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Tu calpesti le formiche?

rudolph

Ormai nel discorso pubblico a una domanda precisa si risponde attingendo al repertorio dei luoghi comuni e delle frasi fatte, ampi cataloghi, ricche antologie storiche pronte a soddisfare qualsiasi posizione esistenziale, morale, psicologica, politica, economica, comportamentale, e così guadagnarsi con facilità una vittoria dialettica definitiva potendosi giovare della secolare conferma sociale della bontà di quelle frasi, della loro giustezza, del loro essere depositarie di verità profonde e inconfutabili, ormai proverbiali.

L’abilità dell’interlocutore consiste nel saper sagacemente collocare questi format premasticati di risposta nel giusto contesto enunciativo, lasciando riecheggiare e intravedere significati al di là di quella, rimandi culturali e letterari sofisticati, alimentando complessità interpretative, sempre però sancendo la fine della conversazione con una locuzione definitiva, indubitabile nel contenuto, perentoria nell’espressione.

D’altronde, non si vive di solo pane.

Per diradare la nebbia delle post-verità, per bonificare la palude dell’immobilismo semantico dei botta prevedibilissima e risposta semi-automatica, per fare lo sgambetto ai rituali retorici dei cerimoniali pubblici quali le conferenze stampa di un Presidente del Consiglio serviva un eroe senza mantello, nel nostro caso il giornalista situazionista Alexander Jakhnagiev che ha chiesto a Giorgia Meloni se lei, quando cammina, calpesta o meno le formiche. Questo perché, secondo un proverbio della nonna di Jakhnagiev, “quando si calpestano le formiche poi piove”, e qui entriamo di prepotenza nel reame delle fiabe di animali e di magia con contenuti che certamente mal s’attagliano alla situazione istituzionale della conferenza stampa.

In realtà la strategia di Jakhnagiev è chiara, serve un detonatore, un grilletto (ok, un trigger), una dislocazione, un granello di sabbia nell’ingranaggio oliato e concordato del cerimoniale, uno spostamento degli assi cartesiani del qui-e-ora per destabilizzare Meloni, impedendole di rispondere con frasi fatte e concetti rimasticati, portandola a riformulare un nuovo imprevisto universo di discorso, a richiamare archivi semantici differenti e diversi stili linguistici espositivi, ad adottare una diversa postura comunicativa, quei gesti un po’ goffi che facciamo per ritrovare l’equilibrio dopo uno sgambetto o dopo essere incespicati.

La domanda, in quel contesto, veicola certamente dei significati ma non reclama senso, anzi confligge con il cerimoniale: il senso della domanda fuori luogo è proprio impedire che l’interlocutore si rifugga in luoghi comuni. Il senso della domanda è nella direzione della risposta, nell’intero comportamento di risposta.

La necessaria rapida riorganizzazione dei saperi e delle conoscenze, l’articolazione della risposta sul piano dell’espressione e dei contenuti farà emergere proprio il senso che cerchiamo con una domanda peregrina ovvero il contenuto è il modo stesso con cui l’interlocutore si riposiziona esistenzialmente, la tattica improvvisata a cui ricorre per fronteggiare l’imprevisto.

Ma lì, nei gesti e nei tentennamenti dell’altro, nel cambio di postura fisica e concettuale, nelle pause del discorso necessariamente meno formale e preimpostato e nelle scelte linguistiche, traspare e scorgiamo autenticità come saetta luminosa, come verità sensibile, possiamo ripristinare le giuste coordinate della circostanza di enunciazione, cogliamo il senso profondo dello scambio relazionale, lo svelarsi e rivelarsi delle persone nella loro autenticità.

Servono più sgambetti, scarti laterali, per farsi gioco e ri-valutare e rinnovare le pre-aspettative mie e dell’altro.

Non lavoro sul messaggio ma lavoro sul contesto, modificandolo affinché i significati situazionali cadano poi in nuove aggregazioni e correlazioni, ben sapendo che la differenza e lo scarto all’interpretazione sono segni e tracce simmetriche e speculari del senso.

trace | écart

Complessità dell’ecologia umana mediata

Più di quindici anni, un mucchio di anni fa, ci fu questa cosa del web 2.0.
Una rivoluzione. Tutti a parlare e sperimentare le novissime possibilità per la specie umana, finalmente tutti potevamo diventare autori sul web: alcune tecnologie abilitanti sottosoglia avevano reso praticabile per tutti il poter pubblicare, e allora tipo nel 2005 ecco tutti con i blog, i wiki, piattaforme video, in autonomia creare un sito con phpNuke e poi PostNuke e poi WordPress, ecco il web partecipativo, ecco i primi social network e il social web, e l’accento insomma era sul nascere del fenomeno Contenuti Generati dagli Utenti.

Al tempo avevo una rubrica su Apogeonline che si chiamava “Animale social” (Aristotele mi guarda male da quella volta) dove parlavo proprio di queste cosette, e credo proprio di aver detto in un podcast con Antonio Sofi che siccome ora avevamo questo benedetto Web 2.0, allora questo in cui abitiamo era diventato Mondo 2.0.

Il solito gioco di straniare la prospettiva per scovare il senso, l’abisso che mi guarda, io sono parlato, e altre amenità.

Questo perché sotto sotto c’era quella consapevolezza secondo cui la tecnologia in quanto linguaggio forgia il pensiero, le possibilità operative della mente nel singolo e nelle collettività emergono nel dialogo tra noi e l’ambiente, come è sempre accaduto dalla prima selce scheggiata o se volete dalle prime sequenze di “2001: Odissea nello spazio” dove in dissolvenza e con il valzer di Strauss quell’osso brandito come arma diventa un’astronave, e non c’è nessuna differenza. La tecnologia (compreso il linguaggio), ciò che ci rende umani, ci guarda.
Se possiamo ancora dire che nel campo dei mass-media i nuovi strumenti si aggiungono e si sommano agli altri senza sostituirli – radio e cinema, cinema e tv, tv e streaming – ma piuttosto integrandoli è perché sappiamo riconoscere dopo lunga riflessione quelle nicchie ecologiche dentro cui queste forme di vita tecnologiche possono prosperare, trovando un ambiente a loro adatto, come a esempio la radio che vive dentro le automobili.

Questo nicchia per nicchia, ma proviamo a vedere l’intera area del discorso moltiplicando anche per il pi greco, ovvero per una costante irrazionale, quale quella secondo cui il nostro pensiero non ci appartiene.

Il linguaggio disegna e decide il mondo. Il codice software disegna e decide il mondo, oggi, o almeno disegna e decide le nuove condizioni di esperienza del mondo. Come posso esperire o agire qualcosa su cui non ho né concetto né percetto, mancandomi le parole? Sotto-soglia, pre-categoriale, Merleau-Ponty? Non so, rimango un nominalista puro, le cose sono conseguenza dei nomi.

Mondo 2.0, Umana 2.0, ci siamo evoluti nell’esperienza che abbiamo del mondo e nel nostro stile di abitarlo, basta guardarsi attorno e chiedersi cosa sarebbe meraviglioso o terribile o solo indecifrabile delle nostre pratiche quotidiane agli occhi di chi congelato quarant’anni fa venisse risvegliato oggi.

Le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione – e siamo arrivati ai bot che apprendono comprendono e si esprimono in linguaggio naturale – ristrutturano il discorso, riorganizzano le posizioni esistenziali di chi parla, del testo e del pubblico, e questo significa che si modifica il senso del “soggetto parlante” e questo a sua volta significa che molti decenni di semiotica e molti secoli di filosofia del linguaggio, che su certi assunti si basano, vanno ripensati.

Questo perché, frase di cui mi sono preso un appunto e ahimé non ricordo l’autore, “il cambiamento tecnologico non è solo incrementale ma ecologico. […] Un nuovo media non aggiunge [solo] qualcosa; cambia tutto. Nel 1500, dopo l’invenzione della stampa, non esisteva più la vecchia Europa con in più la stampa. C’era un’Europa diversa”.
Una innovazione di prodotto o di processo cambia tutto l’alveare, e i comportamenti della specie. Nuove parole, nuovi linguaggi, nuove tecnologie, nuovi sguardi, nuovi scorci di futuribile, nuove praticabilità del dialogo con l’ambiente e la situazione sociale, nuove o aggiornate semantiche e nuove sintassi per mettere in relazione gli attori sociali materiali o animati o intelligenze artificiali, per un nuovo “discorso della specie umana”.

E questo ovviamente lo possiamo dire per il telegrafo del 1850, per la radio broadcast del 1920, per l’internet del 1975 con la @, per il web aperto del 1994, e via così. Nuovi canali che ristrutturano i messaggi e modificano il contesto comunicativo, da cui traiamo il senso del nostro millenario abitare il pianeta. Non siamo più solo noi a parlare.

Ogni cosa che vedete non solo “è più complicata” di come la vedete, è più complessa di come la vedete, perché è sempre ecologica e reca potenzialità che sono già qui, ma non sappiamo ancora vedere. Cioè leggere.

jannis

A cosa servono i social

“La nostra esperienza non è costituita da un insieme di elementi puntiformi che si associano, ma da percezioni strutturate di oggetti e/o reti di relazioni, e che solo in questo campo di relazioni trovano il loro significato” leggete di Kurt Lewin su wikipedia, leggete di Teoria del campo, se volete. E poi pensate ai social, proprio come ambienti sociali, pensate ai significati condivisi che fanno emergere, attestandoli, facendoli diventare testo, patteggiato e negoziato, quando prima erano soltanto brandelli sfilacciati di melodie di pensiero sparse nelle teste, negli oggetti, nei luoghi del mondo. E per mantenere l’accento sulle relazioni, pensate ovviamente alla sintassi che lega e dona senso alle persone, alle loro posizioni esistenziali, a valore alle loro parole gettate.

C’era questo gioco di gruppo, molto eloquente e interessante per gli psicologi dell’età evolutiva, che qualche volta, molti anni fa, ho provato a condurre nelle classi scolastiche delle scuole primarie. Si tratta di una metodologia per rendere visibile la sintassi delle relazioni presenti all’interno di quel peculiare gruppo sociale costituito dal gruppo-classe, indagando in particolare due dimensioni: la leadership attribuita secondo la rilevanza dell’essere bravi a fare i compiti e quella relativa all’essere quelli preferiti per andare a giocare assieme. Sfera professionale e sfera ludica, rese visibili dal Luminol delle forze che agiscono nel campo.

A ogni bambino della classe, chiedete di scrivere su un foglietto il nome del compagno con cui vorrebbero fare i compiti o studiare insieme, e quello con cui preferirebbero andare a giocare. Poi radunate tutti i foglietti, e sulla lavagna cominciate a disegnare il grafo delle relazioni – può essere fatto anche in forma anonima, senza svelare chi vota chi, ma solo segnando le preferenze raccolte da ciascuno. Alla fine l’educatore vedrà emergere appunto i due leader della classe, quello “bravo” e quello “simpatico”, e potrà impostare un lavoro sul gruppo sapendo dove orientare i suoi sforzi per ottenere una maggiore leva al cambiamento dei comportamenti.

A questo, diciamocelo, potrebbero servire i social network. A far emergere i leader. Ok, lo hanno sempre fatto, anche prima dell’elettricità, e lo continuano a fare dentro Facebook e Twitter… però in modo per così dire “informale”. Ci sarà sempre qualcuno che esprime buoni contenuti e/o adotta uno stile adeguato a bucare lo schermo, verrà likato e amicato e followato da molti, ed emerge.

Io vorrei proprio invece una votazione collettiva. Una presa di coscienza. Prendiamo ogni nostro amico su Facebook, e per ciascuno che riteniamo papabile esprimiamo da uno a dieci un voto secondo quella  che riteniamo sia la sua capacità di leadership professionale (“lavora bene? sa gestire la complessità e l’emergenza? sa far fruttare i soldi? ha spirito imprenditoriale? sa governare tre o trenta milioni di persone? ha metodo? ha competenze? ha visione e comprensione del bene comune?) nonché con un altro voto valutiamo la sua attitudine a far star bene gli altri, quindi premiando la dimensione dello spirito, della comicità, dell’ironia, dell’empatia, del gioco, della compassione, dell’affettività. Votiamo chi ha testa e chi ha cuore. Così, secco, milioni di voti raccolti nel corso del 2015, e poi vengano mostrati i risultati.

A quel punto abbiamo i nominativi per rappresentare la testa e il cuore dell’Italia.

Aporia e metodo

aporia

Squisitamente gangherologico il ragionamento, dall’aporia al metodo. Quel meraviglioso darsi di una porta laddove non pensavo ce ne fossero, laddove non ve n’era alcuna, almeno nel “lessico aspro”.

José Ortega y Gasset, “Idee per una storia della filosofia” – Sansoni 1983

Salutami Solstizio

La riflessione poi è questa: stiamo fabbricando ricordi con modalità nuove. Stratigrafie, e sovvengono visioni di ere geologiche, il depositarsi di sabbie e miriadi di gusci di vita che creano roccia, sotto la pressione, nel tempo.

Però ci sono i ricordi legati allo sguardo, al gesto, poi alla parola emotivamente significante, poi quelli dei testi scritti e lasciati lì a decantare mondi.
Poi ancora, negli ultimi quindici anni, ci sono i ricordi delle cose che ho letto in Rete, le discussioni a cui ho partecipato, e questi a loro volta come le parole e i libri hanno un modo tutto loro di depositarsi nella memoria e costruire strati orientati, si collegano tra loro e con le altre tracce in modo del tutto nuovo, reticoli, intrusioni, affioramenti, mescolamenti.

Senonché, credo anni fa di aver usato un servizio web che prometteva di mandarmi una mail tra un certo numero di anni. Cioè, credo essermi mandato una mail nel futuro. Idea che mi affascina.
Mi viene in mente quando leggo il giornale, e cerco di guardare l’ora in un angolo della pagina, come fosse uno schermo. Parlavo con una persona, e stasera le dicevo “vedrai che tra dieci anni taldeitali verrà a dirti questa cosa qui che ti ho appena detto” e mi è venuto subito in mente che avrei voluto mandarle una mail a questa amica, in quel momento, con data di consegna 1° settembre 2023, che dicesse paro paro quanto le avevo appena raccontato.
Perché c’è poco da fare, a me piace pensare al futuro, anche quando la vita mi costringe a.

Un abitare dislocato ovvero quanta grammatica

Dentro la casella mail i messaggi li metto unread, affibbio etichette, li segno importanti, metto una stellina, li organizzo per categorie. Quanta grammatica. Articolare sistemi di significazione, per meglio organizzare i processi di comunicazione.
Potrebbero anche stare un po’ fermi con le manine, eh, quelli di Google.
Hanno tolto Reader, rifatto le mappe, Google+ spamma, la mail è rivoluzionata. E noi dietro.
Ma non è cosa che puoi progettare in un gruppo di dieci venti cento persone. Assomiglia a quella cosa dell’automobile che puoi avere in tutti i colori che vuoi, purché nero. Mentre oggi potremmo adattarlo alle persone, il design e i criteri di usabilità, perché posso innanzitutto misurare molte cose prima di progettare l’interfaccia, e a me piacerebbe molto sapere come miliardi di persone gestiscono la mail, ritmo organizzazione funzionalità e cosette. E poi perché posso fare seriamente crowdsourcing, crowdhearing, altre cosette per realizzare prodotti che mi calzano come un guanto.
Ovvero, la stessa cosa: sono sempre in mezzo alla gente, abito nelle conversazioni, tutta la filiera dell’RFID (toh, un hardware) va dall’ideazione alla progettazione allo sviluppo alla promozione early alla diffusione e feedback costante, quindi.
Però se passo a ragionare macro, non posso trascurare l’ecologia della Internes. Nicchie, certo. Perché a un certo punto accade che il prodotto che ha avuto successo aggiunge una feature, e quello delle foto fa i videi, e quel sito diventa social, e si insegue lo share più del like perché noi siamo per l’engagement, mentre a me piace andare in giro per baretti diversi e diverse piazze o cittadine, girando in Vespa, e dedicare ciascun a cosa a una funzione, a un oggetto culturale da produrre e distribuire, a una comunità rete di persone. Nel digitale non ho bisogno di sottostare alla dura legge degli atomi e della incompenetrabilità dei corpi che mi costringe a fondere telefono e macchina fotografica perché mi scoccia avere in tasca due cose anziché una. Nel web ce n’è di spazio “anatomico” – senza atomi e attento alla forma e struttura, posso fare un negozio tutto per collari di cani asiatici e un altro dedicato agli antiparassitari antipulci, che mica devono stare insieme perché entrambi parlano di cani.
Se voglio geotaggarmi, scelgo tra i molti software/app/ambienti quello che mi piace di più, che rispecchia il mio stile, che posso personalizzare secondo il mio stile dell’abitare, che si rivolge a una certa community su cui coltivo un certo mio tono. Poi chiacchiero da un’altra parte o molte altre, traggo informazioni da molti aggregatori o curation tool, guardo foto qua e là, il video è ovunque, posso embeddare ovunque quando spammo, strumenti che mi facilitano la scelta di percorsi multipli (questa cosa la metto qua, questa la metto là) senza ricorrere al facile stratagemma di costringermi a vivere in un posto solo. Sempre Novecento.Anzi, ancor prima, assomiglia ancora all’artigiano preindustriale che doveva avere tutti i suoi arnesi sgorbia pinza e provetta sul tavolo di lavoro (sì, il desktop dei sistemi operativi), e poi alla fabbrica che tira a sé i binari del treno, il traliccio dell’energia, i percorsi di distribuzione e smaltimento, tutto centralizzato. Ebbasta. Pensate dislocato.

Siamo dentro una Rete, sapete? Una roba sempre esistita, ma oggi elettronica. La via più breve non è quella dritta, la vostra mail passa per Parigi prima di arrivare in Comune, è un sistema stupidissimo e efficientissimo, dentro un’altra logica di funzionamento della distribuzione dell’informazione, roba immateriale.
E qui dentro le città hanno infinite piazze e negozi sempre aperti, e fa proprio bene alla salute fare delle passeggiate, ogni giorno.

21 giugno

Alle porte dell’estate sento sotto la soglia della coscienza il cambiamento agirmi ancora una volta, sento i gangheri che cigolano, guardo le chiavi fin qui guadagnate guardo la chiave di volta dell’arco della mia vita. E queste linee del destino, mio carattere, che convergono qui e abbraccio con il cuore, nuova vita, dal buio alla luce. All’alba, mi trovo a vagare per stradine di campagna, respiro piano, osservo le parti e il tutto, sorrido. So dove andare.

Watchdog

Questo è il primo giro di politici che seguiamo su Facebook e Twitter, ognuno di noi ormai ha elaborato (o ne è schiavo) uno stile dell’abitare connesso, tenere una postura è faticoso, molti pagheran qualcuno per fare personal brand curation, per offrire un lifestreaming coerente e pulitino, forse no, quando torneremo a votare avremo dei politici un’idea del tutto nuova.

Ibis redibis non morieris in social bello (virgole a piacere)

Ma finalmente. Anni che ne parlo, di questa questione cruciale del cosa farne dei nostri profili social dopo la ops dipartita terrena. Moriamo, talvolta, lo sappiamo. Dentro i videogame quelli seri, sulle bacheche di annunci mortuari online (moltissime), nei social. E allora? Ecco Google che accorre in nostro aiuto: https://www.google.com/settings/u/0/account/inactive
Diventerà importantissimo, credetemi. Qui un articoletto di Rep http://www.repubblica.it/tecnologia/social/2013/04/12/news/google_testamento_account-56508457/

Dov’è finito?

Solstizio è nato certamente il 21 giugno. Appartiene al segno dei Gemelli, per pochi minuti, e Hermes/Mercurio fattivamente ne governa l’esistenza, instillando curiosità ed intuizione per ciò che cambia, per la trasformazione, per quella soglia o limine che scandisce il passaggio. Di una situazione, di un senso interpretativo, di un gesto affettivo, di un evento storico, c’è sempre un prima e un dopo. Lì, sulla soglia, il significato attraversa la porta semiotica, e giunge a noi come nuovo senso nella novella situazione. Gangherologo infatti è la professione praticata da Solstizio, ovvero studioso esperto di cardini/gangheri delle porte.

Psicologia evolutiva dell’umanità

Talvolta la vedo così.

L’umanità sta finendo le scuole medie.

Fino a 3.000 anni fa parlava, poi si è messa a scrivere tutto quello che bisognava scrivere, nominare il mondo, imparare l’alfabeto. Poi nel profondo MedioEvo scocca una scintilla e rileggendo quello che ha scritto riflette un po’ su di sé e sul proprio linguaggio. Qui lasciamo le scuole elementari primarie, e andiamo alle medie. Con la stampa, siamo cresciuti con e dentro il testo, le sue regole e la sua forza. Ci siamo nutriti di nozioni e argomentazioni, espresse in modo statico e lineare. Come società, siamo progrediti dentro le linee di sviluppo che è possibile veicolare con un libro, dove proprio per la forma del contenitore e del codice linguistico usato per riempirlo siamo diventati così e non colà, ecco. Per il ritmo e la forma delle circolazione delle idee.

Adesso parliamo scrivendo, scriviamo parlando, e si sono aggiunti anche tutti i linguaggi multimediali del Novecento, cinema radio tv, e ci sentiamo baldanzosi di avere una personalità, magari soffertissima come ogni adolescente che si rispetti, e vogliamo far sentire la nostra voce nei social. Vogliamo avere un’identità, abbiamo scoperto il gruppo dei pari (cerchie sociali) e ci vediamo il sabato al muretto o in parrocchia o in sala giochi o in centro, salvo il fatto che oggi abitiamo connessi e parliamo sempre.

Siamo arrivati alle scuole superiori, dove la Cultura può essere rimescolata e mixata, dove le regole devi seguirle e ci si aspetta tu le capisca, dove puoi essere un silente o un conformista o un ribelle, ma pian piano impari a leggerti e a ascoltare gli altri.

Digigenius loci

Arriverà a breve una valanga di opendata delle Pubbliche Amministrazioni. Attività commerciali, demografie di quartiere, flussi di beni e merci e rifiuti, mi piacerebbe tracciare la connettività alla Rete.
E un mucchio di gente per lavoro elaborerà questi dati crudi, cuocendoli, e servendoli dietro compenso a chi di questi dati ha bisogno. Si scoprirà moltissimo, si potranno ottimizzare un bel  po’ di sistemi tra quelli che da decenni o secoli utilizziamo per abitare sul territorio, dai trasporti di beni e persone all’energia. Fioriranno visioni raffinate della società e del suo funzionamento concreto. Sapremo molto meglio chi siamo e come ci comportiamo, come collettività. Si scopriranno esistere, dalle analisi semantiche e dal tono affettivo del social locale e iperlocale, delle comunità territoriali che parlano molto di sé, quelle più narcise, e altre invece molto orientate a qualcosa da fare là fuori, sul territorio. Finora abbiamo usato i proverbi e le filastrocche per descrivere certi aspetti del carattere di certi “popoli” arditamente generalizzati, friulani piemontesi genovesi francesi, tra poco sapremo molto di più sullo stile dell’abitare e del conversare di ciascuna comunità territoriale. Qualcuno incrocerà i dati in modo imprevedibile, e scopriremo cose impensabili, non vedo l’ora.

Perdere il segno

I titoli degli articoli riportati dalla newsletter di Agendadigitale.eu

Giusto per avere un colpo d’occhio, e pensare all’importanza dei titolisti. Perché stavo pensando alle frasi tormentone, all’abuso dei luogocomunismi.
E mi era caduto l’occhio su quel “segnato il primo passo”.
Ora, segnare il passo significa subire una battuta d’arresto. Fare il primo passo significa invece intraprendere un cammino. Qui sono fusi insieme, e prevale alla fine nell’interpretazione l’idea di “primo passo in avanti”.
Perderemo il segno.

TOP STORIES
Biondi (Miur): “Diffonderemo il virus del digitale con nuovi testi scolastici”
Imprese ed eGov: se bastasse una buona intenzione per spazzare il carrozzone
Noci (Polimi): “Ecco come rimediare agli errori dello Sportello Unico”
Corso (Polimi): “La PA ha segnato il primo passo verso il cloud”
Dettori, startup: “Crowdfunding importante, ma Pmi dimenticate”
Fabris (Episteme): “La necessità di una salute digitale”
Fattura elettronica: i prossimi passi, verso l’Europa

PROTAGONISTI
Ferri (Bicocca): “Sulla Scuola il digitale parte a fatica dopo 15 anni di deserto”
Calderini (Miur): “Confuse le deleghe tra Stato e Regioni, frenano l’innovazione”
Tripoli (Mise), “Non ci siamo dimenticati delle Pmi. Né dell’eCommerce”
Palmieri (Pdl), Agenzia: “Missione all’apparenza sovra umana”
Biondi (Miur): “Al via l’iniziativa adotta la micro azienda, per gli studenti”

ESSENZIALI
Agenda digitale italiana: lo stato dell’arte tra decreto e altre norme
Le tempistiche dell’Agenda
Tutte le lacune del decreto
Risparmi per 20 mld e maggiori entrate per 5 mld in tre anni grazie all’Agenda. Ma solo in potenza
La rivoluzione digitale per non perdere il nostro welfare
Editoria anti innovativa, scuole poco connesse: fermi al palo i testi digitali
Agende digitali d’Europa, ogni Paese va per conto proprio.

Brevettare l’umano

Il design che ricorre a una semiotica naturale, si sarebbe detto. Quel mondo là fuori e qui dentro la mia testa e su di me senza soluzione di continuità, quel mondo che è già linguaggio e narrazione per le sue qualità sensibili – fisiche, biologiche, chimiche. Pensate al famoso gesto cinematografico di utilizzare un osso come protesi del braccio, e colpire con più forza, un gesto vecchio di qualche milione di anni, che nasce nel dialogo tra sviluppo corporeo e habitat naturale, è come una frase nel discorso della specie umana rispetto all’ambiente di vita di questo pianeta. Impugnare qualcosa per l’uomo è naturale, e il pollice opponibile è proprio una nostra caratteristica (non siamo gli unici), e le forme del fare che una mano permette hanno condizionato nei millenni il nostro pensare, vadasé.
E se vedo una foto piccolina sullo schermo di un smartphone mi viene abbastanza naturale provare a ingrandirla stiracchiandola con due dita. Come se fosse di pongo, elastica. L’ho già fatto con altre cose, nel corso della mia vita. Si può fare certo in altri modi, dipende da quale concetto guida la tua mano, per come il nostro vivere in un ambiente naturale e sociale dipenda dalle metafore del “funzionamento” della realtà che abbiamo appreso. Esistono le porte, esistono i cardini le maniglie le serrature le chiavi. Impariamo, fissiamo il senso nelle credenze (il destino di ogni segno), automatizziamo il fare nelle abitudini, ne ricaviamo pattern di comportamenti a cui diamo vita, nell’occasione, con il nostro corpo. Un mondo significante, che giunge a noi già significante, impastato di natura e cultura.
Una volta c’erano i carri, e chi li guidava teneva le redini per gestire i cavalli. Un oggetto millenario, il morso è un’invenzione, stringhe di cuoio comode e efficienti, per gestire un cavallo. Poi è arrivata l’automobile, e chissà perché si è deciso di utilizzare un volante come interfaccia per le azioni di sterzo. Oppure due leve, o una cloche, quello che volete. Tanto sono tutte macchine che realizzano tecnologicamente una metafora e un modello di intervento sulla realtà, e ci risultano facili da apprendere, proprio perché basate su semiotiche del mondo naturale. Alto-basso, destra-sinistra, vicino-lontano. Un volante, tondo, che gestisce in modo analogico l’angolo di sterzata delle gomme, e un bambino di due anni non ha difficoltà a gestire la complessità cognitiva e motoria del gesto.
E nessuno che io sappia ha provato a brevettare il volante.
Mentre qui ora si brevettano i gesti, dice Luca DeBiase. I gesti diventano proprietà.
Le interfacce diventano trasparenti perché vanno a cercare i gesti nelle grammatiche del corpo, e picchiettare o zoomare con due dita sono i fonemi o le sillabe del linguaggio della mano, come stringere a pugno o ruotare o afferrare o indicare. Siamo vicini alla soglia bassa della semiotica, dove la cultura si scioglie nel fisiologico, a sua volta frutto di un dialogo con l’ambiente della nostra forma di vita, dei nostri geni. 
Credo si potrebbe arrivare al “darsi al mondo”, al nostro essere gettati in una vita, con un corpo. E quei gesti diventano manipolazione del mondo, e quindi segno, e quindi valore. Universale, perché credo nessuno sul pianeta abbia trovato assolutamente inconcepibile l’operazione di zoomare con due dita.
E insomma, non si brevetta questa roba qui.

Ma se i gesti naturali possono diventare proprietà intellettuale vuol dire che qualcosa sta andando storto.

Il punto è che la proprietà intellettuale è diventata un campo sofisticatissimo nel quale si intrecciano brevetti e copyright, marchi e segreti industriali, storytelling e pubblicità. Ogni nuova piattaforma digitale è in realtà un mondo di senso, abilitato da funzionalità tecniche ma utilizzato in base a una metafora che a sua volta discende da un’identità e una narrazione e si comprende solo attraverso un design. Non se ne esce facilmente.

Balletti situazionali dentro i social

C’è un candidato alla carica di Sindaco in una città del nordest che dichiara in pubblico di non essere credente, qualcun altro della parte avversa monta in video un confronto tra quella asserzione e le sue info su Facebook, dove invece il candidato si dichiara cattolico. Poi ovviamente si continua, le campagne elettorali sono calde, si arriva a insinuare che il candidato non conosca la coerenza, sia opportunista nell’adeguarsi ai diversi contesti.

Il video a sua volta circola su FB, e lì la riga di commenti, e gli argomenti spaziano dall’esistenza di Dio alle politiche di innovazione all’importanza dell’essere onesti su Facebook (?) al metteteci voi quel volete, avete presente, in un thread ovunque esso sia, fosse un forum dieci anni fa o una riga di commenti su un social, si può sempre arrivare a parlare di qualsiasi cosa partendo da un argomento random.

Emergono visioni. Contano molto le cose che scrivi su facebook, la gente ti va a vedere e poi si ritiene ingannata, a esempio. Oppure ci sono quelli che provano a avere uno sguardo sempre un po’ consapevole sulla discussione stessa, e cercano continuamente di riportare in carreggiata il discorso. Pochezza e fastidio, ben disseminate. 

Eppure quella è una discussione politica, colta nel momento in cui i partecipanti all’evento comunicativo rivendicano per le posizioni espresse dai propri argomenti una liceità a essere prese in considerazione come proposte effettive in una dimensione civica, come linee programmatiche, come espressione di un sentire collettivo.

O meglio, qui siamo dove un io pronuncia “noi” per aderire proprio a una linea.

In questa situazione c’è un moto verso l’esterno, un espandersi. La morale di un personaggio s’ingigantisce nelle sue parole, i termini vengono generalizzati, e subito quella morale diventa un’etica.

Immaginate il tipo che parla a voce alta al bancone del bar: quella è la dimensione minima della comunicazione politica. Due che parlano in pubblico, è già sufficiente. Lì vengono esposte prese di posizione rispetto alle tematiche, lì per la prima volta rispondendo a qualcuno affermiamo qualcosa che poi ci connoterà per gli altri e ai nostri stessi occhi; lì nel palcoscenico dell’informazione e della relazione troviamo conferme oppure le novità che nutriranno le nostre idee, le nostre credenze, i nostri atteggiamenti.

Questo succede da sempre. Ci sono sempre i capannelli di persone che chiacchierano nelle piazze di tutto il mondo. Dentro un gigantesco meccanismo planetario (con tempi di funzionamento pluriennali, fino a ieri) di elaborazione dell’opinione pubblica le posizioni individuali di quel personaggio al bar o di quei capannelli convergeranno dentro una retorica pubblica già organizzata secondo consorterie e linee di discorso storiche, quegli elenchi di cose di cui parliamo da sempre, come Dio Anima Mondo e il culo delle donne e degli uomini. 

C’è tutto un rimescolio dentro il calderone della socialità.

Che adesso vediamo, possiamo osservare, porre dinanzi a noi come oggetto di analisi. Nella parole scritte sullo schermo, che hanno diverso impatto rispetto a quelle pronunciate in presenza (non c’è memoria) oppure scritte sulla carta (lentezza della discussione). Esponiamo i visceri della pubblica conversazione, dove sta ancora avvenendo l’assimilazione delle informazioni e delle opinioni, dove le idee germinano e cominciano a scorrere nel flusso della socialità.

Facebook è un social. Lì dentro (purtroppo è FB, ce ne vorrebbe un altro migliore, ma al momento siamo lì) la gente si esprime normalmente. Fate i distinguo, ma rimane che quelle discussioni nei bar e nei salotti che da sempre accompagnano la specie umana diventano visibili. Avevamo sempre potuto guardare soltanto la chioma degli alberi, ora possiamo scrutare anche nel sottobosco. Oppure gorghi, vortici su uno specchio d’acqua continuamente rimescolata, l’insieme delle conversazioni, l’attrazione.

Molti dicono appunto “la pancia”, per dire che forse questo osservare il farsi non è di qualità, molto meglio aspettare che dal pentolone affiorino configurazioni di discorso più strutturate, riconoscibili, quelle che poi diventano l’opinione pubblica in quanto ufficialmente versione narrata dai media.

Ma lì, in una discussione al bar o nei commenti di un video su Facebook, c’è la scintilla del cambiamento, lì costruiamo noi stessi, ci esprimiamo, siamo e diamo voce e inneschiamo azioni.

Poco da dire: questo osservare i momenti aurorali di una situazione comunicativa interpersonale, l’allestimento dei ruoli, le rispettive posture, le strategie linguistiche, le scelte lessicali, la stilistica del discorso social, mi rapisce sempre.

Ri-Eco-lo

Umberto Eco torna a parlare della Rete, ovviamente male. Speriamo di non vederlo costretto a passare la pensione leggendo romanzi cavallereschi e combattendo mulini a vento… oppure speriamo sappia infine rovesciare l’arazzo (sempre Cervantes) per comprendere il vero disegno formato da trama e ordito, osservandolo dalla parte giusta.
Comunque, ne parla anche Sofri qui, riprendendo questa Bustina di Minerva.
Di mio, ho già dato. Ho provato a interpretare la visione di Eco qui, un anno fa su questo stesso blog, e recentemente qui, sul blog dei NuoviAbitanti.
Mi soffermo solo su una frase da lui scritta: “Ormai Internet è divenuto territorio anarchico dove si può dire di tutto senza poter essere smentiti.”
A me sembra che la frase si riferisca all’editoria pre-internet. Provate a sostituire “Internet” con “editoria”. Se uno psicologo per esempio nel 1986 avesse scritto una castronata in un suo libro, cosa avrei potuto fare io per smentirlo? Scrivere un libro? E chi lo avrebbe pubblicato, visto che non sono un docente universitario o uno psicologo di fama? Avrei potuto scrivere un saggio di psicologia e vederlo pubblicato su una rivista scientifica? Cosa avrei potuto fare, scrivere una Lettera al Direttore in un giornale di provincia? La stessa asimmetria nell’autorevolezza della fonte avrebbe compromesso la mia posizione teorica di opposizione, la diffusione e quindi il “valore” percepito sarebbero automaticamente stati ben inferiori.
Dalla reputazione, autorevolezza, non il contrario. Questa è Rete. E la reputazione viene sia dalla qualità dei contenuti che hai saputo esprimere nel tempo, sia dall’atteggiamento di apertura alla conversazione che traspare dal modo  e dallo stile con cui abiti su Web.
Mi vien poi da pensare che per me e per molti che come me da anni cercano di capire cosa sia la Rete, la bellezza di Internet sta esattamente nel contrario di quanto espresso da Eco: innazitutto è finalmente il territorio dove TUTTI possono dire TUTTO e essere letti da TUTTI (senza soglie industriali/editoriali, senza costi di pubblicazione per l’autore e di lettura per il fruitore), e soprattutto è il Luogo dove CHIUNQUE può smentirti, pensa un po’.
Talvolta ti contraddicono a torto, e puoi sempre confutare la critica impegnandoti nel dialogo per lasciar rifulgere la Verità autoevidente e fiammeggiante, talvolta ti contraddicono a ragione, poggiando su fatti e riferimenti inoppugnabili. Scoccia un po’, devi far marcia indietro e riconoscere l’altrui punto di vista, ma di certo lo Scibile umano s’incrementa. Proprio nel confronto intersoggettivo – come nell’etica scientifica, appunto – stiamo contribuendo a incrementare il patrimonio di Conoscenza complessivo posseduto dalla specie umana, foss’anche nei commenti di un blog sperduto eppure sempre raggiungibile da tutti. Una stortura in più che viene raddrizzata, dal primo stupido che passa e vede l’errore, lo fa notare, avviene il riconoscimento e  il patteggiamento da parte dell’Autore che onestamente modifica il suo scritto, e l’Umanità ne guadagna.
Questa io non la chiamo anarchia, la chiamo “emergenza di valori di verità* nei sistemi di credenze diffusi, grazie a un fare comunitario collaborativo”. Una negoziazione. Io non vedo disordine, vedo nuove forme del Sapere, diversamente organizzate.
E quel verbo modale, quel “senza poter essere smentiti”, ancora una volta, rivela la non-comprensione di Eco rispetto a quanto sta succedendo qui dentro. O il suo non-voler riconoscere le nuove regole della Società della Conoscenza.
* non fatemi fare lo spiegone su cosa sia la verità. Vi basti il fatto che l’ho scritto minuscolo.

Maledetta pareidolia

Leggevo quest’articolo del Gazzettino, e ovviamente guardavo le facce dei due tipi.
Favorevole anch’io a tenere pulito il brand Dolomiti, mi ero già fatto un filmone in testa sull’educato competente asettico propositivo giovane altoatesino e sul loffio mafiosetto exdemocristiano veneto bellunese, e mi dicevo “toh, vedi che Lombroso qualche volta ci piglia”.
E invece ho googlato il nome del tipo, e ho scoperto che quelli nella foto erano il contrario di quello che io pensavo. Quello della foto di destra è quello che io pensavo fosse il cattivo, e invece era il buono, e viceversa.
Ho proiettato tutto il film, chiaro, fino alla fine. Fino alla manata sulla fronte che mi sono dato.
Fino a questo post.
Tag: apofenia, pareidolia, automatismi, credenza, profezia autoverificantesi, proiezione, codici interpretativi, isotopia