Archivi categoria: Scibile

Intelligenza laterale

futuroprossimo

Nel 2008 Chris Andersen, direttore di Wired e già famoso o famigerato per certi ragionamenti pochi anni prima sul web 2.0 e sulla teoria della coda lunga, scrisse un altro pezzo che fece un certo scalpore perché proclamava la “fine della teoria” intendendo proprio la teoria scientifica, almeno di quella fondata sul formulare un’ipotesi da poi verificare sperimentalmente – o falsificare, meglio.
Un salto paradigmatico: semplicemente indagando i Big Data è possibile estrarre risposte, o di certo configurazioni di senso, senza sapere prima bene cosa cercare. Risposte a domande che non abbiamo fatto. Dal caos indistinguibile di milioni di dati emergono pattern, schemi, correlazioni statistiche per noi inconcepibili quindi imprendibili. Un po’ tipo Picasso, “io non cerco, io trovo” e tutta la serendipità precedente e successiva.
Adesso una IA ha prodotto un risultato simile, un trovare senza cercare: analizzando venticinquemila radiografie del ginocchio può dirti quanta birra bevi o quanti fagioli mangi, e chissà quante altre informazioni può ricavare nell’individuare appunto dei pattern invisibili.
Nell’articolo che linko sotto c’è poi tutta la pappardella dei rischi della privacy e della credibilità che siamo disposti a concedere a diagnosi computerizzate, ma a me questo interessava: lasciamo libera l’intelligenza artificiale di fare questi passi laterali, questo scombiccherare domande e risposte, lasciamola indagare dove noi non possiamo arrivare.
Abbiam bisogno di altri punti di vista, alieni e altro-da-noi, per provare a sistemare i disastri che abbiamo e stiamo combinando sul pianeta, in ogni settore.
Il senso di una domanda è la direzione in cui cercare la risposta, ahimè formulata dentro lo stesso linguaggio.
Aboliamo la domanda per indagare nuove direzioni di risposta, con nuovi linguaggi.

Dalle radiografie l’IA deduce gusti alimentari: ecco perché è grave

Un eroe narrativo nell’economia delle piattaforme

Per deformazione professionale ho sempre cercato di individuare le forme della manipolazione cognitiva e performativa presenti nelle narrazioni del digitale, compreso quelle più recenti dalle piattaforme social in poi, e quindi qui si tratta di cercare un Eroe della storia indagando o il singolo individuo, noi stessi che vagabondiamo tra varie piattaforme (si rischia di cadere nello psicologismo) impersonando e allestendo identità digitali sempre diverse, oppure individuando l’Eroe della narrazione nelle piattaforme stesse, nel loro dover congiungersi con un Oggetto di valore – monetizzare gli spazi per gli inserzionisti, ottenere profilature sempre più stringenti e dettagliate per nutrire l’algoritmo propulso da IA – che riguarda il nostro restare e illusi e collusi, catturati nella rete delle gratificazioni personali e dei contatti relazionali che le piattaforme offrono.

Dovremmo forse scientemente a questo punto porre la consapevolezza stessa del nostro abitare in luoghi digitali progettati e “pilotati” quale vero Eroe della narrazione, marcare quelle fratture del testo (il nostro essere onlife, il nostro lifestreaming degli ultimi venti o trent’anni) dove ritroviamo indizi di superamento di prove cognitive come le prese di coscienza che abbiamo avuto nell’accorgerci di essere manipolati dalle piattaforme, come quando Google ha fatto sparire il motto “don’t be evil” dal proprio brand o Facebook in tribunale dice “we run ads”.
Diventare padroni del nostro destino, suvvia, riconoscendo di essere stati prede di manipolazioni e persuasioni, spesso sotto la soglia della coscienza in quanto ingaggiati “di pancia” su tematiche affettive o emotive indotte.

Sia chiaro: siamo ben oltre l’Economia dell’attenzione in quanto bene scarso, siamo proprio nell’Economia delle piattaforme e dei loro meccanismi acchiappaclick padroni del nostro tempo e delle nostre compulsioni, esplicitamente organizzate per seminare engagement nel nostro fare quotidiano, ormai altamente specializzate nel design di interfacce comportamentali studiate apposta per tenerci al guinzaglio allettandoci con promesse impastate di pulsioni e desiderio per tenerci in definitiva chiusi dentro questi giardini murati (walled garden) oppure meglio hortus conclusus ovvero orti conchiusi dove viene coltivata la nostra opinione – anche tramite polarizzazione, filter bubbles, echo chambers, sì – affinché sia volutamente conforme all’ideologia dominante e pro mantenimento status quo trasgressioni comprese (ipotesi marxista sospettosa), dentro questi stabilimenti di umanità in cui vaghiamo forse cercando conoscenza e confronto e dialogo, oppure forse ci arrendiamo ai cuoricini e ai gattini, senza riuscire a fuggire.

La critica all’Economia estrattivista delle piattaforme, dei suoi subdoli modi per catturarci, tenerci prigionieri (gli anelli del Potere) dei suoi meccanismi perfino patologici e patogenici per il  funzionamento tecnosociale non è cosa nuova, potendo in letteratura risalire a dieci o quasi quindici anni fa, nella giovinezza dei social che già mostravano piuttosto aggressivamente i dispositivi per colonizzare e controllare i nostri pensieri e i nostri comportamenti, indicando al contempo con il loro stesso agire quale fosse il territorio o l’Oggetto di valore da conquistare, ovvero la nostra attenzione e i nostri comportamenti, consapevoli o meno essi fossero. 

L’ipercapitalismo del digitale nell’Economia delle piattaforme ha fagocitato i beni comuni, i commons, innanzitutto il tempo e poi la creatività di singoli e comunità, la libera partecipazione non remunerata di gruppi sociali che abitavano in Rete per migliorare qualcosa, fosse un software o un’enciclopedia o un quartiere di una città, gli ingranaggi di una collettività tessendo reti relazionali di valore.

Un’internet che da qualche parte è ancora là sotto, fondata su condivisione paritetica e orizzontale delle informazioni e della conoscenza, e poi un web sistema operativo dell’umanità, vecchio sogno per collegare menti e azioni nella rete delle relazioni planetarie.

Manipolatemi con la nostalgia, o invitatemi a discussioni su siti web senza i tag di Google.

Vediamo, 2023 e oltre

Ovvio che mi affascina l’Intelligenza artificiale o i nuovi algoritmi di machine-learning e tutte le potenzialità e insomma fate riferimento a tutta la massa di speculazioni che leggiamo in giro in questo passaggio d’anno sulle implicazioni di chatGPT.

Due cose le ho pensate.

Ma la verità è che sono proprio curioso di vedere cosa succederà, tra non molto, alla loro “implementazione” nel sistema operativo sociale che è Internet.

Smart-city = decrescita

Unisco due passioni, diciamo così.
Ovviamente la smartcity è da interpretare come relazione tra città e collettività che la abita, nelle sue competenze e conoscenze. Con il solito parallelo tra hardware (gli edifici, le piazze, la sensoristica, la fibra ottica, il wifi) e i comportamenti umani software (i flussi di merci persone e informazione, l’abitare i media e i linguaggi, l’esercitare cittadinanza attiva) è da porre l’attenzione alla relazione tra gli elementi, oltre all’analisi degli elementi. Come un buon informatico, che è tale quando pone l’attenzione tra risorse e programma, e quindi progetta. Come un antropologo, peraltro, come uno psicologo post cognitivista, come un linguista post strutturalista, come tutta l’intelligenza dei pensatori bravi della seconda metà del ‘900 ci ha insegnato. Porre l’attenzione alla relazione, e quindi al contesto. Quel qui e ora dove avviene pragmaticamente la comunicazione, con i suoi impliciti e i suoi non detti. Gli automatismi, le abitudini.
E un’abitudine da spezzare è quella della pessima aura che la parola decrescita si porta dietro, come diminuzione, povertà, riduzione, de- qualcosa.
Meglio morigeratezza, sobrietà, o comunque ottimizzazione delle risorse e dei processi per sfruttare le risorse stesse, la qual cosa è proprio la linea d’intenti di una decrescita correttamente intesa. Tramite strumenti come filiere corte, distretti di economia solidale, incontro locale domanda e offerta, democrazia di prossimità. 
Non pensate al perché, pensate al come. Siate un po’ tecnologi, visto che viviamo in ambienti tecnologici da almeno due milioni di anni, e non eravamo nemmeno uomini quando addomesticavamo il fuoco.
E qui parlo di sistemi, metodologie, meccanismi per gestire la complessità dei luoghi in cui abitiamo ora.
Luoghi che noi stessi abbiamo inventato, il paesaggio è un oggetto tecnologico tanto quanto un prosciutto o un sistema elettorale, e quindi si tratta di cose che abbiamo progettato e realizzato e via via migliorato nel tempo, migliorandone la tecnologia.
La smart-city (o porzioni di territorio anche miste rurali, non solo metropolitane: la connettività è indifferente alla geografia) è social, e la collettività è il motore e il destinatario, la qualità del vivere da perseguire. Si tratta di ambienti economici basati su relazioni umane, e la città connessa è il sistema operativo del funzionamento. E’ anche il luogo della coscienza collettiva, della pubblica opinione, della formazione delle identità, della loro negoziazione e patteggiamento in termini interpersonali e gruppali, è il posto dove gli accadimenti diventano fatti storici.
Ecco perché ottimizzare la smartcity è qualcosa che va in direzione della decrescita, perché ottimizza sistemi produttivi e distributivi di beni e servizi, perché incrementa e moltiplica la partecipazione della collettività alla vita pubblica, decrescendo da un sistema (meccanismo) di rappresentatività politica e gestione amministrativa del territorio molto verticale, roccioso, gerarchico, fortemente strutturato, a modalità più liquide, orizzontali, partecipative.
Non abbiamo ancora una grammatica ben fondata per padroneggiare i nuovi linguaggi della partecipazione permessi dalle nuove tecnologie di connettività, non sappiamo parlare bene e ci stiamo inventando le parole più adeguate a denotare i fatti del mondo, ma d’altronde sette anni fa non c’era neanche Facebook, e non sapevamo nulla, solo vagheggiavamo possibilità. Siamo nella culla, as usual.
Credo anche che possedere molti dati su quanto avviene sui territori geografici, a vari livelli di pertinenza (iperlocale, comunale, regionale, etc.), sui flussi di persone beni e informazioni, sia fondamentale e necessario per poter analizzare dinamiche abitative e progettare migliorìe. Open data ovunque, di ogni tipo, dati crudi e già rielaborati, sintesi e spaccati, tutti devono pubblicare tutto, per trasparenza, per contribuire a rendere di migliore qualità l’abitare.

voglio sapere TUTTO. Disaggregate i dati, fate quello che volete. Propongo tra l’altro la distinzione tra dati caldi (sensibili) e freddi (quelli insensibili ehehehe). Voglio sia possibile sapere tutto di un’area geografica. Voglio sapere cosa facciamo come collettività MENTRE viviamo, voglio saper CHI SIAMO. E quindi capir come ottimizzare i nostri comportamenti, uscire da nevrosi di massa, coltivare la nostra personalità, rifinire il nostro stile dell’abitare come muffa su questo pianetucolo, voglio un’identità.

Questo era un mio commento su FB, dentro una discussione un po’ bislacca e quindi piuttosto libera su una correlazione tra fasi lunari e reati o comportamenti “devianti”, un mio vecchio pallino, che mi ha portato a scrivere il presente post.

Narrazioni mediatiche dei contesti situazionali

Ci ho pensato e ne ho parlato in giro spesso, per lavoro.
Come il pronunciare i ragionamenti, magari in quella meravigliosa escalation ideativa durante un brainstorming o anche solo una ricca chiacchiera, diventi oggi catturabile in tempo reale. 
E non registrando, ma anche scrivendo quello che diciamo. Tutti quei software speech-to-text da anni e anni fan viaggiare la fantasia nel provare a immaginare un mondo senza penna (ormai molto) e senza tastiera. Tutte le riflessioni sulle interfacce, quelle lì solite. Richiamo a semiotiche naturali nell’usabilità, trasparenza dell’interfaccia.
Quindi questa è anche l’epoca in cui una fetta gigantesca di umanità prima storicamente solo loquace, ma che non lasciava traccia perché le parole volano, diventa loquace e incide un supporto, come dire. Rende solido, copiabile, diffondibile, ricercabile un contenuto espresso parlando. 
Nella storia della Conoscenza, il fatto di poter scrivere e articolare i ragionamenti (mi vien sempre da pensare che molti filosofi famosi sono stati scrittori dallo stile eccezionale) abbiamo sempre avuto un filtro costituito da chi appunto sapeva scrivere e articolare ragionamenti. La civiltà è riuscita in duecento anni a garantire abbastanza del primo, forse meno del secondo, ma vabbè. In ogni caso, la storia delle idee progrediva su oggetti culturali abilitati dalla tecnologia della stampa, e quindi quotidiani e mensili e libri e atti di convegni e manifesti. Da vent’anni scriviamo direttamente in Rete, e pubblichiamo personalmente. Ora possiamo dire le cose a un dispositivo, e pubblicare. Ma lo stile dello scrivere nei secoli ha posto una correlazione tra sapere articolare in ragionamenti (inventio, dispositio, elocutio, siam sempre lì) in forma scritta e qualità del contenuto esposto. Se disponi bene i tuoi argomenti (approccio architettonico al discorso) o se sei abile a raccontarli sul piano dell’espressione (stilistica, strategie narrative, abbellimenti) eri più intelligente, per dire. E poi magari dici anche cose nuove e interessanti, che alla lunga non è un optional.
Adesso arriveranno in Rete gli strombolotti, milioni di anacoluti, inflessioni del discorso dalla sintassi labirintica, oppure brevissimi assaggi di pensieri spezzettati. Mi diranno “sei laconico come un twitter”, se parli a frasette, slogan, aforismi, proverbi. Oppure tanti, ma brevi. Assertivo in 500 caratteri letti davanti al telefonino, oppure romanticissimo. E quelli che si lasceranno prendere dal delirio e sproloquieranno per mezze orette, tanto abbiamo inventato lo sbobinatore.
Ma credo proprio che tra cento anni la nostra società sarà profondamente diversa, grazie al fatto di poter scrivere il discorso pronunciato, e portare con sé ampi stralci di situazione enunciativa dentro il testo. L’enunciazione enunciata, ora molto più efficiente grazie a tecnologie della comunicazione. Il discorso che si fa carico di rappresentare (vedremo con che codici) una colossale fetta del mondo, che fino a oggi andava persa. Un embrayage, oui.

Come scriveremo in un futuro senza tastiere?

Scritto da 40KTEAM | Pubblicato: OTTOBRE 8, 2012
“Le buone idee non arrivano parlando, ma scrivendo. Emergono dal pensiero calmo, dal trasferimento silenzioso delle parole sul supporto. Il punto non è se la buona scrittura e le buone idee sopravviveranno. Il punto è in che modo noi scrittori saremo in grado di adattarci. Saremo gli unici al mondo ancora legati alle vecchie tastiere? O impareremo invece a pensare abbastanza velocemente da poter esprimere a voce quegli stessi pensieri in modo chiaro e altrettanto bello?”
Fonte: 40k

Eco-sistema unopuntozero

Io gli voglio bene, a Umberto Eco.
Mi diede dei bei voti all’università, ci chiacchierai affabilmente un paio di volte passeggiando sotto i portici di Bologna. A imbatterti nei suoi libri di semiotica al momento giusto, quando un amatissimo corso di studi già orienta il tuo sguardo sulle problematiche della significazione e della comunicazione, potrebbero accaderti degli sconvolgimenti radicali, sconquassi cognitivi, e da quel momento in poi ti trovi costretto a leggere il mondo in un certo modo, perché l’eleganza e la potenza di quei metalinguaggi rivelano i meccanismi profondi del nostro dare senso agli eventi, con le parole e con i segni. La semiotica è un punto di vista. Una disciplina, non una scienza. E poi Eco scrive bene, poco da fare, ti fa ridere anche quando ti racconta la filosofia medievale.
Inoltre, non gli si può nemmeno rimproverare di non conoscere i computer, perché saranno almeno quarant’anni che si occupa di logica computazionale e negli anni Sessanta la cibernetica che si intrecciava con la linguistica era dignitosissimo campo di interessi accademici.
Tant’è che da lì sarebbero giunte numerose suggestioni per i linguaggi informatici di programmazione, di cui sicuramente Eco si occupava attivamente tra fine anni ’70 e primi ’80, tra i suoi studi sulle teorie sociologiche della ricezione dell’opera e il successivo interesse per la “lingua perfetta”, naturale o artificiale che fosse, e tutti gli esempi storici che possono venire in mente a essa collegata, da Adamo (in che lingua parlò, quando Dio gli chiese di nominare il Creato?) a Raimondo Lullo a Athanasius Kircher all’esperanto ai linguaggi formalizzati.
Ma di web a quanto pare Eco non ci capisce. 
Noi tutti qui ormai traguardiamo i computer e i dispositivi, e puntiamo l’attenzione sulla digital life, sulla socialità in Rete, parliamo di Cultura digitale e non di Cultura informatica. Nel solito parallelo con le strade e le automobili, ci interessiamo dei comportamenti umani negli spazi sociali digitali, non di tecnologia del motore a scoppio (il pc) e della tecnologia della carreggiata autostradale (le reti).
Abbiamo in quindici anni di frequentazione di mondi digitali compreso quanto l’hardware influenzi il software, sappiam fare la tara e applicare le giuste categorie di giudizio valutando a esempio le diverse nicchie ecologiche in cui abitano un blog e un quotidiano online o l’enciclopedia cartacea e wikipedia, conosciamo per esperienza concreta di vita la portata “epistemologica” dei singoli strumenti e ambienti, e soprattutto confidiamo nella conversazione continua e incessante che agisce il web, dove le cose importanti sono i valori in circolazione, la reputazione, la fiducia, il pluralismo delle voci.
Ma di queste cose Eco non sembra accorgersi. Dice che manca il “filtro sociale”, ma la Rete tutta è filtro sociale. Credo per lui il web sia ancora una sorta di biblioteca giusto al di là dello schermo, quella finestra di pixel che io non vedo più.
Lui cerca parole ferme, testi come libri, io guardo i flussi di conversazione e la costruzione sociale della conoscenza e quindi della realtà, cose che peraltro Eco conosce bene, essendo coetaneo di Searle e Fodor, avendo con essi spesso dialogato tramite carteggi e botta-e-risposta nei convegni o nelle prefazioni dei libri, vero Luogo conversazionale dell’epoca dei supporti cartacei, e per aver lui stesso promosso teorizzazioni basate sulla condivisione del valore semiotico dei segni nell’universo dei parlanti (la nozione echiana di “enciclopedia”).
Se Eco vede i blog come libri, forse gli viene in mente una collana, una progressione, una serialità, una linea. E ogni testo è una perla di cui conoscere autore, paratesto, storia editoriale. Ma sono sempre perle in fila.
Per me un blog è un nodo nella Rete, è una parola in un discorso collettivo. Ne valuto la fondatezza e la novità in sé, per quanto posso fare con le mie conoscenze, e poi possiedo strumenti, appresi in anni di frequentazione e di relazioni interpersonali, per misurare nella Rete dei mille intrecci e delle mille voci il valore di quella parola, di quell’articolo giornalistico, di quel post su blog, di quell’affermazione in una chat o su un social network, per come rimbalza, per come viene ripreso e da molti commentato, per le discussioni che riesce a generare nell’ecosistema digitale e poi magari esondare sui media tradizionali, dove spesso viene frainteso in quanto non compreso nel giusto contesto. E il contesto è la chiave interpretativa, sempre. 
Dei molti significati di una parola, il contesto seleziona quello pertinente, e la parola assume senso. Qui e ora, storicamente, necessariamente.
Consideriamo dato il valore di uno scritto. Il suo significato storico, contingente, viene da noi misurato secondo relazioni sfondo-figura. La figura, l’elemento figurativo, il segno, trae il suo senso dallo sfondo su cui si staglia. E oggi lo sfondo è cambiato, e non è più fatto di collane secolari di libri che richiamano altri libri, di biblioteche borgesiane o come quelle de “Il Nome della Rosa”, ma è uno spazio vivo, di vive conversazioni.
E la stessa idea di “enciclopedia” di Eco, come cultura che vive nella mente di una comunità di parlanti (e che garantisce il reciproco comprendersi) ha forse cambiato forma, proprio nel senso di “forma del contenuto” su cui Eco rifletteva filosoficamente a fine anni Sessanta, quando stava ancora maturando quelle posizioni che lo avrebbero portato a definire il segno come “funzione segnica” che correla piano dell’espressione e piano del contenuto. E’ cambiata la forma dello sfondo, e dobbiamo modificare il modo in cui attribuiamo senso agli elementi significativi. Oggi la forma dell’enciclopedia è la Rete, non la biblioteca. Già in Eco abbiamo il rizoma quale riferimento figurativo, ma oggi noi tutti abitiamo nello scibile, non solo le opere chiuse (per quanto sempre aperte). Le persone abitano direttamente i Luoghi della conoscenza, e le relazioni tra di loro sono elementi sintattici imprescindibili per la comprensione del testo, della sua semantica misurata nella conversazione.
Con il solito parallelo, potrei anche dire che Eco vede gli alberi, ma non vede il bosco, dove gli alberi vivono come entità collettiva ecosistemica, in dialogo perenne.
E quindi una volta di più, come dice Mantellini riportando una sua intervista a un giornale spagnolo, quando parla di web Eco dice baggianate (vedi anche Downloadblog). 
Cose magari giuste, ma di quando il web appunto era pensato e vissuto ancora come una biblioteca, fatta di editori/blogger senza alcuna autorevolezza (ma l’autorevolezza se la sarebbero conquistata con le migliaia di interazioni direttamente intrattenute con migliaia o milioni di utenti). 
Cose magari giuste, se prese in modo isolato, ma giudicate in un modo terribilmente inadeguato rispetto all’attuale funzionamento dell’ecosistema della conoscenza.
Ragionamenti magari giusti, se intrapresi in solitudine da chi usa il web solo per leggere, senza coinvolgersi personalmente nelle conversazioni su un social network, nei commenti di un blog, in quelle palestre di socialità dentro cui noi ci siamo fatti le ossa, maturando nuove posizioni interpretative e financo etiche sulla portata comunicativa di quanto viene affermato nelle vocianti piazze della Rete, e non solo nei silenti saloni dei conventi del Sapere.
Ahimè, Eco è un tipo unopuntozero.
Poco male, ci penseremo noi a traghettare rispettosamente e creativamente le sue squisite intuizioni sul funzionamento concreto della comunicazione umana nel mondo della Cultura digitale. Un po’ per ciascuno, tutti insieme.

Update: Mantellini approfondisce sul Post

SchoolbookCamp, poi

A mo’ di resoconto, quindi, di due intense giornate in un castello della Lunigiana, eccomi a ragionare di editoria e web, di apprendimento e ruolo della scuola, di e-book come testi scolastici.
Del convegno ne parlano Noa Carpignano, Antonio Fini, Maria Grazia Fiore, Marina Boscaino, Maurizio Chatel e Gianni Marconato, Mario Guaraldi ha lasciato sul post precedente e altrove un commento che qui mostrerò come reportage, e saluto anche Agostino Quadrino, Marco Guastavigna, Francesco Mizzau, Alberto Ardizzone, Elisabetta Tramacere, Filippo Cabiddu e l’assessore (per ora) Massimo Dadà, del Comune di Fosdinovo.

In un barcamp classico, per quanto simposio destrutturato, esiste comunque il tabellone degli interventi, dove la novità sta nel fatto che i post-it con le presentazioni dei selfpromoting relatori vengono affissi la mattina stessa del convegno, quando il tutto prende letteralmente forma.

A Fosdinovo lo SchoolbookCamp è stato invece impostato basandosi su libere discussioni dei partecipanti, inizialmente suddivisi in due gruppi, per continuare poi in plenaria. Questo necessariamente ha provocato la suddivisione dei discorsi in mille rivoli, a volte si regrediva a posizioni già espresse, a volte improvvise fughe dialettiche portavano il gruppo ad arrotolarsi su tematiche non strettamente pertinenti all’argomento del convegno, nonostante l’ottimo lavoro di Maurizio Chatel e di Mario Guaraldi quali “moderatori” delle discussioni.

D’altra parte, questa modalità gruppale di affrontare le implicazioni dell’e-book a scuola ha permesso da subito l’emergere di nette posizioni personali espresse con vivacità, ha portato i punti di vista di insegnanti editori e operatori culturali a confrontarsi direttamente, ha lasciato trapelare i colori forti delle emozioni rispetto a un tema capace di coinvolgere appassionatamente le persone, talmente prese dalla discussione da saltare anche una pausa caffè a metà mattinata, pur di non perdere il filo del ragionamento.

Ma la portata degli annessi&connessi al ragionamento intorno all’editoria elettronica in relazione ai testi scolastici andava regolamentata, delineata.

Si sarebbe dovuto ad esempio illustrare bene il processo editoriale di ideazione e produzione degli e-book, fino al momento della loro pubblicazione; altro filo di discussione avrebbe a quel punto dovuto essere “il destino” degli e-book scolastici, ovvero la loro vita effettiva negli ambienti formativi, il loro utilizzo più o meno rivoluzionario rispetto alle necessità didattiche attuali della scuola.
Ponendo l’attimo della pubblicazione come discrimine, molti ragionamenti sulla Cultura Digitale, sui modelli economici del funzionamento delle moderne case editrici (pregevole Agostino Quadrino di Garamond per le sue idee sul significato odierno della proprietà intellettuale e sulla necessità di conversazione con gli attori sociali, segno di sicura cultura di Rete), sulla visione di sussidi didattici come ambienti e non più come semplici strumenti, sui dispositivi di lettura come Kindle o iLiad, sui nativi digitali e risvolti sociologici, sulle tematiche dell’apprendimento e sulla centralità dei discenti avrebbero trovato una giusta collocazione nel palinsesto del convegno, fatta salva poi la possibilità che i feedback continui tra progettazione e pratiche di utilizzo, come tra discorsi inerenti l’oggetto libro elettronico e le metodologie d’insegnamento possano contribuire a migliorare la percezione e la comprensione di questa ulteriore rivoluzione nella Società della Conoscenza.

Un problema basilare credo stia ancora nell’identificazione del libro cartaceo con il suo contenuto, ovvero la difficoltà per mentalità gutemberghiane di concepire appieno il significato culturale di una Rete capace di sostenere e mettere in relazione tra loro ogni singolo componente dello scibile umano, insieme alle persone che in Rete abitano in maniera consapevole.
Quando diciamo e-book o libro elettronico, la nostra mente oscilla tra il supporto tecnologico in grado di riprodurre testi (il libro cartaceo o il reader) e l’oggetto di conoscenza così veicolato.

L’e-book, come in una relazione sfondo-figura, assume molteplici sensi a seconda del contesto dentro cui viene percepito/pronunciato. E lo sfondo offerto dall’intero sistema editoriale moderno porta necessariamente a considerare il testo elettronico come un terminale, forse una terminazione nervosa, una attualizzazione di forme di sapere che ormai vivono stabilmente e felicemente nel loro ambiente “naturale”, quel web fatto solamente di idee e di opinioni e di relazioni interumane, tutte cose immateriali, che oggi trovano modi diversi di essere narrate. Un e-book letto sopra un e-book reader connesso, come ieri un powerpoint che contenesse anche un solo link verso il web, non è più un libro, ma è un pezzo di web. Non abita più tra le vostre mani, ma sulla Rete. E a dirla tutta, nemmeno i contenuti di ieri (Sofocle o Leopardi, formule matematiche o cartine geografiche) hanno mai avuto vita sui supporti cartacei, ma sempre e solo nella mente e nelle parole di chi li pronunciava. Oggi i contenuti, immateriali come sempre sono stati ovvero oggetti di conoscenza indipendenti dal supporto, abitano dove stanno più comodi, su web.
Persistere a considerare, nella sua progettazione e nella sua fruizione, il libro di testo come oggetto chiuso, autosufficiente, nel momento in cui questo viene reso fruibile tramite supporti aperti e connessi con l’intero scibile umano, impedisce di comprendere la rivoluzione in atto.

Se poi lo sfondo contro cui si staglia il libro elettronico è quello dato dall’intero sistema scolastico, come Luogo sociale deputato all’educazione formale, dove i muri le lavagne di ardesia i libri i professori e i curricoli e la stessa organizzazione dei tempi seguono una logica loro costitutiva non più adeguata ai tempi, giocoforza le innovazioni tecnologiche vengono innanzitutto affrontate come una minaccia all’ordine precostituito, anziché essere valutate nelle loro potenzialità educative. Ma questo significherebbe (ne parlo qui e qui su Apogeo) rimettere in discussione tutta l’organizzazione scolastica, il ruolo dei docenti e la loro preparazione, riconsiderare necessariamente le pre-conoscenze possedute dagli allievi in termini di competenze digitali al fine di meglio programmare la didattica, re-impostare le finalità stesse della scuola attuale in direzione di una formazione ai cittadini che sia sintonizzata rispetto alla modernità.

La scuola è un luogo chiuso, autoreferenziale, incapace di conversare con il territorio. Se prendete una scuola media friulana e la trasferite mattoni e personale in Sicilia, il suo funzionamento rimarrebbe identico, indifferente al mutato contesto. La scuola non è trasparente, figuriamoci osmotica. E pensare che a me piacerebbe che le scuole fossero aperte fino a mezzanotte, dove i cittadini potessero entrare e uscire liberamente come da una biblioteca o un altro luogo della socialità e della partecipazione, una scuola che racconta se stessa e pubblica documenti facendo sentire la sua voce e si pone come parlante ratificato, attore sociale rispetto alla collettività di riferimento, cui appartiene e da cui trae il proprio senso, la propria postura rispetto alla situazione conversazionale con il territorio.

La scuola assomiglia a un libro cartaceo, ecco, mentre preferirei assomigliasse a un e-book. Dove la scuola di mattoni assomiglia a un e-book reader, e la didattica ai contenuti.

Come gli editori non possono, nell’organizzare il proprio fare, tenere in considerazione solamente l’oggi come oggi, ma devono saper porre sé stessi in una prospettiva futura attraverso sperimentazioni e nuove proposte, così la scuola (che peraltro non può far altro che abitare il futuro, nel comprendere la propria dimensione rispetto alle nuove generazioni) deve acquisire la capacità di porsi in termini comunicativi rispetto al mondo.

E la sperimentazione può essere anche fine a sé stessa, se come effetto collaterale produce un rinnovamento delle pratiche. Sappiamo che per come sono state presentate le lavagne interattive, i netbook tipo il JumpPc oppure gli e-book, difficilmente otterremo dei risultati immediati, adeguati alle finalità concrete dell’apprendimento, visto che i nuovi strumenti vengono utilizzati secondo vecchie metodologie di addestramento e pochi insegnanti possiedono competenze in grado di far loro sprigionare tutta le potenzialità aumentate permesse dalle tecnologie della connettività e dell’interattività.
Ma credo che la frequentazione quotidiana con e-book, LIM, blog e aggregatori possa modificare la percezione che gli educatori hanno del loro stesso ambiente di lavoro, li possa portare a saggiare ed esplorare le tecnologie abilitanti, a patto che siano professionali nel loro essere professionisti della formazione.

______

Giusto per non lasciarlo “affogato” tra i commenti di questo blog, incollo qui le parole di MArio Guaraldi.

Salute a Giorgio, Maurizio, Noa, Fulvio, Gianni e a tutte le dozzine di editori, redattori, insegnanti, free-lance, blogger (ma quanti eravamo, in realtà? una marea… ) che hanno condiviso questa full-immersione nel futuro del libro scolastico (e non), con livelli di adrenalina capaci di sciogliermi i calcoli che mi angustiavano.
Bella, bella esperienza davvero, passione, voglia di ascoltare oltre che di parlare, narcisismi ben shakerati con senso di responsabilità: dimostrazione che il metodo collaborativo paga, che professionalità e gratuità possono andare a braccetto quando ci sono in ballo valori autentici. E nel nostro caso, ha ragione Maurizio (Chatel) a indicare che la concorde valutazione di tutti è stata quella che di ripensare tutto intero il progetto educativo e didattico, senza fermarsi ai suoi “strumenti” più o meno tecnologici; allargando anzi il dibattito al mondo della rete.
La dice lunga il fatto che i partecipanti abbiano tutti rigettato la logica dei singoli gruppi di discussione originariamente proposti per convogliare in un unico confronto collettivo i problemi, le domande e le proposte che ciascuno di noi si portava appresso.
Bella, grande esperienza di “democrazia”: anche rispetto alle caterve di circolari e disposizioni ministeriali che da subito gettano un’ombra sinistra sulla legittimità stessa della originaria norma fascista che IMPONE l’adozione del libro di testo e lo vincola a “contenuti didattici” precisi, alla faccia dell’autonomia didattica dell’insegnante. Geniale trovata mussoliniana di organizzazione precoce del consenso a cascate successive: degli insegnanti, degli allievi, delle famiglie (che pagano, e come se hanno pagato, carissima, quella geniale imposizione di contenuti scelti da altri…).
Anche questo è emerso, una dolorosa pillola rossa che ha improvvisamente mostrato come la stessa sinistra sia non solo caduta in questa trappola, ma addirittura l’abbia cavalcata divenendo fisiologicamente “reazionaria” e “conservativa”… Ma anche al rischio di “buttarla in politica” si è giustamente sottratta un’assemblea scafata e tutta protesa al nocciolo della questione educativa.
Non mi azzarderò a tentare una sintesi del molto detto: ma mi piacerebbe che tutti assieme riprendessimo il filo delle proposte “positive” e “creative” bruscamente reciso da uno sconsiderato intervento di una dirigente scolastica (che non aveva partecipato ai lavori) che pretendeva di delegittimare l’assemblea a discutere di scuola e di didattica. Come dire: la scuola è “cosa nostra”, a noi il libro va bene così com’è, di che vi impicciate? Ho chiesto scusa pubblicamente a quella Dirigente scolastica per il modo eccessivamente aspro con cui ho reagito alla sua offensiva dichiarazione. Ora voglio pubblicamente ringraziarla per avermi mostrato direi quasi fisicamente il volto vero del “pensiero burocratico” ripiegato su sé stesso, dalla didattica fine a sé stesso, de-finalizzata da ogni vera vocazione educativa, che forse ogni insegnante combatte in sé stesso, nelle proprie fibre più intime. Aveva davvero ragione San Paolo: ogni guerra, ogni violenza nasce dal cuore stesso dell’uomo. E’ questo il nemico vero da battere…

L’importanza di …

Fare le cose per bene, con quell’accento sullo stato del mondo ottimale in seguito all’azione svolta.
Meglio far le cose per bene, che farle al meglio, forse.

Ecco, quel “bene” non è un valore assoluto, dipende anch’esso dal contesto.
L’azione “fatta bene” è quella più adeguata al contesto. Prendete il galateo di Della Casa o di Lina Sotis, e noterete che spesso le regole dei cerimoniali non tendono a ottenere il miglior risultato possibile, ma il risultato migliore nella situazione sociale in cui l’azione si svolge… dove spesso infatti i rituali strutturati sono progettati per far sì che ciascuno abbia un ruolo sociale definito nella situazione e sappia cosa fare/dire, non per l’efficacia dell’azione. L’obiettivo situazionale è più rendere le situazioni fluide, rispetto all’efficacia perfetta. Tant’è che spesso il galateo complica le situazioni, ma tutti sono a loro agio se seguono l’etichetta. Prendere le forchette via via dall’esterno verso il piatto non può creare imbarazzo, è una cosa funzionale nella situazione. Se la regola non è funzionale fa saltare l’agio dei partecipanti, e quindi la regina margherita mangia il pollo con le dita, e tutti si sentono a proprio agio nella situazione sociale.
Alla base, certo la funzionalità, ma credo più importante sia l’adeguatezza sociale nella situazione. Perché la situazione può sostenere (spesso il cerimoniale prevede anche i rituali di riparazione) una funzionalità farraginosa, ma nessuna situazione sociale umana può sostenere l’imbarazzo di una persona, perché l’imbarazzo è di tutti gli altri che non sanno più come interagire con una persona che d’un tratto si trova “senza faccia” (Goffman, da qualche parte).

Ma fare un lavoro per bene nel mondo degli atomi, come riparare una sella di uno scooter (ecco che questo mio cuore a forma di Vespa comincia ad accelerare) significa fare un lavoro che appunto prenda come misura della propria qualità il proprio essere adeguato al contesto fisico del mondo. Quindi l’artigiano (dentro di lui si muovono generazioni di artigiani che da millenni dialogano con tessuti e aghi e fili, con la grammatica tecnologica donata da Atena) cercherà di realizzare un lavoro che resista all’usura di un jeans che per ore si strofina sulla sella. La sua competenza sta nel trovare i materiali e nel possedere informazioni sul comportamento fisico/chimico/meccanico, nel tempo, dei materiali, per adeguarli al contesto della relazione sella-sedere.

Ma fare un lavoro sul web non riguarda la materia. I pixel non si consumano a guardarli, i bit non arrivano stanchi per l’attrito.
Fare un lavoro per bene su web significa adeguarsi al contesto immateriale e perennemente in progress, il web è sempre beta-release. Quando dieci anni ho cominciato a rompere l’anima alle maestre con gli ipertesti e i power(colpoditosse)point, era importante far loro comprendere come l’opera potesse essere ripresa l’anno successivo, ed ampliata: questo contrasta con la mentalità editoriale dell’edizione definitiva. Non c’è più niente di definitivo. E non ci saranno più appendici e integrazioni alle opere, l’opera è in continuo farsi. E quindi fare bene un lavoro non vuol dire finirlo, e neanche farlo bene. Su web, per cominciare, significa farlo. Poi il vivere stesso autonomo di quell’opera (quel sito, quel documento pubblicato, quel post sul blog) conterrà gli strumenti del proprio miglioramento, auspicabilmente grazie agli apporti di tutti quelli che ci interagiscono.

Tutto questo per rispondere a Gino Tocchetti, che in un suo post dedicato alla cultura del lavoro artigianale riprende un suggerimento di Andrea Beggi che parlava proprio del suo incontro un vecchio meccanico di scooter, esempio vivente di un’etica del lavoro encomiabile, nello svolgere il suo compito “a regola d’arte”.

Ma credo che siano cambiate le regole dell’arte (ars, techne, Atena e Vulcano), qui, dentro il web. E appunto fare un lavoro “per bene” non significa finirlo -> chiuderlo al meglio, ma forse aprirlo al meglio. Non volere le cose perfette, mettersela via, pubblicare in bozza, scrivere di getto e fidarsi degli altri. Per i nevrotici sarà un delirio, la signorina Perfettini potrebbe dar di matto.
Eppure funziona così, qui. Se fai una cosa perfetta, è vecchia, o non maneggiabile. Non permette serendipità nel suo uso, che fa scoprire ciò per cui non era stata progettata, come fare i cartoni animati con powerpoint reinventando la sua destinazione d’uso, con approccio mentale bricolage.

Giustamente Gino sottolinea (lui è veneto, io friulano, viviamo dentro una cultura del fare artigianale ben precisa, storica, concreta) la qualità del pensiero professionale di quell’artigiano. Ma non credo che il miglior artigiano del web debba necessariamente condividere quella mentalità. Potrebbe darsi il caso che per lavorare a regola d’arte qui dentro quell’artigiano debba avere in sé (nel pensiero di sé che pensa la professionalità del proprio essere dignitosamente artigiano ai propri stessi occhi) una gerarchia di valori completamente differente, su cui appoggiarsi per impostare e giudicare sia l’opera sia il processo di produzione dell’opera.

Su David Orban (ora il sito non si carica, mah) trovate una traduzione italiana del Cult of Done Manifesto di Bre Pettis, da tradurre appunto come Manifesto del Culto del Fare rispetto a Culto del Fatto, proprio per mantenere aperta la visione dinamica (sennò bisognere spiegare che il Fare è un Fatto, e via rotoloni giù per la scala a chiocciola del Senso). Ecco qui.

Il Culto del Fare
  1. Ci sono tre stati dell’esistere. Ignoranza, azione e completamento.
  2. Accetta che tutto è una bozza. Questo aiuterà a fare.
  3. Non c’è un secondo passaggio, di editing o montaggio.
  4. Far finta di sapere cosa stai facendo è quasi lo stesso che saperlo fare davvero, quindi accetta che sai quello che stai facendo, anche se non è vero e fallo.
  5. Non procrastinare. Se aspetti più di una settimana per agire su un’idea, abbandonala.
  6. Lo scopo del fare (being done) non è finire, ma poter fare altro.
  7. Quando l’hai fatto puoi buttarlo via.
  8. Ridi in faccia alla perfezione. È noiosa e ti trattiene dal fare.
  9. Le persone che non si sporcano le mani sono nel torto. Se fai qualcosa hai ragione.
  10. Il fallimento conta come fare. Quindi devi fare sbagli.
  11. La distruzione è una variante del fare.
  12. Se hai un’idea e la pubblichi online in Internet, conta come lo spirito (ghost) del fare.
  13. Il fare è il motore del più.

Bello, eh? Di che capottare le fondamenta su cui abbiamo costruito nei secoli la dignità e l’etica del lavoro. Se restiamo fermi a manufatti atomici. Ma nel web, è l’unica soluzione valida. Tant’è che oggi Encarta (pensiero artigianale/industriale) ha chiuso, e Wikipedia evviva.

Articolando

Quindi, buttiamo tutto sulla matrice, e vediamo che possono esserci abitanti stanziali connessi e non connessi, oppure abitanti nomadi, a loro volta connessi o meno.

Tenete sempre presente che parliamo di abitare Luoghi indifferentemente dentro o fuori il web, digitali o fisici. E anche su web è possibile ravvisare comportamenti stanziali o nomadi, da parte di singoli, gruppi e collettività più ampie. Ti piace cliccare sui blogroll altrui, verso l’Ignoto? O sui followers di Tizio? Nomadizzi, t’incuriosisci per un nick e segui briciole di pane o suggestive scie di profumo per mezza Internet, ti impelaghi. Perché ricordate, il web era un mare da navigare e surfare, e di qua e di là qualche isoletta offriva approdo.
Il web non è più un posto per scorrerie, qui noi oggi abitiamo. Abbiamo fatto terra-forming per dieci anni, adesso mettiamo i piedi su cose solide e di noi stabilmente identitariamente connotate, come il nostro blog che ci guarda da qualche anno o il forum che frequento da quando cercavo gli aggiornamenti per windows98 o le reti dei messenger.

Qui ora vado in direzione degli eventi che con maggiore probabilità possono innescare cambiamenti sociali: ad esempio, in collettività umane attraversate dal flusso nomadico degli zingari credo si formino credenze riguardo alla relazione con l’Altro diverse rispetto a raggruppamenti sociali stabili che conoscono pochi contatti con lo Straniero.

Quindi il tutto si riverbera nel web, dove molti di noi stanziali connessi adottiamo comportamenti che talvolta rafforzano la relazione dentro le reti conosciute, dentro l’insieme olistico dei Luoghi che frequento e quelli fino dove giungono le mie tracce di presenza, e talvolta, restando stanziali, diventiamo veri nomadi, nel muoverci su territori digitali sconosciuti.

Nel corso del tempo è cambiato il nostro propendere per “rafforzamento rete sociale conosciuta” rispetto a “esplorazione reti sconosciute”? Reti di persone, di socialità. Una volta si aggregavano di più le cose, oggi si aggregano le persone? Tutti i socialweb che articolano il concetto di follower, che lo visualizzano, che mettono in scena le reti contribuiscono a “stringere” le reti? E quanto incoraggiano il nomadismo, come apertura allo stupore dell’epifania numinosa quanto inattesa dell’Altro da me, eh?, nei percorsi serendipici?
Conservatori o progressisti? No, prima ancora. Disposti a porgere l’orecchio e l’occhio e la freccina del mouse a un link ipertestuale che vi porterà chissà dove, a leggere di argomenti o vedere foto di cose prima mai pensate, oppure a lasciar entrare nel vostro aggregatore e nella vostra coscienza flussi di alterità, questo scegliamo per noi stessi, così impostiamo i filtri del lifestreaming da e verso di noi, così costruiamo e usiamo le porte e i segni.
Cosa cerco dalla conoscenza? Conferme o sgambetti?
Nel MedioEvo, la comunicazione pubblica delle PA (i feudatari) era zero, a parte le grida in pubblica piazza e quell’albo pretorio che ha millenni di storia. Conservare il potere (basato sulle informazioni, poi) era ed è non comunicare. E’ chiaro che esporsi alla comunicazione è esporsi al cambiamento, e qualcuno giunge ad affermare che negarsi alla comunicazione è negare il cambiamento, ovvero il volersi mantenere uguali, conservare l’attuale.
Anche se vedo contradittoria una società che si vuole progressista che sbarra le porte (la Cina?).

Qui c’è Massimo Moruzzi su Dotcoma che vede bene lo stesso problema, riferendosi a come i contenitori sociali su web e i loro meccanismi pre-orientino la relazione e in-formino il nostro abitare nelle reti.

Facebook, vale la pena a questo punto sottolineare, non è più un sistema chiuso su sé stesso – o non più di quanto non lo siano il tuo feedreader o la tua webmail, perchè vi puoi importare praticamente di tutto, come e più che su un feedreader, o ricevere di tutto, come con la tua email.

Facebook ha vinto, ma senza risolvere nulla. Su Facebook, vedo foto, link, video e musica dei miei amici – ma non sarebbe molto più interessante vedere cosa apprezza chi ha gusti simili ai miei? Facebook è un passo indietro da un web di interessi condivisi a un web di amici che già conosci.

Questo accade perché proprio questa è la peculiarità del social web, lo dice la parola stessa. Permettendo l’emergere e quindi la visibilità delle reti relazionali, ha posto l’attenzione sulle persone. L’altro ieri andavo su web per cercare un documento o una risorsa, ieri per cercare delle persone, oggi cerco cosa dicono le persone che stimo e/o conosco sulle risorse e sulle novità, domani saremo tutti presi in un vortice vorticoso di cose e oggetti geotaggati e news e commenti e lifestreaming.
Il “web degli amici che già conosci” è una fase necessaria di ristrutturazione dell’economia della rete, perché permette di organizzare meglio i filtri e le reti dei flussi di informazioni e opinioni sulle informazioni, in direzione di una maggior efficacia nella propagazione delle idee, nel web degli interessi condivisi.
Si guardavano gli oggetti culturali, ora si guardano le persone, ma si tornerà a guardare gli oggetti, però incomparabilmente arricchiti dalle riflessioni di molti su di essi, da prezioso contesto, da vissuto personale.

Dopo questa costrizione che il socialweb ha imposto al nostro fare negli ultimi anni, nel farci concentrare sulla edificazione dei Luoghi sociali del nostro abitare, sull’allestimento di una identità adeguata ai nuovi ambienti che frequento, sulla definizione di una rete amicale e professionale, possiamo tornare a estrovertirci, verso cose che non conosco.

Un altro esempio: la funzione dei commenti dentro Google Reader. C’è questa funzione nuova per commentare ed inoltrare ad altri quello che ci arriva dentro l’aggregatore e reputiamo meritevole di.

C’è la condivisione “Share with note”, che rimanda la notizia ai vostri amici (chi già riceve ciò che segnalate), e il commento e la notizia possono anche essere pubblicati sulla pagina pubblica del mio aggregatore.
Ma da poco tempo anche dentro il bottone “Share”, quello per la semplice condivisione con un click, troviamo una ulteriore funzione di commento, dove però la visibilità dello stesso è rivolta “a tutti quelli che possono vedere la notizia originale condivisa”.
Che quindi potrebbero essere anche persone che non sono vostre amiche (ovvero nel vostro elenco di persone con cui condividete permanentemente il flusso di pubblicazione), ma in qualche modo la stessa notizia è presente anche nel loro aggregatore e se leggeranno la notizia dopo di voi vedranno anche il vostro eventuale commento. Immagino.

Quindi, nel primo caso ho condivisione e aumento informativo (il mio commento) verso reti conosciute, nel secondo caso compio un movimento molto più “alla cieca”, senza finalità immediate, ma potenzialmente foriero di inaspettato, cose o persone si tratti.

Dove decido di interfacciarmi? Nello scegliere attimo per attimo come utilizzare e come reinoltrare risorse, persone, memi, nel mio essere router di socialità, mi rivolgo a reti conosciute o sconosciute? Nel pensare il destino del mio dire e del mio fare in rete, mi viene più facile immaginare uno sconosciuto o un amico, nell’attimo di leggere l’ultimo post del mio blog sul suo aggregatore? E quanta fiducia ci metto, nell’inoltrare (e questo torna ad assomigliare a un messaggio nella bottiglia in un web che torna ad essere un po’ mare) e nell’ascoltare?

ps. dopo geni e memi, ci servirebbe una unità di significato delle reti sociali, dei cluster relazionali, dove il contenuto è dato dalla forma peculiare che ciascun sistema adotta.

Mappe, aggregatori, punti di vista

In quell’Impero, l’Arte della Cartografia raggiunse tale perfezione che la mappa d’una sola Provincia occupava tutta una Città, e la mappa dell’impero, tutta una Provincia. Col tempo, codeste Mappe Smisurate non soddisfecero e i Collegi dei Cartografi eressero una Mappa dell’Impero, che uguagliava in grandezza l’Impero e coincideva puntualmente con esso. Meno Dedite allo Studio della Cartografia, le Generazioni Successive compresero che quella vasta Mappa era Inutile e non senza Empietà la abbandonarono alle Inclemenze del Sole e degl’Inverni.

Borges, sì. Capace di iniettare nell’immaginario una dialettica tuttora viva, che già riecheggiava negli slogan delle contestazioni giovanili di 40anni fa. La mappa non è il territorio. E se il territorio è digitale? Le mappe della Rete sono estese come la Rete? Se mettiamo lì un aggregatore che riproponga magari con qualche rappresentazione grafica tipo metafora spaziale se non addirittura corrispondenza geografica (occhio che il segno diventa indice, in quanto “fisicamente” connesso con il luogo di produzione) tutto ciò che viene pubblicato in Rete, avremmo per le mani il Web senza il social, visto che sarebbe solo vetrina e non luogo di interazione. Se poi il fantomatico aggregatore offrisse anche la possibilità di commentare, e tutti commentassimo lì, avremmo il serbatoio mondiale delle idee, e sulla superficie del calderone vedremmo formarsi e scomparire forme riconoscibili, configurazioni di senso, reti relazionali. Più di qualcuno ha immaginato questo calderone come un alambicco, da cui tramite la circolina per la condensazione sia poi possibile distillare e tracciare nuovi apporti culturali, nuove invenzioni, nuove parole per definire concetti prima nebulosi, vedere insomma in tempo reale lo scibile vivere. Non solo la storia delle idee, ma la vita delle idee.

Ma anche il pensiero che pensa gli aggregatori e i contenitori forse è pensiero vecchio, come quello degli imperatori e dei cartografi di corte, giunti al paradosso di avere una mappa grande come il territorio. Poi passa uno e dice: “ma scusate, sulla mappa manca qualcosa… non potete non riportare sulla mappa stessa un manufatto grande come il territorio stesso, cioè questa stessa mappa!”; quindi sulla mappa dovrebbe esserci la mappa. Bel problema. Più che altro, irrisolvibile. Perché il problema sta nella stessa “volontà di rappresentazione” (Schopenhauer non ridere), che poi è anche cosa legittima e teniamo presente che qualunque animale evoluto si crea una mappa mentale del proprio territorio di abitanza, ma poi il problema è nelle modalità di rappresentazione, e qui la cosa diventa “simulazione” nel senso buono, e quindi si entra dritti a parlare di modelli, di capacità descrittive euristiche e via così.

E se devo farmi una mappa di quello che si dice in Rete oggi, e magari distillare quelle cose che ritengo pertinenti ad un effettivo incremento della conoscenza, per me?
Oggi Mario Rotta, nella sua one-line di status su FaceBook

vorrebbe proporre a tutti di “condividere conoscenze”: ma chi avrebbe davvero il tempo di farlo?

la questione del tempo è altra bella variabile; io comunque gli rispondo dicendogli

dovrebbe essere possibile costruire conoscenza “articolata” a partire dai contributi one-line di chiunque passa. poi come un gigantesco sillogismo o come un “cadavere eccellente” (narrativamente orientato) alla fine strizzi tutto e distilli tutto e hai incremento dello scibile, foss’anche una virgola in più, però corale.

e lui di rimando

Ma la conoscenza (dico a me stesso, a volte) è “leggera” o “pesante”? Sono frammenti che si ricompongono come polvere attraversata da un campo magnetico o il risultato di azioni deliberate da parte di chi condivide prima di tutto una visione, o quanto meno un formato? Forse, è entrambe le cose…

Mi piace l’idea del campo magnetico sulla limatura di ferro. Crea configurazioni, secondo i punti di vista. Rappresentazione grafica e dinamica dei movimenti attrattivi-repulsivi. Ma riesce forse solo a spiegare il “punto di vista organizzatore” di chi interroga le idee sparse sulla Rete, un principio ordinatore che in fondo (kantianamente, e poi fenomenologicamente) è un soggetto che guarda e dà senso al mondo.

Ma c’è anche il fatto che quella limatura di ferro, quelle idee che circolano su web e nel mondo possiedono delle proprie capacità di legarsi o di respingersi, non tanto in modo dipendente dal significato veicolato quanto dalla forma dell’espressione grazie a cui possono veder la luce, grazie al format e al particolare sistema editoriale che usano. Possono essere voti su una stellina di un video di YouTube, contenuti articolati in un blog o commenti, linee di status dentro i messenger o dentro le comunità digitali.

Quindi, tolta di mezzo l’idea dell’aggregatore universale (è la stessa internet: oggi il territorio è la mappa), rimane da vedere come rendere visibile e social il nostro essere aggregatori unici e originali, ognuno di noi. Avere una bacheca di lifestreaming personale, aperta al web, significa cucire insieme atti-degni-di-menzione con il nostro filo personale e con il nostro stile, e ciascuno di noi avrà una bacheca unica e originale, e la stessa sequenza di segnalazioni e interventi sarà molto eloquente, perché esprime un punto di vista e possiede in sé molte informazioni di contesto, embeddate nelle mie frasi ma facilmente decifrabili.

E quindi se la metafora del campo magnetico e della limatura di idee rende bene l’idea di un pensiero aggregante, però esterno all’umanità e meccanico (tant’è che può essere fatto da un software, come un aggregatore pubblico dei memi, senza occuparsi del “contenuto” messo in Rete), e l’idea di un filtro aggregatore programmato da umano in fondo altro non è che l’espressione di un punto di vista (fondato sulle pertinenze che il “programmatore” ritiene utili), e poi potremmo anche aggiungere l’idea di un aggregatore che autoapprende e via via seleziona con più raffinatezza ciò che può essere considerato “incrementale” rispetto allo scibile che continuamente viene prodotto negli scambi interumani biodigitali, ma alla fin fine quello che torna importante è l’aggiunta personale di ciascuno di noi all’evento, il valore del contesto della pubblicazione, gli ambienti su cui pubblichiamo o ri-pubblichiamo ciò che vogliamo segnalare.

Da queste piccole dislocazioni del senso, re-interpretazioni attraverso la lente unica dei nostri occhiali personali, nel gioco infinito della traccia e dello scarto (trace|ecart, com’è scritto qui nel footer del blog) è possibile ragionare di “condividere conoscenza” e magari anche di “incremento delle idee”. C’è di mezzo l’idea di autorialità, di voce che sempre nasce da un luogo e in un tempo.
Stop al delirio (di cui famosa para-etimologia è “de-leggere”, ovvero quel leggere un po’ sghembo, capace di dare altri nomi alle stesse cose, pareidolicamente – sta finendo l’anno di prova, dovevo giocarmi questo avverbio sennò perdevo il bonus).

Cape Town, Open Education, Declaration

Sul sito della Dichiarazione è possibile sottoscrivere il documento, all’indirizzo http://www.capetowndeclaration.org

Dichiarazione di Città del Capo sulla Istruzione Aperta:
sbloccare la prospettiva di risorse educative aperte

Siamo all’apice di una rivoluzione globale nell’insegnamento e nell’apprendimento. Educatori di tutto il mondo stanno sviluppando un ampio bacino di risorse educative su Internet, aperte e gratuite per tutti. Questi educatori stanno creando un mondo in cui ogni persona sulla Terra possa accedere e contribuire alla somma delle conoscenze dell’umanità. Inoltre stanno piantando i semi di una nuova pedagogia, in cui insegnanti e studenti insieme creino, diano forma e sviluppino la conoscenza, approfondendo le loro capacità e la loro comprensione mentre operano.

Questo movimento emergente per un’educazione aperta unisce la tradizione consolidata di condividere le buone idee tra colleghi insegnanti, con la cultura collaborativa ed interattiva di Internet. Si basa sul principio che tutti devono essere liberi di usare, adattare alle proprie esigenze, migliorare e redistribuire le risorse senza restrizioni. Insegnanti, studenti, ed altri che condividono questo concetto, si stanno unendo per prendere parte ad un impegno mondiale per rendere l’istruzione più accessibile e più efficace.

La crescita della raccolta globale di risorse educative aperte ha creato un terreno fertile per questa iniziativa. Queste risorse comprendono materiali per corsi con licenza aperta, programmi didattici, libri di testo, giochi, software ed altro materiale di supporto all’insegnamento ed all’apprendimento. Tutto ciò contribuisce a rendere l’istruzione più accessibile, specialmente là dove i fondi per i materiali didattici sono scarsi. Alimenta inoltre un modo partecipativo di apprendere, di creare, di condividere e cooperare che è necessario in società in cui le conoscenze si evolvono rapidamente.

L’educazione aperta non è limitata solo alle risorse didattiche aperte, ma si fonda anche su tecnologie aperte, in grado di facilitare un apprendimento collaborativo e flessibile, e sull’aperta condivisione di tecniche didattiche che permettano ai docenti di giovarsi delle migliori idee dei loro colleghi. Il tutto può crescere fino ad includere nuovi approcci alla valutazione, al riconoscimento dei meriti ed all’apprendimento collaborativo. Comprendere ed adottare innovazioni come queste è fondamentale in una prospettiva di lungo termine del movimento.

Ci sono molti ostacoli alla realizzazione di questa visione. La maggior parte dei docenti resta ignara della crescente quantità di risorse educative aperte. Molti governi ed istituzioni educative non conoscono o non sono convinti dei benefici di una formazione aperta. Le differenze fra i tipi di licenza per le risorse aperte generano confusione ed incompatibilità. E, naturalmente, la maggior parte del mondo ancora non ha accesso ai computer ed alle reti che sono parte integrante degli attuali sforzi in direzione di un’educazione aperta.

Questi ostacoli possono essere superati, ma soltanto lavorando insieme. Invitiamo studenti, insegnanti, educatori, autori, scuole, licei, università, editori, sindacati, associazioni professionali, legislatori, governi, fondazioni, e altri che condividono la nostra visione ad impegnarsi per raggiungere e promuovere l’educazione aperta e, in particolare, li invitiamo a seguire queste tre strategie per aumentare la diffusione e l’effetto delle risorse educative aperte:

  1. Insegnanti e studenti: In primo luogo, consigliamo agli insegnanti e studenti di partecipare attivamente al nascente movimento per l’istruzione libera. Questa partecipazione comprende: creare, usare, adattare e migliorare le risorse educative aperte; adottare le tecniche didattiche sviluppate sulla collaborazione, sulla scoperta e sulla creazione di conoscenza; ed invitare omologhi e colleghi a partecipare. Creare ed usare risorse aperte dovrebbe essere considerato parte integrante del processo formativo e dovrebbe essere sostenuto e ricompensato di conseguenza.
  2. Risorse educative aperte: In secondo luogo, invitiamo insegnanti, autori, editori e istituzioni a rilasciare con licenza libera le loro risorse. Queste risorse educative aperte dovrebbero essere rilasciate sotto licenze che ne facilitino l’uso, la modifica, la traduzione, il miglioramento e la condivisione da parte di chiunque. Le risorse dovrebbero essere pubblicate in formati che facilitino sia l’uso sia la pubblicazione e che siano compatibili con le diverse piattaforme tecniche. Per quanto possibile, dovrebbero anche essere disponibili in formati accessibili a persone disabili ed a persone che ancora non hanno accesso a Internet.
  3. Politiche di formazione aperta: In terzo luogo, governi, istituti scolastici, licei e università dovrebbero dare la massima priorità alla formazione aperta. Teoricamente, le risorse educative finanziate con fondi pubblici dovrebbero essere risorse educative aperte. Le procedure di adozione e di riconoscimento dovrebbero dare la preferenza alle risorse educative aperte. Le raccolte di risorse educative dovrebbero attivarsi per includere ed evidenziare le risorse educative aperte al loro interno.

Queste strategie rappresentano non sono solo la cosa corretta da fare ma costituiscono un saggio investimento per l’istruzione e l’apprendimento nel ventunesimo secolo. Permetteranno di spostare gli investimenti oggi rivolti a costosi manuali verso un migliore apprendimento. Aiuteranno gli insegnanti ad eccellere nel loro lavoro e ad offrire nuove occasioni di visibilità e di effetto globale. Accelereranno l’innovazione nell’istruzione. Daranno maggior controllo sull’apprendimento agli studenti stessi. Queste sono strategie sono ragionevoli per chiunque.

Migliaia di insegnanti, studenti, autori, operatori e legislatori sono già coinvolti in iniziative di formazione aperta. Ora abbiamo l’occasione di far crescere questo movimento per includere milioni di insegnanti e di istituzioni da tutti gli angoli della terra, ricchi e poveri. Abbiamo l’opportunità di raggiungere i legislatori, lavorando insieme per rendere concrete le prospettive che ci si presentano. Abbiamo l’occasione di coinvolgere gli imprenditori e gli editori che stanno sviluppando innovativi modelli aperti di business. Abbiamo la possibilità di sostenere una nuova generazione di studenti che si misurino con i materiali didattici aperti, facilitati nell’apprendimento dalla condivisione della loro nuova conoscenza e consapevolezza con altri. Ma prima di ogni altra cosa, abbiamo un’occasione per migliorare sensibilmente le vite di centinaia di milioni di persone nel mondo attraverso opportunità didattiche e di apprendimento liberamente disponibili, di alta qualità e adatte alle realtà locali.

Noi, sottoscritti, invitiamo tutti gli individui e tutte le istituzioni ad unirsi a noi nel sottoscrivere la dichiarazione di Città del Capo per l’educazione aperta e, così facendo, ad impegnarsi ad attuare le tre strategie indicate sopra. Inoltre incoraggiamo i firmatari a seguire strategie supplementari per la tecnologia didattica aperta, per la condivisione delle pratiche d’istruzione aperta ed altri metodi che promuovano la più ampia causa dell’educazione aperta. Con ogni persona o istituzione che assume questo impegno – e con ogni sforzo teso ad articolare ulteriormente la nostra visione – ci avviciniamo ad un mondo di educazione aperta, flessibile ed efficace per tutti.

15 settembre 2007 Città del Capo, Sudafrica