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Di cosa abbiamo bisogno

«I giovani sono in via di estinzione. Negli ultimi 10 anni, dal 2000 al 2010 abbiamo perso più di 2 milioni di cittadini di età compresa tra i 15 e i 34 anni».

…. «Sono una merce rara», ha aggiunto Roma, spiegando che i dati italiani sono i peggiori insieme a quelli tedeschi. In contrapposizione – ha aggiunto – nello stesso periodo sono invece aumentati di 1 milione 896 mila unità gli italiani over 65». Corriere della Sera 

Come la facciamo la internet per gli anzyani? Novecentesca?

Come si fa

Una cosa di Bifo, una cosa che è un atteggiamento, un pezzo di cuore, una visione, un suggerimento per i suoi studenti.
Figuriamoci se linko.
Potrebbe essere su Facebook, ma in realtà è altrove.

Come si fa
(è il testo con cui ho aperto stamattina la mia lezione nel cortile di Brera. A differenza del testo che ho pubblicato qualche giorno fa, che è di Rainer Maria Rilke, questo testo è mio, mi scuso per l’accostamento, e potrete trovarlo nella rivista CANgURA che uscirà il 21 marzo per le edizioni Luca Sossella)

Anche l’amore nel tempo precario
è diventato una cosa per vecchi,
un privilegio di anziani amanti
che hanno del tempo da dedicarsi.
Noi eredi di un secolo feroce
che rispettava soltanto il futuro,
siamo il futuro promesso,
l’ultimo forse però, perché il profitto
non rispetta né il domani né l’adesso.

Il patto è stato cancellato
perché la regola non vale nulla
quando non c’è la forza per imporla.
Ora ciascuno è privato,
e solitario elabora segnali
sullo schermo mutevole che irradia
intima luce ipnotica. Riceve
ordini telefonici, e risponde
con voce allegra perché non è concesso
ch’altri conosca l’intima afflizione
che ci opprime.
Talvolta sul contratto di assunzione
è compresa una norma che ti impegna
a non suicidarti.
Questo non ferma certo l’espansione
dell’esercito immenso di coloro
che levano la mano su se stessi.

Nel solo mese di maggio
all’azienda trasporti di Bologna
si sono uccisi tre lavoratori.
Dieci anni fa erano tremila
i conducenti degli autobus cittadini,
oggi sono soltanto milleduecento
e il traffico non è certo meno intenso.
Alle officine Foxsson
si danno fuoco giovani operai.
A migliaia s’immolano
i contadini indiani,
alla Telecom France
si ammazzano a decine per il mobbing.
In molte fabbriche italiane
minacciano di buttarsi giù dal tetto.
E’ un sistema perfetto
razionale, efficiente, produttivo.
Chi s’ammazza è un cattivo
cittadino che non ha capito bene
come funziona il nuovo ordinamento.
Devi essere contento,
partecipi allo sforzo collettivo
che rilancia la crescita e impedisce
che il deficit sorpassi il tre per cento.

Brucia ragazzo brucia
brucia la banca centrale
e quella periferica.
A poco servirà, purtroppo
Perché i numeri che ti rovinano l’esistenza
Non sono conservati in nessuna banca,
neppure in quella centrale.
Vagano nell’infosfera
E nessuno li può cancellare.
I nemici nascosti sono numeri
Null’altro che astratte funzioni,
integrali, algoritmi e deduzioni
della scienza economica.
Ma come puoi chiamare scienza
questo sapere che non sa niente
questo assurdo sistema di assiomi
di tecniche che spengono la vita
per non uscire dalle previsioni
di spesa?
Non è una scienza, è una superstizione
che trasforma le cose in astrazione
la ricchezza in miseria
e il tempo in ossessione.

Meglio andarsene di qui, ecco come si fa.
Meglio lasciare vuoto
il luogo dell’obbedienza e del sacrificio.
Meglio dir grazie no a chi ti propone
sopravvivenza in cambio di lavoro.
Impariamo a essere asceti
che non rinunciano al piacere né alla ricchezza
ma conoscono il piacere e la ricchezza
e perciò non li cercano al mercato.
Come gli uccelli nel cielo
e come i gigli nei campi
non abbiamo bisogno di lavoro
né di salario, ma di acqua e di carezze,
di aria, di pane, e dell’infinita ricchezza
che nasce dall’intelligenza collettiva
quando è al nostro servizio, non al servizio
dell’ignoranza economica.

Se vuoi sapere come si fa
io posso dirti soltanto
quello che abbiamo imparato dall’esperienza.
Non obbedire a chi vuole la tua vita
per farne carcassa di tempo vuoto.
Se devi vendere il tempo in cambio di danaro
sappi che non c’è somma di danaro
che valga il tuo tempo.

E’ comprensibile che qualcuno pensi
Che solo con la violenza
Possiamo avere indietro
Quello che ci han sottratto.
Invece non è così,
– dispongono di armate professionali
che la gara della violenza la vincerebbero
in pochi istanti.
Quel che puoi fare è sottrargli il tempo della tua vita.
Occorre diventare ciechi e sordi e muti
quando il potere ti chiede
di vedere ascoltare e parlare.

L’esodo inizia adesso
andiamocene via
ciascuno col suo mezzo di trasporto.
Meglio morto
che schiavo dell’astratto padrone
che non conosce
dolore né sentimento né ragione.
Ma meglio ancora vivo
senza pagare né il mutuo né l’affitto.
Quel che ci occorre non è nostro
se non nel breve tempo di un tragitto.
Quando arrivi parcheggi,
lasci le chiavi e lo sportello aperto
per qualcun altro che deve spostarsi
nella città, sui monti o nel deserto.

Ecco come si fa.
Si smette di lavorare
ché di lavoro non ce n’è più bisogno.
Occorre svegliarsi dal sogno
malato della crescita infinita
per veder chiaramente
che c’è una bolla immensa di lavoro inutile
che si gonfia col nostro tempo.
Inventiamo una vita che non pesa,
Che non costa.
Una vita leggera.

E poi sai che ti dico?
Non ti preoccupare del tuo futuro
Che tanto non ce l’hai. E’ tutto destinato
A pagare l’immenso debito accumulato
Per ripianare il debito delle banche.
Il futuro di cui parlano gli esperti
è sempre più tetro ogni giorno
che passa. E’ meglio che diserti
e comunichi intorno
il lento piacere dell’essere altrove.
Ecco come si fa.

Luglio 2010

Crogioliamoci

Vedo che in giro periodicamente riprendono quota le discussioni sui nativi digitali.

Ne ho parlato spesso. E ho sempre detto che al di là della pochezza della definizione, la questione è serissima, perché i ragazzini di oggi sono veramente gente diversa dalla generazione precedente, cento volte più divergenti di quanto lo sono stato io rispetto ai miei genitori, per essere semplicemente cresciuto immerso in un ambiente cognitivo intessuto di televisione 24/7 e radio in FM e e VHS e videogiochi.

E’ la solita riflessione sul ritmo tecnologico, e sulle ricadute antropologiche. Mi sono stancato di parlarne, dopo quest’ultima dozzina d’anni. Parlerò d’altro, in futuro, perlomeno qui sul mio blog.

Ma il seguente fetta di vita riportata da Axell spiega molto. Spiega che ogni sei mesi che stiamo qui a discutere di puttanatine e moralismi, perdiamo tre anni di vita nostra e loro, tre anni in cui il mondo va avanti di dodici anni, e intanto questi dodicenni abitano il loro mondo, com’è giusto che sia.

Luogo: Autobus 64 – direzione centro storico

Contesto: Scolaresca delle medie in visita (non so dove, forse GAM)

Protagonisti: 3 bimbi, 11/12 anni…

Bimbo 1: Hey, l’avete sentito l’ultimo album di Shakira?

Bimbo 2: No, ma è quella di Vacca Vacca?

Bimbo 3: Ah ah ah… Sì è lei, quella troia che canta Waka Waka.

Bimbo 1: L’ho scaricato con Bittorrent.

Bimbo 2: Mio padre lo usa per scaricare i pornazzi, li ho visti sull’hard disk

Bimbo 3: Per quelli c’è YouPorn… che scarica a fare? Vedi che non capiscono un cazzo i vecchi?

Bimbo 2: Sì, non capiscono un cazzo.

(risata collettiva)

Ecosofia e grassroots

Copio qui un articolo divulgativo intitolato “Ecofilosofia, Ecosofia e il Movimento dell’Ecologia Profonda“, trovato sul portale di bioetica.
Interessante anche il ragionamento sulla cultura dei movimenti grassroots, l’emergere locale di valori e posizioni etiche della collettività, e come la logica orizzontale reticolare si attagli e possa essere fortemente potenziata oggi dalla presenza di una Rete globale, Internet.

EcofilosofiaEcosofia e il Movimento dell’Ecologia Profonda

Durante gli ultimi trent’anni, i filosofi occidentali hanno criticato gli argomenti di base della filosofia moderna riguardo ilmondo naturale. Questa maturazione è stata solo una parte della continua espansione del lavoro filosofico che ha coinvolto studi comparati sulle opinioni del mondo e sulle più recenti filosofie. Siccome gli studi filosofici occidentali hanno spesso ignorato il mondo naturale e siccome la maggior parte degli studi etici si sono focalizzati sui valori umani, gli approcci che mettono in risalto i valori ecocentrici hanno preso il nome di ecofilosofia. Così come la sofia o la saggezza sono la meta della filosofia tradizionale, così il traguardo dell’ecofilosofia è l’ecosofia o la saggezza ecologica. La Procedura dell’ecofilosofiaè un’indagine continua, vasta e profonda, nei valori, nella natura del mondo e nel sé.

La missione dell’ecofilosofia è quella di esplorare tutti i punti di vista che riguardano i rapporti e le relazioni tra uomo e Natura. Essa fa proprie le relazioni armoniose e più profonde tra il luogo, il sé, la comunità e il mondo naturale. Inoltre si accresce attraverso la comparazione delle diverse ecosofie con le quali le gente sostiene i principi della piattaforma del movimento, vasto e globale, dell’ecologia profonda.

Ecco la definizione originale di ecosofia di Arne Naess: «Per ecosofia intendo una filosofia di equilibrio, e armonia, ecologico. Una filosofia, del tipo sofia (o) saggezza, è apertamente normativa; essa contiene norme, regole, postulati, dichiarazioni di priorità di valori ed ipotesi che riguardano lo stato degli avvenimenti nel nostro universo. Saggezza vuol dire politica saggia, norma, non solo descrizione e previsione scientifica. I dettagli di una ecosofia avranno molte varianti in quanto esistono delle diversità che sono dovute a significative differenze non solo nei “fatti” come l’inquinamento, le risorse, la popolazione ecc. ma anche nelle priorità dei valori.» (Vedi A. Drengson e Y. Inoue, 1995, pag. 8.)

Nel 1973 (Inquiry 16, pp. 95-100) il nome deep ecology movement, ovvero “movimento dell’ecologia profonda”, venneintrodotto nella letteratura ambientale dal professore filosofo e scalatore norvegese Arne Naess. (Per una ristampa dell’articolo vedi Drengson e Inoue 1995.) L’ambientalismo nacque come movimento politico popolare, grass root, negli anni 1960 con la pubblicazione del libro Primavera silenziosa, Silent Spring, di Rachel Carson. Coloro i quali erano già attivi nelle battaglie della conservazione/preservazione vennero affiancati da molte altre persone preoccupate per gli impatti ambientali negativi della moderna tecnologia industriale. Andando indietro nel tempo potremmo considerare come vecchi membri del movimento gli scittori e attivisti Thoreau e Muir, mentre la consapevolezza della nuova corrente è più vicino alla filosofia della saggia conservazione di persone come Gifford Pinchot.

L’articolo di Naess era basato su un intervento che fece a Bucarest nel 1972 alla Conferenza sulla Ricerca del Futuro del Terzo Mondo, Third World Future Research Conference. In quell’intervento Naess discusse il vasto retroterra del movimento ecologico e le sue connessioni col rispetto per la Natura e il valore inerente degli altri esseri viventi. In quanto amante delle montagne che aveva scalato in tutto il mondo, Naess aveva avuto l’opportunità di osservare le azioni politiche e sociali nelle diverse culture. Sia storicamente che nel movimento contemporaneo Naess vide due forme di ambientalismo, non necessariamente incompatibili l’una con l’altra. Una la chiamò “il vasto movimento dell’ecologia profonda”, long-range deepecology movement, l’altra “il movimento ecologista superficiale”. La parola “profondo” si riferiva anche al livello di ragionamento sulle nostre intenzioni e sui nostri valori quando discutiamo dei conflitti ambientali. Il movimento “profondo” riguarda il porsi quelle domande che vanno direttamente alla base dei principi fondamentali. Quello superficiale si ferma prima.

Analizzando comparativamente i movimenti sociali e politici di base, grass root, nella sua struttura ecofilosofica Naessdistingue quattro livelli di ragionamento (vedi la tabella sotto). Durante la formazione dei movimenti culturali trasversaliglobali, si sviluppano delle idee condivise generali che mettono a fuoco il movimento attraverso dei principi piattaforma (questo è il caso di molti movimenti di letteratura, filosofici, sociali, politici, ecc.), così come lo sono i principi di giustizia sociale, o i principi di pace e non violenza, o i principi del movimento dell’ecologia profonda, deep ecology movement (DEM). I principi di questi movimenti emergono dalla base e per questo vengono chiamati grass root movements (come nella tradizione gandhiana), e non sono caratterizzati da un potere gerarchico che va dall’alto al basso.

Lo scopo dell’ecofilosofia è quello di raggiungere una visione totale, completa, della nostra condizione, sia come genere umano umana che come singolo individuo. La completezza comprende l’intero contesto globale, con noi in esso, noi che condividiamo un mondo di diverse culture e di diversi esseri viventi. Ci muoviamo verso una visione totale ponendoci domande profonde – sempre chiedendoci perché – verso norme e condizioni supreme, anche attraverso la formulazione (o l’applicazione) di politiche e azioni. Molto del lavoro culturale integrato viene svolto al livello dei principi della piattaforma, e le nostre opinioni trovano un’ampia convergenza a questo livello che Naess chiama Livello II. Dal questo livello possiamo iniziare impegnandoci in questioni profonde e procedere ad una elaborazione della nostra ecosofia personale, che può basarsi su alcune delle principali filosofie o religioni, come ad esempio il Panteismo o la Cristianità. Questo livello che comprende le filosofie supreme è chiamato Livello I. C’è una diversità considerevole a questo livello. Dai principi del Livello II possiamo sviluppare delle specifiche raccomandazioni e formulazioni politiche, che stanno al Livello III. L’applicazione delle politiche del Livello III porta alle azioni pratiche del Livello IV. Esistono grandi diversità di opinioni a livello delle politiche e ancor di più a livello pratico.

Nel porci domande profonde ci muoviamo verso presupposti e norme supremi [dal livello II al livello I – n.d.T.]. Nel processo di acquisizione e di applicazione ci muoviamo verso un sostegno alla piattaforma e verso politiche di sviluppo ed azioni pratiche [dal livello II ai livelli III e IV – n.d.T]. Questo è un processo continuo di avanti e indietro che mantiene la nostra conoscenza e le nostre azioni in armonia con il mondo che cambia. L’approccio profondo, quindi, diventa evolutivo, cambiando al cambiare delle condizioni naturali. (Per esempio, la “new corporation”  [o comunità] deve impegnarsi in questo movimento di avanti ed indietro e così richiede una completa partecipazione degli impiegati, dei diversi leader e dei decisori). Nei tre movimenti grass root  menzionati prima, i principi sono individuali e internazionali. E’ importante notare che c’è unagrande diversità al livello delle filosofie supreme. Non abbiamo tutti l’obbligo di sottoscrivere le stesse filosofie ecologiche supreme per lavorare assieme per il beneficio del pianeta e delle sue comunità di esseri viventi. Il fronte è molto ampio e ognuno di noi ha dei valori per dare il proprio contributo nella realizzazione di qualità di vita globalmente migliori. Dobbiamo lavorare a diversi e svariati livelli. 

Alan Drengson (Tratto da: The Trumpeter: Journal of Ecosophy, Vol 14, No. 3, Summer 1997, pp. 110-111)

trace!ecart - Giorgio Jannis

Il Senso, tempo e superficie

Qualche anno fa scrisse una cosa che si chiamava “I barbari”, e provava a descrivere i cambiamenti culturali epocali che stiamo vivendo, i nuovi modelli della conoscenza, i nuovi linguaggi dentro cui abitiamo mentre usiamo ancora parole vecchie, che non riescono più a raffigurare il senso esatto di ciò che intendiamo comunicare, non riescono più a cogliere il fluire degli accadimenti.

Oggi Alessandro Baricco, su Wired, ha aggiunto qualcosa a quelle riflessioni, un ragionamento sulla superficie e la profondità, sul senso nascosto delle cose. O meglio, sulla morte apparente attuale di quella tradizione culturale che ci spinge a cercare ciò che vale, le cose preziose, la Verità, nelle profondità dei discorsi o nell’oscurità di libri rari o in altri Luoghi esoterici, celati alla vista, astrusi, complicatissimi.

C’è da dire che l’umanità ha sempre vissuto con questa idea del sapere iniziatico, grammatiche magiche e sacre per leggere il senso segreto delle cose. Stregonerie rituali e iniziazioni, Parmenide e Pitagora, Misteri greci, Gnosi, alchimia, spiritismo, New Age e similia. Sulla superficie, alla luce, abbiamo la chiacchiera e le carabattole. Sotto, nell’oscurità, brillano le vere gemme, ma bisogna saper cercare, ed è faticoso. E forse non è nemmeno per tutti, né cercare né godersi il tesoro.

E questa nostra epoca, dove tutto è in superficie? E’ avvenuto un funerale, da qualche parte? Stiamo elaborando il lutto per la perdita di una dimensione? Cosa traghettiamo nel domani?

Da questi barbari stiamo ricevendo un’impaginazione del mondo adatta agli occhi che abbiamo, un design mentale appropriato ai nostri cervelli, e un plot della speranza all’altezza dei nostri cuori, per così dire. Si muovono a stormi, guidati da un rivoluzionario istinto a creazioni collettive e sovrapersonali, e per questo mi ricordano la moltitudine senza nomi dei copisti medievali: in quel loro modo strano, stanno copiando la grande biblioteca nella lingua che è nostra. È un lavoro delicato, e destinato a collezionare errori. Ma è l’unico modo che conosciamo per consegnare in eredità, a chi verrà, non solo il passato, ma anche un futuro.

Tentacoli

Non serve invocare entità esterne, magari trascendenti.
Semplicemente, il complicato oltre un certo punto di complicatezza diventa complesso.
Certo, le formiche diventano formicaio, gli alberi diventano bosco. Olismo, che dire?
Un fascio di nervi diventa cervello (hardware) e sviluppa coscienza (software), un applicativo utile per far funzionare meglio il sistema.
E sembra la coscienza abbia una sua volontà, magari non ne è cosciente, che la porta a voler replicare il processo anche fuori dalla scatola cranica, adoperandosi per connettere altre coscienze.
La meta del percorso appare lampante.
Innanzitutto la coscienza ha lavorato sui gruppi di umani (hardware) per farci girare sopra linguaggi e comunicazione (software). Ha lavorato sull’empatia, per stabilire sintonia affettiva.
E con tutto un bel dialogo tra tecnologia e conversazioni, ha via via messo in scena la scrittura per darsi memoria e potenziarsi, poi ha sviluppato migliori supporti, pietra papiro argilla pergamena carta, poi la stampa, poi i quotidiani, la nascita dell’opinione pubblica mediatica, il teleascolto e la televisione, i codici digitali, la Rete dove tutti facciamo tutto con tutti insieme e contemporaneamente.
Abbiamo ora la coscienza collettiva, l’Umanità che pensa e si guarda pensare. One man, one world, one people, one net.
E senza nessun ansia omologante, ché qui ci servono molti pensieri diversi in differenti linguaggi.
Perché la coscienza fa così? Cosa vuole, da millenni? E’ una rincorsa per spiccare un salto? Bah, teleologia.
Però questa del connettersi è qualcosa di profondamente wired nel sistema, che ne facciamo?
Un processo sorto per ottimizzare le risorse e garantire maggiori probabilità di sopravvivenza (cervello-mente, individui-gruppi, olismo delle reti) rimane sempre pro life, indipendentemente dalla scala di applicazione?
Siamo agiti da pulsioni cieche, coazioni, che reiterano lo schema automaticamente, indipendentemente dalla qualità del risultato?
Ecco, la parola “qualità” porta con sé un punto di vista, su questo farsi automatico delle connessioni tra umani e mondo e delle relazioni. Etica, morale, giudizio, direzione, storia, cammino, progressione e progresso, finalità, scopo, prendere in mano il volante e decidere dove andare, ora che sappiamo di sapere.
Un mondo migliore, una coscienza planetaria. Siamo costretti a decidere, anche facendo spallucce.

Fondare arrogantemente la democrazia della Rete

Leggo fantascienza da quando ero alle medie, centinaia di Urania comprati usati in un negozietto buio strabordante di carta impilata, gestito da una matrona settantenne vagamente somigliante a Moira Orfei.
Negli anni Ottanta il cyberpunk di Gibson e di Sterling si innesta su Dick e Ballard, e tutto si avvita saldamente nel mio cervello adolescente.
Quando all’università Bifo mi faceva leggere Pierre Levy, prima metà Novanta, le visioni fluivano liberamente, visioni concrete e per nulla sorprendenti di una realtà imminente. Un mondo connesso, biblioteche ubique, intelligenza collettiva, rivoluzioni dei sistemi mediatici, economici, culturali, e quindi sociali.
Sono passati diciotto anni da allora, la stessa distanza che separa Woodstock da We are the World, giusto per parlare degli abissi, e anche perché mi ha sempre colpito che i ventenni fricchettoni del 1970 siano diventati i trentacinquenni cocainomani armani-paninari del 1985.
Quindi, sono decenni che mi girano per la testa certi pensieri, e comunque chiunque abbia letto quei cinque libri sulla Rivoluzione digitale usciti a metà Novanta non può essersi sorpreso poi molto di ciò che è successo nel mondo da allora a oggi, perché là dentro è tutto ben descritto. Bravi certo i guru storici (Kelly, Negroponte, Barlow, Levy, etc.), ma non era difficile prevedere certi sviluppi del web e delle forme culturali e tecnosociali, una volta compresa dall’interno la portata e la forza di quello che stava accadendo.
Quelli che nascevano diciotto anni fa oggi li chiamiamo nativi digitali, e non sono bambini, sono persone che votano.
Oggi alla Camera dei Deputati si è svolto un convegnone, sapete, intitolato “Internet è libertà”.
Dopo diciotto anni di moti carbonari, finalmente la Cultura digitale emerge alla luce del sole, nel riconoscimento ufficiale delle parole pronunciate da cariche istituzionali nei luoghi di Governo di questa italia sempre buon ultima nel prendere sul serio le innovazioni sociali, specie se propagandate da eterni ragazzini che passano il loro tempo attaccati al computer, come vogliono le barzellette che giornali e tv continuano a propinare.
Guardo lo streaming del convegno sulla webtv della Camera (tre anni fa questa sembrava fantascienza), e ascolto Gianfranco Fini, anfitrione dell’evento, parlare di diritto di accesso a internet come diritto di cittadinanza, e penso che forse sì, qualcosa è sgocciolato attraverso la roccia. Poi tutti gli altri raccontano la loro, un po’ mi annoio, un po’ rido per le inevitabili baggianate pronunciate da chi queste cose non le ha imparate vivendole, ma gliele hanno raccontate, poi penso che quello che dice sciocchezze è un viceministro che sta legiferando proprio sulle libertà di internet e già rido meno. Leggete Boccia Artieri per una rapida visione critica dell’evento.
L’ospite d’onore del convegno è Lawrence Lessig, che tiene da par suo una lectio encomiabile di trequarti d’ora. Mi colpisce il suo far riferimento un paio di volte alla generazione futura, alle differenze “antropologiche” che ci separano dai giovani. Tant’è che alla fine del convegno, interpellato per un rapido intervento conclusivo da Riccardo Luna riguardo l’impressione che ha avuto della situazione italiana, Lessig sottolinea come negli States il dibattito politico non abbia ancora preso in carico tutti i risvolti “legislativi” e di diritto personale messi in fibrillazione dai comportamenti su web, come gli sembra invece che gli Stati europei stiano facendo, guarda un po’.
E poi aggiunge qualcosa di importante, secondo me. Parla esplicitamente, dopo i soliti battibecchi italiani sulle leggi e le censure governative, di una nostra generazionale “presunzione di democrazia”, nel voler stabilire oggi per l’oggi quali siano i comportamenti giusti e sbagliati da normare, sempre concentrandoci su un presente ormai sorpassato, quando intorno a noi c’è appunto una nuova generazione che abita altre realtà mentali e culturali, perfettamente indifferente alle regole dei padri in quanto semplicemente non adeguate al loro mondo. Questa generazione non avrà nessun rispetto per la nostra presunzione di voler stabilire una democrazia, se questa democrazia non sarà costruita insieme a loro, che dovranno vivere dentro quelle regole nel loro tempo 
e in un mondo radicalmente differente dal nostro.

Update dopo la provavideo

Lessig, più meno letterale: “vi incoraggio a prendere sul serio la rabbia, riconoscere che la vostra presunzione di democrazia non è una presunzione che si tutela da sola. Si può proteggere quest’idea di democrazia se si ascolta la generazione dei nativi, in un dialogo che rispetti questa generazione”.

Cittadino digitale naturalizzato

Io abito in rete, questo voglio dire. E anche se non sono un nativo, ma un cosiddetto immigrato, ormai sono un cittadino naturalizzato delle lande digitali, le ho costruite un po’ anch’io, ho fatto le battaglie per la Cultura digitale, eccetera.

Tutto questo perché ogni tot di tempo riemergono le discussioni sul significato e sulla portata dell’espressione “nativi digitali”, a partire dalla definizione iniziale di Prensky del 2001.
Anche se ho già fatto notare che l’espressione “immigranti” (e quindi “nativi”, per correlazione immediata) sia presente nella Dichiarazione d’indipendenza del Cyberspazio di Barlow, del 1996.

Cercate nativi digitali su Google, io ne ho parlato qui e qui, per non dire di tutte le volte che ho lasciato interventi kilometrici sui blog altrui, soprattutto quelli che trattano di formazione scolastica o in generale di educazione alle nuove generazioni.

La mia idea era che sì, siamo immigrati, i nostri schemi mentali non si sono sviluppati a contatto con gli ipertesti, siamo fatti di libri che ci agitano dentro, siamo meno multitasking, attribuiamo intelligenza e profondità a argomentazioni ipotattiche e diffidiamo un po’ di chi ragiona per paratattiche e costruzioni grammaticali fatte di coordinate, anche se qualche filosofo ha detto che “la verità è in superficie” rimaniamo dubbiosi, l’idea che le cose importanti siano ben nascoste (una cosa rinascimentale-neoplatonica-alchemica, in fondo, come ripresa dei Misteri e della Gnosi) è sempre lì che orienta il nostro sguardo, in fondo non capiremo mai veramente la Cultura digitale, i nativi digitali sviluppano modalità cognitive che non ci apparterranno mai, nessuno abita territori e tutti abitiamo linguaggi (vero) e loro abitano appunto altri linguaggi, lo scarto generazionale è incolmabile, i barbari ci seppelliranno, noi siamo tardivi digitali, siamo traghettatori della Cultura umana nei nuovi Luoghi di Abitanza digitale, siamo esploratori e forse abitanti nomadi ma non siamo i primi coloni stanziali dei nuovi Territori immateriali ecosistemici della Conoscenza, come formatori dobbiamo mediare in noi stessi la nostra inadeguatezza rispetto ai giovani e accordarci ai nuovi contesti educativi, e via andare.
Tutto vero, ma sono pensieri, guarda un po’, binari. O così o cosà, bianco e nero. Le semplificazioni dei pionieri, che han bisogno di capire rapidamente il mondo sennò vanno in confusione, quindi tranciano giudizi frettolosi, e per giunta sulla base di una cultura inadatta a comprendere i nuovi fenomeni.

Ora, io sono nato nel 1967. Al momento, e spero per molto tempo ancora ma dubito, ho 42 anni.
Da bambino vedevo arrivare la tv a colori e la radio FM, avevo una macchina fotografica e una cinepresa in super8 per le mani, mi spiegavano il telex, giocavo a videogames nei bar con Asteroid e PacMan, smontavo oggetti tecnologici fatti di cose elettrotecniche o elettroniche, compravo riviste di elettronica con il kit faidate per costruire allarmi sonori, ragazzino rubavo manciate di led rossi nelle fiere dell’elettronica per costruire impianti di “luci psichedeliche” fatti stagnando condensatori a un filo elettrico collegato all’altoparlante della radiolina, i miei amici avevano lo ZX Spectrum o l’Amiga nei primi Ottanta con cui programmavamo in Basic un gioco della bottiglia che assomigliava tantissimo alla schermata dell’ora esatta in TV, il manuale delle GiovaniMarmotte mi insegnava a scrivere in codice Morse o a costruire una antenna, usavo registratori a quattro piste e facevo i radiogiornali con le colonne sonore, a quattordici anni insieme al rock settantone mi son beccato tutto il synthpop dritto nei neuroni, a diciassette anni smanettavo gli oscillatori del mio defunto synth Poly800 e batterie elettroniche, per ballare da 25 anni preferisco la musica elettronica, ho fatto cose su un palco usando campionatori, sono cresciuto con narrativa o telefilm di fantascienza dove dispositivi elettronici da SHADO a Neuromancer a Avatar sono ubiqui, chattavo con il Videotel nei primi Novanta e guardavo le BBS degli amici informatici, ho imparato a usare il PC per scrivere e giocare, ho un cellulare dal 1998, eccetera eccetera.
Ho 42 anni, credo di essere la “soglia alta”, tutti i miei coetanei e tutti quelli più giovani sono come me cresciuti immersi in un ambiente elettronico, poco da fare. Ci siamo cresciuti dentro.

Non è che per capire la Cultura digitale devo cadere per forza nelle categorie di nativo o di immigrato, che sia chiaro sono uno spartiacque temporale, fondato sull’essere nati prima o dopo il 1990, ma poi perdono significato se indagate secondo le competenze digitali individualmente possedute, nel nostro essere cognitivamente o antropologicamente orientati all’abitare qui dentro.
Internet l’han fatto dei vecchiacci come noi, i giovani ci abitano con modalità loro, i loro figli muteranno ancora il senso dell’abitare indifferentemente in Luoghi biodigitali.

Lo scopo finale dell’educazione è formare cittadini, proattivi attenti critici e consapevoli. E chiaramente penso anche alla Cittadinanza digitale. E i nativi digitali devono essere formati da persone che devono avere anche competenze di cittadinanza digitale nel loro bagaglio culturale, altrimenti non funziona. Non possono insegnare a sé stessi da soli, i ragazzi, come comportarsi nel mondo. Né è ammissibile che gli insegnanti tralascino questo aspetto, molte volte ne ho parlato, perché non si possono tralasciare nell’educazione quegli aspetti di orientamento al mondo concreto dove le giovani generazioni si trovano già a vivere, un mondo fatto di comunicazione istantanea come mai si è visto prima.

E in ogni caso per noi tardivi digitali le cose non vanno viste come se ci fosse stato un BigBang, un evento che pone il prima e il dopo, i nativi e gli immigrati. Io sono cresciuto dentro un mondo elettronico, non ho avuto nessuna difficoltà da bambino a capire il telecomando della televisione o il telex, ragionare con un computer o un videogioco non mi ha creato nessun problema, ero pronto a farlo, mi è venuto naturale, perché evidentemente già abitavo dentro quel linguaggio fatto di display e di sensori e di interfacce e di joystick.

Siamo Cittadini Digitali naturalizzati. E come formatore non è che mi sveglio una mattina e vado nel panico, perché d’un tratto ho compreso una mia ontologica inadeguatezza a insegnare la vita a persone che sono nate con il mouse in mano e l’occhio su YouTube. Sono pronto.
Il compito rimane comunque quello di educare i giovani, educare i nativi digitali alla Cittadinanza digitale, che non è certo in loro nativa. E’ sufficiente ragionare sulle differenze tra alfabetizzazione informatica e competenza digitale, per comprendere l’intero discorso. E’ sufficiente muovere da basi di competenza digitale (privacy, reputazione, rispetto, ascolto, consapevolezza) per arrivare alla Cittadinanza digitale correttamente intesa. Come dico sempre, un conto è il carburatore, un conto è il Codice della Strada.
Io conosco la tecnologia molto meglio degli studenti. Ci sono cresciuto dentro, ho frequentato le tecnologie vivendoci assieme tutta la mia vita, ci ho riflettuto sopra, ho compreso le dimensioni tecnosociali, ho costruito il web, come il solito nano sulle spalle degli altri ho contribuito a delineare alcune norme di buon comportamento civico, continuo a imparare, so insegnare Cultura digitale, so raccontare il mondo, vivo la modernità e la mia performance.
Non sono un immigrato, sono un cittadino digitale, e abito molti linguaggi.

Due note sul diario

L’ultima cattiva notizia del 2009 è che con il Milleproroghe hanno allungato per un altro anno il decreto Pisanu, quello del wifi inchiavardato che abbiamo in italia. Certo, è imbarazzante scegliere una cattiva notizia nel mucchio, e sì, c’è gente che lavora il 31 dicembre in Parlamento.

Ne parlammo in molti una cinquantina di giorni fa, Gilioli pubblicandola sull’Espresso ne diede investitura mainstream, di quella Carta per il libero wifi firmata da cento persone, tra cui me medesimo. Non se ne fa nulla, per ora. Figuriamoci.

Maistrello per primo ha dato notizia della proroga, e poi se volete cercate altri commenti da Scorza, da DeBiase, oppure in giro sulle news.

La prima buona notizia del 2010 invece non è una notizia, è un buon umore. Mi riferisco all’oramai canonico punto della situazione redatto da Giuseppe Granieri, su Apogeonline, dove l’autore prova a gettare uno sguardo in prospettiva su quello che potrebbe accadere in questo nuovo anno, sulla scorta di quello che abbiamo visto succedere nei dodici mesi appena trascorsi, tra Facebook, telefonini connessi e risvolti sociopolitici.
E l’articolo è simpatico, perché punta dritto alla delineazione degli evidenti cambiamenti sociali avvenuti in italia e nel mondo, nei massmedia e nei bar, riguardo i punti di non-ritorno raggiunti nell’opinione pubblica e nei discorsi popolari dalle cose della Rete, visto che ormai Internet nutre con le proprie tematiche tutta la conversazione di una nazione, infilandosi perfino nelle parole di chi il web non l’ha mai visto, come i novantenni in casa di riposo e i politici in Parlamento.

Granieri è ottimista, ma non è certo ingenuo. Segnala adeguatamente le magagne del 2009, ma poi con belle parole ci fa ben sperare per il 2010. E mi ha messo di buon umore, appunto, nel confidare in un Mondo 2.0, connesso e sociale, maggiore di un Mondo 1.0, un po’ come dicevo qua sotto, ma meglio.

2010 – L’anno del contatto

Abbiate fiducia, e occhi aperti.

Miglioreranno le tecnologie relazionali, dentro questi ambienti online e nella portabilità personale di tracce di affettività interpesonale, e proprio grazie a questo ci incontreremo di più, a bere e a mangiare e a ballare e a chiacchierare e a imparare gli uni dagli altri.

Negli ultimi dieci anni il web è diventato per prove ed errori quello che si riprometteva di essere fin dalla sua nascita, un Luogo esplicitamente sociale.
Fatti gli ambienti sociali, bisogna fare la socialità.

Molti devono imparare a dialogare, molti devono ancora comprendere che conversare significa donare senza impoverirsi, molti non si sono accorti di niente e pensano di vivere ancora nell’altro secolo, e spero che questi ultimi vadano serenamente quanto velocemente in pensione, per godersi un mondo che non capiscono.
La frase più comune del prossimo decennio sarà “Eh, ai miei tempi non era così che funzionavano le cose”, ed è importante appunto che questi vecchi dinosauri non abbiano nessun potere per imporre nuovamente agli individui e alle collettività rituali e comportamenti seppelliti dai recenti cambiamenti sociali.

Mi auguro che la Rete arrivi dappertutto rapidamente, in ogni angolo del pianeta, perché lo scambio di opinioni e la libertà di espressione sono l’arma migliore contro il fanatismo e l’ignoranza, e chi vuole il pensiero unico potrà controllare i flussi televisivi – e i giornalisti tornino a fare seriamente il loro mestiere – ma non potrà fermare le voci che innumerevoli si sentono risuonare ovunque.
E cambierà tutto, qui in giro. Giornali, scuole, industrie, meccanismi politici, e la forma delle istituzioni, e gli ammenicoli che abbiamo per le tasche o in giro per casa, le forme economiche, l’agricoltura, il nostro corpo bionico, e tutto cambierà così velocemente che il libro di fantascienza che stiamo leggendo sarà sorpassato mentre lo leggiamo. E non vedo l’ora.

Per me, chiedo la forza e la passione di continuare a suonare la batteria e tutte le altre cosette, e non importa nemmeno poi fare musica, ma solo suonare con altri e per altri, sentendo scorrere emozioni e sintonia. Risuonare il mondo, e raccontarlo in molti linguaggi diversi.

Rimboccarsi le maniche per il clima

Questo articolo di Sergio Maistrello su Filtr prova a fare il punto sulle politiche mondiali riguardo il clima, e dinanzi alla delusione per la lentezza degli accordi internazionali suggerisce di insistere con le iniziative virtuose, individuali o comunque locali.
Quello che fa ognuno di noi, nel suo piccolo, moltiplicato per tante altre “piccole” ottime pratiche potrebbe introdurre quell’efficienza e quell’efficacia nel sistema dell’economia sostenibile che i grandi politici benché bendisposti faticano a promuovere per via legislativa.

E anche l’obiettivo europeo del 20-20-20 per il 2020 sembra allontanarsi.

Oltre la delusione per Copenhagen
Stati Uniti e Cina fanno perdere altro tempo al mondo sul riscaldamento globale. Tocca ripartire dalle persone
di Sergio Maistrello

È più utile, in una prospettiva globale di lungo periodo, investire sul dialogo tra Occidente e Cina oppure trovare un accordo che porti in tempi ragionevoli all’abbattimento delle emissioni di anidride carbonica nei paesi industrializzati? All’equilibrio geopolitico di fine decennio serve più una cambiale di Pechino sul tavolo di Washington o l’avviare una volta per tutte il processo di riconversione dell’economia mondiale verso la sostenibilità di lungo termine?
Certo è che il fallimento, a questo punto probabile e addirittura preventivo, del vertice di Copenhagen si infila in una lunga serie di occasioni mancate dal Protocollo di Kyoto (1997) in poi, marcando un distacco sempre più evidente tra le tensioni politiche ideali e l’opportunismo della realtà.
Sembra sempre più evidente che non saranno le grandi nazioni civilizzate i soggetti in grado di imprimere una svolta decisiva nel rendere questo pianeta un luogo più civile ed equo.
Ed è un peccato perché le popolazioni sembrano paradossalmente più reattive dei loro governanti, in questo senso. Così viene da pensare che se un cambiamento profondo ci sarà, non sarà imposto dall’alto, ma emergerà dalle pratiche virtuose dal basso.
Oggi più che mai quanti si dichiareranno delusi dal veto cinese e americano hanno un’alternativa più costruttiva del limitarsi a protestare: modificare i propri comportamenti e l’impatto ambientale delle proprie scelte di vita e dare l’esempio al vicini. Vediamo chi arriva prima al risultato.

Coltivate voi stessi

Giovanardi è un ignorante, e nessuno dovrebbe voler un ignorante al governo di una nazione.

Dicendo “nessuno” ragiono di sopra o sotto la linea dell’intelligenza, quel tuo essere capace di intendere e volere che ti permette di andare a votare, non di destra e sinistra di una linea politica.

Cinquant’anni di studi e di ricerche sulle ragioni sociali, affettive, familiari, psicologiche ed economiche che portano alla tossicodipendenza buttati via in un secondo, con una superficialità agghiacciante. Ma come si fa a dire una sciocchezza simile nel 2009? E come si fa ad accettare che un ignorante del genere stia al governo per occuparsi di questo tema?
da Gilioli

Felicità sostenibile

Leggo questo libro, e mi accorgo di come dentro di me vivano schemi interpretativi, gerarchie di valori, meccanismi “automatici” di attribuzione di senso, su cui poi poggiano ipotesi sul funzionamento economico delle società assolutamente non tarate sulla realtà dei fatti.

La visione culturale che l’Occidente ha di se stesso, il macro-codice (non-detto, non narrativizzato) attraverso cui poi interpreta il proprio abitare sul pianeta e la relazioni con le altre culture e con l’ambiente abita da un paio di generazioni almeno dentro una colossale fiction di tipo cinetelevisivo, la stessa in cui i polli crescono direttamente nei supermercati.
Al punto che se qualcosa qui va storto, e vista l’aleatorietà del nostro attuale sistema economico basterebbe il giusto sassolino nel giusto ingranaggio, lo scenario che mi viene in mente è quello de “I sopravvissuti“, quella serie televisiva inglese della fine degli anni Settanta.

Io decrescito.

I Paesi in cui il reddito pro capite è inferiore ai due dollari al giorno sono i Paesi non industrializzati, a cui i Paesi industrializzati tolgono il necessario per alimentare il superfluo delle loro economie che sono obbligate a crescere per evitare di entrare in una fase di recessione. Considerarli poveri perché il loro reddito pro capite è inferiore a due dollari al giorno è una forma di colonialismo culturale e, in ultima analisi, di razzismo. Significa ritenere che le società fondate sulla crescita della produzione di merci sono superiori alle società in cui l’autoproduzione di beni continua ad avere un ruolo determinante. Significa credere che il modo in cui in queste società si soddisfano i bisogni essenziali è il modo migliore per farlo, tanto da diventare la misura a cui rapportare tutte le altre. Con due dollari al giorno si è poveri soltanto se si deve comprare tutto ciò che serve per vivere. Ma se la maggior parte dei beni si autoproduce, due dollari al giorno possono essere sufficienti a comprare ciò che non si riesce, non si può, non si sa, non conviene autoprodurre.
Maurizio Pallante, La felicità sostenibile, pg. 58.

Il contrappasso mediatico di Sua Emittenza

Ecco cosa succederà! Questa blob informe della Sinistra italiana, ma spero tutti noi italiani amanti della verità, capiremo che l’idea che Berlusconi debba essere frontalmente messo a pubblico giudizio per il modo di condurre le attività imprenditoriali prima e per le leggi disinvoltamente da lui fatte approvare sulla sua stessa persona poi è esattamente la cosa da tradurre in pratica.
Senza perder tempo con la fuffa che ci sta intorno, al Fenomeno.
Fuffa che peraltro in altri paesi democratici porterebbe all’impeachment (quindi a processarlo), oppure muoverebbe dei capi di governo, ancora in possesso di una dignità personale, a farsi processare e a mettersi da parte.

Gli italiani vogliono sapere cosa pensa l’italia di Berlusconi, obiettivamente.
Ma questo deve essere frutto di una profonda presa di coscienza della collettività italiana, di tutti quelli che in testa riescono a concepire il pensiero di nazione – senza alcun retrogusto, questa parola, da intendere semplicemente come la forma di collettività che pensano questi italiani contemporanei quando pensano sé stessi come un tutto.

E allora chi ha a cuore la dignità dell’Italia, e qui lo scrivo maiuscolo perché è la mia idea di Italia e non la sua, dovrebbe riuscire a suscitare – magari andando in milioni intorno alle sedi rai, ma dico 15milioni di persone, ché non credo simile comportamento della società possa essere promosso dalle Istituzioni, in quanto esse stesse impegnate a difendersi – a produrre dicevo un colossale giudizio pubblico di tutti noi cittadini su Berlusconi, come una gigantesca nomination di un reality, realizzata per via mediatica prima e concretamente poi, votando. Su tutti i media italiani, e poi nei seggi. Tipo quando abbiam detto monarchia sì o no.
Un evento epocale, collettivo, per toglierlo di lì.

Innanzitutto si rendono gli italiani edotti sul contendere, sottolineando le malefatte del nostro personaggio villain, ed è sufficiente vedere cosa dice wikipedia nel riportare le tappe dell’ascesa, oppure gli elenchi delle sentenze giudiziarie dei processi, poi i vari lodi, spesso descritti in passato anche da giornalisti riconosciuti onesti nella loro visione, ancorati ai fatti, con ragionamenti su cui tutti possono concordare, tranne i fanatici. Tutte informazioni molto concrete, non opinabili.

Ebbene, la tv pubblica, i quotidiani tutti, i siti istituzionali governativi dovrebbero presentare agli italiani tutta la vita di Berlusconi, e dico letteralmente, senza parlare praticamente di altro, per dieci giorni e dieci notti, ripetendo continuamente a vari livelli discorsivi secondo comprensibilità e complessità le sue manovre negli ultimi quarant’anni, di modo che sia possibile fare chiarezza, e che a tutti sia chiaro chi è B. e cosa ha fatto in vita sua. Mostrare i fatti, nudi e crudi, e togliere la fuffa.

Se uno al bar dice “sì, ma forse lui…” gli si mostra subito la foto, un discorso scritto, il documentario, lo spezzone di un tg, il testo di una legge, insomma il documento stick-to-the-fact in cui il suo argomento oppositivo viene smentito.

Si organizza una costruzione collaborativa di una linea editoriale, tanto la linea registica da seguire è mostrare semplicemente i fatti della vita di una persona, e bisogna riuscire a pubblicare un racconto pulito, asciutto, concreto, anche asettico se serve, da parte di tutti i media italiani. Tutti i direttori dei quotidiani d’italia, e quelli delle televisioni, tutti insieme, e si stabilisce la linea per descrivere il Premier. E giornalisti e osservatori stranieri.
Ho ancora fiducia che si possa acclarare pubblicamente cosa sia una fatto reale, e distinguerlo da opinioni e dietrologie e drammi a tesi.

Tutti i media mostrano continuamente cose che parlino di lui, come sequenza ininterrotta di informazioni senza coloriture.
Tipicamente, voglio vedere la sua faccia su tanti televisori dentro le vetrine dei negozi, come in un filmone di una volta, e manifesti per strada che rechino scritta una qualsiasi delle sentenze pronunciate contro di lui, prese proprio da wikipedia.

Voglio che alla tv al posto degli spot pubblicitari, per dieci giorni, vengano fatti passare dei servizi giornalistici dove vengono ripetuti i capi d’accusa e la sentenza completa, viene illustrata la conseguenza delle sue leggi nel voler legittimamente procedere contro di lui.
Ogni pagina web editoriale dovrebbe pubblicare in home in alto un fatto random della berlusconeide, e parlare poi d’altro, dei rituali d’amore della coccinella peruviana.
I blog e i luoghi personali o riportano fatti, o tacciono. Sapere come la pensiamo tutti è più importante di sapere cosa ne pensa tizio o caio, per pochi giorni.
Se qualcuno sgarra, e crea un contenuto mediatico sbilanciato di qua o di là, tutti lo segnaliamo, e viene oscurato il sito o interrotta la pubblicazione per i giorni che mancano ai dieci da fare.
Chi sgarra è uno che vuole intorbidare le acque, che devono restare limpide per la formazione della coscienza, per una nascita di un’opinione pubblica.
La comunità internazionale ci controlla.

Dopo dieci giorni, lo avete capito, si vota. E si vota pubblicamente, con nome e cognome. E votano tutti, perché quelli che non vanno a votare o votano “mi va bene Berlusconi, anche se so che è antidemocratico, corruttore e mentitore” verrebbero subito visti e da tutti additati come persone che non attribuiscono i giusti significati nemmeno all’evidenza dei fatti, quindi o stupidi o persone interessate a negare la realtà, per una loro convenienza ben poco dignitosa.

E questa cosa dovrebbe essere detta di loro in ogni occasione pubblica, che sono esseri meschini.
Con segno di riconoscimento addosso, certo. Con un cartello sulla loro porta di casa, con un RFID nei loro vestiti. Ad esempio, obbligarli a tenere aperto un bluetooth che ti dà l’informazione sulla loro bassezza morale, o mettere un sottopancia quando passano in televisione o sul giornale o camminano per strada, così da sapere sempre che ho a che fare con gente che senza pudore nega la realtà, e che sostenendo una persona antidemocratica eccetera sono imputabili di eversione e apologia di reato. Lo farei per gli stupratori, per i pedofili, che han compiuto reati contro la persona, lo farei con quelli che dichiarano di voler agire contro la collettività, chi in questo caso avesse in sé lo squallore intellettuale ed etico di non voler considerare i fatti nel formulare il suo giudizio.
Una persona così non merita di essere ascoltata, nel suo parlare di come dovrebbero andare le cose. Non può parlare per gli altri, non può stabilire niente che mi riguardi, non la tengo in considerazione, non è un parlante ratificato nella conversazione civica.
Gogna, ma veramente pubblica, non da un potere centrale imposta, ma progettata e praticata collettivamente da tutti, nel segnalare subito (con un click, o chiamando i Vigili) chi esprime e propala una narrazione about berlusconi non conforme allo stile strettamente informativo. Per dieci giorni.

Poi tutta l’italia va a votare se vuole che quest’uomo del biscione abbia potere sull’identità pubblica e sui comportamenti istituzionali.

Perché, e qui sta il cuore del problema, io credo che qualunque italiano dinanzi ai fatti sia in grado di formarsi una propria rappresentazione della situazione, ma i fatti devono essere assolutamente neutri, come il tono di voce di Mike Bongiorno nel porgere la domanda a Rischiatutto.
Sarò ingenuo, ma fiducioso. E non credo che Berlusconi meriti una guerra civile.
Ho fiducia nel fatto che chiunque, indipendentemente dal proprio livello culturale e dalle proprie idee politiche, sappia comprendere i crudi fatti della realtà, e manifesti la propria volontà di abitare in uno Stato democratico.

E Berlusconi vedrete dovrà dimettersi da ogni carica pubblica, accettare di vedersi limato l’impero mediatico, vivere serenamente il suo futuro da imprenditore o da nonno, quietare la propria ambizione.
Se gli italiani si esprimono invece a favore di chi gioca barando, allora o sono stupidi o sono antidemocratici, e in entrambi i casi voglio in italia un commissariamento dell’Onu.

Identità digitale, socialità in rete, progettazione di ambienti

L’aula scolastica è l’ambiente dove ha luogo la situazione sociale di apprendimento, e non è un luogo neutro. L’arredamento, la disponibilità di supporti alla didattica, perfino il colore diverso della tinteggiatura delle pareti potrebbe modificare nei partecipanti la percezione dei flussi comunicativi gruppali tramite cui avviene apprendimento. Facebook non è uno strumento, è un ambiente. Non è certamente neutro, non è trasparente, e non è il più indicato per attività didattiche. Non è nemmeno un luogo democratico. Quale messaggio di educazione alla cittadinanza digitale ‘passerebbe’ agli allievi? Dov’è la capacità critica degli insegnanti, nel valutare innanzitutto gli stessi (oggetti, parole, libri, strumenti, situazioni, ambienti) supporti alla conoscenza?

Ok, dopo aver reiterato i miei dubbi per le attività didattiche che certi insegnanti (persone che sono arrivate in Rete ieri, evidentemente, e si comportano come bambini in un negozio di giocattoli) svolgono dentro Facebook, procedo con una di quelle liste di segnalazioni che talvolta metto giù per prendermi degli appunti.

Avete presente quando si dice che il web è un posto caldo, fatto di relazioni? Ne parlava il buon Livraghi anni e anni fa. Beh, siccome il web moderno è definito social web, ecco che un tot di sociologi e antropologi e social designer e media strategist e narratologi specializzati nelle dinamiche affettive delle conversazioni e delle strategie identitarie dei gruppi (ehm) stanno provando a individuare le peculiarità delle nuove forme di socialità su web.
Ad esempio, visto che il passaparola è fondamentale per l’evoluzione della specie umana, quando mi serve qualcosa a chi posso chiedere? Ecco uno schemino per una esplicitazione delle competenze digitali secondo una sorta di prossemica sociale.

L’altro giorno dovevo augurare buon compleanno a un tipo. La domanda era: dove? Si tratta di una mia conoscenza di tipo professionale, ma abbiamo condiviso anche momenti informali con buon feeling interpersonale. Telefonargli a casa, telefonargli al cellulare, sms, facebook, altri social network, strumenti di lifestreaming tipo Friendfeed, mail? In occasione dei rituali più strutturati, la competenza sulla scelta del mezzo e sul tono da tenere risulta decisiva, perché in quei casi la situazione comunicativa dice ben più del messaggio stesso. Non è importante cosa si dice agli sposi o a un funerale, le frasi sono sempre quelle, assai più importante è compredere la grammatica dei tempi e dei modi, per evitare gaffe. Codici, sissignori. Possedere i codici interpretativi della circostanza e delle aspettative altrui, secondo cultura di appartenenza.
Nel caso di ambienti online, queste diventano appunto competenze digitali, che non c’entrano nulla con l’alfabetizzazione informatica, tanto quanto – vecchio parallelo – saper come funziona un motore quattrotempi o come si cambiano le marce (cultura tecnologica, consapevolezza dell’interfaccia) in un’automobile ha poco a che fare con il sapersi comportare in autostrada.
Nel mio caso personale, dovendo anche per lavoro portare in superficie queste grammatiche di socialità digitale inespresse che molti di noi dopo molti anni in rete possiedono senza saperlo, sono riuscito ad appoggiarmi a dei ragionamenti per stabilire quale fosse il giusto media da utilizzare.
Per rifarmi al caso degli insegnanti sopraespresso, non sono sicuro della loro capacità di far chiarezza in se stessi rispetto all’adeguatezza degli ambienti di socialnetworking, soprattutto in relazione alla specificità della didattica e dell’organizzazione scolastica.

Piercesare Rivoltella offre sempre riflessioni interessanti: qui su Medialog ragiona su autonomia e narrazione, in occasione di un seminario dedicato a “Media, storia, cittadinanza”. In particolare, Rivoltella organizza il suo pensiero sulle forme della socialità digitale intorno a tre coppie di termini: sfera pubblica / sfera privata, apprendimento insegnato / apprendimento non insegnato, autonomia / eteronomia.
Sempre su Medialog, in aprile, un bel post provava a “riflettere sulla necessità di dare risposte da parte della scuola agli aspetti che riguardano l’uso sociale dei nuovi media. Tra i tanti, l’economia dell’attenzione che essi comportano (diversa da quella implicata dalel forme più convenzionali di comunicazione) e la pluricollocazione nello spazio e nel tempo dei soggetti”. Interrogandosi sul rapporto esistente nuovi media, educazione e cittadinanza, Rivoltella descrive tre cornici: il frame alfabetico; il frame critico; il frame autoriale. Tre approcci differenti (ma da intendersi forse come sfaccettature della stessa realtà) da tenere in considerazione per una scuola che intenda far ragionare le nuove generazioni sulla partecipazione alle forme di cittadinanza digitale, che va da sé non può essere disgiunta da una seria Media Education.

Ragionando di identità personale, ecco un articolo di Luciano Floridi da “Philosophy of information”

“Who are you online?” is a question with enormous practical implications, and yet, crucially, individuals as well as groups seem to lack a clear, conceptual understanding of who they are in the infosphere and what it means to be an ethically responsible informational agent online.

Qui trovate invece qualcosa per ragionare di integrazione tra network di sensori e network sociali, per meglio provvedere informazioni di contesto. Stiamo già parlando di socialità dentro la Internet delle cose (vedi anche qui e qui per argomenti attinenti).

La Microsoft ci racconta dell’utilizzo di tecnologia per i mercati emergenti: “The research in this group consists of both technical and social-science research. We do work in the areas of ethnography, sociology, political science, and economics, all of which help understand the social context of technology, and we also do technical research in hardware and software to devise solutions that are designed for emerging and underserved markets, both in rural and urban environments.”
Ad esempio, coinvolgere agricoltori in progetti di educazione informale alle tecniche di coltivazione mediante l’utilizzo di video digitale; usare interfacce utente di tipo non testuale, per popolazioni non alfabetizzate, elaborando con supporto di studi etnografici alcuni principi per il design; studiare pc multi-utente; creare reti sociali tra microimprese; avviare interventi di miglioramento in campo sanitario, supportati da utilizzi avanzati di tecnologia a basso costo.

Molte delle riflessioni riguardano la centralità di una progettazione (delle reti informatiche, delle interfacce, dei luoghi di comunicazione pubblica per imprese o pubbliche amministrazioni, delle organizzazioni lavorative, delle architetture di informazioni) che sia in grado di porre l’utente al centro dell’approccio speculativo. Anzi, qui non si tratta più di progettare l’interazione con l’utente, ma proprio di ragionare sulla progettazione dell’esperienza dell’utente, quella che in gergo viene detta UX, ovvero User Experience, l’nsieme dato dalle componenti cognitive e patemiche nella “convergenza tra design digitale e industrial design, tra hardware e software, tra applicazioni e servizi, che a volte sfocia perfino nella progettazione degli spazi (interni ed esterni) in cui l’esperienza avviene. In questo caso la sfida più grossa è quella della multicanalità e della multidimensionalità dell’esperienza, e di quelle che Joel Grossman chiama “esperienze ponte”. Tutto questo lo trovate su questa pagina di UXmagazine.

Cosa vuol dire progettare l’esperienza utente? Ci sono tante risposte. Storicamente è un’attività strettamente connessa allo User Centered Design, da cui ha tratto filosofia di base, metodi e strumenti. Qualcuno la definisce mettendo insieme le competenze o gli ambiti disciplinari che concorrono al progetto (Steve Psomas), oppure elencando cosa non è. Qualche anno fa Peter Morville propose un modello con sette facce che descrivono le qualità dell’esperienza utente . Più recentemente Nathan Shredroff ha proposto un modello simile basato su sei dimensioni.

In realtà, in tempo di socialnetwork, qualcuno sta giustamente pensando di passare da un “user-centered experience design” a un “group-centered experience design”, proprio perché appare sempre più chiaro (per via dell’emergere alla visibilità di questi processi finora immersi nella complessità, grazie ai socialcosi) che le linee dei comportamenti sociali digitali – il marketing virale, la diffusione dei memi, i meccanismi del passaparola, la status-sfera, la folksonomia degli oggetti culturali di qualità, le reti relazionali umane – dipendono dalle dinamiche dei gruppi online, dalla loro capacità di essere organizzatori di senso, o banalmente trend-setter, in grado poi di connotare con la loro sanzione esplicita, positiva o negativa, una configurazione riconoscibile delle conversazioni online con una veste di “accettabilità” o di “novità” o di “sei out se non sai/fai questo o quello”. Per dire, il meccanismo in Facebook è riconoscibilissimo, nella circolazione delle appartenenze ai gruppi e nei dispositivi di condivisione delle informazioni, anche se viene persa la significatività specifica a causa del calderone in cui tutto viene riversato, della cornice onnivora che vampirizza il senso delle singole discussioni, livellandole verso il basso (il famoso cazzeggio).

Qui su Ibridazioni (ne parla anche con buoni esempi Alberto Mucignat) c’è una proposta di riflessione (un bel documento da scaricare) sulla progettazione basata sull’esperienza gruppale, a partire da un design di tipo motivazionale, fondato quindi sugli utenti e non sulle piattaforme, ad esempio per avviare ambienti sociali per le organizzazioni lavorative:

La nostra proposta metodologica si fonda su quattro concetti chiave:
1. Bisogni Funzionali: gli obiettivi di progettazione rivisti in chiave di necessità.
2. Usabilità Sociale: l’usabilità rivista in dinamica sociale (partendo dalla definizione di Nielsen).
3. Motivazioni Relazionali: il concetto di motivazione rivisto in chiave relazionale (one-to-one e sociale).
4. Flusso di Attività Circadiano: ovvero le attività abituali delle persone durante la giornata.

Fra queste, le componenti caratterizzanti sono, come intuibile, Usabilità Sociale e ancora più Motivazioni Relazionali. La prima definisce quattro proprietà RICE: Relazioni interpersonali, Identità, Comunicazione ed Emergenza dei gruppi, mentre la seconda quattro motivazioni CECA: Competizione, Eccellenza, Curiosità, Appartenenza.

Il Design Motivazionale si applica sia ai Sistemi a Social Newtwork presenti nel Web che alle Intranet e Community Aziendali che vogliono sfruttare le nuove prassi collaborative che si sono evolute nel Web 2.0 (l’ormai nota Enterprise 2.0).

I ragionamenti sulla condivisione della conoscenza nelle organizzazioni aziendali (Enterprise 2.0) sono certo fondamentali, ne parla anche RobinGood qui, dove la Torre (gerarchia e verticalità) incontra la Nuvola del bottom up e delle relazioni orizzontali.

Putting People First riporta l’attenzione sul service design, grazie alla segnalazione di un articolo scientifico di Daniela Sangiorgi, dove si prova a ristabilire una prospettiva basata sulla considerazione dell’interfaccia (da intendere come l’intera situazione dove l’esperienza ha luogo), rispetto ai “prodotti” di un’attività di design, nella definizione di servizi, dove soggetti azioni norme ruoli e artefatti vanno tutti considerati senza troppo spezzettare lo sguardo, per una comprensione più ampia dei fenomeni, e soprattutto in ottica groupware.

Alla base di molti approcci scientifici recenti allo studio delle socialità in Rete e della human-computer interaction (qui il link per il blog di Luca Chittaro – direttore dell’HCI Lab dell’Università di Udine – su Nova100 ilSole24ore, vi è indubbiamente quella che viene definita “Activity theory” (vedi Wikipedia)

Activity theory is a psychological meta-theory, paradigm, or framework, with its roots in the Soviet psychologist Vygotsky’s cultural-historical psychology. Its founders were Alexei N. Leont’ev (1903-1979), and Sergei Rubinshtein (1889-1960) who sought to understand human activities as complex, socially situated phenomena and go beyond paradigms of psychoanalysis and behaviorism. It became one of the major psychological approaches in the former USSR, being widely used in both theoretical and applied psychology, in areas such as education, training, ergonomics, and work psychology [1]. Activity theory theorizes that when individuals engage and interact with their environment, production of tools results. These tools are “exteriorized” forms of mental processes, and as these mental processes are manifested in tools, they become more readily accessible and communicable to other people, thereafter becoming useful for social interaction.

Ora metto un paio di fotografie. Si tratta di anziani in casa di riposo che usano la Wii Nintendo.
Ne trovate altre qui: occhio che è un sito che contiene anche robe pornelle :)

Venezia 2.1 secolo

Ogni essere animale o vegetale rappresenta una parola viva nel dialogo tra codice genetico e ambiente. Una parola di cui aver cura, perché veicola un significato unico e originale, esito tangibile di una selezione darwiniana da leggersi nella profondità delle generazioni. Un essere vivente, guarda caso, è perfettamente adatto a interagire con la propria circostanza vitale, nella propria nicchia ecologica.

In modo simile, anche i linguaggi umani sono sommamente preziosi, avendo ciascuno la capacità di nominare il mondo in modo unico e originale. Un termine linguistico fiorisce perché una comunità di parlanti ritiene utile la sua esistenza per poter comunicare.

Poi le specie viventi muoiono o si trasformano, e così le parole.
Se cambia l’ambiente di vita, e nella popolazione non è già presente la giusta mutazione genetica capace di “incastrarsi” con le nuove condizioni esterne, gli organismi si estinguono.
Se oggi la parola “glauco” non esiste più, è perché non vi è più la necessità sociale di pertinentizzare un colore che sta a metà tra il celestino e il verde e il grigio acciaio, che i Latini vedevano e noi non vediamo più. Il mare oggi ha altri colori, evidentemente, negli occhi di chi lo guarda, nelle parole con cui lo si pensa.

Anche gli artefatti, le “parole pronunciate” della tecnologia, possiedono nella propria forma determinate caratteristiche storiche che ci rendono capaci di ricondurre la loro progettazione e realizzazione a tempi e luoghi ben precisi, soprattutto nel caso di utensìli appartenenti alla Cultura Tecnologica agricolo-artigianale, slegati dalle logiche della produzione industriale seriale e della distribuzione planetaria.
Arnesi e strumenti sono nati in contesti d’uso specifici, sono anch’essi frutto di una negoziazione tra l’urgenza di risolvere un problema pratico, i modelli di pensiero dell’ideazione posseduti da una data collettività, e la realtà fisica materiale su cui dovranno intervenire. L’aratro o un coltello per desquamare un pesce, oppure la tecnologia della concia delle pelli e quella dei rivestimenti murari sono apparsi indipendentemente in molte diverse zone del mondo in tempi diversi, dove a parità di funzione d’uso possiamo notare mille varianti realizzative, a seconda della diversa conoscenza di tecnologie trasformative delle materie prime, a seconda della durezza della terra da arare o del tipo di pesce da cucinare, a seconda del clima in cui quella collettività viveva. Gli artefatti parlano, CI parlano, parlano di noi e delle peculiarità ecosistemiche del nostro ambiente di vita, dell’inventiva dei nostri predecessori.

Specie viventi, parole o artefatti, il senso è sempre contestuale.

Guardate lo scalmo nella foto qui a fianco: i veneziani dovendo muoversi con quelle loro barche lunghe e strette in angusti canali naturali della laguna o artificiali come nella loro tutta tecnologica città, hanno dovuto prediligere una postura del vogatore particolare, che non richiedesse troppo spazio né in profondità né in larghezza alla remata, e permettesse di condurre l’imbarcazione stando in piedi.
Questo ovviamente è stato reso possibile dall’evoluzione dello scalmo in un supporto del remo elaborato, unico e originale e solo veneziano, che rendesse praticabile la particolare vogata del gondoliere, per come la conosciamo oggi.
C’è tutto il mondo dentro e dietro quello scalmo, c’è l’intelligenza dei maestri d’ascia nel loro trattare il legno, c’è la comprensione delle necessità vogatorie, c’è una rappresentazione del contesto d’utilizzo, c’è un’estetica talmente connotata da far assurgere nel tempo quella postura e quel gesto del gondoliere a simbolo stesso della città, fino alle riproduzioni in plastica per i turisti.

Ora Venezia dopo mille anni di storia si accorge di essere moribonda. Venezia in quanto città esplicitamente voluta e tecnologicamente progettata, sorta in un ambiente inospitale fatto di sabbia e di paludi reso Luogo antropico dal fare delle generazioni. Una città costruita sopra milioni di pali di rovere infissi nel fango per sostenerne le fondamenta, dove l’intelligenza delle sue genti e dei suoi governanti ha compreso fin dal Cinquecento – dall’istituzione del Magistrato delle Acque – che la sua sopravvivenza fisica dipendeva dalla capacità di gestire con dighe e canali, ecosistemicamente, i flussi delle maree e delle acque di superficie dell’intera laguna e di ampie fasce dell’entroterra. Venezia resa ricca dall’intraprendenza dei suoi commercianti nel Duecento, capaci allora di scommettere sul futuro, resa illustre nei secoli dalla qualità dell’ambiente socioculturale cosmopolita che poteva offrire, ormai da molti anni sopravvive a sé stessa svolgendo attività amministrative e in ultimo turistiche.

Le sue stesse caratteristiche fisiche, ragione del suo successo storico, si sono rivelate inadeguate rispetto ad una economia di tipo industriale pesante, fatta di binari e di tralicci e di scarti tossici, e certamente gli insediamenti di industrie chimiche nell’immediato entroterra di Marghera non sono stati pensati con una logica ecosistemica, che tenesse in dovuta considerazione le difficoltà logistiche dei trasporti e degli approvvigionamenti di materie prime, l’effetto della pressione antropica, il delicato equilibrio ecologico della laguna veneta, ricamata di isole e canali come un merletto.
La secolare sapienza nella gestione del territorio è capitolata dinanzi all’impatto del pensiero industriale, indifferente e prevaricatore rispetto alle specificità del contesto di attuazione. Il dialogo tra collettività umana e ambiente di vita è diventato senza senso, come una gaffe o peggio come un delirio, dove le parole pronunciate non tengono conto del contesto di enunciazione.

Al mutare dell’ambiente di vita in direzione dell’economia industriale, cento anni fa, quell’essere vivente che è la città di Venezia non risultava più adeguato alle nuove esigenze, il supporto tecnologico (lo scalmo) dell’organizzazione territoriale insediativa e abitativa non risultava più adatto al movimento vitale (il remo) della produzione di beni e degli scambi commerciali, le parole pronunciate non riuscivano più a cadere coerentemente nella conversazione intrecciata con le altre collettività umane, se non in discorsi circoscritti come quello della fruizione turistica, abbandonando la modernità e l’innovazione, scegliendo la museizzazione come proprio destino e i turisti come noncuranti abitanti.

Oggi però assistiamo a un ulteriore cambiamento epocale, quello innescato a partire dagli anni Settanta dalle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione, dall’economia della miniaturizzazione o della smaterializzazione, dal pensiero post-industriale.
Venezia può tornare oggi a essere un centro vitale, fatto di imprese e di cittadini, perché nelle nuove forme di economia la distanza o l’agibilità geografica dei luoghi produttivi è molto meno rilevante, avendo soprattutto a che fare con il trasferimento di informazioni.
Non è più necessario stravolgere il territorio con artefatti macroscopici per adeguare il contesto della produzione alle necessità delle imprese. Anzi, la qualità stessa dell’ambiente lavorativo, a misura d’uomo e non di macchina, costituisce un fattore prezioso per la scelta degli insediamenti produttivi nel settore del terziario avanzato.

Ridisegnare Venezia per il Ventunesimo secolo, scommettendo sulla Cultura Digitale e sull’economia dell’immateriale, significa riuscire a tenere in considerazione l’ecosistema della conoscenza, significa riflettere sull’interazione vivificante tra web e territorio, significa promuovere le nuove forme di socialità in Rete e l’abitanza digitale.
Perché aver cura dei territori ormai indifferentemente fisici o digitali dove viviamo e lavoriamo è ciò che differenzia un cittadino, tale solo per il suo essere vincolato a diritti e doveri spesso percepiti come esterni e impersonali, rispetto a un Abitante affettivamente coinvolto nella promozione della qualità delle condizioni di vita, del proprio Ben-Stare in quanto astratto benessere finalmente declinato concretamente in un qui-e-ora.

Il coinvolgimento degli abitanti di Venezia, individui o gruppi formali, istituzioni e imprese, nei circuiti conversazionali resi oggi disponibili dalla Rete attraverso l’e-government e l’e-democracy, i blog urbani e le mappe georeferenziate della socialità e dei flussi vitali della produzione e del commercio, permetterà alla nuova identità che Venezia sente pulsare dentro di sé (come ri-orientamento della propria postura “esistenziale” e del proprio fare rispetto al mondo tecnosociale del Ventunesimo secolo) di emergere e di trovare una rappresentazione mediatica polivocale di sé costruita collettivamente da tutti gli attori sociali nella loro quotidiana riflessione e partecipazione alle dinamiche abitative della città, alle scelte politiche nel senso pieno ed etimologico della parola, fino all’apparire di un sentimento di appartenenza a una collettività e a un territorio biodigitale su cui poter abitare consapevolmente.

Per ragionare di tutto questo qualche giorno fa sono stato invitato dal vicesindaco di Venezia, Michele Vianello, a partecipare a una sorta di brainstorming su come impostare alcune iniziative culturali in grado di suggerire la nuova visione di Venezia in quanto città digitale, capace di coniugare l’innovazione con il proprio straordinario patrimonio culturale, dove già dal prossimo luglio i cittadini potranno usufruire di collegamenti wifi gratuiti su quasi tutto il centro storico.
Sono rimasto piacevolemente sorpreso dalla determinazione di Vianello nel proporre il cambiamento e l’innovazione come qualcosa di assolutamente necessario per la vitalità stessa della sua città, dalla sua personale cultura di cose digitali e del loro risvolto civico (potete trovare traccia delle “rivoluzioni” nella Pubblica Amministrazione veneziana consultando liberamente questo suo libriccino dedicato alla Cittadinaza digitale e all’Amministrare 2.0, Una scommessa da vincere).

Alla tavolarotonda hanno partecipato persone ben addentro alle dinamiche della Rete, professionalmente coinvolte e attente agli aspetti sociali e abitativi delle moderne tecnologie di comunicazione, e mi preme sottolineare come si sia instaurato rapidamente un buon clima di gruppo, fecondo di idee e propositivo rispetto alla progettazione di future iniziative (un convegno magari destrutturato e creativo da tenersi in settembre, la delineazione dei criteri di qualità delle reti civiche rese possibili dalla connettività diffusa, le connotazioni culturali su cui poggiare per la narrazione mediatica dell’identità cittadina) per la promozione di VeneziaDigitale.
Gigi Cogo ha approntato un wiki su cui poter continuare a riflettere e progettare, Massimo Mantellini, Sergio Maistrello, Roberto Scano, Luca De Biase hanno bloggato le loro impressioni sull’incontro, Alfonso Fuggetta, Marco Camisani Calzolari, Andrea Casadei e Lele Dainesi stanno scrivendo sul wiki.

La sfida è ardua, ma la conversazione è stimolante, e gli obiettivi prestigiosi. Credo mi divertirò.

Il contesto


Le persone

La mappa


Aver cura della rete

 

Se vedi la crisi, stai già meglio

Partendo dagli interessanti commenti di Alberto Cottica, risalgo fino a First Draft inseguendo Enzo Rullani e la sua visione sull’attuale crisi economica.

Liberismo o statalismo sono vecchie ricette per pensare il problema e cercare soluzioni, dice Rullani. Anzi, questi stessi concetti come le parole che li esprimono recano con sé una visione novecentesca, ancora lineare e industriale, poco adatta a società postindustriali: si tratta di letture ed interpretazioni della realtà poco sistemiche, non in grado di cogliere in modo più ampio l’intero orizzonte del cambiamento socioeconomico attuale, incapaci di prendere appieno in considerazione le conseguenze della globalizzazione e l’attenzione per i beni comuni.

Come superare la crisi economica

Vi proponiamo di seguito un estratto dell’articolo di Enzo Rullani sulla crisi economica.

C’è in giro una vulgata della crisi che la considera quasi una disgrazia venuta dal cielo, o il frutto di una serie di esagerazioni, imbrogli ed errori, a cui, oggi, occorre rimediare.[…] Di qui la domanda ricorrente: chi è la colpa di tutto questo? E la risposta, sbagliata ma non per questo meno convinta: degli altri, naturalmente. […] La verità è che la crisi non è dovuta ad errori fatti da liberisti o statalisti in buona fede, né da sabotatori dei due modelli infiltrati nel meccanismo. Ossia ad eventi che possono essere “curati” espellendo guasti e guastatori dalla fisiologia dei due modelli ideali che ancora una volta si contendono il campo. […]
Le cause vere sono altre. Possiamo dire che oggi la situazione è particolarmente “dura” perché mette insieme, in realtà, tre crisi in una:

  • una crisi di domanda da interdipendenza non governata, che ha sfasciato i rapporti tra domanda e offerta, portando a picco i valori attribuiti dai mercati agli assets materiali e immateriali di cui disponiamo (e che non sono spariti, anche se nessuno li vuole comprare, trascinando i prezzi verso lo zero);
  • una crisi da squilibri competitivi non facilmente aggiustabili, dovuta alla perdita della distanza che isolava in precedenza paesi dotati di costi del lavoro assolutamente inconfrontabili e che oggi invece fanno parte dello stesso villaggio globale. Mettendo in moto dinamiche competitive di grande portata, tali da portare stabilmente fuori equilibrio molti capitalismi nazionali (tra cui il nostro), bisognosi di un drammatico riposizionamento;
  • una crisi da insostenibilità, in tutti quei campi – e sono molti: ambiente energia, cibo, cultura, conoscenza sociale – in cui la crescita è andata avanti dritta per la sua strada, senza curarsi di rigenerare le sue premesse.

Come uscirne?
Bisogna da questo punto di vista far leva non su inesistenti “poteri ordinatori” o regole a scala globale (che forse verranno o forse no), ma sui legami che sono giù presenti e attivi a scala più limitata (Stati nazionali, sistemi locali, filiere, comunità, famiglie). […] Sul terreno della competitività, il rimedio da proporre fin da ora è che i paesi high cost si attrezzino per usare i loro redditi (più alti) per investire nella creazione di conoscenze originali e di reti di relazione esclusive, tali da compensare i differenziali negativi di costo del lavoro, rendendo “morbido” l’inseguimento tra paesi ricchi e paesi emergenti, che oggi rischia di trasformarsi in uno scontro cruento, per la sopravvivenza. Il made in Italy è destinato a soffrire più di altri la crisi di competitività. […]
Nessuno, infine, si è dato carico degli elementi dissipativi che erano impliciti nello sviluppo, nel momento in cui consumava beni comuni, quelli che gli anglosassoni chiamano commons: ambiente, risorse naturali, cultura, conoscenza sociale. Tutti beni che, non essendo presidiati da un proprietario privato ed essendo solo in parte coperti da una tutela pubblica, sono stati quasi sempre consumati dalla produzione senza che i beneficiari si dessero carico di ricostituirli. […]
Chi deve pensare a trasformare l’uso dissipativo di beni comuni in valorizzazione riflessiva degli stessi?
Questo è un grande interrogativo e un discrimine politico vero: altro che continuare la guerra dei cento anni, tra liberisti e statalisti. Pensiamo a questa nuova frontiera della riflessione economica e della politica: la comunità reclama un uso del mercato e dello Stato che sia funzionale alla valorizzazione dei beni comuni, e chiama le intelligenze personali e le relazioni sociali a fare la loro parte, affiancando le forme tradizionali di mercato e di Stato che dovrebbero sempre più essere innervate di aspetti comunitari.

Enzo Rullani

La versione integrale dell’articolo è disponibile qui.