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Intelligenza laterale

futuroprossimo

Nel 2008 Chris Andersen, direttore di Wired e già famoso o famigerato per certi ragionamenti pochi anni prima sul web 2.0 e sulla teoria della coda lunga, scrisse un altro pezzo che fece un certo scalpore perché proclamava la “fine della teoria” intendendo proprio la teoria scientifica, almeno di quella fondata sul formulare un’ipotesi da poi verificare sperimentalmente – o falsificare, meglio.
Un salto paradigmatico: semplicemente indagando i Big Data è possibile estrarre risposte, o di certo configurazioni di senso, senza sapere prima bene cosa cercare. Risposte a domande che non abbiamo fatto. Dal caos indistinguibile di milioni di dati emergono pattern, schemi, correlazioni statistiche per noi inconcepibili quindi imprendibili. Un po’ tipo Picasso, “io non cerco, io trovo” e tutta la serendipità precedente e successiva.
Adesso una IA ha prodotto un risultato simile, un trovare senza cercare: analizzando venticinquemila radiografie del ginocchio può dirti quanta birra bevi o quanti fagioli mangi, e chissà quante altre informazioni può ricavare nell’individuare appunto dei pattern invisibili.
Nell’articolo che linko sotto c’è poi tutta la pappardella dei rischi della privacy e della credibilità che siamo disposti a concedere a diagnosi computerizzate, ma a me questo interessava: lasciamo libera l’intelligenza artificiale di fare questi passi laterali, questo scombiccherare domande e risposte, lasciamola indagare dove noi non possiamo arrivare.
Abbiam bisogno di altri punti di vista, alieni e altro-da-noi, per provare a sistemare i disastri che abbiamo e stiamo combinando sul pianeta, in ogni settore.
Il senso di una domanda è la direzione in cui cercare la risposta, ahimè formulata dentro lo stesso linguaggio.
Aboliamo la domanda per indagare nuove direzioni di risposta, con nuovi linguaggi.

Dalle radiografie l’IA deduce gusti alimentari: ecco perché è grave

Complessità dell’ecologia umana mediata

Più di quindici anni, un mucchio di anni fa, ci fu questa cosa del web 2.0.
Una rivoluzione. Tutti a parlare e sperimentare le novissime possibilità per la specie umana, finalmente tutti potevamo diventare autori sul web: alcune tecnologie abilitanti sottosoglia avevano reso praticabile per tutti il poter pubblicare, e allora tipo nel 2005 ecco tutti con i blog, i wiki, piattaforme video, in autonomia creare un sito con phpNuke e poi PostNuke e poi WordPress, ecco il web partecipativo, ecco i primi social network e il social web, e l’accento insomma era sul nascere del fenomeno Contenuti Generati dagli Utenti.

Al tempo avevo una rubrica su Apogeonline che si chiamava “Animale social” (Aristotele mi guarda male da quella volta) dove parlavo proprio di queste cosette, e credo proprio di aver detto in un podcast con Antonio Sofi che siccome ora avevamo questo benedetto Web 2.0, allora questo in cui abitiamo era diventato Mondo 2.0.

Il solito gioco di straniare la prospettiva per scovare il senso, l’abisso che mi guarda, io sono parlato, e altre amenità.

Questo perché sotto sotto c’era quella consapevolezza secondo cui la tecnologia in quanto linguaggio forgia il pensiero, le possibilità operative della mente nel singolo e nelle collettività emergono nel dialogo tra noi e l’ambiente, come è sempre accaduto dalla prima selce scheggiata o se volete dalle prime sequenze di “2001: Odissea nello spazio” dove in dissolvenza e con il valzer di Strauss quell’osso brandito come arma diventa un’astronave, e non c’è nessuna differenza. La tecnologia (compreso il linguaggio), ciò che ci rende umani, ci guarda.
Se possiamo ancora dire che nel campo dei mass-media i nuovi strumenti si aggiungono e si sommano agli altri senza sostituirli – radio e cinema, cinema e tv, tv e streaming – ma piuttosto integrandoli è perché sappiamo riconoscere dopo lunga riflessione quelle nicchie ecologiche dentro cui queste forme di vita tecnologiche possono prosperare, trovando un ambiente a loro adatto, come a esempio la radio che vive dentro le automobili.

Questo nicchia per nicchia, ma proviamo a vedere l’intera area del discorso moltiplicando anche per il pi greco, ovvero per una costante irrazionale, quale quella secondo cui il nostro pensiero non ci appartiene.

Il linguaggio disegna e decide il mondo. Il codice software disegna e decide il mondo, oggi, o almeno disegna e decide le nuove condizioni di esperienza del mondo. Come posso esperire o agire qualcosa su cui non ho né concetto né percetto, mancandomi le parole? Sotto-soglia, pre-categoriale, Merleau-Ponty? Non so, rimango un nominalista puro, le cose sono conseguenza dei nomi.

Mondo 2.0, Umana 2.0, ci siamo evoluti nell’esperienza che abbiamo del mondo e nel nostro stile di abitarlo, basta guardarsi attorno e chiedersi cosa sarebbe meraviglioso o terribile o solo indecifrabile delle nostre pratiche quotidiane agli occhi di chi congelato quarant’anni fa venisse risvegliato oggi.

Le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione – e siamo arrivati ai bot che apprendono comprendono e si esprimono in linguaggio naturale – ristrutturano il discorso, riorganizzano le posizioni esistenziali di chi parla, del testo e del pubblico, e questo significa che si modifica il senso del “soggetto parlante” e questo a sua volta significa che molti decenni di semiotica e molti secoli di filosofia del linguaggio, che su certi assunti si basano, vanno ripensati.

Questo perché, frase di cui mi sono preso un appunto e ahimé non ricordo l’autore, “il cambiamento tecnologico non è solo incrementale ma ecologico. […] Un nuovo media non aggiunge [solo] qualcosa; cambia tutto. Nel 1500, dopo l’invenzione della stampa, non esisteva più la vecchia Europa con in più la stampa. C’era un’Europa diversa”.
Una innovazione di prodotto o di processo cambia tutto l’alveare, e i comportamenti della specie. Nuove parole, nuovi linguaggi, nuove tecnologie, nuovi sguardi, nuovi scorci di futuribile, nuove praticabilità del dialogo con l’ambiente e la situazione sociale, nuove o aggiornate semantiche e nuove sintassi per mettere in relazione gli attori sociali materiali o animati o intelligenze artificiali, per un nuovo “discorso della specie umana”.

E questo ovviamente lo possiamo dire per il telegrafo del 1850, per la radio broadcast del 1920, per l’internet del 1975 con la @, per il web aperto del 1994, e via così. Nuovi canali che ristrutturano i messaggi e modificano il contesto comunicativo, da cui traiamo il senso del nostro millenario abitare il pianeta. Non siamo più solo noi a parlare.

Ogni cosa che vedete non solo “è più complicata” di come la vedete, è più complessa di come la vedete, perché è sempre ecologica e reca potenzialità che sono già qui, ma non sappiamo ancora vedere. Cioè leggere.

Elezioni, quante storie

È tempo di elezioni politiche, ecco dunque che i candidati si apprestano a illustrare al mondo chi sono, quali sono i valori in cui credono, quindi indicano le cose che non funzionano nell’organizzazione sociale complessiva e particolare, quali dovrebbero essere invece gli obiettivi a cui puntare, come intendono promuovere il cambiamento per migliorare la qualità dell’abitare della collettività sul territorio.

Conseguentemente i candidati alle elezioni in questo momento stanno consciamente o meno allestendo delle campagne di comunicazione, predisponendo strumenti retorici, studiando strategie narrative, individuando contesti interpersonali e massmediatici dove meglio possano brillare i contenuti del proprio discorso politico nonché lo stile del proprio personaggio pubblico.

L’intero discorso politico elettorale è qualcosa-che-sta-per-qualcos’altro, ovvero è un segno, e notoriamente un segno è ciò che può essere usato per mentire, ma qui non è rilevante.

In ogni caso vi sono delle scommesse forti – ripeto: consapevoli o meno – sulle aspettative degli ascoltatori poi votanti, sugli orientamenti politici e financo esistenziali, sulle interpretazioni condivise delle parole degli eventi e delle situazioni locali che poi danno forma al discorso complessivo, alle narrazioni.
È il momento delle storie, quelle che ci servono per dare senso alla realtà, da sempre.

Banalmente, c’è il momento della frattura narrativa – le cose sono cambiate, bisogna agire – dove emerge la necessità di un’azione di cambiamento, c’è un eroe, c’è la narrazione anticipatoria di un lieto fine a cui l’eroe grazie alle sue competenze cognitive e performative può condurci tutti, e salvarci.

Indubbiamente, le promesse dei politici acquistano senso quando possono essere inquadrate e incorniciate (framing) come parte di una narrazione familiare per gli ascoltatori, con cui questi possono identificarsi e relazionarsi, già prevedendo in termini di aspettativa la trama del discorso, delle azioni e degli ostacoli, il significato del successo in termini politici.

Non solo. Queste strategie di framing si riferiscono a un processo di influenza selettiva sulla percezione dei significati veicolati dal discorso politico, quello che attribuiamo a parole o frasi. Stiamo definendo la “confezione” di alcune retoriche in modo da incoraggiare certe interpretazioni e scoraggiarne altre. 

Per esempio, i concetti di framing e di agenda setting sono legati: richiamando coerentemente un frame particolare, l’esecutore del framing esercita un efficace controllo sulla discussione e sulla percezione dell’argomento, può ricostruire la cornice del discorso ri-orientando cotesto e contesto comunicativo, e in questo modo stabilire e allestire nel discorso la propria visione, le proprie credenze, la propria persona, le propria parola.

Stabilire una cornice comunicativa investe sul piano dell’enunciazione, del discorso pronunciato, molti aspetti dell’immagine pubblica: dalla scelta del colore della cravatta o del foulard, alla postura della persona, all’uso accorto della prossemica e dello sguardo e del gesticolare nell’eloquio, ai risvolti affettivi e alle metafore, ai rallentamenti o alle accelerazioni o ai cambi nel timbro prosodico, fino alle scelte lessicali e sintattiche, dove ultimamente si prediligono costruzioni discorsive limitate alle famose 6.000 parole di De Mauro che garantiscono una comprensione ampia alla diverse fasce dei popolazione insieme a strutture sintattiche paratattiche, ovvero un periodare di frasi concise e coordinate piuttosto che ipotattiche appesantite da subordinate elaborate ed eleganti ma meno efficaci soprattutto nei contesti della comunicazione massmediatica.

Frasi brevi e ficcanti, dunque, magari colorate di affettività quotidianità ed esperienze personali, che insieme alla struttura narrativa delle “storie da raccontare” garantiscono meglio la ricezione del messaggio e si adeguano maggiormente al sentire e alle schematizzazioni già note degli ascoltatori, per essere depositate più efficacemente nella memoria e prontamente richiamate alla bisogna. Costruisco sul già-noto, e introduco piccole quote di innovazione, altrimenti risulterei incomprensibile.

Persuadere muovendo l’animo, non convincere argomentando in modo logico-razionale, nella migliore tradizione sofista.

La narrazione come forma di esposizione incoraggia la partecipazione, stabilisce un sentimento di appartenenza, contribuisce alla costruzione dell’identità individuale e corale come collettività nazione o popolo, edifica un Noi percepito e vissuto come veicolo di riconoscimento sociale, può essere strategicamente impiegata per rendere possibile lo sviluppo di una comunità o di un attore collettivo.

Le storie, esprimendo concetti astratti o eventi complessi in modo concreto, attuando una dinamica dialettica tra le strutture retorico-discorsive del testo e le strategie interpretative dei lettori-ascoltatori più o meno incanalate dal framing scelto per la loro enunciazione –  il testo è una macchina “vuota” che noi arrediamo e vivifichiamo con le nostre proiezioni di senso – saldano un patto profondo e una visione del mondo tra il narratore e l’ascoltatore, garantita dallo stesso principio di cooperazione interpretativa e identificativa dove ognuno di noi in qualche modo modifica e ri-orienta le proprie percezioni e le proprie credenze valoriali per accogliere nuove visioni del mondo.

Le storie hanno una trama. Gli eventi vengono organizzati nella narrazione in implicazioni logiche e temporali, vengono resi significativi nel loro susseguirsi e svilupparsi – altrimenti resterebbero fatti isolati – in direzione di una conclusione anche valutativa, perché tutte le storie hanno una fine e hanno un fine, spesso morale o educativo in senso ampio, capace di elevare le coscienze dei fruitori, di mostrare una realtà futura ma raggiungibile.

In realtà nelle storie delle campagne politiche se il fine è “promettere un mondo migliore” la fine della storia è demandata al momento del voto elettorale, o addirittura al termine del periodo di governo, fatte salve le ulteriori interpretazioni sulla bontà dell’operato dei decisori pubblici. Questo crea un’orizzonte di attese, altra caratteristica intrinseca dell’allestire narrazioni, capace di catturare e tenere avvinto il lettore nello sviluppo degli accadimenti.

Come dicevo, non bisogna porre l’attenzione solamente sul messaggio, anzi. I significati veicolati dalle strategie comunicative acquistano senso solamente in un contesto di enunciazione preciso e concreto, qui e ora.
In quell’incontro pubblico, in quella trasmissione radiotelevisiva, in quell’arredare i canali social del personaggio politico e del suo discorso, nella scelta di quella cravatta o nelle nuove parole necessarie a dipingere la nuova realtà che si vorrebbe instaurare nell’opinione pubblica. Diventa necessaria una migliore comprensione dei contesti in cui la narrazione è attesa, delle convenzioni che regolano quali storie siano considerate comprensibili ed efficaci e le modalità per cui un racconto raggiunge il pubblico con efficacia, appunto con effetto moltiplicato dalla convergenza di fenomeni di mediatizzazione, spettacolarizzazione, e il crescente sentimento antipolitico che si registra nella società italiana. In un simile contesto enunciativo, in relazione all’emergenza di fenomeni come la diminuzione dell’attenzione – overload tipico delle campagne elettorali – e dell’interesse per la politica mediata, le storie sempre più rappresentano la modalità organizzativa regina del discorso politico, al punto da poter permettere il fiorire di professioni legate al marketing politico.

Un ultimo accenno agli aspetti affettivi del linguaggio.

Nelle storie servono esempi e metafore di esperienza personale, per scaldare il discorso e catturare gli ascoltatori dentro un orizzonte immediatamente comprensibile perché empaticamente condiviso e condivisibile, per questo vediamo o auspichiamo di vedere (restando critici sulle manovre manipolatorie del consenso) mani che stringono mani, sguardi rassicuranti o fieramente grintosi, per questo ascoltiamo narrazioni affettive in prima persona da parte del candidato o provenienti da testimonial, sentimenti semioticamente eloquenti come speranza, fiducia, pietà, rassicurazioni ottimistiche, visione ecumenica, determinazione, responsabilità, cura.

Per questo bisogna porre attenzione all’espressione affettiva – spesso contenuta nelle prime frasi del discorso pubblico – in quanto sorta di marca strategica nell’organizzazione delle configurazioni discorsive.

Capite tutti che le cose non possono funzionare così, ma ho fiducia nelle vostre capacità di comprensione e vi prometto solennemente che tutti insieme potremo costruire un mondo migliore, caldo di relazioni umane autentiche e in grado di realizzare concretamente un futuro appagante per tutti.
O anche solo un Facebook migliore, se non proprio un mondo.

Guarda la vastità

La vastità

Cinque milioni di anni fa una scimmia d’un tratto ha indicato un boschetto, accompagnando l’urgenza del gesto con le tipiche grida “uuuhhh uh uh uh!!” di quando un predatore, facciamo un leone, si prepara ad attaccare.
Tutte le scimmie del branco hanno guardato in quella direzione, ma non hanno visto niente.
Si sono nuovamente girate, e quella scimmia stava ridendo scompostamente, dandosi delle manate sulle cosce, tenendosi la pancia, rotolandosi per terra.
In quel momento è nato l’umorismo, il teatro, le fake news, il dubbio, la messinscena, la creduloneria, i giochi di linguaggio, forse il primo pestaggio per motivi concettuali, perché non si può infrangere impunemente una regola di sopravvivenza.

Però a dire il vero non c’era nessuna regola, ancora. Bisognava prima infrangerla, ovvero mostrare qualcosa che c’era e non si pensava ci fosse.
Lì è nata la semiotica, perché come ci raccontava il Sommo un segno è tutto ciò che può mentire.
Fin a quel momento, le parole – o gli atti linguistici, dai – sono vere. Quella parola, quell’urlo, quel gesto vogliono dire quella cosa, forse quella situazione. Si riferisce a quella cosa, proprio quella cosa lì, che esiste ed è lì nel mondo, posso nominare il mondo con la parola adeguata.
Infatti già se come sopra dico “situazione” complico tantissimo, e in questo momento mi stanno guardando secoli e secoli di gnoseologia e filosofia del linguaggio.
Diciamo parola.
Quando Dio chiamò Adamo, gli disse “Vieni qua ragazzotto, dai un nome alle cose, su” e allora Adamo *le chiamò col loro nome*. Questa cosa ha tolto il sonno a centinaia di pensatori nelle ultime migliaia di anni.
Cioè, nella parola che Adamo utilizzò per ogni cosa c’era la cosa stessa, la sua forma o sostanza o essenza (vado veloce), addirittura nel suono di quella parola c’era qualcosa che richiamava l’oggetto. Dicevo “tavolo”, e la parola /tavolo/ assomigliava *sotto qualche aspetto o capacità* a un tavolo.
Così fino a Babele. Tutti belli contenti, tutti parlavano prebabelico, tutti si capivano e usavano la lingua perfetta. Però voler costruire o meglio erigere questa torre itifallica era decisamente troppo, Dio se ne ebbe a male e confuse le lingue.
E anche qui fior fiore di filosofi ed eruditi a chiedersi nei monasteri sperduti nel tempo cosa potesse significare, quel confondere le lingue. Nessuno capiva più quell’altro, non si poteva più costruire la torre. Quel burlone di Dante disse che Dio in quel momento aveva inventato i gerghi professionali, quindi il manovale non capiva più il capomastro che non intendeva più cosa dicesse l’architetto, e in effetti come spiegazione funziona.

Ma a noi qui interessa la rappresentazione. Nel linguaggio, in tutti i linguaggi, in tutti i testi. Verbali, scritti, iconici, cinematografici, fotografici.
La semiotica ha “espulso il referente” molti decenni fa. Il linguaggio funziona anche se non esiste quello di cui sto parlando, possiamo parlare di unicorni o di sesso degli angeli per secoli, il linguaggio è simbolico, manipolabile e manipolatorio, non ha logica, è autocontradditorio, poggia su paradossi, non posso uscirne per spiegarlo, non ha pretese di verità ovvero non fa nemmeno finta di cogliere univocamente ciò a cui – concetto o percetto o atto o oggetto di realtà – intende riferirsi, è simbolico, cambia le regole nel tempo e cambiano morfologia semantica e sintassi, abitiamo linguaggi che ci tradiscono, ci affezioniamo a parole che hanno senso solo per noi e solo in quel momento, magari sappiamo pure che il linguaggio è menzogna però continuiamo a dare fiducia, ci piace ingannarci, amiamo la gabbia dorata, ci facciamo dei film, coloriamo le situazioni, inquadriamo e incorniciamo, ci crediamo sani e siamo sull’orlo del delirio.

Ci culliamo nel sogno di poter fare esperienza dell’esperienza dell’altro, ma possiamo solo fare esperienza del comportamento dell’altro, e scommettere che il suo comportamento sia coerente con la sua esperienza. Però stiamo leggendo secondo i nostri codici interpretativi, e proiettiamo sull’altro una simile costellazione di strategie e desideri e aspettative che sono nostri, soltanto nostri.
Illudendoci. Qualche volta pigliandoci, per motivi statistici, spesso al di là dell’intenzionalità del parlante.

Poi ci sono quelli che credono, senza alcun dubbio, alle news su Facebook, ai follower di Instagram, che Phoshop non esista, al fatto che il mio profilo stia avendo successo su LinkedIn.

Foley - Jannis

Foley, ISIS, e la retorica dell’effetto-realtà.

La diffusione del video da parte dell’ISIS della decapitazione di Foley è un caso mediatico.

Perché, come subito in parecchi hanno notato, il video è montato, costruito, progettato. Contiene artefatti accortamente introdotti sul piano discorsivo e narrativo, sia sul lato dell’espressione sia su quello del contenuto, che in quanto stilemi facilmente decodificabili (secondo quale stilistica e codici? vedremo) cercano di affermare la veridicità, però non secondo una ricerca di trasparenza – anch’essa in ogni caso sempre “messa in scena” nell’effetto realtà. Nell’orizzonte delle attese del lettore, che siamo noi occidentali – non so bene cosa significhi, in questo contesto – qualcosa rimane insoddisfatto. Proprio perché la proiezione delle nostre aspettative su ciò che stiamo guardando non si incastra con il modo in cui la narrazione della decapitazione viene resa.

Qualcuno in Rete parlava di Brian De Palma, per citare un regista che esplicitamente come linea poetica (e Antonioni, e altri, certo) cercava di interrogarsi sugli effetti di realtà tramite l’opposizione vero/falso e falso/vero. Perché comunque siamo all’interno di un universo di discorso, che pone sé stesso in quanto rappresentazione e dissemina degli indizi per la propria comprensione, per la leggibilità del testo. E l’obiezione immediata è che nel nostro orizzonte di attese sopracitato quel video avrebbe dovuto essere piuttosto crudo, senza tagli e montaggi, un piano sequenza – l’elemento grammaticale della “presa diretta” sulla realtà, appunto, senza mediazioni. E invece questo video è montato. E qual straniamento, Verfremdungseffekt, ci viene da questa organizzazione del discorso.

Forse il “regista” pensava di essere più realistico in questo modo? Secondo quali codici espressivi, quale “poetica”? Ovvero, quale era la sua idea di “lettore modello”, per confezionare in tal guisa il suo messaggio? Oppure, come DePalma o altri ormai banali (trent’anni di massmedia scavano in noi) espedienti cinematografici, sta tessendo una narrazione disseminando sgambetti e inciampi alla nostra interpretazione? Oppure il fatto che, come l’incappucciato inquadrato, l’autore fosse forse inglese british e quindi fosse presumibilmente imbevuto in profondità di cultura occidentale gli ha fatto progettare (consapevolmente o no? qui il nocciolo per provare a decodificare l’intenzionalità autoriale, ovvero attribuire appunto una poetica) la realizzazione del video in quel modo, prima ancora di girarlo? Forse era semplicemente un appassionato di Premiere o Vegas o altri software di videoediting, e si è sbizzarrito come chi a livello amatoriale montando il video di un matrimonio eccede in dissolvenze incrociate e improbabili tendine? Perché? Perché?

Oppure, come dicevo sopra, il problema siamo noi. Inventio, dispositio, elocutio, in ogni aspetto ci sono domande. Decenni di retorica mediatica, o dovrei dire grammatiche per schivare la connotazione ormai decisamente negativa del termine, hanno costruito in noi delle attese, anticipazioni rispetto a ciò che il messaggio mediatico sta per narrarmi. Il messaggio è “ben formato” in sé, però cozza con le nostre aspettative riguardo la coerenza e congruenza con il contesto enunciazionale. Non è adeguato.  Non avrebbero dovuto farlo così. E anche qui mi chiedo perché, perché secondo i nostri codici non è adeguato. Perché se siamo catturati nella costruzione di un frame linguistico e mediatico dall’ISIS progettato e quindi imposto, la nostra reazione avrebbe dovuto essere automaticamente di sdegno e orrore e condanna, e così è, ma in modo nuovo, mediato, entrando e uscendo dalla fiction e dalla presa diretta. Eppure non si fa così, c’erano modi migliori per farlo, pensiamo noi. Perché? Perché?

Non riesco a venirne a capo, nessun cui prodest mi aiuta, nessuna possibile strategia narrativa praticabile da ancorare ai ruoli, in questa situazione del far sapere.

Sospendo il giudizio. Il regista è uno che si diletta di videoediting, questo posso dire.

Ibridazioni narrative

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Narrazioni prevedibili. È sempre accaduto, siamo lì e ci annoiamo. Ma la fiducia è sempre ben riposta, per questa spinta che possediamo a nominare le cose e a raccontarle. Il poeta è proprio lì come avanguardia della specie, e mica trova solo cose nuove da dire, trova parole nuove per dire cose vecchie, o parole nuove per dire cose nuove che in lui son nate per una sensibilità a rilevare in modo nuovo cose vecchie, e nascono nuovi contenuti che magari lui riuscirà a mettere in forma. Ma a me questo interessa, la narrazione delle forme narrative. La nascita dei generi, a esempio, e lì i protopoeti di cui sopra sempre quelle strade praticano, per spezzare i linguaggi: quel contenitore di storie che può essere un sonetto, una canzone, un panegirico, un’ode, un’invettiva, una tragedia, una commedia, una farsa, un cinque atti, un intermezzo musicale, un videoclip, un format televisivo qualsiasi, viene stiracchiato spezzato specularizzato serializzato estraniato nelle sue componenti figurative o attoriali, e da questa crosta di linguaggio sedimentario fuoriesce magma nuovo che sempre ribolle sotto, nuove urgenze espressive, parole nuove che con facilità permetteranno ai poeti e poi a noi tutti di individuare nuovi modi per raccontare le cose, e auspicabilmente anche cose nuove da raccontare, perché i sentimenti umani e gli atti cognitivi trovano nuovi stampi dove riversarsi e prendere forma. Dove prima c’era il silente che non poteva essere detto, ora c’è l’espressione vagamente intuita, uno spiraglio della porta che permette di sbirciare al di là, un possibile che diventa essere, un Es che diventa Io.
E se i ritmi dei media classici sono lenti, le parodie o i camuffamenti letterari o comunque le nascite di nuove forme prendono il tempo dei decenni, o dei secoli. Passano tre o quattro secoli dal romanzo cavalleresco a Ariosto o a Don Chisciotte di Cervantes impazzito dalle troppe letture, e la sensibilità dei tempi fa compiere ai poeti giganteschi mashup e vulcaniche rotture di paradigma narrativo, portando alla luce riflessioni che mai avrebbero potuto prima emergere, proprio perché da quelle ormai classiche nutrite.
Ma la TV ci ha messo poco tempo per inventare le parodie o per far nascere Blob, ancor meno ci metterà il web a stufarsi dei format attuali, che nelle forme dei social in 140 caratteri o del grande stabilimento d’umanità privato e commerciale – Facebook – sono ancora pesantemente novecenteschi. Già s’intravedono le prime incrinature, zigzaganti crepe interrompono la superficie dei luoghi di narrazione contemporanei, incapaci di incanalare forze espressive sotterranee che faticano a trovar contenitori adeguati. Twitter è vecchio, prevedibile, prevedibili sono le sue narrazioni e i suoi schemi d’interazione, i commentarii esplodono dando vita a nuovi generi letterari come accadde per i manoscritti chiosati medievali, nascono ibridazioni come già accadde per serial o sitcom televisive dove da un episodio nasce uno spin-off autonomo, le generazioni vivono ciascuna un Eterno Settembre e giudicheranno male i nuovi arrivati niubbi e menefreghisti rispetto alle regole di una grammatica che i fondatori ritengono sacrosanta e invece come tutte le grammatiche di una lingua viva non può far altro che evolversi, magari nascerà un ornitorinco con le zampe e il becco d’anatra che fa le uova e poi allatta i cuccioli, ci sono social network (tipo in Cina, toh) che mischiano pesantemente skype e twitter e facebook e soprattutto ospitano nativamente profili e narrazioni e interazioni commerciali, e di sicuro il mainstream delle forme narrative della contemporaneità supererà rapidamente questa segmentazione a comparti stagni e ad account proprietari, perché con il cellulare always on io voglio essere dappertutto sempre e non saltare di qua e di là in luoghi senza più confini, dove i confini dentro una Rete non hanno più decisamente senso.

Filtri umani

Ci hanno educato per almeno cinquant’anni, dai Persuasori occulti in avanti. La tecnica è quella, instillare un bisogno. Di quelli che prima non avevo, magari. Un’automobile, un telefono, una lavatrice, un panino, un paio di calzoni, un profumo. E da molti anni non raccontano il prodotto, suggeriscono un’esperienza, uno stile di vita a cui tendere, un sogno, un’aspirazione – indotta. E sono bravi. Confezionano messaggi, mondi interi, per venderci un oggetto. Ma questa è l’economia dell’immateriale. Informazioni. Cose che ci nutrono, e ci dicono cosa pensare, non solo cosa indossare. E quindi ecco la semina del bisogno di informazioni. Di panini e jeans posso calibrare la produzione, sarò spesso in equilibrio tra domanda e offerta. C’è un limite materiale, e uno dettato dalla convenienza economica. Delle informazioni non c’è limite. Posso inventare storie, raccontare la stessa in mille modi, escogitare percorsi di senso che dentro il giusto contesto diventano appetibili. Le gallerie di foto dei quotidiani online, per esempio. I mille retroscena di una vicenda di cronaca. Posso riempire internet di parole, e poi vorrei fare in modo tu le leggessi, e magari le condividessi. Clicca, per dio. Clicca, e sentiti in ansia se non surfeggi compulsivamente tra mille cretinate. Ogni giorno. Che se per caso stai lontano dal pc per due giorni ti senti svuotato, ti manca il ritmo. Mail, socialino, socialone, geotagging, immagini, forum specifico, chat, blog, tutto il giro, tutto il giorno, e guardare se c’è qualcosa di nuovo. Indurre il bisogno di informazione. Sono un po’ stanchino. 

Svelo e rivelo

Cosa fanno i ragazzi e le ragazze su Facebook? Che stile di comportamento mostrano al mondo? Sembrano ingenui, pubblicano cose che farebbero meglio a tacere, e non si accorgono dell’errore? Oppure sanno bene quali sono i margini della privacy, e sono menefreghisti, e quindi almeno un po’ consapevoli?
I minori hanno altri codici, tutto qui. Come è sempre stato, dal linguaggio verbale a quello dell’abbigliamento, alle scelte musicali, vivono in un altro universo di discorso, ecco.
Gli adulti possono mostrare ai giovani le conseguenze delle loro azioni, gli effetti di comunicazioni fatte con troppa leggerezza. Ma si tratta forse di conseguenze che giudichiamo con i criteri di un mondo vecchio, pre-Internet? Criteri che proviamo a trasmettere alle nuove generazioni, di buon senso e esperienza, che però non si attagliano più alle relazioni interpersonali e ai giochi identitari del ventunesimo secolo?
La privacy è cambiata, nella forma e nella sostanza. Ci si presenta al mondo in modi nuovi, si raccontano cose di sé che ieri solo poche persone conoscevano. La definizione di ciò che è “pubblico” e ciò che è “privato” è cambiata, cambiano le leggi secolari che hanno guidato la socialità, cambiano le istituzioni, i luoghi dell’espressione di sé come singoli e come collettività. Quello che ieri era inopportuno dire, oggi è prassi diffusa. Reputazione, espressione, norme morali, stili di comportamento. Svelamenti di sé, e conseguenti nuovi rivelamenti, sotto altre vesti, dentro nuove grammatiche sociali. E non solo le parole che i ragazzi usano su facebook sono nuove, sono nuovi anche i criteri di giudizio con cui vanno valutate.
Media is what you make of it
Ma dico, li guardate i profili facebook dei vostri figli? No, non intendo dal punto di vista del controllo delle loro abitudini, delle persone che frequentano: su quello sappiate pure che quello che vedete è precisamente quello che loro vogliono che vediate, quindi mettetevi l’anima in pace.
No, parlo dei dati personali. Del modo in cui si descrivono sulla loro pagina di presentazione. A cominciare dal dato più sensibile: il “relationship status”, quello dove magari pensereste di capire chi è “il fidanzato” o “la fidanzata” (giusto perché ci piacciono i termini romantici e consolatori).
Ebbene, se avete una figlia in molti casi scoprireste che lei ha una relazione con un’altra ragazza. E magari vi preoccupereste. Inutilmente, ma non sono qui a farvi la morale sul tema della libertà sessuale, non ne avrei alcun titolo. Intendo, semplicemente, che su facebook per una adolescente molto spesso “avere una fidanzata” significa solo che lei è l’amica numero uno, l’amica inseparabile e così meravigliosamente fidata che si potrà pure scrivere sul proprio profilo pubblico che è, appunto, “la fidanzata”. Fino ad assumerne il cognome, e infatti i profili degli adolescenti traboccano di doppi e tripli cognomi.
E’ un gioco, ma non esattamente “uno scherzo”. E’ una cosa importante, sotto almeno due aspetti. Da un lato sui social media i nostri ragazzi ragionano senza le gabbie di pensiero tipiche dell’ambiente culturale con cui i quarantenni di oggi hanno vissuto i temi dell’identità e della socialità. Senza, per intenderci, l’ossessione di “ritagliarsi un ruolo nel gruppo”, proprio perché la rete è fluida, e si può agevolmente passare da un gruppo all’altro, inseguendo i propri ondivaghi interessi del momento. Ma soprattutto – e questo è l’aspetto più interessante – i nostri adolescenti non vogliono accettare l’idea che qualcuno ti obblighi a dichiarare i tuoi legami sentimentali. E quindi quel campo, che molti adulti lasciano vuoto per rimanere “nel vago” (e non precludersi chissà quali avventure digitali) viene addirittura sbeffeggiato dalla generazione dei “nativi”, e stravolto nella sue funzione originale. Con l’implicito scopo di dichiararsi strutturalmente superiori rispetto alle squallide logiche di ruolo o – peggio – “proprietarie”: il “fai vedere che sei mia altrimenti non mi ami abbastanza” – per intenderci – esiste ancora, ma rappresenta nettamente una posizione di retroguardia, perdente in partenza.
L’aspetto su cui vorrei mettere l’accento è i nostri ragazzi hanno deciso di fare un “hacking collettivo” della principale piattaforma di social networking, confermando un trendgeneralizzato (ma ancora largamente ignorato) per cui è molto difficile indirizzare tecnologicamente l’uso di qualcosa che – al momento di compilare il proprio profilo – di sicuro non comporta conseguenze legali se dichiari il falso.
Ed è questo l’equivoco in cui spesso cadono gli “immigrati digitali” della mia generazione quando parlano, per esempio, di “privacy” o di “diritto all’oblio”. Diamo infatti per scontato che i presunti “inconsapevoli dei rischi” (sempre loro, i nostri figli) siano indifesi e inseriscano sempre dati utili, cioè veri. Mentre se andiamo a vedere, più la richiesta è invasiva (“religious views”, “orientamento politico”, “preferenze sessuali”) più si divertono a prenderla in giro con risposte che nella migliore delle ipotesi potremmo definire bizzarre.
La verità è che anche una piattaforma di social media è soggetta alla legge del remake e del re-use, troppo spesso sottovalutata dai tecnocrati di oggi, che non a caso appartengono almeno alla generazione precedente. Cosa è diventata Facebook di sicuro lo decide Zuckerberg, ma non a prescindere da quello che gli utenti, tutti insieme, decidono di farci. E lo stesso vale per le altre, più piccole, piattaforme. Twitter, nata con pretese conversazionali, è diventato uno strumento principalmente di broadcasting. Friendfeed, concepita come aggregatore RSS, è stata apprezzata soprattutto come chat collettiva in tempo reale. La stessa MySpace, in origine, non aveva particolari ambizioni in ambito musicale: semplicemente, permetteva l’inserimento di lettori flash, e molte band indipendenti ne avevano approfittato.
Eppure siamo ancora qui a versare lacrime (e fiumi d’inchiostro) sulla “generazione perduta”, quella che passivamente accetterebbe i diktat dei nuovi grandi fratelli della rivoluzione digitale. Dimenticando che proprio noi – i quarantenni di oggi – ci siamo fatti lobotomizzare per trent’anni da una passivissima e ineludibile televisione commerciale, con gli effetti culturali che proprio oggi più che mai sono davanti a nostri occhi. E non è esattamente un bello spettacolo.

Chi racconta la realtà?

C’è tutta una vicenda complessa da queste parti, a Pordenone. L’Ordine dei Giornalisti FVG si è mossa contro una webtv iperlocale, PNBox, perché

il canale avrebbe svolto attività giornalistica non occasionale diffondendo gratuitamente notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale specie riguardo ad avvenimenti di attualità politica e spettacolo 

dicono qui su L’Inkiesta, riportando le parole del Tribunale. 
L’Arca di Naon e Sergio Maistrello ne parlano qui e qui e qui sul blog di Sergio, Tedeschini Lalli qui, poi ne parla Colletti su Nova100 del Sole24ore, rimandando a un suo ulteriore articolo su Il Fatto Quotidiano, dove trovo anche le riflessioni di Guido Scorza, il quale però ora è anche avvocato difensore di Francesco Vanin di PNBox nel processo di Pordenone, proprio secondo quanto riportato da Maistrello su arcadinaon.it.
La questione è complessa, più la si osserva più emergono ambiti di ragionamento. C’è la questione giornalistica, il cambiamento dei tempi, le piattaforme web, la libertà di espressione e le leggi di sessant’anni fa sull’editoria periodica, ci sono da fare dei ragionamenti sulla partecipazione dei cittadini all’informazione iperlocale, sulle modalità narrative con cui l’opinione personale, contrapposta a un “semplice” riportare informazioni, viene espressa in un messaggio, dentro un contesto. Un ragionamento sulla libertà dice Tedeschini Lalli, il significato per ognuno di noi poter pubblicare in Rete in qualsiasi momento, che non ben compreso dall’Ordine dei Giornalisti finirà per danneggiare i giornalisti stessi, e la loro necessaria professione di interpreti dei fatti del mondo, dentro i massmedia.
Ma quell’interpretare mi incuriosisce.
Ogni dire reca con sé un punto di vista. La percezione del mondo è già un’interpretazione. Osservare significa anche ritagliare, e dar senso. Una parola, o una fotografia sono una scelta di “inquadratura”, testo e narrazione, giocano con il lettore, e la realtà è inattingibile. Una webtv può dire di sé di essere semplicemente un tubo, un altoparlante? Riconfezionando flussi e discorsi in nuovi contesti di fruizione (diverse aspettative, orizzonti di senso per l’interpretante) può dichiararsi neutra rispetto al messaggio che veicola? Ogni blogger che scrive liberamente di fatti di cronaca, oppure un giornalista su una testata editoriale, può dire di fare semplicemente informazione? Non credo. Anzi, la capacità di adottare uno stile espositivo rispettoso dei fatti, su cui eventualmente costruire in modo fondato il proprio punto di vista e la propria riflessione è sempre garanzia di una coscienza “giornalistica”, segno dell’aver compreso e praticato una metodologia del “fare cronaca” in grado di sottoporre a critica i propri stessi strumenti del mestiere, in una deontologia esplicita.
E il lettore è alfabetizzato? Possiede competenze in lettura che siano in grado di fargli decodificare un testo come “pettegolezzo&propaganda” rispetto a un articolo “ben formato” dal punto di vista giornalistico? Ci sono dei marcatori, nel testo? Indicazioni intra o extratestuali (cotestuali, contestuali) che possano aiutare a disambiguare il messaggio correttamente, a porlo contro uno sfondo adeguato, per dargli la giusta ambientazione?
E se domani ci fossero centinaia di webtv (facilissimo), l’Ordine dei Giornalisti dovrebbe mettere il bollino a quelle che fanno informazione seria e quelli che invece giocano a fare i citizen journalist?
E come si fa a distinguere, visto che già ora ci sono cittadini che pubblicano dignitosissime cronache e ricognizioni e riflessioni su questioni d’attualità, più o meno iperlocali, e ci sono testate giornalistiche online registrate che assomigliano a dei forum di bimbiminkia?
E’ chiaro che il vecchio modello non può reggere. Vedremo emergere Luoghi di giornalismo vero e fondato sui fatti, sulla volontà di fornire informazioni e punti di vista per raccontare gli accadimenti avendo fermo riferimento nel nutrire l’opinione pubblica di cibo per la mente di qualità.
E noi tutti semplicemente esplorando il web e le nostre cerchie sociali e di affinità scopriremo e frequenteremo molti Luoghi d’informazione, istituzionali o partecipativi o artigianali, e daremo i nostri voti alla qualità dell’offerta.

Post di servizietto

L’Agenzia per la diffusione delle tecnologie dell’innovazione ha pubblicato (link diretto) il resoconto, a cura di Pierluca Santoro, dell’evento Innovatori Jam, tenutosi lo scorso settembre: ne parlavo qui su NuoviAbitanti.

In quell’occasione svolgevo il compito di facilitatore nei forum dedicati all’e-tourism, provando a bilanciare ragionamenti che andavano dalle cartografie digitali ai possibili emergenti format digitali di narrazione territoriale, con cui arredare le mappe oppure provvedere autonomi “percorsi di senso” dell’abitare un territorio, quando oggidì possiamo noi stessi “scriverci” sopra, raccontandolo.

Il Report rappresenta la sintesi dei contributi di coloro che hanno partecipato ai 10 focus del Jam, e mi fa piacere segnalare come la discussione appena descritta sia stata messa in rilievo, a testimoniare la buona qualità degli apporti.

Nel frattempo vado in giro a raccontare cose di web a insegnanti e studenti: a Pordenone, domani 24 febbraio alle 17.30, presso l’ex convento di San Francesco.

Parole dentro le parole

Avevo questa teoria, secondo cui le parole dentro le parole modificano un po’ il senso che diamo a quelle parole.
Prendiamo mascarpone, sappiamo che è un latticino, che viene dal norditalia, che è calorico. Attenzione, non è un formaggio. Neanche la ricotta è un formaggio, eh. Caglio, siero, un mucchio di microbi come catalizzatori, zangole per battere la panna e farne il burro, filiere alimentari, procedure. Oh, tecnologia, il linguaggio dell’abitare.
Insomma, scarpone. dentro mascarpone. Quindi non so a voi che effetto fa (siamo dentro dizionari personalissimi), ma dentro il mascarpone c’è lo scarpone. Si fosse chiamato mafarfalla, avrei avuto un’idea diversa di quel formaggio.
Oppure in inglese: pensate a irony, ironic.
Per me assomiglia più al sarcasmo, l’ironia degli anglofoni. Perché dentro irony c’è iron, il ferro.
E poi c’è europe. Che pronunci come You rope. La “rope” è la corda per impiccarsi. Lennon dice “money for dope, money for rope”. Anche Frank Black coi Pixies dice “Can you swing from a good rope”.
E allora se pensate a cosa pensa un inglese, quali aree neuronali si attivano per simpatia nel pensare Europe, gli vengono in mente cose così, anche se non lo sa.

Svelare e rivelare

Giovanna Cosenza smonta una notizia: abbiamo Confartigianato che pubblica un’analisi della disoccupazione giovanile in italia, ma i dati si conoscevano, dov’è la novità? E quindi, perché pubblicare questa notizia? A chi giova? Ecco che arrivano Sacconi e la Gelmini, a spingere su un modello sociale dove sia presente l’apprendistato e la promozione delle scuole professionali per meglio integrare giovani generazioni e mondo del lavoro.
Il focus del discorso non è nella bontà o meno dell’idea di portare i giovani a iscriversi a scuole professionali piuttosto che frequentare i licei, dibattito gigantesco, quanto nel segnalare, se vogliamo, una manovra del Potere. Nelle parole di Cosenza, “In conclusione, il rapporto Confartigianato non è informazione, ma comunicazione politica.

LAB2011 – 100 anni di McLuhan

Nicola Strizzolo, sociologo all’Università di Udine, ha presentato i due relatori d’eccezione, Derrick de Kerckhove e Giovanni Boccia Artieri, presidente del corso di laurea di Scienze della Comunicazione a Urbino: riguardo al primo vi rimando a Wikipedia, del secondo linko la pagina sul suo blog Mediamondo, dove proprio prende in esame alcuni passaggi-chiave del pensiero di McLuhan.
Conosco Nicola da qualche anno, Derrick pure per esserci incontrati in qualche convegno qua e là per la penisola, mi mancava invece lo scambiar quattro parole con Giovanni, che stimo moltissimo per il taglio culturologico che mette nelle cose che scrive in giro, per le sue originali osservazioni sui cambiamenti sociali attuali, per le sue considerazioni sulla nostra identità mediata, come individui e come collettività.
Era l’occasione giusta per devirtualizzarci, dopo anni che ci leggiamo e commentiamo sui blog e sui social.
Ho preso degli appunti di quello che i relatori hanno detto: li metto qui sotto, in forma sintetica.

Derrick De Kerckhove mostra un video fatto al Salone del Libro di Torino, dove scherzosamente si chiede ai visitatori se conoscono Marshall McLuhan (pochi), poi parte a commentare il ‘decalogo’ di McLuhan 1962, le sue famose dieci profezie

The next medium, whatever it is –
  1. it may be the extension of consciousness –
  2. will include television as its content, not as its environment,
  3. and will transform television into an art form.
  4. A computer as a research and communication instrument
  5. could enhance retrieval,
  6. obsolesce mass library organization,
  7. retrieve the individual’s encyclopedic function
  8. and flip it into a private line
  9. to speedily tailored data
  10. of a saleable kind.
Derrck accenna il discorso sui media come protesi del corpo e dei sensi umani, poi con Harry Potter porta la platea a ragionare sulla magia moderna, mostra un video di un tipo che muove cose sullo schermo con il pensiero, onde cerebrali. Sta parlando di realtà aumentata, di informazione geolocalizzata, e sottolinea come il tutto sia “magico”, un po’ medievale nella forma della narrazione, intendendo stupore e meraviglia.
Interessante quando commentando il punto 3 chiede un parere sul significato della televisione come forma d’arte, e indica Youtube come esempio concreto.
Derrick fa scorrere sul muro dietro di sé una composizione di icone, cliccando sulle quali fa partire un video o apre un’immagine che poi gli serve per argomentare il proprio discorso. Seleziona un’illustrazione di Pinocchio, racconta come la favola italiana sia conosciuta nel mondo ovunque lui vada, poi spiega come Pinocchio rappresenti l’uomo nel passaggio all’industrializzazione, dalla toscana rurale alla meccanizzazione, quindi il nucleo narrativo sia quello del tornare umano, la sfida ovvero la prova dell’eroe… E questo avviene attraverso la balena, matrice del cambiamento (sulla parola “matrice”, rapidamente cita i film recenti che trattano di queste problematiche, centrali nella cultura attuale, come appunto Matrix, Avatar, Atto di forza, Blade runner). La personificazione, il diventare un’identità, e non si può arrestare, si poteva forse fare due secoli fa fermando la stampa, ma ora no, c’è FaceBook, siamo oltre.
Questo è la rivoluzione del terzo linguaggio, dopo orale e scritto ora c’è l’elettrico, e noi personalmente, in noi, portiamo questo linguaggio, grazie a lui significhiamo.
A conclusone del convegno avrebbe poi aggiunto alcune considerazioni “politiche” sul nostro essere ormai connessi planetariamente, del nostro aver maturato consapevolezza riguardo l’effettiva forza del nostro agire quando coordinato e potenziato da Internet: i riferimenti sono le Tweet Revolutions del nord Africa dei mesi scorsi e le forme della censura cinese su Internet, e Derrick dice che o i Governi imparano a fare meno della censura, oppure noi qui in Rete impariamo a fare a meno dei Governi.
Giovanni Boccia Artieri esordisce indicando la sua volontà di ragionare attorno alcune “sonde” di McLuhan, quei passaggi divenuti poi proverbiali nel descrivere il pensiero dell’autore e il suo impatto sulla riflessione odierna riguardo la natura dei massmedia.
Le ‘sonde’ di McLuhan sono degli slogan, sono idee che poi si propagano, il futuro è il presente.
1. Medium is the message
La forma dei media hanno implicazioni più profonde dei contenuti che veicolano; non si tratta banalmente di sminuire i contenuti, ma di porre come oggetto di analisi proprio la forma storica che veicola quei contenuti, e il modo in cui questa modifica profondamente il nostro pensare. A esempio FaceBook: le nuove forme della connessione interumana sono il nocciolo da osservare, lì c’è il cambiamento.

“La tv è tattile” e le molte altre frasi di McLuhan, apparentemente paradossali, cercano di far capire proprio questo, una sorta di dislocazione dell’attenzione che permetta di inquadrare i fenomeni mediatici secondo altri punti di vista. McLuhan: “Le società sono sempre state plasmate più dalla natura dei media attraverso i quali gli uomini comunicano che non dal contenuto della comunicazione”.

Fermarsi alla superficie dei contenuti non va arrivare alla cosa importante: l’esperienza che facciamo del mondo è sempre un’esperienza autentica, e la realtà fisica vale tanto quanto Second Life per come sono da noi vissute. La stessa notizia sul giornale, sulla radio, in tv sono tre esperienze diverse, che ci costruiscono. Quello che è in ballo è la forma della rappresentazione, quindi le diverse modalità relazionali, le occasioni percettive differenti – nella realtà aumentata sul cellulare vivo diversamente il reale… le tweet revolution in africa sono state rese possibili perché le reti tecnosociali hanno reso visibili le reti di persone, costruendo nelle collettività una percezione nuova di se stesse.
Determinismo tecnologico di McLuhan? Nodo storico e cruciale del suo pensiero, con cui si tende a scartare l’importanza l’importanza del pensatore muovendo facili critiche. Partendo dal famoso esempio mcluhaniano dell’invenzione della staffa per poggiare i piedi stando a cavallo, Boccia Artieri illustra il significato della nascita della cavalleria pesante nel Medioevo, quindi nasce la professione di soldato, quindi il feudalesimo (staffa sta a feudalesimo, dice semplificando, come Twitter sta a Africa nei recenti movimenti di piazza e rivoluzioni).
E’ da comprendere però come il ragionamento vada inteso correttamente: nel sistema dei media noi siamo fuori dalla causalità, siamo sistemici, “circolarità delle intenzioni”, quindi va compresa la nozione di “cause negative”.

Riferendosi al pensiero di Debray, Boccia Artieri mostra come sia errato riferirsi a una correlazione causa-effetto nella considerazione di certi processi culturali o nell’invenzione tecnica degli strumenti, compresi i ragionamenti massmediologici: la staffa non “determina” il feudalesimo (o la stampa a torchio del protestantesimo), ma lo “autorizza”, ne costruisce la condizione di possibilità. Non ne è causa, ma senza staffa niente feudalesimo, senza Gutenberg nessun Lutero. Le causalità sistemiche sono negative. A non produce B, ma se non-A allora nessun B.

2a sonda: i media sono metafore attive, traducono l’esperienza in forme nuove.
Esempio del cellulare: noi oggi siamo sempre connessi, always on, e anche l’esperienza dei luoghi è diversa.
Rapporto tra media e corpo, apparato neuropercettivo: noi nei media impariamo il mondo, gli schemi d’interpretazione, i media sono ambienti evolutivi per la storia vitale, luoghi dove si sviluppano emozioni e sentimenti, atti reali, basta con il pensiero di una separazione.
E’ mutato il senso della nostra POSIZIONE nella comunicazione… Da oggetto della comunicazione (cittadino, consumatore, audience…) a soggetto della comunicazione: questo è quello che la rete sta facendo, enpowerment dell’individuo, e il senso dell’abitare cambia, per singoli, per enti privati e pubbblici (i cittadini enpowerati dalla partecipazione).
Arriviamo in modo diverso all’informazione, oggidì tutto passa attraverso filtri diversi, sociali, amicale, cerchie.
User generated content: persone e contenuti sono strettamente collegati, e la fiducia e la credibilità sono i valori che circolano, quello che funziona, non la quantità. Reputazione.
McLuhan: “il contenuto è l’utente”.
UPDATE: trovate un buon resoconto anche qui
Personalmente, non saprei cosa aggiungere qui ora su McLuhan. Perché McLuhan è un universo intero di discorso, peraltro dislocato rispetto alle grandi correnti di analisi massmediologica di fine Novecento.
Ne ha fatto cenno anche Boccia Artieri: McLuhan non viene insegnato per bene nelle Università. Quella massa di ragionamenti espressi con stile originale e a volte paroliberisticamente paradossale (d’altronde, come raccontare nel 1962 ciò che non può essere capito, in quale altro modo far passare nella pubblica opinione il messaggio che intende far porre attenzione sulla forma del messaggio, se non sabotando le narrazioni e le aspettative d’ascolto?), spesso dipinta come un insieme disordinato dove qui e là brillano delle intuizioni e delle suggestioni  in forma di slogan, mi è personalmente arrivata sotto forma di un paio di capitoletti dentro i manuali di teoria della comunicazione o di sociologia della ricezione, ma non mi sono mai imbattuto in un monografico dedicato al massmediologo canadese, pur avendo avuto la fortuna di avere professori universitari liberi o addirittura “selvaggi” nel loro approccio alla disciplina.

Il medium è il massaggio“, appunto. Quei quattro sensi della lettura, come in Dante: Message and Mess Age, Massage and Mass Age. Quel massaggiare il sensorio della cultura umana, quell’innescare brividi agendo direttamente sugli organi di senso delle collettività, ovvero sui massmedia. Agire cambiamento.
Appena ho dieci anni liberi, mi ributto a studiare McLuhan.

Sembra talco ma…

Ieri parlavo di RedRonnie e dell’effettopisapia – non dimenticate la figlia di Red, mi raccomando, mentre disquisite di suicidio mediatico al baretto: seminate negli astanti l’idea che Gemma del Sud sia stata la spin doctor dell’intera rappresentazione.

Oggi la Rete narra di #Sucate. E’ tutta fibrillazione qui, #primaverarevolution. Ok, la fuffa stufa, il virale annoia rapidamente. Ma non mi importa. Nemmeno se poi modifica o no le cose o rimane giochino, m’importa.

Lo apprezzo per come è, una via creativa di quelle da sottofondi del web che leggiamo da anni dentro i forum sperduti nelle periferie, scintille di lolz che poi esondano in centro, parole come orghl che bucano strati di realtà e cerchie sociali e finiscono nei titoli dei giornali, svelamento surreale di meccanismi di comunicazione e crisi professionale dello stagista poveraccio della Moratti.

E un esperimento sulla travasabilità, quindi, sull’osmosi tra Luoghi della Rete, di uno stesso sentimento che per un attimo è vissuto sulla punta delle dita di centinaia di migliaia di persone. La fase centrifuga di decine di riferimenti culturali pop storicamente italiani, rimescolati con nuove sensibilità.

Sono le pratiche sperimentali delle comunità che trovano forme narrative adeguate, ombrelli sotto cui possono ripararsi e aggregarsi brandelli sparsi di discorso, calamite sotto il foglio che riallineano la limatura di ferro, donando figurazione, rendendo visibile il campo e le linee.

E tutto questo non serve per il presente, serve per il futuro. Serve a ciascuno di noi per guardare un po’ più lontano, per darci sicurezza sulla solidità del terreno su cui ci stiamo incamminando, nel mostrarci le possibilità anche giocose con cui possono avvenire i cambiamenti. E’ un genere letterario su cui possiamo eventualmente poggiare, nel caso domani le circostanze lo richiedessero. E’ un modo nuovo di dire la realtà, è uno stile dell’abitare, mai prima esperito da essere umano, questo che oggi abbiamo scoperto e guardato fiorire.

Balletti situazionali dentro i social

C’è un candidato alla carica di Sindaco in una città del nordest che dichiara in pubblico di non essere credente, qualcun altro della parte avversa monta in video un confronto tra quella asserzione e le sue info su Facebook, dove invece il candidato si dichiara cattolico. Poi ovviamente si continua, le campagne elettorali sono calde, si arriva a insinuare che il candidato non conosca la coerenza, sia opportunista nell’adeguarsi ai diversi contesti.

Il video a sua volta circola su FB, e lì la riga di commenti, e gli argomenti spaziano dall’esistenza di Dio alle politiche di innovazione all’importanza dell’essere onesti su Facebook (?) al metteteci voi quel volete, avete presente, in un thread ovunque esso sia, fosse un forum dieci anni fa o una riga di commenti su un social, si può sempre arrivare a parlare di qualsiasi cosa partendo da un argomento random.

Emergono visioni. Contano molto le cose che scrivi su facebook, la gente ti va a vedere e poi si ritiene ingannata, a esempio. Oppure ci sono quelli che provano a avere uno sguardo sempre un po’ consapevole sulla discussione stessa, e cercano continuamente di riportare in carreggiata il discorso. Pochezza e fastidio, ben disseminate. 

Eppure quella è una discussione politica, colta nel momento in cui i partecipanti all’evento comunicativo rivendicano per le posizioni espresse dai propri argomenti una liceità a essere prese in considerazione come proposte effettive in una dimensione civica, come linee programmatiche, come espressione di un sentire collettivo.

O meglio, qui siamo dove un io pronuncia “noi” per aderire proprio a una linea.

In questa situazione c’è un moto verso l’esterno, un espandersi. La morale di un personaggio s’ingigantisce nelle sue parole, i termini vengono generalizzati, e subito quella morale diventa un’etica.

Immaginate il tipo che parla a voce alta al bancone del bar: quella è la dimensione minima della comunicazione politica. Due che parlano in pubblico, è già sufficiente. Lì vengono esposte prese di posizione rispetto alle tematiche, lì per la prima volta rispondendo a qualcuno affermiamo qualcosa che poi ci connoterà per gli altri e ai nostri stessi occhi; lì nel palcoscenico dell’informazione e della relazione troviamo conferme oppure le novità che nutriranno le nostre idee, le nostre credenze, i nostri atteggiamenti.

Questo succede da sempre. Ci sono sempre i capannelli di persone che chiacchierano nelle piazze di tutto il mondo. Dentro un gigantesco meccanismo planetario (con tempi di funzionamento pluriennali, fino a ieri) di elaborazione dell’opinione pubblica le posizioni individuali di quel personaggio al bar o di quei capannelli convergeranno dentro una retorica pubblica già organizzata secondo consorterie e linee di discorso storiche, quegli elenchi di cose di cui parliamo da sempre, come Dio Anima Mondo e il culo delle donne e degli uomini. 

C’è tutto un rimescolio dentro il calderone della socialità.

Che adesso vediamo, possiamo osservare, porre dinanzi a noi come oggetto di analisi. Nella parole scritte sullo schermo, che hanno diverso impatto rispetto a quelle pronunciate in presenza (non c’è memoria) oppure scritte sulla carta (lentezza della discussione). Esponiamo i visceri della pubblica conversazione, dove sta ancora avvenendo l’assimilazione delle informazioni e delle opinioni, dove le idee germinano e cominciano a scorrere nel flusso della socialità.

Facebook è un social. Lì dentro (purtroppo è FB, ce ne vorrebbe un altro migliore, ma al momento siamo lì) la gente si esprime normalmente. Fate i distinguo, ma rimane che quelle discussioni nei bar e nei salotti che da sempre accompagnano la specie umana diventano visibili. Avevamo sempre potuto guardare soltanto la chioma degli alberi, ora possiamo scrutare anche nel sottobosco. Oppure gorghi, vortici su uno specchio d’acqua continuamente rimescolata, l’insieme delle conversazioni, l’attrazione.

Molti dicono appunto “la pancia”, per dire che forse questo osservare il farsi non è di qualità, molto meglio aspettare che dal pentolone affiorino configurazioni di discorso più strutturate, riconoscibili, quelle che poi diventano l’opinione pubblica in quanto ufficialmente versione narrata dai media.

Ma lì, in una discussione al bar o nei commenti di un video su Facebook, c’è la scintilla del cambiamento, lì costruiamo noi stessi, ci esprimiamo, siamo e diamo voce e inneschiamo azioni.

Poco da dire: questo osservare i momenti aurorali di una situazione comunicativa interpersonale, l’allestimento dei ruoli, le rispettive posture, le strategie linguistiche, le scelte lessicali, la stilistica del discorso social, mi rapisce sempre.