Archivi categoria: Futuro

Ma come mi tratti?

Immaginatevi una Anagrafe digitale pubblica, gestita da Pubbliche Amministrazioni. Qualche server beneducato a non dimenticare nulla, dei database per ogni cittadino, e se per cominciare rendiamo disponibile dieci megabyte per ciascun italiano, alla fine ce l’asciughiamo con 600 terabyte, tutte robe tecnicamente fattibilissime.
Le tabelle cominciano a popolarsi nel momento in cui nasciamo, anzi prima ancora dal momento della visita in ginecologia in cui viene sancita dal medico la presenza su questo pianeta di una nuova vita. Ovviamente, il momento dell’apertura del nuovo file nell’Anagrafe Pubblica è esattamente il momento di passaggio, e facilmente i prossimi riti tecnosociali prevederanno cerimoniali specifici su come svolgere al meglio questo iniziale gesto di attribuzione di identità al nuovo nato.

Cominciamo a riempire il database. I genitori hanno obblighi specifici, scelgono il nome del pàrgolo, sottoscrivono il proprio impegno nel provvedere alla sua inculturazione, riporteranno via via gli episodi salienti della vita del figlio. Ma un mucchio di altra gente potrà scrivere ufficialmente (tracciando gli autori) su quel database, ad esempio il medico che diagnostica malattie infantili allega le cartelle (digitali) cliniche, poi le cure dentarie, poi gli insegnanti che annotano i percorsi di apprendimento intrapresi, la maestra di ballo e la psicologa certificheranno questo e quello, e di tutti questi dati bisognerà stabilire quali sono pubblici, e quali invece possono essere compulsati solo dopo consenso del titolare, oppure su ordine della magistratura.

Al compimento del diciottesimo anno di vita, al nostro ragazzo del 2027 verrebbe ufficialmente consegnata dal Sindaco la password per l’accesso al proprio database, di cui diventa unico responsabile dinanzi alla collettività. Ci son degli obblighi di legge, bisogna aver cura del profilo identitario e scriverci delle cose sopra, documentare sé stessi e prendere posizione rispetto ad alcune scelte etiche che la società ci chiede di intraprendere.
Ad esempio, a diciotto anni ciascuno di noi dovrebbe cominciare a redigere e aggiungere alla propria identità tecnosociale un documento in grado di esprimere esplicitamente la nostra personale visione del mondo rispetto al Senso della Vita e della Morte, e quindi in grado di orientare poi i comportamenti da tenere nei miei confronti in modo che nulla possa avvenire contro la mia volontà, anche me assente o impossibilitato. Un testamento biologico.

Del mio corpo, della mia mente decido io, e sorreggo l’affermazione con la stessa responsabilità civica di cui mi faccio carico dinanzi alla collettività riguardo le conseguenze delle mie azioni.

Ahimè, chissà quando vedremo realizzato e operante quel database identitario pubblico. Nel frattempo utilizzo questo semioblog, mio luogo di espressione con nome e cognome.

Udine, 8 febbraio 2009

Io sottoscritto Giorgio Jannis, nato a Udine il 21 giugno 1967, nella pienezza delle mie facoltà fisiche e mentali, dispongo quanto segue.

Qualora fossi affetto:
da una malattia allo stadio terminale,
da una malattia o una lesione traumatica cerebrale invalidante e irreversibile,
da una malattia implicante l’uso permanente di macchine o altri sistemi artificiali e tale da impedirmi una normale vita di relazione,
non voglio più essere sottoposto ad alcun trattamento terapeutico.

Nelle predette ipotesi:
qualora io soffra gravemente dispongo che si provveda ad opportuno trattamento analgesico pur consapevole che possa affrettare la fine della mia esistenza;
qualora non fossi più in grado di assumere cibo o bevande, rifiuto di essere sottoposto a idratazione o alimentazione artificiale;
qualora fossi anche affetto da malattie intercorrenti (come infezioni respiratorie e urinarie, emorragie, disturbi cardiaci e renali) che potrebbero abbreviare la mia vita, rifiuto qualsiasi trattamento terapeutico attivo, in particolare antibiotici, trasfusioni, rianimazione cardiopolmonare, emodialisi.

Sempre nelle predette ipotesi:
Rifiuto qualsiasi forma di continuazione dell’esistenza dipendente da macchine.

Detto inoltre le seguenti disposizioni:
non richiedo alcuna assistenza religiosa;
il mio corpo può essere donato per trapianti;
il mio corpo può essere utilizzato per scopi scientifici e didattici.

Lo scopo principale di questo mio documento è di salvaguardare la dignità della mia persona, riaffermando il mio diritto di scegliere fra le diverse possibilità di cura disponibili ed eventualmente anche rifiutarle tutte, diritto che deve essere garantito anche quando avessi perduto la mia possibilità di esprimermi in merito.
E questo al fine di evitare l’applicazione di terapie che non avessero altro scopo di prolungare la mia esistenza in uno stato vegetativo o incosciente e di ritardare il sopravvenire della morte.

Mappe, aggregatori, punti di vista

In quell’Impero, l’Arte della Cartografia raggiunse tale perfezione che la mappa d’una sola Provincia occupava tutta una Città, e la mappa dell’impero, tutta una Provincia. Col tempo, codeste Mappe Smisurate non soddisfecero e i Collegi dei Cartografi eressero una Mappa dell’Impero, che uguagliava in grandezza l’Impero e coincideva puntualmente con esso. Meno Dedite allo Studio della Cartografia, le Generazioni Successive compresero che quella vasta Mappa era Inutile e non senza Empietà la abbandonarono alle Inclemenze del Sole e degl’Inverni.

Borges, sì. Capace di iniettare nell’immaginario una dialettica tuttora viva, che già riecheggiava negli slogan delle contestazioni giovanili di 40anni fa. La mappa non è il territorio. E se il territorio è digitale? Le mappe della Rete sono estese come la Rete? Se mettiamo lì un aggregatore che riproponga magari con qualche rappresentazione grafica tipo metafora spaziale se non addirittura corrispondenza geografica (occhio che il segno diventa indice, in quanto “fisicamente” connesso con il luogo di produzione) tutto ciò che viene pubblicato in Rete, avremmo per le mani il Web senza il social, visto che sarebbe solo vetrina e non luogo di interazione. Se poi il fantomatico aggregatore offrisse anche la possibilità di commentare, e tutti commentassimo lì, avremmo il serbatoio mondiale delle idee, e sulla superficie del calderone vedremmo formarsi e scomparire forme riconoscibili, configurazioni di senso, reti relazionali. Più di qualcuno ha immaginato questo calderone come un alambicco, da cui tramite la circolina per la condensazione sia poi possibile distillare e tracciare nuovi apporti culturali, nuove invenzioni, nuove parole per definire concetti prima nebulosi, vedere insomma in tempo reale lo scibile vivere. Non solo la storia delle idee, ma la vita delle idee.

Ma anche il pensiero che pensa gli aggregatori e i contenitori forse è pensiero vecchio, come quello degli imperatori e dei cartografi di corte, giunti al paradosso di avere una mappa grande come il territorio. Poi passa uno e dice: “ma scusate, sulla mappa manca qualcosa… non potete non riportare sulla mappa stessa un manufatto grande come il territorio stesso, cioè questa stessa mappa!”; quindi sulla mappa dovrebbe esserci la mappa. Bel problema. Più che altro, irrisolvibile. Perché il problema sta nella stessa “volontà di rappresentazione” (Schopenhauer non ridere), che poi è anche cosa legittima e teniamo presente che qualunque animale evoluto si crea una mappa mentale del proprio territorio di abitanza, ma poi il problema è nelle modalità di rappresentazione, e qui la cosa diventa “simulazione” nel senso buono, e quindi si entra dritti a parlare di modelli, di capacità descrittive euristiche e via così.

E se devo farmi una mappa di quello che si dice in Rete oggi, e magari distillare quelle cose che ritengo pertinenti ad un effettivo incremento della conoscenza, per me?
Oggi Mario Rotta, nella sua one-line di status su FaceBook

vorrebbe proporre a tutti di “condividere conoscenze”: ma chi avrebbe davvero il tempo di farlo?

la questione del tempo è altra bella variabile; io comunque gli rispondo dicendogli

dovrebbe essere possibile costruire conoscenza “articolata” a partire dai contributi one-line di chiunque passa. poi come un gigantesco sillogismo o come un “cadavere eccellente” (narrativamente orientato) alla fine strizzi tutto e distilli tutto e hai incremento dello scibile, foss’anche una virgola in più, però corale.

e lui di rimando

Ma la conoscenza (dico a me stesso, a volte) è “leggera” o “pesante”? Sono frammenti che si ricompongono come polvere attraversata da un campo magnetico o il risultato di azioni deliberate da parte di chi condivide prima di tutto una visione, o quanto meno un formato? Forse, è entrambe le cose…

Mi piace l’idea del campo magnetico sulla limatura di ferro. Crea configurazioni, secondo i punti di vista. Rappresentazione grafica e dinamica dei movimenti attrattivi-repulsivi. Ma riesce forse solo a spiegare il “punto di vista organizzatore” di chi interroga le idee sparse sulla Rete, un principio ordinatore che in fondo (kantianamente, e poi fenomenologicamente) è un soggetto che guarda e dà senso al mondo.

Ma c’è anche il fatto che quella limatura di ferro, quelle idee che circolano su web e nel mondo possiedono delle proprie capacità di legarsi o di respingersi, non tanto in modo dipendente dal significato veicolato quanto dalla forma dell’espressione grazie a cui possono veder la luce, grazie al format e al particolare sistema editoriale che usano. Possono essere voti su una stellina di un video di YouTube, contenuti articolati in un blog o commenti, linee di status dentro i messenger o dentro le comunità digitali.

Quindi, tolta di mezzo l’idea dell’aggregatore universale (è la stessa internet: oggi il territorio è la mappa), rimane da vedere come rendere visibile e social il nostro essere aggregatori unici e originali, ognuno di noi. Avere una bacheca di lifestreaming personale, aperta al web, significa cucire insieme atti-degni-di-menzione con il nostro filo personale e con il nostro stile, e ciascuno di noi avrà una bacheca unica e originale, e la stessa sequenza di segnalazioni e interventi sarà molto eloquente, perché esprime un punto di vista e possiede in sé molte informazioni di contesto, embeddate nelle mie frasi ma facilmente decifrabili.

E quindi se la metafora del campo magnetico e della limatura di idee rende bene l’idea di un pensiero aggregante, però esterno all’umanità e meccanico (tant’è che può essere fatto da un software, come un aggregatore pubblico dei memi, senza occuparsi del “contenuto” messo in Rete), e l’idea di un filtro aggregatore programmato da umano in fondo altro non è che l’espressione di un punto di vista (fondato sulle pertinenze che il “programmatore” ritiene utili), e poi potremmo anche aggiungere l’idea di un aggregatore che autoapprende e via via seleziona con più raffinatezza ciò che può essere considerato “incrementale” rispetto allo scibile che continuamente viene prodotto negli scambi interumani biodigitali, ma alla fin fine quello che torna importante è l’aggiunta personale di ciascuno di noi all’evento, il valore del contesto della pubblicazione, gli ambienti su cui pubblichiamo o ri-pubblichiamo ciò che vogliamo segnalare.

Da queste piccole dislocazioni del senso, re-interpretazioni attraverso la lente unica dei nostri occhiali personali, nel gioco infinito della traccia e dello scarto (trace|ecart, com’è scritto qui nel footer del blog) è possibile ragionare di “condividere conoscenza” e magari anche di “incremento delle idee”. C’è di mezzo l’idea di autorialità, di voce che sempre nasce da un luogo e in un tempo.
Stop al delirio (di cui famosa para-etimologia è “de-leggere”, ovvero quel leggere un po’ sghembo, capace di dare altri nomi alle stesse cose, pareidolicamente – sta finendo l’anno di prova, dovevo giocarmi questo avverbio sennò perdevo il bonus).

Arrivano i barbari

Ormai da tanti anni entro nelle scuole e racconto ai ragazzi (ultimamente sempre più a insegnanti e dirigenti, e mi diverto meno) cosa si può fare con mappe satellitari, editor audiovideo e cellulari, blog, aggregatori.Ecco qui Michael, un tipo col ciuffo sui diciassette/diciotto, mio allievo anni fa, che mi chiama in chat a metà mattina, e lui è in Carnia, in classe a scuola


Essendo io notoriamente Grammar-Nazi, mi toccherà riprenderlo sull’accento del perché e su quello del dài, ma sorrido perché me lo immagino mentre si annoia a scuola. Il ragazzo è sveglio, curioso, e si sta esercitando ad assumere certe pose cool che neanche Humphrey Bogart. Sono quasi certo che dopo avermi rassicurato ha puntato il browser verso le peccaminose gallerie fotografiche della discoteca giovanile di riferimento della zona, dove questi ragazzi e ragazze possono vedere sé stessi direttamente “in scena” mentre lasciano libero il loro personaggio di vagare nella notte promiscua e decadente. Attori di sé stessi e spettatori di sé stessi insieme, poi passano la settimana su Netlog o sulle loro community giovanili e commentano tutto quello che è successo, e la Valeria che era ubriaca sul cubo e Gigi che voleva tirar su rissa con qualcuno e poi le corna e le occhiate e così come tutti come sempre a loro modo diventano grandi. Però mettono in scena tutto, è un rito pubblico mediatico.

Quel Michael della chat frequenta una scuola professionale IPSIA, ramo elettronica.
Se a qualcuno interessano i soliti discorsi sul mondo della scuola, in questo caso in relazione al futuro dei giovani nel mercato del lavoro, può leggere quello che ho scritto su NuoviAbitanti come commento al convegno “Quale riforma dell’Istruzione tecnica e professionale per il Friuli Venezia Giulia“, presenti buoni nomi della Scuola regionale dell’Industria e della PA regionale, a cui ho assistito lo scorso sabato mattina.

Faccio il minestrone (delirio e castigo)

Mi piacciono quei blogger che ogni tanto mettono in riga i memi dell’ultimo mese, o dell’ultimo anno (vedi anche Mashable, dicembre è tempo di resoconti), perché è nel destino delle elenchi ordinati mostrare successioni di prese di coscienza, raffinamenti, tracce, momenti di bricolage. Non sono uno di quelli, no. Però leggo, e riporto, perché la nostra funzione sociale di router umani, smistatori di pacchetti di informazioni a cui ciascuno di noi aggiunge contesto passioni e punto di vista, è la base operativa di questo ecosistema della conoscenza in cui viviamo, la mia scintilla personale per contribuire al fuoco della conversazione, il clic della partecipazione, foss’anche solo mettere una stellina a un video sul Tubo.
Poi in questi giorni leggo spesso di prossemica digitale, di folksonomie, di grammatiche aggiornate per comprendere le narrazioni dei cambiamenti sociali odierni, di visioni del futuro. Ma guarda.
Sono parole che tre anni fa avrebbero avuto significati del tutto differenti, e se guardo indietro mi sembra quasi di vedere il percorso di raffinamento di questi concetti con cui oggi cerchiamo di ragionare qui in Rete, nominando e manipolando i nuovi strumenti di espressione con cui l’umanità mette in scena sé stessa, indagandone le conseguenze sociali, le necessità educative per le nuove generazioni, il cambiamento dell’atteggiamento di chi deve vendere qualcosa ad altri dentro il mercato finalmente conversazionale, le possibilità di incidere direttamente nella gestione delle politiche territoriali locali.
In prospettiva, talvolta riesco a visualizzare la storia di queste idee, dal loro apparire magari dentro una chat per diventare un post su un blog, poi il meme rimbalza nei commenti di altri blog, avviene via via una analisi collettiva e collaborativa delle implicazioni di quel nuovo concetto che si impone come adeguato a descrivere i nuovi fenomeni (mettiamo sia “blog”, oppure “web20”, oppure “folksonomia”) e poi qualcuno realizza un video in cui riesce graficamente a suggerire un nuovo punto di vista, e poi tutto torna nel calderone del socialweb nelle community e nei lifestreaming dove però si risottopone ad esame la diffusione mediatica tradizionale del nuovo concetto e si apportano nuove precisazioni e alla fine abbiamo per le mani una navicella per correre migliori acque.

Ma ci rendiamo conto dei flussi che ci stanno investendo, di come i nostri cervelli sociali e le nostre città neuronali si stanno riorganizzando per fronteggiare la complessità? Da quelle tremile notizie che ho letto, da quelle quattrocentocinquanta fonti sull’aggregatore che vedete nell’immagine qui sopra, oppure da navigazione selvaggia (tra parentesi: una volta era più facile fare navigazione selvaggia, è vero? seguendo i link dei siti personali si giungeva facile all’inaspettato completamente slegato dal nostro punto di partenza, mentre dopo l’azione tematicamente organizzatrice svolta dai portaloni e poi dalle “configurazioni di senso” stabile e circoscritte delineate dalle reti dei blogroll – affinità elettive – navighiamo sempre più dentro orizzonti di attese conosciute… ops, mi è finito lo spazio per la parentesi sociomediatica) ultimamente ho trovato nelle seguenti riflessioni, che poi serendipità o il bricolare del pensiero magico (a proposito, vorrei salutare Claude Lévi-Strauss nei cui libri sprofondavo rapito e sorridente, uno che qualche anno fa venuto qui in zona a ritirare il premio Nonino in grapperia ha detto che il Friuli era “la zona più esotica che avesse mai visto” ehehh) in qualche modo mi fanno leggere come un tutto collegato, un insieme di pensieri che girano e trovano via via nuove forme in cui alloggiare e lasciar scaturire senso.

Ad esempio, ho letto Sorchiotti su Apogeonline, dove si parla di social proximity e dove si prova a prendere le misure di questo nuovo fenomeno folksonomicamente emerso dai socialambienti tipo FaceBook (e qui dico che seguendo GasparTorriero un anno fa mi ero anche disiscritto, e poi il boom presso colleghi mi ha portato a riattivare l’account per motivi professionali, poi le ultime cose che leggo tipo i maneggi business che ci stanno dietro mi portano nuovamente a considerare di andarmene), ovvero che la dimensione semi-pubblica di questi Luoghi socialweb, l’intreccio tra reti amicali e gruppi più ampi, i meccanismi di partecipazione e appartenenza portano a rimodellare la nostra personale percezione del Paesaggio relazionale, ed il tutto si trasforma in nuovi comportamenti, in nuove possibilità di “dettare l’agenda personale e collettiva”, nella aumentata solidità del nostro abitare in rete, in quanto ora arricchito della dimensione gruppale. E qui ci starebbe qualche bella riflessione sulla grammatica dei gruppi, robe di dinamiche affettive e di strategie identitarie, perché se non lo sapete “i gruppi sono la più importante invenzione del XX secolo“, per il semplice motivo che il fenomeno “gruppo” prima non era neanche pertinentizzato come possibile oggetto di analisi; dalla massa alle folle, siamo arrivati ai “campi di forza” delle situazioni interpersonali solo verso gli anni Trenta, e degli anni Quaranta sono le prime serie riflessioni riguardo cosa succeda dentro i gruppi, dal punto di vista delle affettività dislocate nelle relazioni interumane o degli stili di comunicazione adottati o nei giochi di ruolo situazionali. Perché il gruppo fa pensare alle persone cose che altrimenti non penserebbero, il gruppo “parla” attraverso i singoli, e possiede una sua grammatica narrativa nel perseguire i propri scopi. Insomma, qui serve qualcuno che da psicologo o da analista conversazionale o perché no da attore di teatro (gente in grado di ragionare su dinamiche comunicative situate) provi a considerare quello che succede nei circuiti conversazionali in rete, e permetta a noi tutti di acquisire competenze di tipo meta- rispetto a tutto quello che facciamo ogni giorno, abitando qui dentro. Ogni tanto iniziative come codiceinternet, al di là del loro scopo manifesto, sono utili per portare attenzione riflessivamente sui media che stiamo usando, in questa fase spasmodica di etichettamento delle nuove possibilità espressive, dei nuovi rituali sociali, della stilistica della Cultura digitale.

Poi ho letto Zambardino, che ci dice chiaramente che l’esperienza quotidiana di vita dei millennials è “fuori dalla cultura attuale della società italiana”. Tutti i ragionamenti che dottoroni o sedicenti esperti fanno ad esempio sulla pericolosità dei videogiochi o sulla frequentazione degli ambienti sociali in Rete, sono fuori luogo. Sono indicazioni magari frutto del buon senso, che però sostanzialmente non còlgono le specificità di quegli stessi comportamenti che pretenderebbero di regolamentare o semplicemente giudicare, perché chi ha pensato quelle cose non le vive, non le annovera nell’armadio dei propri vissuti esistenziali. Nessun insegnante attuale ha giocato migliaia di ore con la play, chattato migliaia di ore, visto tv migliaia di ore prima dei suoi quindici anni, navigato su web per migliaia di ore. E sappiamo che non sono cose che si possono raccontare, vanno vissute, come buttarsi col paracadute. E in ogni caso per imparare a nuotare bisogna buttarsi in acqua, magari all’inizio dove si tocca.

Privi di punti di riferimento, genitori e insegnanti, operatori sociali e giornalisti, medici e psicologi si sentono autorizzati a interpretare come fantasmi i fatti reali che hanno di fronte. E’ come se un aereo a reazione fosse comparso sui cieli dell’antica Roma. Semplicemente non avrebbero capito cos’era. Col mondo digitale è così: i bambini ( i ragazzi, diciamo da 8 a 20) “sanno”. “Noi” no, e vaghiamo da incubo ad incubo: dal terrore dell’assalto pedofiilo (come se nello sport o in parrocchia il problema fosse evitato a priori…) al timore dell’”isolamento” psichico. Invece di vedere l’enorme forza formatrice e educativa della rete, cerchiamo disperatamente il muro più alto da alzare.

Proprio simpatico l’esempio dell’aeroplano. Torna sempre utile, quando si tratta di ragionare sulla pensabilità del futuro. Ovvero, il pensiero corre alle categorie della pensabilità, chiamatele come volete, e come la siepe di Giacomino mi viene da chiedermi in che modo lo sguardo verso il futuro è condizionato da abitudini e piste troppo battute. Oh, bell’esempio di ineffabilità, diciamolo, il futuro. Diciamolo anche così: ineffabile come il pensiero dei posteri. Chissà cosa penseranno di noi, e con quale ermeneutica proveranno a ricostruire i nostri pensieri. In ogni caso stiamo costruendo anche nuove forme di narrazione, e la narrazione stessa per la sua capacità di conferire senso agli eventi e alle situazioni in modo più finesse e meno geometrico (non è sempre bene; ma è bene ad esempio quando l’orizzonte stesso del problema non è ancora ben definito, oppure nella gestione del cambiamento di atteggiamenti individuali, gruppali o collettivi) viene riconosciuta anche per le sue concrete capacità operative.

Qui su Bloom.it trovate una intervista di Francesca Prandstraller a Steve Denning, autore di The Springboard: how Storytelling ignites action in Knowledge-Era Organizations, evidentemente un guru nell’utilizzare formule narrative nella gestione del cambiamento delle organizzazioni lavorative. Eppure non è difficile: le tecnologie, comprese quelle dell’intelligenza, nascono contestualizzate, recano il senso del Luogo su cui agiscono. Ecco perché è possibile coordinare alla vendita di un quotidiano una raccolta di coltelli professionali su base regionale, perché lo stesso coltello dalla stessa identica funzione magari altamente specializzata (un coltello concepito e forgiato per pulire il pesce, ad esempio) ha forma differente se inventato a Bolzano oppure a Ragusa, e racconta molto.
Quindi narrazioni. Che sono efficaci se innescano nell’ascoltatore un processo di ri-narrazione interiore, e veicolano valori cognitivi e patemici, e nell’atto stesso del loro apparire come storie costruiscono una nicchia ricettiva, dove chi ascolta si può adagiare e girare l’interruttore per un diverso ritmo dell’esperienza, più lento e più denso, che risuona anche nel petto oltre che nella testa. O addirittura in pancia, ma vedremo dopo.

Quindi ricapitoliamo, ed è facile perché siamo sempre lì.
Sta avvenendo un cambiamento epocale, nascono nuovi oggetti sociali, cambiano quelle istituzioni vecchie, c’è gente che di tutto questo non ci capisce una mazza ma anche ci sproloquia o peggio ci legifera sopra, e per raccontare queste nebulose di contenuto stiamo moltiplicando gli sforzi in direzioni differenti, dal cloud computing alla folksonomia ai rituali poietici dentro le comunità digitali, allo strabordare dei valori etici e sociali (privacy attiva, conversazione, orizzontalità) della Rete verso il mondo atomico (e ora il mondo delle banche dei giornali delle religioni della politica del mercato deve imparare a parlare come si parla in Rete, cioè nella forma migliore di dialogo collettivo mai raggiunto da specie umana, e dentro una rete paritetica orizzontale è difficile bloccare un flusso come nelle reti gerarchiche; e come si controlla tutto, se non puoi censurare a monte? chi tra voi ha 25 anni e sta scrivendo una tesi su “Potere e forme di controllo nel XXI secolo? qualche promettente fraticello nelle segrete del Vaticano?).

Poi quando ad un convegno arriva Baricco e prova a mettere giù le cose in forma narrativa, più o meno intorno ai barbari, ecco che Quintarelli DeBiase e Chittaro ne parlano, perché sanno che un punto di vista diverso contribuisce alquanto alla comprensione del problema. E il problema è appunto il futuro, la sua pensabilità, la sua forma, i modi in cui già oggi il presente lo contiene, le linee di sviluppo. Anzi, per Baricco il futuro è finito, questo vivere pesantemente nel presente ne ha modificato la percezione al punto da ridurlo a contenitore delle scovazze, dove buttiamo rifiuti, e tutto questo uccide i concetti di “progetto” e di “progresso”. Non c’è il futuro, c’è il nuovo. Ma dicendolo abitiamo qui, non là. Nel narrarlo, situiamo qui e ora l’azione. Qui c’è sotto qualcosa che riguarda la narrazione del futuro, dice Baricco, e quello che ci raccontiamo è quello che effettivamente risulta reale. Ma se lo raccontiamo con gli stilemi dei serial televisivi, ormai forma nattativa imperante, cadiamo male, perché quelli sono fatti apposta per essere ciclici, onfalici, autoreferenziali, circolari, immobili e senza futuro. Ed esplicitamente, almeno nel resoconto che ne fa DeBiase, è cambiata la grammatica della mente, la grammatica della pensabilità, oggi maggiormente connotata da rapide e ampissime esplorazioni della superficie, piuttosto che da rallentamenti e approfondimenti alla ricerca del senso, e da categorie rinnovate nell’identificare e distinguere i concetti di naturale e di artificiale, nella direzione del nostro essere indifferentemente biodigitali.
Annoto qui anche il ruolo di narratore della cultura pre-diluviodigitale che Baricco si attribuisce, quale scelta per il futuro: consapevole del cambiamento radicale in atto, si definisce amanuense intento a descrivere il mondo forse con la vecchia grammatica ma con le nuove parole, mentre i selvaggi tutto distruggono e tutto genialmente ricostruiscono.
Quintarelli riporta anche una mappa di ciò che si è detto su quel convegno a Venezia sulla pensabilità del futuro, e la trovate qui.

Poi cosa c’era? Bene.
Siccome stavamo leggendo e ragionando su come il nostro essere confortevolemente installati nelle nuove narrazioni sociali della rete faccia emergere aspetti di personalità e forme del pensiero che prima non conoscevamo, prontamente mi imbatto in un post di PierCesare Rivoltella, dedicato a Media, Media Education, costruzione dell’identità.

I media concorrono a costruire le identità dei soggetti? E come? Quali sono i modelli più funzionali a fornire risposta a questa domanda: quelli basati sull’idea del modellamento? E il modellamento assume le forme del pensiero unico che si impone trasversalmente rispetto alle appartenenze geografiche e culturali? O esistono le appropriazioni, sempre locali, sempre storicizzate, a mediare l’impossibilità dell’omologazione? E ancora: quale risposta educativa si può dare alla questione della costruzione identitaria del singolo e della società attraverso i media?

Navigando mi sono imbattuto in Gloria Origgi, ed è stata un’ottima scoperta. Seguendo il link arrivate sull’articolo “Designing wisdom through the Web: The passion of ranking”, dove si racconta come noi tutti in realtà stiamo passando dall’Età dell’Informazione all’Età della reputazione, e quindi della necessità di strumenti di tracciamento e di valutazione, sempre per via di quella folksonomia e quelle reti sociali cui partecipiamo e dell’intelligenza collettiva.

An efficient knowledge system will inevitably grow by generating a variety of evaluative tools: that is how culture grows, how traditions are created. A cultural tradition is to begin with a labelling system of insiders and outsiders, of who stays on and who is lost in the magma of the past. The good news is that in the Web era this inevitable evaluation is made through new, collective tools that challenge the received views and develop and improve an innovative and democratic way of selection of knowledge.


Poi ci sarebbero un paio di cosette apparentemente più easy, che meriterebbero un post tutto loro.
Una di queste è la segnalazione di Punto Informatico, ripresa da Mantellini a cui prendo anche l’immagine, della sentenza californiana secondo cui avere sul pc dei cartoni animati porno, nel caso specifico la famiglia Simpson compresi Burt e Lisa, sia reato di pedopornografia.

Sinceramente, non so cosa pensare.
Ma non credo che il contenuto delle fantasie erotiche possa essere regolamentato da legge. Non credo che imbattersi in un cartone animato di qualunque tipo sia perseguibile, perché nessuno può dirmi a me adulto cosa leggere e cosa no, o proibirmelo, in uno stato laico. Ed il fatto che si tratti di un disegno, e non di immagini fotografiche reali o parareali o snuff-movie innescherebbe altre riflessioni, che mi riprometto di seguire.

Sempre in relazione ai lati pornelli della cultura contemporanea, non posso non segnalare in ultimo un bel saggio di Alberto Abruzzese, su nimmagazine.it ovvero la newsletter italiana di mediologia, dedicato all’emergere prepotente del fenomeno del porno amatoriale, realizzato in casa da un mucchio di gente e poi messo online, ad esempio sul celeberrimo YouPorn. Dentro ci sento risuonare un bel po’ di discussioni “eretiche” del ‘900, da Bataille a Debord a Baudrillard, ma indubbiamente la sensibilità dell’autore riesce a ricondurre gli interrogativi ad una formulazione aggiornata ai nostri tempi internettari, e

… mentre la natura dei media industriali ha stretto e continua a stringere un patto molto forte, reciproco, tra chi comanda la società e il medium che vi svolge il ruolo dominante, la natura dei new media è tecnicamente tanto duttile e aperta da potere soddisfare, seppure in varia misura, anche i bisogni relazionali di persone, soggetti e parti sociali che non sono egemoni, non lo sono più o non lo sono ancora, e che possono quindi entrare a far parte di una complessa trama mediatica, di una aggrovigliata matassa di tendenze e controtendenze culturali

E’ un bell’articolo, su questo ci torno sicuramente. Parla di personal media nomadici, di privato e pubblico, di corpi e di relazioni, di società e di civiltà.

Transizione

Cristiano Bottone ci racconta la Transizione, dal suo blog ioelatransizione.

Cos’è la Transizione

Cerco di descriverla in poche parole: la Transizione è un movimento culturale impegnato nel traghettare la nostra società industrializzata dall’attuale modello economico profondamente basato su una vasta disponibilità di petrolio a basso costo e sulla logica di consumo delle risorse a un nuovo modello sostenibile non dipendente dal petrolio e caratterizzato da un alto livello di resilienza.

Analizzando più a fondo i metodi e i percorsi che la Transizione propone, si apre un universo che va ben oltre questa prima definizione e fa della Transizione una meravigliosa e articolatissima macchina di ricostruzione del sistema di rapporti tra gli uomini e gli uomini e tra gli uomini e il pianeta che abitano.

Sotto un’apparenza semplice e pragmatica si nasconde un formidabile strumento terapeutico dei tanti mali che affliggono il mondo industrializzato, uno strumento che ho appena iniziato ad esplorare e che mi sembra tra i più promettenti a nostra disposizione.

Transition è un movimento culturale nato non più di due anni fa in Inghilterra dalle intuizioni e dal lavoro di Rob Hopkins, un guru davvero improbabile.

Tutto nasce quasi per caso nel 2003. In quel periodo Rob insegnava a Kinsale e con i suoi studenti creò il Kinsale Energy Descent Plan un progetto strategico che indicava come la piccola città avrebbe dovuto riorganizzare la propria esistenza in un mondo in cui il petrolio non fosse stato più economico e largamente disponibile.

Voleva essere un’esercitazione scolastica, ma quasi subito tutti si resero conto del potenziale rivoluzionario di quella iniziativa. Quello era il seme della Transizione, il progetto consapevole del passaggio dallo scenario attuale a quello del prossimo futuro.

COM’È IL NOSTRO MONDO

L’economia del mondo industrializzato è stata sviluppata negli ultimi 150 anni sulla base di una grande disponibilità di energia a basso prezzo ottenuta dalle fonti fossili, prima fra tutte il petrolio. Più in generale il nostro sistema di consumo si fonda sull’assunto paradossale che le risorse a disposizione siano infinite.

Le conseguenze più evidenti di questa politica sono il Global Warming e il picco delle risorse, prime tra tutte il petrolio, una combinazione di eventi dalle ricadute di portata epocale sulla vita di tutti noi. Ci sono molti altri effetti che si sommano a questi, inquinamento, distruzione della biodiversità, iniquità sociale, mancata ridistribuzione della ricchezza, ecc.

La crisi petrolifera appare però la minaccia più immediata e facilmente percepibile dalle persone. Rob intuisce che è più semplice partire da questo punto e arrivare agli altri di conseguenza, un’intuizione che è probabilmente alla base della fulminea diffusione del suo movimento.

RISCOPRIRE LA RESILIENZA

Ma Rob è anche e soprattutto un ecologista e ha passato anni a insegnare i principi della Permacultura. Da questo suo background deriva la sua seconda intuizione: applicare alla logica della sua Transizione il concetto di resilienza.

Resilienza non è un termine molto conosciuto, esprime una caratteristica tipica dei sistemi naturali. La resilienza è la capacità di un certo sistema, di una certa specie, di una certa organizzazione di adattarsi ai cambiamenti, anche traumatici, che provengono dall’esterno senza degenerare, una sorta di flessibilità rispetto alle sollecitazioni.

La società industrializzata è caratterizzata da un bassissimo livello di resilienza. Viviamo tutti un costante stato di dipendenza da sistemi e organizzazioni dei quali non abbiamo alcun controllo. Nelle nostre città consumiamo gas, cibo, prodotti che percorrono migliaia di chilometri per raggiungerci, con catene di produzione e distribuzione estremamente lunghe, complesse e delicate. Il tutto è reso possibile dall’abbondanza di petrolio a basso prezzo che rende semplice avere energia ovunque e spostare enormi quantità di merci da una parte all’altra del pianeta.

È facile scorgere l’estrema fragilità di questo assetto, basta chiudere il rubinetto del carburante e la nostra intera civiltà si paralizza. Questa non è resilienza.

I progetti di Transizione mirano invece a creare comunità libere dalla dipendenza dal petrolio e fortemente resilienti attraverso la ripianificazione energetica e la rilocalizzazione delle risorse di base della comunità (produzione del cibo, dei beni e dei servizi fondamentali).

Lo fa con proposte e progetti incredibilmente pratici, fattivi e basati sul buon senso. Prevedono processi governati dal basso e la costruzione di una rete sociale e solidale molto forte tra gli abitanti delle comunità. La dimensione locale non preclude però l’esistenza di altri livelli di relazione, scambio e mercato regionale, nazionale, internazionale e globale.

LE TRANSITION TOWNS

Nascono così le Transition Towns (oramai centinaia), città e comunità che sulla spinta dei propri cittadini decidono di prendere la via della transizione.

Qui si evidenzia il terzo elemento di forza del progetto di Rob Hopkins, quello che lui ha creato è un metodo che si può facilmente imparare, riprodurre e rielaborare. Questo lo rende piacevolmente contagioso, anche grazie alla forza della visione che contiene, un’energia che attiva le persone e le rende protagoniste consapevoli di qualcosa di semplice e al contempo epico.

Possediamo tutte le tecnologie e le competenze necessarie per costruire in pochi anni un mondo profondamente diverso da quello attuale, più bello e più giusto. La crisi profonda che stiamo attraversando è in realtà una grande opportunità che va colta e valorizzata. Il movimento di Transizione è lo strumento per farlo.

Antropologia dei blog


Da NuoviAbitanti

Marino Niola, professore ordinario di Antropologia Culturale a Napoli (qui su Wikipedia), ha scritto per larepubblica.it un articolo sul mondo dei blog, sul loro significato sociale e sulle relazioni interumane che hanno luogo in Rete. Che poi si tratta sempre di un Luogo, appunto antropologicamente connotato.

Lungi da essere il solito sproloquio di certo giornalismo nostrano, dove i blog vengono nominati solo per aspetti scandalistici oppure con toni canzonatorii da giornalisti platealmente incompetenti riguardo le dinamiche comunicative in Rete e le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione, l’articolo di Niola prova a tratteggiare la nascente “cartografia sociale” che emerge dal libero scambio di informazioni e di opinioni degli Abitanti digitali, dove l’aggregazione e l’interazione interpersonale sono motivate esclusivamente dalla partecipazione attiva da parte di ognuno alla condivisione di tematiche e alla frequentazione di campi di interesse comuni, ovviamente in modo indipendente dalla distanza fisica che separa gli interlocutori.
La società sta evolvendo, nel suo superamento glocale delle categorie spaziali tradizionali, e certamente concetti come “confine geografico” o “prossimità relazionale” vanno profondamente rivisti, in un epoca contrassegnata da fenomeni di telepresenza (web e cellulari) , dal primato dell’Informazione e della Conoscenza in formato digitale, dall’Economia dell’immateriale.

Purtuttavia sfugge a Niolo, ancora forse incantato dalla visione certo importantissima di una Rete relazionale a estensione planetaria, il concreto risvolto “local” di quella parola glocal (vedi Bauman su Wikipedia, glocalizzazione) più su accennata: esiste oggi la possibilità per chiunque, pubblico o privato, di aprire dei blog urbani o comunque dei luoghi-contenitori di partecipazione democratica delle collettività per la progettazione e la definizione collaborativa delle strategie da adottare per migliorare il proprio Ben-Stare sul territorio, da concepire ormai come tecnoterritorio, come una rete di rioni digitali che compongono paesaggi biodigitali attraversati da flussi di persone e di rappresentazioni mediatiche (vedi i concetti di Appadurai, antropologo, su Wikipedia).

Ben vengano, comunque, articoli come questo di Repubblica per muovere anche in Italia l’opinione pubblica, in un paese di scarse letture e tuttora ancorato alla televisione quale unica fonte informativa (ammesso che abbia ancora una tale funzione), alla comprensione delle profonde modificazioni sociali in atto sul pianeta.

_____________________

Villaggio blog, vista sul mondo
le nuove forme di dialogo

di Marino Niola

Fonte: larepubblica.it

“Dovessi spiegarti che cos’è il mio blog ti direi che è un luogo, riscaldato d’inverno ed areato d’estate, con un indirizzo e una buca delle lettere, finestre per guardarci dentro se passi nei pressi ed una porta aperta per entrare se ti andrà. L’insieme dei blog che leggiamo e di quelli che ci leggono è un villaggio particolarmente salubre fatto di abitanti che si siano scelti fra loro e non paracadutati lì dal caso”. Parola di blogger.
È evidente che il blog è molto più di un sistema di comunicazione. È un angolo di mondo, avrebbe detto Herder. O una forma di vita, per dirla con Wittgenstein. In entrambi i casi uno spazio di condivisione simbolica caratterizzato dai suoi usi, costumi, sensibilità, abitudini, codici sedimentati – ma prima ancora creati – e da un linguaggio comune. I blog sono a tutti gli effetti le nuove forme di vita prodotte dalla rete, degli autentici angoli di mondo virtuale.

Certo che il blog è un luogo di confronto e di scambio di idee, informazioni, pareri, servizi, ma è anche di più, molto di più. Questa forma di diario in rete – il termine è la contrazione di web e di log che significa appunto diario ma anche traccia – sta dando vita a una nuova cartografia sociale. Fatta di punti di aggregazione fondati sulla circolazione delle opinioni.

Qualcuno li considera un po’ come la versione immateriale dello Speaker’s Corner, letteralmente angolo dell’oratore, di Hyde Park a Londra, dove chiunque può montare su una cassetta di legno a mo’ di palco e predicare sul mondo in assoluta libertà. Occupando un angolo di spazio pubblico per dire la sua. Quella minuscola cassetta garantisce una sorta di extraterritorialità che consente a ciascuno di dire fino in fondo tutto ciò che pensa. A ben vedere il blog è proprio una occupazione di immaginario pubblico, una sorta di tribuna virtuale. E contribuisce a rivelare la forma dei nuovi spazi collettivi di una società che ha profondamente mutato le sue categorie spaziali e sta passando dalle divisioni alle condivisioni, dai luoghi tradizionali – territori fisici delimitati, confinati, sul modello delle nazioni – agli iperluoghi immateriali che ridisegnano le mappe del presente.

Nuovo luogo della condivisione pubblica in un tempo caratterizzato dalla scomparsa progressiva dello spazio pubblico tradizionale: un po’ circolo, un po’ palcoscenico, un po’ salotto, un po’ sezione di partito, un po’ piazza, un po’ caffè. I diari in rete rappresentano modi diversi di sentirsi comunità. Non più comunità locali, e localistiche, basate sulla prossimità geografica, residenziale, cittadina, ma su forme inedite di appartenenza.

Ecco perché il blog non è solo uno strumento del comunicare, ma è una potente metafora del nostro presente in rapida trasformazione e un simbolo anticipatore del nostro futuro. A farne un mito d’oggi è proprio la sua capacità di dirci qualcosa di profondo su noi stessi, di mostrarci con estrema lungimiranza ciò che stiamo per diventare anche se ancora non lo sappiamo con precisione. Nei grandi cambiamenti epocali il mito, la metafora, il simbolo si assumono proprio il compito di lanciare dei ponti verso quelle sponde del reale che ancora non vediamo ma, appunto, intravediamo. Anche se abbiamo già cominciato a viverci dentro istintivamente. In questo senso i comportamenti del popolo dei blog ci aiutano a cogliere quanto stiano di fatto mutando le stesse categorie di identità e di appartenenza: sempre meno materiali, sostanziali, fisse e sempre più fluttuanti, mobili, convenzionali.

E come sia cambiata la stessa nozione di luogo di cui viene oggi revocato in questione il fondamento primo, ovvero l’idea di confine naturale, in favore di quella di confine digitale. Il blog anticipa una realtà che non è più quella del paese, della città, del quartiere, della classe d’età, della famiglia, della parrocchia, del circolo. I bloggers si rappresentano come una comunità di persone che si scelgono liberamente e su scala planetaria. E in questa dimensione extraterritoriale intessono un nuovo legame sociale.
Comunità senza luogo? Niente affatto. È la vecchia nozione di luogo ad essere inadeguata. E assieme a lei quella apparentemente nuova di non-luogo che della prima non è che la figlia degenere. Perché è fondata su una idea pesante, solida, ottocentesca del luogo e della persona.

Un’idea che ha l’immobile solidità del ferro e non la mutevole fluidità dei cristalli liquidi. In realtà a costituire il tessuto spaziale, ieri come oggi, sono sempre le relazioni, mai semplicemente le persone fisiche. E oggi le relazioni sono sempre meno incarnate, sempre meno materializzate, ma non per questo scompaiono.

La liquidità della rete è la vera materia sottile della trama sociale contemporanea, e perfino di quella spaziale se è vero che oggi l’iperconnessione è il principio vitale che circola come sangue nel corpo del villaggio globale. I cosiddetti non-luoghi sono in realtà più-che-luoghi, super-luoghi, sono luoghi all’ennesima potenza, acceleratori di contatti, incroci ad alta densità, moltiplicatori di collegamenti tra bande larghe di umanità. È questa la cartografia wi-fi della nuova territorialità, la cosmografia del presente di cui Internet è il dio e Google è il primo motore immobile. Una rivoluzione recente ma che sta già cambiando il vocabolario dell’essere: dal to be al to google e, sopratutto, al to blog.

Non a caso bloggare è diventato un verbo. Il terzo ausiliare per chi è in cerca di casa, di lavoro, di visibilità, di posizione insomma. È la terra promessa degli homeless digitali, la nuova frontiera dei migranti interinali in cerca di hot spots, di porte wireless, di ambienti interconnessi. Un nuovo paesaggio fatto di camere con vista sul web. Proprio così una blogger definisce il suo miniappartamento virtuale. O un villaggio di villette monofamiliari dove si lascia sempre aperta la porta di casa perché chi ne ha voglia possa entrare a prendere un caffè. Altro che fine del legame sociale. La blogosfera è la traduzione della mitologia comunitaria nella lingua del web, la declinazione immateriale della società faccia a faccia: la nostalgia del paese a misura d’uomo in un download.

Frequentare i blog serve, fra l’altro, a smontare molti dei luoghi comuni sugli effetti nefasti della digitalizzazione della realtà e sull’apocalisse culturale che essa comporterebbe. Fine della lettura, tramonto dell’italiano, declino dello spirito collettivo. In realtà questo sguardo luttuoso sul cambiamento lamenta sempre la scomparsa delle vecchie forme e proprio per questo fa fatica a riconoscere l’intelligenza del presente.

A parte quelli specializzati, espressamente attrezzati a luoghi di cultura, palestre di discussione critica, gabinetti di lettura, atelier di scrittura, i blog sono in generale delle officine stilistiche e retoriche in continua attività, dove la capacità di persuasione e l’estetizzazione della comunicazione hanno spesso un ruolo fondamentale. “Qui sul blog è tutta un’altra cosa. Scrivo in modo molto diverso da come scriverei su un diario. Le persone che mi conoscono commentano e dicono la loro, e i pensieri pubblicati sono molto più profondi”.

Per quanto diversi fra loro, i blogger nascono dal linguaggio e vivono di linguaggio. Un regime democratico, dove ciascuno è opinionista nel libero mercato delle opinioni, senza gerarchie di posizione, senza ruoli, senza il peso dell’autorità. Dove ognuno è quel che scrive, dove tutti hanno pari facoltà d’interlocuzione. È la nuova utopia della libertà e dell’eguaglianza. Compensazione simbolica al malessere attuale della democrazia in carne e ossa.

Progettare le città come hardware e software

Da Experientia, diffondo alcuni interessanti ragionamenti di Carlo Ratti: l’argomento è l’ideazione di “… una nuova piattaforma per archiviare e scambiare informazioni che siano sensibili a luoghi e tempo , rendendoli accessibili agli utenti attraverso i dispositivi mobili, le interfacce web e fisiche. Queste piattaforme permettono alle persone di diventare attuatori intelligenti distribuiti, che perseguitano i propri interessi individuali in cooperazione e competizione con gli altri, diventanto così loro stessi attori principali nel migliorare l’efficienza dei sistemi urbani.”

Mi ricorda, in qualche modo, un rastrello: in questo momento diventa interessante progettare dei rastrelli che siano in grado di raccogliere le innumerevoli informazioni e flussi che tutti noi emettiamo durante il giorno, con cellulari e la Rete e tracciabilità, per orientare poi l’interpretazione verso quelle qualità emergenti dal sistema, capaci di far meglio percepire l’Abitanza effettiva di un territorio, osservata in tempo reale attraverso i flussi di persone merci e denaro e idee.

Putting People First in italiano » WikiCity, un progetto MIT

Come può una città operare come un sistema open-source in tempo reale.

Sebbene sembri che l’approccio di questo progetto sia principalmente guidato da una perspettiva culturale, ci sono alcuni elementi centrati sulla gente interessanti:

Nei decenni passati, sono stati sviluppati sistemi di controllo in tempo reale in una certa varietà di applicazioni di ingegneria. Così facendo, è aumentata drasticamente l’efficienza dei sistemi attraverso il risparmio dell’energia, la regolazione delle dinamiche, la maggiore resistenza e tolleranza dei disturbi.

Adesso: può esserci una città che si comporti come un sistema di controllo in tempo reale? Questo è l’obiettivo del progetto WikiCity al MIT. Esaminiamo i quattro componenti chiave di un sistema di controllo in tempo reale:

1. entità da controllare in un ambiente caratterizzato dall’incertezza;
2. sensori capaci di ottenere informazioni sullo stato dell’entità in tempo reale;
3. intelligenza capace di valutare la performance del sistema contro esiti indesiderati;
4. attuatori fisici in grado di operare sul sistema per realizzare la strategia di controllo.

Una città rientra certamente nella definizione del punto 1, e il punto 2 non sembra porre particolari problemi, Per esempio, il progetto di Roma in Tempo Reale usava cellulari e dispositivi GPS per raccogliere gli schemi di movimento della gente e dei mezzi di trasporto, e il loro utilizzo spaziale e sociale delle strade e i quartieri. Ma come mettere in atto la città? Anche se la città contiene di per sè diversi tipi di attuatori come i semafori e la segnaletica stradale aggiornata a distanza, un attuatore ben più flessibile sarebbe i suoi stessi abitanti.

Di conseguenza, noi stiamo creando una nuova piattaforma per archiviare e scambiare informazioni che siano sensibili a luoghi e tempo , rendendoli accessibili agli utenti attraverso i dispositivi mobili, le interfacce web e fisiche. Queste piattaforme permettono alle persone di diventare attuatori intelligenti distribuiti, che perseguitano i propri interessi individuali in cooperazione e competizione con gli altri, diventanto così loro stessi attori principali nel migliorare l’efficienza dei sistemi urbani.

La visione del progetto, portata avanti dal SENSEable City Lab di Carlo Ratti, sta attualmente essendo applicata su Roma, Italia.

Visita il sito del progetto

Tracciare la vita

Sappiamo esistere da tempo la possibilità di inserire dei microcongegni elettronici negli oggetti che ci circondano, in modo da comunicare con questi via radiofrequenza.

Ogni oggetto potrebbe raccontare immediatamente la sua identità e la sua storia, dove è stato prodotto, che viaggio ha fatto per arrivare davanti a noi, e un mucchio di altre cose (i problemi sulla privacy sono dietro l’angolo, sì).

Immaginiamo di poter sapere istantaneamente la marca di vestiti più indossata dal pubblico della Scala o del concerto di Vasco Rossi, oppure di conoscere in tempo reale l’esatta disponibilità di merci in un magazzino; proviamo a pensare ad una situazione quotidiana, come al supermercato, dove sarebbe sufficiente passare con il carrello pieno davanti alla cassa, per avere immediatamente il conto della spesa esatto, visto che il detersivo e le brioche sono provvisti di RFID, ovvero di un “identificatore in radiofrequenza”

Bruce Sterling, noto ai più per la sua attività di scrittore cyberpunk negli anni ’80, sta cercando di intrecciare le possibilità offerte dalla RFID con altre tecnologie emergenti relative sia al processo di produzione dell’oggetto/bene di consumo, sia alla sua identificazione e geolocalizzazione.

In particolare, poter tracciare un oggetto con tecnologie GPS Global Positiong System o il poter usare i motori di ricerca per trovare indizi della vita dell’oggetto, porta al concetto di SPIME enunciato dallo stesso Sterling, per definire quell’oggetto ancora teorico che può essere tracciato appunto nel tempo e nello spazio nel corso del suo intero ciclo di vita.

Immaginate di chiedere a Google dove sono le vostre scarpe da ginnastica, e sentirvi rispondere “Le tue scarpe da ginnastica sono sotto il letto”

Spime – Wikipedia, the free encyclopedia

Un contenitore di contenitori

Internet è il futuro, il futuro è internet.

Perché abbiam davanti agli occhi un contenitore capace di contenere tutti gli altri contenitori, ogni media.

E credo che le reazioni del tipo negativo si possano ricondurre all’atteggiamento Amish, a cui può aggiungersi eventualmente l’ala armata del movimento, i Luddisti.

Poi ci saranno gli entusiasti (vi è un dio in loro), e i critici. Però sarebbe interessante porre fin d’ora dei benchmarks, per capire nel 2020 quali cambiamenti d’opinione collettiva e quali cambiamenti nei comportamenti sociali ha provocato l’invenzione della comunicazione planetaria molti-a-molti.

La vedo come un gigantesco scongelamento, di informazioni e credenze e punti di vista e opinioni e idee fino a questo momento bloccate e costrette dentro un’unica mente, oppure una stessa famiglia, oppure una stessa tribù, oppure uno stesso clan, oppure uno stesso popolo oppure dentro una stessa collettività (adlib.).

E’ diminuita la viscosità dell’immaginario collettivo, dell’enciclopedia. Tutto si fluidifica, corre in kbps.

S noteranno idee assolutamente riconducibili solo e soltanto ad una genesi glocale? Saremo in grado di riconoscere la portata d’innovazione di un pensiero nato in una situazione veramente planetaria? Quali stili cognitivi, quali strategie per l’appercezione e l’interpretazionedella realtà nasceranno? Grumi di senso. Nascendo internet, è nato un nuovo pensiero ed un nuovo pensare.