, e presentato su Humanitech.

Con tutti i limiti che una eccessiva semplificazione comporta, espressi anche nel post originale, rimane comunque una buona mappa per decifrare le dinamiche interne delle organizzazioni lavorative e gli intoppi che ogni strategia di processo innovativa, in questo caso aziendale, è destinata a incontrare.
Se poi penso all’organizzazione scolastica, come nel mio post precedente, in relazione al cambiamento indotto da un uso moderno delle TIC sia nella didattica sia nel funzionamento come “macchina” statale, alla necessità per la Scuola di fare seriamente comunicazione pubblica – dovrebbe farlo per legge, essendo Pubblica Amministrazione, ovviamente viene da mettersi le mani nei capelli per la disperazione, perché può capitare di incontrare dirigenti senza visione, insegnanti incaricati di essere Funzioni Strumentali per le tecnologie e Responsabili di laboratorio che non hanno nemmeno la mail personale, nessun incentivo (né personale né economico come finanziamenti ai progetti) al cambiamento, pc vecchi di sei anni con le licenze di windows craccate e connessioni a 56, nessun piano di implementazione serio perché tanto si ragiona sull’immediato e pochi capiscono la necessità di progettare oggi la scuola di domani.
Per dire, la Posta Elettronica Certificata, la firma digitale, l’uso obbligatorio della mail per comunicazioni di servizio anche ministeriali stanno già gettando parecchio scompiglio negli uffici amministrativi scolastici… non era forse sufficiente il librone del protocollo, dicono quelle, con i timbri come all’epoca di Carducci? Signora mia, non ci sono più le mezze stagioni.
Quindi la Scuola vive tutto quello che vedete in giallo, in questo momento.

Detto en passant, quello schemino potrebbe diventare, avessi voglia di lavorare, un ottimo spunto di partenza per una riflessione semiotica sui comportamenti e sui flussi di comunicazione nei gruppi orientati al cambiamento, in quanto come materiale semi-lavorato offre un testo su cui poter affondare i bisturi analitici.
La presenza di configurazioni discorsive di tipo patemico, ovvero espressioni di affettività come i sentimenti di frustrazione, ansia, confusione potrebbe permettere una sorta di reverse engineering, dove a partire proprio dalla percezione (di un esperto nella conduzione dei gruppi, o dalla autopercezione dell’organizzazione) del clima affettivo specifico di una scuola o di una Istituzione si può risalire – con le solite mille cautele interpretative – ai blocchi nel flusso della comunicazione e nell’attuazione del cambiamento.

Web20, scuola, wiki: il cambiamento necessario

Metto qui un’interessante presentazione di Luisanna Fiorini, insegnante ed esperta di nuove tecnologie, dedicata ai cambiamenti sociali in atto, alle nuove webtecnologie, alla scuola e alle tematiche dell’apprendimento. La seconda parte prende in considerazione inoltre l’utilizzo dei wiki nell’uso didattico.

Credo sia importante sottolineare l’affermazione secondo cui in questo momento storico è vitale puntare in maniera decisa verso l’aggiornamento delle competenze di cultura digitale possedute dagli insegnanti, proprio per far fronte alla consapevolezza di una sostanziale non adeguatezza della scuola rispetto alla preparazione culturale da passare alle nuove generazioni, al fine di rendere queste ultime pronte ad abitare in un mondo necessariamente 2.0.

Di un insegnante che non sappia ragionare di blog e di podcast, che non sappia riflettere sul valore della folksonomia, che non comprenda la filosofia opensource e la società della conoscenza, oppure le nuove forme di abitanza digitale, semplicemente non mi fido. Non lo ritengo in grado di preparare i giovani al futuro, tutto qui.

Educazione civica, e-Democracy

Introdurre i giovani alla politica e ai meccanismi che stanno alla base dei processi decisionali in modo semplice ed interattivo. Oggi tutto questo è possibile come dimostra il nuovo progetto del Consiglio regionale Veneto, Civil Life. L’iniziativa, presentata alcune settimane fa nel corso della rassegna “Dire e Fare nel Nord-Est”, rientra nei piani di e-democracy della Regione Veneto ed è stata pensata con un obiettivo preciso ed ambizioso: rimuovere tutti gli ostacoli che possono compromettere il dialogo fra la Scuola veneta e l’Istituzione regionale. Un risultato che può essere raggiunto facilmente se il dialogo fra politica e scuola avviene con i linguaggi interattivi che caratterizzano il web e che rendono più immediata la comprensione dell’attività del Consiglio regionale.

Una sezione di “Terzo Veneto”, il portale dedicato dalla Regione Veneto all’e-democracy, ha sviluppato un sistema informatico per favorire la partecipazione degli studenti con tecnologie quali forum e sondaggi interattivi. A questi si affiancano però anche due proposte multimediali di “educazione civica”. Dal sito del Consiglio regionale sarà possibile simulare una visita virtuale a Palazzo Ferro Fini, sede del Consiglio, ed effettuare così un percorso nelle sale di maggior interesse storico-architettonico alla scoperta delle attività istituzionali. La visita virtuale offre la possibilità di muoversi all’interno delle sale attraverso alcune animazioni e di ascoltare l’audio-guida descrittiva.
Per spiegare ai giovani la vita democratica e politica, il Consiglio Regionale ha deciso di coinvolgere gli studenti anche nella sperimentazione di un innovativo videogioco: “Election Play, il videogioco della democrazia”.
Utilizzando il modello dei giochi di ruolo, Election Play vuole dare, a giovani e meno giovani, l’occasione di confrontarsi con le prove cui deve sottoporsi chi intende presentarsi al confronto elettorale: stesura di un programma, scelta dei candidati, impiego dei media, confronto pubblico, insidie e trabocchetti degli avversari politici. All’interno del videogioco l’aspetto ludico si fonde con la funzione didattica. Ogni studente ha il compito di raggiungere il punteggio più alto superando anche prove che richiedono di raccogliere informazioni e documenti sulla struttura, le leggi e molti altri aspetti della realtà italiana.

L’idea di utilizzare un videogioco a scopo didattico può rappresentare un’interessante esperimento anche per quanto riguarda l’insegnamento della storia. La Provincia di Bolzano sta sviluppando, a questo proposito, un gioco on-line che aiuterà gli studenti a comprendere meglio la stora della loro terra. Il video-game sarà on-line per il 2009 in occasione del 200esimo anniversario dell´insurrezione guidata dal patriota tirolese Andreas Hofer contro Napoleone. Proprio quest’evento sarà il tema del game che cercherà di mettere in contatto gli studenti con la storia tirolese in maniera ludica e interattiva, dando spazio non solo alle vicende storiche, ma anche alla cultura e alla natura.

Fonte: Sophia.it

Insegnare ai “nativi”

Fonte: Indire

 

Insegnare ai “nativi” nello spazio mediato di rete

Nasce Taccle, un progetto europeo per accompagnare i docenti del XXI secolo negli scenari aperti dalla Rete e dai nuovi media

di Fabio Giglietto

20 Febbraio 2008

Chiunque sia entrato di recente in una classe, ha conosciuto il tipo di nativi di cui si parla in questo articolo. Si tratta dei cosiddetti natives (Prensky 2001), ovvero quei ragazzi nati a partire dagli anni ’80, cresciuti in mezzo a personal computer e Internet: la prima generazione di giovani socializzati all’uso di una tecnologia da una generazione di adulti che non ha avuto il tempo di comprendere pienamente le logiche di questi nuovi media (Jenkins 2006).

Anche questo non può essere sfuggito a chi abbia frequentato di recente le classi di una qualsiasi scuola. Mentre gli adulti hanno fatto esperienza dello spazio geografico dove per spostarsi da un punto all’altro serve tempo e le distanze si misurano in kilometri, i nativi sembrano avere sviluppato la capacità di muoversi con altrettanto agio nello spazio mediato di rete. Uno spazio che, per essere attraversato, non richiede tempo e in cui le distanze non si misurano in kilometri, ma in nodi della rete sociale che bisogna percorrere di link in link per raggiungere la propria meta. Lo spazio mediato di rete non sostituisce per i nativi lo spazio geografico, ma vi si affianca come una nuova dimensione. Una dimensione fatta di bit e non di atomi. Anzi, una dimensione fatta di comunicazione. Una rete di conversazioni che si fanno permanenti, replicabili, ricercabili e spesso rivolte a un pubblico indistinto (Boyd 2007). Conversazioni permanenti nel tempo, come un messaggio scritto su un post-it, un libro o un post su un blog. Replicabili come qualsiasi contenuto digitale soggetto all’inesorabile legge del copia/incolla e ricercabili con Google. Rivolte (o almeno esposte) a un pubblico indistinto, come un articolo di un quotidiano, un romanzo o il proprio profilo di MySpace.

Oggi lo spazio in cui i nativi digitali passano il loro tempo è questo: si muovono con disinvoltura fra lo spazio geografico dei loro genitori e quello mediato di rete. In questo ambiente ibrido socializzano, fanno esperienze, giocano, apprendono. Ecco, apprendono. È questo lo scenario nel quale alcuni anni fa un gruppo di partner provenienti da Belgio, Inghilterra, Spagna, Austria e Italia hanno deciso di provare ad affrontare (to tackle) da una nuova prospettiva il grande tema dell’alfabetizzazione ai nuovi media degli insegnanti. Oggi, grazie al finanziamento della Commissione Europea, stiamo provando a realizzare questo progetto.

Nasce così Taccle (Teachers’ Aids on Creating Content for Learning Environments), un progetto multilaterale Comenius che alla fine del biennio 2007-2009 produrrà e rilascerà sotto licenza aperta e liberamente modificabile un manuale, un wiki e un corso pilota che mostri agli insegnanti europei come utilizzare lo spazio mediato di rete come ambiente per l’apprendimento. Scrivere per il web, aprire e gestire un blog, comprendere le logiche dei social networks e di Wikipedia, costruire materiali didattici basati sul riutilizzo creativo delle risorse esistenti (mashup) e saper distribuire i propri contenuti in rete applicando a essi le forme di licenza Creative Commons, sono solo alcuni dei temi che il progetto Taccle affronta. È importante formare gli insegnanti su come creare contenuti di qualità che permettano un utilizzo proficuo di questi nuovi ambienti di apprendimento, e questo è lo scopo principale del progetto TACCLE. L’auspicio è infatti quello di contribuire al formarsi di una cultura dell’innovazione nelle organizzazioni educative: nei suoi contenuti, servizi, teorie e pratiche pedagogiche, così come indicato negli obiettivi del programma LLP.

Ma l’innovazione non è solo nei contenuti. I partner hanno infatti concordato sull’idea di utilizzare per lo sviluppo stesso del progetto quegli strumenti e quei principi che Taccle vuole promuovere: ecco perché Taccle utilizza per il proprio sito un sistema di management dei contenuti open source; per scrivere collaborativamente il manuale viene utilizzato un wiki; per raccogliere risorse utili il tag taccleproject su del.icio.us.

Abbiamo deciso di iniziare ascoltando le esigenze dei destinatari del progetto: tutti i processi che porteranno alla realizzazione degli obiettivi di Taccle saranno aperti, trasparenti e condivisi con la comunità dei docenti. Sappiamo che senza il coinvolgimento e la collaborazione degli insegnanti non riusciremmo che a scalfire la superficie di una questione straordinariamente importante per il futuro della nostra società. Per questo chiediamo a tutti i docenti interessati di darci una mano e collaborare a Taccle entrando in contatto con i partner, frequentando e commentando il nostro sito e, soprattutto, dedicando dieci minuti a compilare il questionario online che abbiamo predisposto per iniziare a conoscerci meglio. Il gruppo di partner di progetto ha realizzato il questionario per raccogliere – a livello europeo – informazioni sulle conoscenze, le abilità ed i bisogni dei docenti che utilizzano (o meno) questi strumenti nella loro attività di insegnamento e per comprendere le loro reali esigenze formative.
Sono già tanti gli insegnanti di tutta Europa che in questi giorni lo stanno compilando!

CLICCA QUI PER COMPILARE IL QUESTIONARIO ONLINE

Fabio Giglietto

 

NuoviAbitanti

Cape Town, Open Education, Declaration

Sul sito della Dichiarazione è possibile sottoscrivere il documento, all’indirizzo http://www.capetowndeclaration.org

Dichiarazione di Città del Capo sulla Istruzione Aperta:
sbloccare la prospettiva di risorse educative aperte

Siamo all’apice di una rivoluzione globale nell’insegnamento e nell’apprendimento. Educatori di tutto il mondo stanno sviluppando un ampio bacino di risorse educative su Internet, aperte e gratuite per tutti. Questi educatori stanno creando un mondo in cui ogni persona sulla Terra possa accedere e contribuire alla somma delle conoscenze dell’umanità. Inoltre stanno piantando i semi di una nuova pedagogia, in cui insegnanti e studenti insieme creino, diano forma e sviluppino la conoscenza, approfondendo le loro capacità e la loro comprensione mentre operano.

Questo movimento emergente per un’educazione aperta unisce la tradizione consolidata di condividere le buone idee tra colleghi insegnanti, con la cultura collaborativa ed interattiva di Internet. Si basa sul principio che tutti devono essere liberi di usare, adattare alle proprie esigenze, migliorare e redistribuire le risorse senza restrizioni. Insegnanti, studenti, ed altri che condividono questo concetto, si stanno unendo per prendere parte ad un impegno mondiale per rendere l’istruzione più accessibile e più efficace.

La crescita della raccolta globale di risorse educative aperte ha creato un terreno fertile per questa iniziativa. Queste risorse comprendono materiali per corsi con licenza aperta, programmi didattici, libri di testo, giochi, software ed altro materiale di supporto all’insegnamento ed all’apprendimento. Tutto ciò contribuisce a rendere l’istruzione più accessibile, specialmente là dove i fondi per i materiali didattici sono scarsi. Alimenta inoltre un modo partecipativo di apprendere, di creare, di condividere e cooperare che è necessario in società in cui le conoscenze si evolvono rapidamente.

L’educazione aperta non è limitata solo alle risorse didattiche aperte, ma si fonda anche su tecnologie aperte, in grado di facilitare un apprendimento collaborativo e flessibile, e sull’aperta condivisione di tecniche didattiche che permettano ai docenti di giovarsi delle migliori idee dei loro colleghi. Il tutto può crescere fino ad includere nuovi approcci alla valutazione, al riconoscimento dei meriti ed all’apprendimento collaborativo. Comprendere ed adottare innovazioni come queste è fondamentale in una prospettiva di lungo termine del movimento.

Ci sono molti ostacoli alla realizzazione di questa visione. La maggior parte dei docenti resta ignara della crescente quantità di risorse educative aperte. Molti governi ed istituzioni educative non conoscono o non sono convinti dei benefici di una formazione aperta. Le differenze fra i tipi di licenza per le risorse aperte generano confusione ed incompatibilità. E, naturalmente, la maggior parte del mondo ancora non ha accesso ai computer ed alle reti che sono parte integrante degli attuali sforzi in direzione di un’educazione aperta.

Questi ostacoli possono essere superati, ma soltanto lavorando insieme. Invitiamo studenti, insegnanti, educatori, autori, scuole, licei, università, editori, sindacati, associazioni professionali, legislatori, governi, fondazioni, e altri che condividono la nostra visione ad impegnarsi per raggiungere e promuovere l’educazione aperta e, in particolare, li invitiamo a seguire queste tre strategie per aumentare la diffusione e l’effetto delle risorse educative aperte:

  1. Insegnanti e studenti: In primo luogo, consigliamo agli insegnanti e studenti di partecipare attivamente al nascente movimento per l’istruzione libera. Questa partecipazione comprende: creare, usare, adattare e migliorare le risorse educative aperte; adottare le tecniche didattiche sviluppate sulla collaborazione, sulla scoperta e sulla creazione di conoscenza; ed invitare omologhi e colleghi a partecipare. Creare ed usare risorse aperte dovrebbe essere considerato parte integrante del processo formativo e dovrebbe essere sostenuto e ricompensato di conseguenza.
  2. Risorse educative aperte: In secondo luogo, invitiamo insegnanti, autori, editori e istituzioni a rilasciare con licenza libera le loro risorse. Queste risorse educative aperte dovrebbero essere rilasciate sotto licenze che ne facilitino l’uso, la modifica, la traduzione, il miglioramento e la condivisione da parte di chiunque. Le risorse dovrebbero essere pubblicate in formati che facilitino sia l’uso sia la pubblicazione e che siano compatibili con le diverse piattaforme tecniche. Per quanto possibile, dovrebbero anche essere disponibili in formati accessibili a persone disabili ed a persone che ancora non hanno accesso a Internet.
  3. Politiche di formazione aperta: In terzo luogo, governi, istituti scolastici, licei e università dovrebbero dare la massima priorità alla formazione aperta. Teoricamente, le risorse educative finanziate con fondi pubblici dovrebbero essere risorse educative aperte. Le procedure di adozione e di riconoscimento dovrebbero dare la preferenza alle risorse educative aperte. Le raccolte di risorse educative dovrebbero attivarsi per includere ed evidenziare le risorse educative aperte al loro interno.

Queste strategie rappresentano non sono solo la cosa corretta da fare ma costituiscono un saggio investimento per l’istruzione e l’apprendimento nel ventunesimo secolo. Permetteranno di spostare gli investimenti oggi rivolti a costosi manuali verso un migliore apprendimento. Aiuteranno gli insegnanti ad eccellere nel loro lavoro e ad offrire nuove occasioni di visibilità e di effetto globale. Accelereranno l’innovazione nell’istruzione. Daranno maggior controllo sull’apprendimento agli studenti stessi. Queste sono strategie sono ragionevoli per chiunque.

Migliaia di insegnanti, studenti, autori, operatori e legislatori sono già coinvolti in iniziative di formazione aperta. Ora abbiamo l’occasione di far crescere questo movimento per includere milioni di insegnanti e di istituzioni da tutti gli angoli della terra, ricchi e poveri. Abbiamo l’opportunità di raggiungere i legislatori, lavorando insieme per rendere concrete le prospettive che ci si presentano. Abbiamo l’occasione di coinvolgere gli imprenditori e gli editori che stanno sviluppando innovativi modelli aperti di business. Abbiamo la possibilità di sostenere una nuova generazione di studenti che si misurino con i materiali didattici aperti, facilitati nell’apprendimento dalla condivisione della loro nuova conoscenza e consapevolezza con altri. Ma prima di ogni altra cosa, abbiamo un’occasione per migliorare sensibilmente le vite di centinaia di milioni di persone nel mondo attraverso opportunità didattiche e di apprendimento liberamente disponibili, di alta qualità e adatte alle realtà locali.

Noi, sottoscritti, invitiamo tutti gli individui e tutte le istituzioni ad unirsi a noi nel sottoscrivere la dichiarazione di Città del Capo per l’educazione aperta e, così facendo, ad impegnarsi ad attuare le tre strategie indicate sopra. Inoltre incoraggiamo i firmatari a seguire strategie supplementari per la tecnologia didattica aperta, per la condivisione delle pratiche d’istruzione aperta ed altri metodi che promuovano la più ampia causa dell’educazione aperta. Con ogni persona o istituzione che assume questo impegno – e con ogni sforzo teso ad articolare ulteriormente la nostra visione – ci avviciniamo ad un mondo di educazione aperta, flessibile ed efficace per tutti.

15 settembre 2007 Città del Capo, Sudafrica

Tecnologia e istruzione: una visione buddista

Luca Chittaro racconta l’incontro che il Dalai Lama ha avuto con gli studenti di Udine.
Interpellato sulla tecnologia e l’istruzione, quest’ultimo dice:

Grazie alla tecnologia, viviamo in un mondo sempre piu’ interconnesso. Dobbiamo riflettere sugli effetti di ogni nostra azione su tutti e su tutto il mondo perche’ siamo sempre piu’ interdipendenti. La globalizzazione ci richiede di introdurre il concetto di “responsabilita’ globale”. Dobbiamo puntare al benessere globale, sentirci come genere umano parte di una cosa sola. Non essere compassionevoli solo in cambio di una gratificazione di nostri piccoli desideri. Il raggiungimento del benessere deve passare attraverso l’azione, non solo preghiera, speranza e aspettative. Dobbiamo conoscere la realta’, avere una “visione realistica della realta’” e l’istruzione e’ il fattore chiave per raggiungere questo obbiettivo. Quando come studenti avrete terminato l’universita’ e vi troverete a risolvere problemi, abbiate una visione piu’ panoramica possibile, cioe’ olistica, della realta’; non focalizzatevi solo su singoli aspetti specifici.
Istruzione e tecnologia in se’ non hanno un valore ne’ negativo ne’ positivo. Cio’ che ne determina il valore e’ lo stato mentale di chi le applica.