Nel 2008 Chris Andersen, direttore di Wired e già famoso o famigerato per certi ragionamenti pochi anni prima sul web 2.0 e sulla teoria della coda lunga, scrisse un altro pezzo che fece un certo scalpore perché proclamava la “fine della teoria” intendendo proprio la teoria scientifica, almeno di quella fondata sul formulare un’ipotesi da poi verificare sperimentalmente – o falsificare, meglio.
Un salto paradigmatico: semplicemente indagando i Big Data è possibile estrarre risposte, o di certo configurazioni di senso, senza sapere prima bene cosa cercare. Risposte a domande che non abbiamo fatto. Dal caos indistinguibile di milioni di dati emergono pattern, schemi, correlazioni statistiche per noi inconcepibili quindi imprendibili. Un po’ tipo Picasso, “io non cerco, io trovo” e tutta la serendipità precedente e successiva.
Adesso una IA ha prodotto un risultato simile, un trovare senza cercare: analizzando venticinquemila radiografie del ginocchio può dirti quanta birra bevi o quanti fagioli mangi, e chissà quante altre informazioni può ricavare nell’individuare appunto dei pattern invisibili.
Nell’articolo che linko sotto c’è poi tutta la pappardella dei rischi della privacy e della credibilità che siamo disposti a concedere a diagnosi computerizzate, ma a me questo interessava: lasciamo libera l’intelligenza artificiale di fare questi passi laterali, questo scombiccherare domande e risposte, lasciamola indagare dove noi non possiamo arrivare.
Abbiam bisogno di altri punti di vista, alieni e altro-da-noi, per provare a sistemare i disastri che abbiamo e stiamo combinando sul pianeta, in ogni settore.
Il senso di una domanda è la direzione in cui cercare la risposta, ahimè formulata dentro lo stesso linguaggio.
Aboliamo la domanda per indagare nuove direzioni di risposta, con nuovi linguaggi.
Dalle radiografie l’IA deduce gusti alimentari: ecco perché è grave