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Attrattività, ecosistema, comunità

Ieri c’è stato qui a Udine, tra gli appuntamenti elettorali, questo bel convegno su tematiche economiche, o meglio di sostenibilità economica per il futuro della città.

Ottimi relatori han saputo dipingere il passato e il presente di Udine, raccontando le scelte territoriali fatte nel tempo nella logistica e nella manifattura, indicando come dal modello “emporiale” ci si stia ora spostando verso una città decisamente orientata al terziario avanzato, all’economia della conoscenza guidata dall’Università e dalle mille realtà imprenditoriali – leggi KIBS Knowledge Intensive Business Service, la loro eccellenza e la loro capacità di fare rete – che lavorano con il digitale e le nuove tecnologie, e al contempo analizzando i flussi economici e la propensione al consumo di una popolazione cittadina dove ormai un quarto degli abitanti ha più di sessantacinque anni..

Ci sono delle parole chiave: attrattività, ecosistema, comunità.

L’attrattività va innanzitutto riferita alla propensione di questo territorio a chiamare a sé “cervelli”, persone altamente qualificate dal punto di vista professionale, invertendo le dinamiche migratorie che vedono anche e di nuovo Udine e il Friuli come allevamenti da esportazione, giovani e meno giovani che ogni anno lasciano tutto e vanno altrove, spesso all’estero, in quanto molto meglio remunerati e accolti.

Perché parlo di accoglienza? Perché quelli che vengono qui alla periferia dell’impero (e che si vorrebbe giustamente far diventare cuore dell’Europa, multiculturale, innovativo in quanto capace di abitare la frontiera di una nuova concezione socioeconomica consapevole delle transizioni ecologiche e digitali del XXI secolo) dovrebbero anche rimanerci, trovare una bella casa e dei servizi territoriali di alta qualità, mettere magari su famiglia. E questo lo si ottiene appunto costruendo pazientemente ma consistentemente la qualità dell’Abitare che il territorio può offrire, nei suoi paesaggi naturali e soprattutto antropici, facendo emergere una partecipazione sociale alla vita della collettività e quindi un sentimento di appartenenza ai Luoghi.

Se un dirigente di una azienda si trasferisce a Udine e dintorni, non è tanto lo stipendio da 100k e il macchinone aziendale che lo trattiene qui, ma è la bellezza e il sentirsi a proprio agio, accolto in una comunità.

Il ragionamento vale anche se parliamo di attrattività turistica, ovvero vanno capovolte alcune affermazioni che ho sentito ieri, ovvero che andrebbero realizzate delle narrazioni territoriali capaci di chiamare qui persone per promuovere il territorio.

È tutto il contrario, e lo dico avendo progettato simili iniziative: l’obiettivo della progettazione territoriale e le azioni da compiere deve riguardare quella promozione culturale e sociale capace di rendere ricco di storie e “caldo” e desiderabile il Friuli e la sua identità in quanto brand, su cui poi costruire delle linee di progettazione anche turistica in grado di instaurare nel tempo una certa reputazione e di scandire con adeguati storytelling la ragione per cui visitare queste terra può essere meraviglia – schivando anche in tal modo sciocche propensioni a un turismo mordi-e-fuggi, a favore di esperienze lente di sapori e stili di vita, di relazioni autentiche, di “comodità psicologica” per il viaggiatore (non più “turista”) che si avventura nei patrimoni Unesco o nelle cittadine medievali o rurali o nella wilderness della Carnia.

Il termine ecosistema non può che riferirsi alla capacità di visione, alla concettualizzazione che abbiamo ora, per progettare il futuro di Udine. Non mi interessa tanto Udine “capitale del Friuli”, e nemmeno “caput”, è un modello gerarchico di organizzazione dei territori che credo destinato a essere superato, a giudicare dai comportamenti delle collettività. Il territorio va pensato “a rete”, policentrico, dove i nodi della rete sono strettamente connessi – servizi, logistica, digitale – e il valore sta nelle relazioni, nella percezione ampia di un Noi orientato al futuro caratterizzato dai nostri storici valori di industriosità e innovazione, quella solita triade di “saper-fare, fare, far-sapere” dove allestire e comunicare lo stile peculiare del nostro abitare il mondo in quanto friulani.

Udine – se proprio vogliamo paradossalmente trovare un centro in una rete – dovrebbe piuttosto essere un hub, il mozzo della ruota che dà senso alla ruota stessa per muoversi su territori più lontani, non spazio vuoto ma pieno di know-how avanzato per la gestione organizzativa complessa di tutte le realtà manifatturiere e amministrative, per l’innovazione nei processi lavorativi, per ascoltare e metabolizzare a vantaggio dell’intero corpo sociale lo sviluppo di soluzioni iperlocali emergenti da promuovere sull’intero territorio, per costruire sistemi scolastici e formativi avanzati in grado di leggere e scrivere le necessità e le opportunità del tessuto tecnosociale.

Fare comunità è l’aspetto più delicato, perché stiam parlando dell’anima di una collettività, che si traduce poi in spinta motivazionale all’abitare avendo cura del territorio stesso, la nostra casa, il fuoco che la rende viva e intrisa del calore delle relazioni umane. Sopra dicevo delle pratiche di partecipazione, che portano a sviluppare un sentimento di appartenenza: vale per gli individui, vale per le collettività che si riconoscono in valori condivisi, e sanno parlarne per farli emergere affinché diventino patrimonio comune e modo originale per raccontarci a noi stessi e al mondo, in una presa di coscienza forte delle qualità e dei tratti distintivi, nel nostro trovare una nostra voce corale.

Abbiamo storicamente il capitale economico e il capitale umano – traggo spunto dalle organizzazioni lavorative, ma possiamo traslare il ragionamento alle realtà territoriali – a cui dobbiamo accostare appunto il capitale sociale dato dalle reti relazionali di cui il territorio è intessuto, ovvero come somma olistica delle risorse reali e potenziali sommerse che traggono il loro valore proprio dalla rete di relazioni, dall’impasto unico di impegno civico, fiducia e solidarietà negli individui e nelle collettività, tra i cittadini e tra i cittadini e le istituzioni, tra le istituzioni e le realtà imprenditoriali.

Fare rete, far emergere il valore delle relazioni, orientarsi a obiettivi a lungo termine di Benessere socioeconomico promuovendo trasparenza dei processi, innovazione culturale e consapevolezza dei Luoghi.

Questo può essere raggiunto nella cooperazione e nella collaborazione dei nodi territoriali, nella condivisione della conoscenza, nell’interoperabilità dei sistemi e dei processi di comunicazione – il digitale fa emergere il senso dei Luoghi, in quanto insieme canale e messaggio, rappresentazione mediatica delle collettività e delle prassi territoriali, nelle narrazioni.

Servono grammatiche territoriali, semantica sintassi e morfologia, quindi nuovi significati, nuove importantissime connessioni tra le parti del discorso, serve un nuovo lessico: dobbiamo imparare a leggere e poi a scrivere cose nuove in un modo nuovo, e direi anche piuttosto rapidamente.

Tra nodo e nodo

Un commento su Facebook.
La questione riguardava l’identità friulana, e le azioni politiche della classe dirigente, la loro visione.

Hai (avete) usato dati solidi su cui poggiare l’argomentazione: andamento demografico, politiche del lavoro, statistiche macroeconomiche.

Poi avete accennato – scientemente – alla questione della “identità” forse come un grimaldello, un espediente retorico per muovere le passioni e la conversazione, ma si tratta di una nebulosa di contenuto, stratificata e sedimentata negli ultimi cinquanta e più anni, dai mille aspetti e dalle mille concettualizzazioni, e come sottolinei proprio questa ha “bucato” lo schermo.

Tutti guardano lo specchietto, ci dici, tutti guardano il dito e non la Luna.

Allora qui giustamente ritorni sul nodo della questione, il capitale sociale.

Di una società profondamente cambiata nei suoi valori profondi, peraltro, nelle sue prassi socioeconomiche: non è il Friuli di Pasolini, non è il Friuli del terremoto, non è più nemmeno il gaudente Friuli degli anni Novanta.

“Chi siamo” è un costrutto post-hoc, viene dal guardare cosa abbiamo fatto e interpretarlo secondo codici culturali mutevoli, viene dal cosa facciamo. Emerge.

L’Io emerge dalle relazioni, viene dopo, non è un nodo ontologicamente fondato.

Relazioni interne con parti di me, concetti di me, ri-conoscimenti, interpretazioni, narrazioni di me a me stesso e agli altri.

Relazioni con gli altri, con la loro idea di me, con l’idea che ho di loro, con il loro sentire, rapporti, somiglianze, nella rete ogni giorno tessuta della socialità, nell’intersoggettivo delle relazioni di cui aver cura. E già stabilire un “dentro” e un “fuori” di me, un Io cartesiano, è obsoleto e non permette di cogliere la ricchezza dell’esistenza.

L’Io nasce dal Tu, il Noi si fonda sulla condivisione di un sentire e di un punto di vista, assolutamente senza ricorrere a un Voi che poi orribilmente diventa un Loro, un nemico contro cui contrapporsi (mossa classica per definirsi), e non invece scambio e confronto osmotico arricchente con culture altre.

Non amo l’identità, il nazionalismo, il patriottismo, notoriamente. Sono inganni e manipolazione, colonizzazione dell’immaginario.

Ma quel capitale sociale di cui parli va innervato con una visione del domani, valori etici transgenerazionali, quel senso di appartenenza o meglio ancora direi quel *sentimento di appartenenza* che scaturisce sempre dalle pratiche di partecipazione sociale – nella post-modernità sempre meno diffuse, sempre meno vissute da ognuno di noi – e che poi diventa un modo di essere noi stessi, un riconoscerci, pronunciare le nostre parole e il nostro discorso originale al mondo, un essere intellegibili agli altri come un nostro peculiare stile dell’abitare, dello stare al mondo, dell’aver cura del territorio su cui la collettività risiede, dell’aver cura appunto delle relazioni interumane che tante piccole comunità riescono ad intrecciare avendo a mente e a cuore delle finalità nuove, rinovellate nelle narrazioni corali e massmediatiche, autentiche.

Gli obiettivi li abbiamo: transizione ecologica (qui son tutti a suonare nell’orchestrina del Titanic), dignità del lavoro, progettazione sociale e territoriale coraggiosa, visione politica alta, lungimirante, da statisti capaci di interloquire con il futuro delle generazioni. Anche le azioni da intraprendere sono chiare, con queste premesse.

Sulla politica però mi fermo, siamo dentro il balletto dei programmi elettorali, figurati.

E nessuno ha voglia di essere impopolare.

Portone Jannis

De Jannis narratur

Portone Jannis

Mio padre ha un cognome diverso dal mio.

Qualcuno erudito quanto faceto penserà subito che “mater semper certa est, pater numquam”, ma vi garantisco che non è il caso.

Perché mio padre Italo è del 1935, va per gli 87 anni, sta benino e vi saluta. Quando nacque ci trovavamo in pieno periodo fascista, e forse ligio alle fascistissime leggi della normalizzazione alla lingua italiana era al tempo l’addetto all’anagrafe a Tricesimo – in Friuli abbiamo casi eclatanti e vergognosi di italianizzazione forzata di cognomi e toponimi. Quella J non andava proprio.

Nel corso degli ultimi trent’anni circa a mio padre è appunto venuta – e ora invecchiando viene anche a me – la curiosità di conoscere qualcosa della nostra genealogia, la storia del nostro cognome Jannis (sempre mio padre insistette all’anagrafe nel 1967 affinché con me tutto tornasse alla dicitura originaria, attestata).

Attenzione. Ci sono pochi Jannis in Italia.

A giudizio dell’una volta famoso sito Cognomix, che credo anni fa ricavasse le frequenze statistiche della diffusione dei cognomi in Italia dagli elenchi telefonici e ora non so, ci sono solo otto famiglie con questo cognome, di cui sei in Friuli e altre due in Lombardia; queste ultime sono formate da friulani emigrati dopo la seconda guerra mondiale, conosciamo i nomi e tutto può essere tracciato a partire da alcuni fratelli di mio nonno.

Curioso anche che sempre Cognomix dica che non ci sono in Italia famiglie che si chiamano Iannis (ma ce ne sono, e qui intorno siamo rami dello stesso albero).

Perché uno pensa che da Joannes latino o Jannis greco (Giovanni) sarebbero dovute giungere fino a noi molte famiglie con questo cognome, e invece niente. C’è qualche Janni, molti Ianni, questo sì.

Ma Jannis siamo solo noi.

C’era uno zio di mio padre che si dilettava di fantagenealogie: secondo lui la provenienza della nostra schiatta derivava o da un ambasciatore polacco giunto qui verso il Trecento per prestare servizio presso la Serenissima Venezia (ipotesi considerata minoritaria), oppure da un clan di allevatori di cavalli magiari, emigrati verso ovest dalla attuale puszta ungherese, sempre nei primi secoli dopo il Mille. Quest’ultima più romantica congettura ha sempre riscosso maggior credito in famiglia, anche perché corroborata dal fatto che gli Jannis hanno per secoli avuto a che fare con i cavalli, allevamento e commercio. Tradizione proseguita nel tempo fino a giungere a mio nonno Antonio detto Bepi e ai suoi fratelli, che avevano una macelleria di carne equina a Tricesimo: poi prima i fascisti e poi i partigiani gli hanno ripulito il negozio, costringendo tutti a dichiarare fallimento.

Peraltro nelle famose guerre e baruffe tra Zamberlani e Strumieri, ovvero nelle lotte di classe seguite all’occupazione del Friuli patriarcale e di Udine da parte di Venezia nel 1420 – resta famoso l’episodio della Crudêl Joibe Grasse del 1511 – gli Jannis sono annoverati ovviamente a fianco dei Savorgnan, quindi zamberlani in quanto commercianti e borghesi filo-veneziani, contrapposti alla nobiltà castellana di estrazione feudale.

Il nucleo abitativo storico degli Jannis pare fosse Adorgnano di Tricesimo: nella foto potete vedere il tuttora colà esistente portone in ferro battuto di fine Ottocento, dove la Pace e la Giustizia si baciano.

Oltre alle molte iscrizioni presenti nella tomba di famiglia a Tricesimo dove troviamo molti Nicolò e Francesco e Luigi e Teresa e Lucia e Giacomo e Vincenzo e Giovan Battista a partire da fine Settecento, queste sono le informazioni raccolte da mio padre nel corso degli anni.

1426 – “recevei da Colau Iani di Adorgnan per l lira di vueli, sol. V” (registro in friulano della Confratemita di S. Maria di Tricesimo).

1467 – “Janis de Adorgnan per fit de l’anno presente e del prossimo passato, paga star l de forment alla confraternita dei Santi Fabiano e Sebastiano di Tricesimo.

1534, 28 aprile – divisione dei beni tra Giovanni, Leonardo, e Andrea fratelli e figli del qm. Giacomo Ianis di Adorgnano.

1559 — Leonardo Ianis, di Adorgnano, abitante in Tricesimo.

1670 — pre’ Domenico Janis di Adorgnano

1681, 1 febbraio — muore nel paese di Aiello, a 30 anni di età, Paolo Janis di Adorgnano che viveva in quel villaggio facendo i mestieri di marangone e vassellaro (dal friulano antico “vassielâr” ovvero costruttore di botti per vino). A Paderno, vicino Udine, si era sposato con Menica Occhiali

1685 – Valentino Jannis, notaio in Tricesimo.

1750 — il sacerdote “pre’ Nicolaus Jannis de Adorgnano”.

Per la spiegazione si dovrebbe partire da Ian, forse abbreviazione di Gianni/Giovanni (che in friulano però era ed è Zuan) oppure di Cancian, nome molto usato in Friuli.Tuttavia Ian era anche antico nome femminile {forse in questo caso abbreviazione dell’antica forma obliqua friulana in -an del nome Lucia e cioè Luciàn), come testimoniato nel “Catapàn” di Pagnacco (obituario e registro catastale medievale)

1320 — obiit in Christo Georgius filius Georgii de Coll Grion et Ian mater eius”.

Ian era anche madre di Domenico che nel Catapan viene sempre denominato “Domeni Ian”.

Nel detto registro, che riporta anche parti scritte in friulano medioevale, si ricordano ad esempio Leonarda fila Domeni Iani, Chatarina e Zorzo fradis e fiis de Domeni Ian, Zulian figl de Domeni Ian de Pagnà, Nicolao e Catarùs nevodi de Domeni Iani, Zorzo fiol de Zuan .. e nevot de Domeni Ian”.

Quindi, in questo caso, Domeni ha assunto (oppure ha ricevuto come soprannome) il nome di sua madre Ian, per essere chiaramente identificato tra i vari Domeni del paese. In seguito, nel corso dei secoli, è diventato cognome trasmettendosi a figli e nipoti.

Il suffisso finale in -is (nel medioevo usato per i nomi maschili: es. Menis, Petris, Jacomis, ma anche nei nomi di persona femminili: Margaris, da Margherita, Vignudìs, da Vignuda, ecc.) indica una forma diminutiva ma anche, secondo autorevoli studiosi, un rapporto di parentela.

Per Adorgnano, sulla base delle attestazioni conosciute, il suffisso -is risulterebbe aggiunto tra glianni 1426 e 1467

Bibliografia

Giovanni Fantini, ricerche di Archivio sui cognomi del Friuli (ancora in corso)

Carla Marcato, “Profilo di antroponimia frulana”. ediz, 2010

Maruela Betramini, Flavia De Vitt, “I Catapan di Pagnacco. 1318 — 1589”, ediz. 2012

Aspettarmi

L’inferno sono gli altri.
Io sono Altro a me stesso.
Io sono un inferno.

Il sillogismo fa sorridere, e l’accento è sull’Io.
Odiosa finzione narrativa autobiografica, questo Io costretto a far la spola tra Piacere e Realtà, insieme alla sua scudiera Volontà. Prevedibilissimo. Instauratore di abitudini. Perbenista e moralista, perché deve far contenti tutti. Ama i binari. È pauroso, si difende, nasconde sé stesso. Lo concepiamo ancora come una bolla – bordi, limiti – dentro di noi, quando in realtà trova il suo senso nella relazione con il Mondo, con te e con quell’albero, l’Io È relazione.
Ama poco, forse, quel narciso egoistaccio, e non sa giocare e mettersi in gioco.
Ci impedisce di non essere noi stessi.
Cioè ci impedisce di essere noi stessi, che notoriamente non siamo noi stessi.
Reca danno ammantandosi di buone intenzioni, poi. Si dipinge innocente, il vestito buono della domenica. Se si scopre sporco e malvagio, non vuole saperne di farsi aiutare a cambiare e darsi una ripulita, perché sta bene così, non vuole essere salvato, si piace così.
Trova senso in sé stesso, meschinamente, l’Io.
E io – cioè, la narrazione di me stesso a me stesso – dovrei, dicon tutti, “diventar me stesso”, sapete? È un imperativo! Così poi scopro bene chi odio veramente. Non è neanche un plot twist, poca roba.
L’unica certezza è che dovrei fare un passo laterale per guardarmi da fuori e per guardarmi nella relazione con l’Altro compresa la relazione di guardare me stesso dentro una relazione con quell’Altro che è me stesso, fuori dall’Io, ma guarda caso è proprio quello che l’Io mi impedisce.

C’è un’unica soluzione. Il passo laterale, ma d’inciampo.
Essere altri. Essere Altro. Fare Altro, ecco. Sgambettarmi. Non credermi. Attraversarmi, e aspettarmi dall’altra parte.
La porta è l’Io. E non c’è mai stata porta.

I sommari che non uso

jannis

1. La Cultura digitale e l’avvento delle rete Internet, l’espressione di sé e l’informazione immediata e ubiqua, hanno modificato il modo in cui percepiamo e nominiamo sia noi stessi come collettività sia il territorio dove storicamente risiediamo. Sono grammatiche di socialità nuove da conoscere necessariamente per comprendere i moderni meccanismi della comunicazione, sono nuove forme dell’abitare dove smartphone e social network rappresentano gli strumenti e gli ambienti della nostra partecipazione civica e lavorativa. Dalle nuove mappe dei Luoghi fisici e digitali che tutti contribuiamo a creare quotidianamente emergono percorsi di narrazione e dell’identità per la promozione territoriale.

2. Come raccontiamo noi stessi, nel mondo fisico e in quello digitale? Qual è la nostra identità come collettività che risiede su un territorio connesso? Per rispondere dovremmo innanzitutto chiederci chi siamo, e quindi decidere che immagine dare di noi. Serve uno specchio: la rete Internet sta facendo emergere, nei suoi strumenti e ambienti — smartphone, social network — rappresentazioni delle collettività inaspettate e inesplorate. Grazie alla comprensione delle nuove grammatiche della socialità connessa e delle nuove forme di cittadinanza digitale possiamo redigere percorsi di storytelling territoriale, per finalità di promozione socioculturale o turistica.

3. Gli strumenti e gli ambienti digitali — smartphone e social network — che tutti noi utilizziamo e frequentiamo quotidianamente fanno emergere rappresentazioni del territorio e della collettività nuove, differenti da quanto accadeva fino a pochi anni orsono. Le tecnologie della comunicazione modificano la nostra percezione e i nostri comportamenti, la nostra partecipazione ludica civica e lavorativa innerva nuove forme dell’abitare e dell’aver cura degli stessi ambienti fisici e digitali dove costruiamo identità individuale e collettiva. Grazie alla comprensione delle grammatiche della socialità connessa possiamo costruire nuovi percorsi di narrazione per la promozione territoriale.

4. Dieci anni di smartphone, dieci anni di social network. I luoghi digitali che noi tutti quotidianamente frequentiamo lasciano emergere impensate rappresentazioni dei territori fisici e delle collettività che li abitano, fotografie di chi siamo, mostrandoci nuovi percorsi possibili per l’allestimento e la narrazione delle identità sociali delle Pubbliche Amministrazioni, delle imprese, delle nuove forme di partecipazione civica della Cittadinanza digitale. È necessaria una comprensione dei nuovi ambienti comunicativi digitali, per la progettazione di una promozione socioterritoriale in grado di esprimere originalità e autenticità con il giusto tono di voce, capace di cogliere l’unicità e lo stile proprio dell’abitare di ogni collettività.

yo - www.jannis.it

YO! Furbetto e lungimirante

Con Yo ci sei, e inneschi scintille, e ingaggi

Credo di essere stato velocissimo a installare Yo sul telefonino, forse maggio scorso, perché il concetto mi è piaciuto da subito. Yo è un single-tap zero character communication tool. Non potete scrivere niente a nessuno, semplicemente fare Yo, o pokare come si faceva una volta su Facebook.

Ma questo significa aver trovato una nicchia laterale, sempre esistita eppur forse quasi mai percepita e valorizzata, nell’ecosistema della comunicazione interpersonale mediata, ovvero tralasciare il contenuto del messaggio per concentrarsi sulla funzione fàtica del linguaggio (verificare il canale), a cui si aggiungono necessariamente piccole dosi di funzioni conative (interpellazione del destinatario, con richiesta di reazione) e referenziali (come deissi, un riferimento al contesto enunciativo). Vedi wiki per ricordarti di Jakobson.

Come molti già sottolineano – Federico Guerrini su La Stampa, Fabio Lalli che sottolinea gli aspetti economici dietrogiacenti, TechCrunch – quella che pareva una app interpretata all’inzio frettolosamente come stupidina si sta rivelando una macchina capace di amplificare notevolmente la nostra presenza in Rete, per il nostro stesso fatto di esserci e dire di esserci, facendo Yo. E la presenza su Web, tracciabile, già significa molto. Basti pensare all’interpretazione che diamo al “pallino” verde o rosso che rappresenta il nostro esserci e la nostra disponibilità, da ICQ a Skype a Hangout.

Detta ancora più filosoficamente, un “Io dico” è sempre un “Io sono io dico”, perché la voce ha un’origine, e ci situa nel mondo, in una circostanza di enunciazione, e quel dire veicola un’identità. Ora sul web quel semplice “Io sono”, quel “ci sono” fa già scoccare scintille sulle reti interpersonali mediate, la semplice presenza ingaggia software e persone a interagire con noi, messaggi estroversi che mandiamo e messaggi che possono raggiungerci, tramite i meccanismi automatici della Rete.

Ora Yo, che appunto non è un giocattolino come sembrava all’inizio, ha aggiunto dei servizi, rafforzando al contempo la nostra identità. Servizi per restare sintonizzati con quanto accade nel mondo, segnalazioni eventi e nuovi articoli su varie testate giornalistiche, uscite discografiche, annunci di Obama, oppure per dare dei comandi domotici e dire alle luci di spegnersi a casa nostra. Ma soprattutto Yo ora si interfaccia con IFTTT, e questo significa potersi programmare migliaia di azioni che possiamo compiere verso noi stessi, verso gli altri e verso gli spazi di pubblicazione, cliccando solo una volta. Qui è il valore, nella propagazione attraverso il sistema nervoso, prima ancora di una elaborazione cosciente dei contenuti.

Giorgio Jannis - www.jannis.it

Urban Center come cervelletto per i flussi di narrazione territoriale

Quasi un anno fa, tempus fugit, ho tenuto un workshop a questo bel convegno presso la Facoltà di Economia di Udine dedicato a Media e Cittadinanza digitale, promosso da Media Educazione Comunità www.edumediacom.it.

Il titolo del mio intervento era Smart City come Smart Community: reti di luoghi, flussi di narrazioni territoriali. Strategie identitarie per comunità ed Enti Locali e qui ora provo a lasciare una traccia del filo del ragionamento che intendevo dipanare, ma siamo ancora all’arcolaio e alla matassa, vediamo se ne faccio almeno un gomitolo riutilizzabile. Avevo anche una presentazione, ma è fatta di quattro parole e spunti, non la linko nemmeno. Vediamo.

Cultura TecnoTerritoriale, grammatiche di narrazione

L’esordio come mio solito contempla la necessità di provvedere nozioni di Cultura Tecnologica nel settore dell’educazione, nella consapevolezza di quanto poi il tutto si trasformi in Cultura Tecnoterritoriale, capacità e abilità di leggere il territorio e il paesaggio in quanto Oggetto tecnologico progettato e plasmato dalla specie umana, nel dialogo millenario tra la produzione e la distribuzione di risorse e la collettività che su quel territorio risiede.

Si tratta di fornire grammatiche della narrazione dei Luoghi, dove questi ultimi rappresentano appunto le parole o le parti del discorso millenario summenzionato, che quindi possono essere analizzate e comprese secondo una morfologia propria, una semantica, una sintassi. Pubbliche Amministrazioni, le imprese, le banche, gli enti territoriali, gli spazi naturali o naturalizzati, le città, tutti gli attori sociali sono nodi di una rete, e con strumenti di grammatica territoriale adeguati possiamo indagare sia i singoli nodi sia la sintassi delle loro relazioni storiche e attuali, funzionali e simboliche. Per gioco, provate a guardare la scheda madre di un computer come fosse una mappa geografica satellitare: trovate degli elementi che corrispondono alle stesse funzioni – luoghi di memoria (dischi fissi ovvero biblioteche e archivi pubblici), luoghi di elaborazione dell’informazione, luoghi di alimentazione energetica, pipelines di vario tipo. State interpretando ruoli e funzioni con una grammatica che vi permette di dare un nome alle parti e alle loro relazioni.

Certo, possedere grammatiche per leggere significa auspicabilmente poter disporre di strumenti per “scrivere” il territorio, per progettare un domani gli interventi che come collettività decidiamo di attuare, dando vita a un elettrodotto o a una facoltà universitaria o a un progetto di politiche giovanili.

Empowerment della collettività

Tutto parte dalla percezione del Luogo dove poggiamo i piedi e il suo orizzonte antropologico, da cui ricaviamo identità. Uno spazio di conoscenza, la cui frequentazione determina i noti meccanismi di partecipazione, da cui il nostro sentimento di appartenenza. Cose di secoli che ci avvolgono, storie di persone e eventi e topografie scritte e narrate dal nostro abitare. Eppure innanzitutto il territorio va misurato come paesaggio costruito, come risultato del nostro agire in esso, secondo dimensioni analizzabili tecnosocialmente.

Ho il Territorio e ho i gruppi che lo abitano, flussi nella collettività, tracce di espressione, forme di coinvolgimento. E tutto il nostro Abitare sul territorio da secoli determina una forma di empowerment della collettività, la quale vedendosi specchiata nel paesaggio e nell’economia e nelle infrastrutture e in tutte le rappresentazioni culturali che emergono dalla quotidianità prende consapevolezza di sé, del proprio stile dell’abitare, unico e originale per ciascuno collettività di questo pianeta.

Come due lati di una stessa medaglia, come hardware e software: in realtà non esiste una smart city senza una smart community, e forse riportare l’attenzione sulle dinamiche e sui comportamenti delle collettività umane può tornare utile per calibrare meglio il cambiamento che i luoghi dell’Abitare stanno vivendo, sotto la spinta delle innovazioni tecnologiche. Certo, Internet delle Cose e wifi cittadino, fibra ottica e sensoristica diffusa rendono la dimensione iperlocale eloquente; ma una vera e nuova Cittadinanza, su cui riflettere e a cui educare le giovani generazioni, non può non passare per una consapevolezza di una nostra identità personale costruita e negoziata nelle prassi quotidiane di comunicazione mediata e sociale, tanto quanto le collettività possono ora veder emergere narrazioni territoriali spontanee in grado di far meglio comprendere lo stile concreto del nostro abitare sul pianeta.

Ovviamente, tutta questa rappresentazione di noi stessi a noi stessi, che fino a ieri veniva messa in scena nelle arti e nei massmedia dell’informazione, trova nella Rete uno strumento potentissimo, ove avviene la messa in scena della nostra identità, dinamica e cangiante. La percezione della città, ora da concepire come Smart city, ne viene radicalmente modificata. Ora abbiamo sensoristica, local awareness, luoghi eloquenti.

Dashboard cittadine, cruscotti dell’Abitare, flussi e sensoristica

Per farvi ispirare, ecco un link al sito Art is Open Source (Iaconesi e Persico) che mostra in tempo reale come si può tracciare l’ecosistema culturale della città di Roma, oppure buttate un occhio alle varie dashboard (bacheca/display di visualizzazione, cercherei/inventerei un’altra parola ma per ora teniamoci “cruscotto”) delle città come Londra, Oberlin in Ohio, Amsterdam.

A questo punto possiamo intrecciare un’altra considerazione, ragionando sugli Urban Center, strutture, pubbliche o pubblico-private, che da alcuni anni operano anche in Italia nell’ambito delle politiche urbane, con funzioni documentali, partecipative ed analitiche, di solito per accompagnare i nuovi piani urbanistici, strategici e strutturali. Gli Urban Center sono fortemente caratterizzati da una mission civica, ovvero dall’obiettivo di migliorare l’efficacia delle politiche pubbliche e, nello specifico, di quelle urbane (mobilità, edilizia pubblica, infrastrutture, progetti privati, etc.). Questo si traduce nel tentativo di stimolare il dibattito con mostre, convegni e pubblicazioni e nella volontà di dotare la cittadinanza di strumenti e competenze per incidere nel processo delle trasformazioni urbane. Si tratta insomma di luoghi di orchestrazione e confronto degli interessi dei gruppi sociali cittadini/territoriali, accesso della società civile ai processi decisionali che producono le politiche d’intervento.

Ebbene, come dicevo, intersechiamo questi ragionamenti. Abbiamo delle nuove modalità di rappresentazione delle strutture e dei flussi territoriali di energia materia e informazione, possiamo tracciare in tempo reale la distribuzione e il movimento di persone e merci, la visibilità di questi specchi elettronici ci permette di vederci e prendere coscienza di noi stessi come compagine sociale in modo nuovo. Abbiamo dei luoghi territoriali deputati a incanalare e organizzare e ridiffondere i flussi informativi prodotti dalla collettività residente su una determinata estensione geografica, quegli Urban Center (i quali dovrebbero essere palestre di Cittadinanza digitale, dove molti ragazzi dei varii Progetti Giovani o Agenzie giovani tipicamente promosse dai Comuni potrebbero passare un po’ di tempo, familiarizzandosi e professionalizzandosi con la narrazione multimediale del territorio, una Civic Curation dei flussi cittadini) che funzionano un po’ come dei grossi gangli del sistema nervoso cittadino, dove l’informazione degli organi di senso viene organizzata e rielaborata e rispedita verso i luoghi decisionali da una parte e come feedback nuovamente verso il sistema nervoso periferico.

Anzi, di più. Non essendo lo Urban Center il centro decisionale, il cervello di questa metafora organicistica, lo possiamo equiparare al cervelletto, dove tutti i segnali nervosi, le connessioni convergono per prime sistematizzazioni, restando sotto la soglia della coscienza. Ma una volta pubblicati i flussi informativi cittadini, sulle dashboard, tutti ne diventano consapevoli, tutti gli attori sociali. Pubbliche Amministrazioni possono progettare meglio la città e i suoi servizi, e ne traggono vantaggio anche le aziende, le associazioni, i cittadini.

Gli obiettivi sono quelli soliti, ma risulterebbero potenziati dall’adozione di questi specchi elettronici in cui vediamo chi siamo mentre viviamo:

  • possiamo incrementare la governance urbana, attivando un processo di co-decisione e co-pianificazione tra i gestori e gli attori della trasformazione urbana
  • possiamo produrre un quadro conoscitivo e interpretativo delle risorse patrimoniali, umane e culturali della città, capaci di attivare processi di rigenerazione e promozione
  • possiamo produrre un quadro valutativo delle trasformazioni in atto e dei progetti di riqualificazione e sviluppo urbano
  • possiamo ridefinire metodologie e strumenti per il coordinamento e l’integrazione dei progetti di riqualificazione urbana e per la progettazione di scenari di sviluppo
  • possiamo sperimentare e mettere in atto pratiche di pianificazione, politiche urbane e progetti di rigenerazione

“Perché nasca un significato condiviso, l’informazione deve essere interpretata dai singoli attori e l’interpretazione data da ciascuno di essi deve essere socialmente negoziata”.

Analisi sociale

Un’analisi quantitativa dove è possibile trarre indicazioni predittive, e osservare i sentimenti delle masse, correlarli ai comportamenti. In questo caso si tratta delle elezioni in Sicilia, ma al di là del contenuto quello che vediamo nel trattare i big data sono nuove metodologie e nuove grammatiche per rendere significativo quello che prima non poteva neppure essere percepito. L’alba della nuova percezione di sé delle collettività.
E forse un programma didattico per le scuole andrebbe preparato, su questi argomenti, per diffondere tra gli studenti quello che da sempre è appannaggio della scuola, ovvero saper leggere la realtà.

http://www.techeconomy.it/2012/11/05/elesicilia-twitter-le-reti-e-la-correlazione-tra-buzz-e-risultati/

Mo’ mi morsico la nuca

Quella vecchia storiella, secondo cui il passato, ciò che vedo, è davanti a me.
Quindi il futuro è alle spalle, e sto camminando all’indietro. Capirete che il piede va a tentoni.
Provi a buttare l’occhio, ti fai una visione, uno scorcio sguincio, una teoria. In effetti, ci sono farfalle luminose, qua e là. E emergono strutture, collegamenti, posizioni, climi affettivi, interumanità, nicchie, onde del mare, perfino palazzi e strade, robe di paesaggi da abitare. Ma non del destino del tutto, ma solo di quello del libro pensiamo qui, e ormai libro non significa più nulla di quello che fino a ieri. Vive libero, immateriale ma appare il mille forme, un dio che talvolta si sustanzia, e siamo nell’aura del numinoso, una storia che costruisce anima, una storia chiusa in sé eppure opera nativamente aperta, nei tempi lunghi di una cultura fatta di libri e convegni, oppure istantanea di link e feed.
Feedare il contesto, questa era l’ideuzza. Tracciare la nostra relazione con lo specifico oggetto culturale (atto-degno-di-menzione, romanzo, news, accadimento, chiacchiera, informazione, tutto ciò che è narrato e narrabile), avere uno spime capace di recar seco (apperò!) la storia dell’interazione tra l’umano e l’opera, tirandosi dietro anche pezzi della situazione di enunciazione, contesto, e re-immettendoli nel flusso.
E se pensiamo a un opera connessa, che vive e si modifica nel tempo seguendo oscure nuvole di conversazioni in rete, e dialoga in tempo reale, eppure riesce a essere ancora “storia” nella nostra testa, pensiamo subito alla relazione tra l’opera e il lettore, tra quest’ultima e il web tutto.
Stralci di una chiacchierata: sto bloggando conversazioni, ho già modificato l’ecosistema.

V’è il momento in cui anche il pigro ginnico deve saltare. Ha provato a allungarsi, ma non basta più. S’inventa una presa: reggerà? Ogni tentativo cambia il gioco.

Sul testo come edificio lessi qualcosa, chissà dove chissà quando. Testi abitabili, con porte e finestre, e reti tecnologiche (collegamenti materia, energia, informazione… relative interfacce ormai simbiotiche con gli Umani). Ma non penso tanto ai testi che si richiamano, da sempre e per forza, in quanto veicolati dagli stessi supporti (sempre noi, gli Umani), quanto per converso al nostro *fare testo*. Quindi penso più ai collegamenti fatti dalle persone che abitano questi Luoghi testuali, e ne hanno cura: sono loro che portano il senso di qua e di là, tessendo. E il testo è diventato “atto degno di menzione” nell’ecosistema, sia esso un monoblocco lungo un sillogismo o una tragedia one-line o un’opera gigantesca e labirintica e polivocalica. Quindi, son da rendere visibili le tracce del nostro peregrinare nella città dei memi, e aggiungere il senso che produciamo vivendo al senso di ciò in cui ci imbattiamo, interagendo con i testi. Le scie dei punti di vista.[edit: palmasco nel concetto di frattali di contenuto che si riversano, è vicino a questo che ho scritto]

Yess, teatri della memoria, Giulio Camillo. Ma là siamo nella mnemotecnica, e il funzionamento della macchina (l’intero edificio e i percorsi di senso percorribili dall’Umano al centro della struttura) dipende da una combinatoria finita. Qui stiamo parlando di testi-edifici già collegati tra loro, tutto con tutto, e del nostro abitare (muoverci, vivere, fruire, consumare e produrre) che produce ulteriore senso che si aggiunge ed è rintracciabile (ogni tentativo cambia il gioco, dicevo sopra scherzando). Quindi cercavo di uscire da una visione “struttura” per andare verso una percezione del “processo”, come al solito, e quindi pensavo a scie sulla superficie (@bgeorg: ops) come pulci d’acqua nello stagno, toh.

E’ solo un testo che pretende per sé il suo mostrarsi più strutturato, si vuole così, e rientra nel range delle forme di narrazione. Poi se intendi scavare dentro l’Autore, sai che non posso farlo, sono sulla soglia della semiotica. A meno di non volere pertinentizzare come testo oggetto di analisi proprio quel testo dato dalla “personalità dell’autore”. per come essa viene percepita nell’enciclopedia la “rigidità” di quel testo in un luogo di testi fluidi crea contrasto, rigioca lo sfondo-figura, ci mostra particolari sfuggiti, fa sgorgare senso, sì. E possiamo essere benissimo al di là dell’intenzionalità dell’autore, indifferente qui allo scorcio (squarcio) di visione che ci permette di praticare sull’universo del discorso. Siamo qui: stiamo patteggiando tra di noi, qui in questo thread o nel nostro abitare quotidiano nella Grande Conversazione, il modello, la visione dello sfondo, il contesto da cui ben studiati sappiamo dipende sempre il senso enunciato del messaggio. Quando per prove e errori (qualcuno più su diceva “sperimentazioni”) avremo negoziato un concetto stabile (una credenza, sempre ipotetica e fallibile etc.) di come sia fatto lo sfondo (la rete, il rizoma oggi visibile, la città dei memi con metafora urbanistica, la viabilità delle idee, l’ambiente culturale connesso in cui le collettività vivono, la mente fuori di noi e tra noi, l’ecosistema della conoscenza, il bosco delle narrazioni) vedremo emergere modelli maggiormente attagliati, nativi, e non adeguamenti oltre al tuo intenzionale moltiplicare quell’oggetto culturale (bloggandone una recensione o innescando una fanfic), mi viene in mente che potrebbe essere tracciata *la tua relazione* con quell’oggetto cultura, se vuoi porzione di contenuto, se vuoi testo anche conchiuso. Se il dispositivo di lettura tracciasse (e alimentasse flussi in Rete) il tuo ritmo di lettura, le pause, l’eyetracking di cui si parlava, il sonoro ambientale che lo circonda, anche il tuo fare in Rete parallelo, e tutto questo venisse reimmesso nel calderone, potrebbe veder la luce un’opera cangiante, che mentre tu procedi lineare fruendo il testo quest’ultimo si modifica, cambia il capitolo 8 mentre tu sei al 7. Un’opera situazionale, dove il testo è un attore. Pausacaffèdelirio/off, ma quel “tetragono” mi sembrava eccessivo, chi può mai dire c’è l’opera che vive tranquilla in splendida solitudine, standalone. Può rientrare nella conversazione nei nelle recensioni, nelle continuazioni, che diventano magari col tempo dei cotesti (e potrebbero vivere di vita propria, come la letteratura sgorgata dai commentarii medievali, autonoma). E quella progettata e che vive connessa, sul bagnasciuga, con i piedini a mollo nelle onde del mare. Dal mare è nutrita, verso il mare sgocciola. Lo spime qui è dato dalla relazione testo-lettore, per ciascuno idiosincratica, capace però di confluire in certi flussi che poi possano ritornare verso l’opera, modificando il gioco, tracciando il contesto e reimmettendolo.

Guardarsi

… Però, il rimpatrio dell’antropologia non può fermarsi qui. In effetti, fatto il sacrificio dell’esotismo, l’etnologo ha perso quello che rendeva originali le sue ricerche rispetto a quelle disperse dei sociologi, degli economisti, degli psicologi sociali e degli storici.
Sotto il sole dei tropici l’antropologia non si accontenterebbe di studiare i margini delle altre culture. Anche se resta marginale per vocazione e per metodo, è comunque il loro centro che vuole ricostituire, il sistema di credenze, le tecnologie, le etnoscienze, i giochi di potere, le economie, insomma la totalità della loro esistenza.
Se ritorna al suo Paese si accontenta di studiare gli aspetti marginali della sua cultura, finisce col perdere tutti i vantaggi dell’antropologia, tanto faticosamente conquistati. […]
Un Marc Augé simmetrico studierebbe non solo qualche graffito sui muri delle stazioni del metrò, ma la rete socio-tecnica del metrò stesso, i suoi ingegneri e conducenti, i suoi dirigenti e i suoi utenti, lo Stato proprietario e gestore, e via discorrendo.
Molto semplicemente, continuerebbe a fare nel suo Pese quello che ha sempre fatto laggiù. Ritornando, gli etnologi non dovrebbero limitarsi alla periferia, altrimenti, restando asimmetrici, dimostrerebbero coraggio verso gli altri e timidezza nei propri confronti.
(Bruno Latour, Non siamo mai stati moderni. Saggio di antropologia simmetrica, Elèuthera, 1995, pp. 123)

Nasce la Storia

La fine della pre-Storia

Nel momento in cui il “personale” diventa “pubblico” nasce un’estetica completamente nuova, e un’enorme porzione delle interazioni sociali, normalmente invisibili, viene memorizzata per sempre. Come nota Charles Stross, stiamo vivendo la fine della “pre-Storia”, gli ultimi giorni della storia-patchwork umana. Le vite di domani saranno ricordate dagli storici di dopodomani con strabiliante chiarezza e lucidità, ricostruite attraverso l’enorme massa di blips, twits e cirps emessi dai nostri software sociali.

Comparate a queste, le nostre vite attuali sembreranno opache e inimmaginabili come quelle vissute dai nostri progenitori che hanno abitato la stessa caverna per duecentomila anni, generazione dopo generazione, lasciando come unico ricordo nulla di più persistente di qualche osso sparso per terra.

Cory Doctorow sui diritti degli artisti. Ovvero come capire il copyright senza avvocati. :)

Fonte: Bookcafè

Progettare interfacce biodigitali

Progettare interfacce biodigitali per arredare gli spazi urbani, in quei Luoghi territoriali dove la città atomica e la città digitale si toccano.

Antenne, monitor, totem interattivi, segnaletica, iconografia, urbanistica digitale, e progettazione di percorsi di Abitanza.

Segnalo questo ottimo articolo di Putting People First, dove viene descritto un bel progetto Intel: “Le Atmosfere Urbane è un progetto che (video) esplora come le persone che vivono in città possono voler utilizzare la tecnologia, come questa possa aiutarli a sviluppare un senso di appartenenza e di comunità o giocare un ruolo importante nelle loro esperienze emozionali di vita urbana.”

Abitanza digitale a Pordenone

Alla fine a Pordenone l’altro giorno ho passato un pomeriggio piacevole, con una platea abbastanza folta e incuriosita da questo progetto cittadino della connettività wifi con eDemocracy incorporata che li riguarda direttamente. Un signore di una certa età ha voluto sapere per bene eventuali spese tasse balzelli, ma gli è stato assicurato che la connettività è garantita gratuita per i cittadini e anche per quelli che vengono da fuori, con delle password specifiche.

A me piacerebbe sentir dire che si tratta proprio di un diritto dei cittadini, dalla nascita. Diritto di banda. Ci arriveremo. E misureremo anche il grado di civiltà delle collettività planetarie in base alla banda disponibile pro-capite, dice uno che conosco.Ad un certo punto nella mia relazione – la trovate a questo indirizzo, per provare l’ho fatta con GooglePresentazioni – racconto di come in questo momento storico di edificazione “urbanistica” degli spazi sociali online sia credo importante riuscire a costruire collaborativamente da parte degli Attori sociali di un territorio una grammatica dei Luoghi rilevanti, dove alla semantica dei nodi delle reti socioterritoriali esistenti (PA, proloco, servizi, terzosettore, associazioni, gruppi, sportivi, parroco, scuola buddista, comunità cinese, biblioteche, negozi, imprese, etc.: ciascuna entità produrrà e manterrà una immagine di sé dentro la Rete Civica online) bisogna aggiungere una sintassi delle relazioni tra i nodi: qui un valido aiuto lo offre la Cultura TecnoTerritoriale, nel mostrare le reti tecnologiche di produzione e distribuzione che da secoli innervano il Comune di Pordenone, e che vanno mediaticamente rappresentate nelle linee relazionali tra portatori di interesse, dentro le comunità digitali territoriali.

E’ argomento che mi affascina molto, questo della costruzione delle identità web come rappresentazione o ri-modellazione delle collettività territoriali. C’è di mezzo un passaggio, un accorrere di simboli, avatar gruppali.
In realtà si tratta come al solito di identità in progress, che auspicabilmente saranno in grado di narrativizzare sé stesse, sapranno leggersi, e quindi progettarsi (dopo il saper leggere, il saper scrivere) coerentemente con i valori di Abitanza digitali che emergeranno dal calderone delle community.

Questo comporta però una postura progettuale attenta alle strategie identitarie dei gruppi sociali e relative dinamiche comunicative, ma soprattutto una consapevolezza sui limiti stessi del progettare: come sento dire da più parti, bisogna progettare meno. Lasciare il tempo alle cose, aver fiducia.
Soprattutto poi quando si cerca proprio di trarre indicazioni di tipo folksonomy nel progettare flussi informativi e relazionali, potrebbe essere buona cosa approntare dei contenitori generici o comunque abbastanza destrutturati (la cosa può creare ansia, ma si può fronteggiare con linguaggio appropriato e procedure snelle) dove possano incontrarsi le idee e nascere dei motori di socialità digitale.

Saluto nuovamente Sergio, che sta facendo un ottimo lavoro per la sua città, e gli auguro buon viaggio e buon divertimento verso questo convegno eccezionale di Matera, intitolato “La nuova grammatica digitale per comunicare la promozione del territorio. Dai linguaggi della rete all’esperienza di Second Life”; già aspetto impaziente le relazioni online degli invitati.