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Il web è morto, ma abbiamo l’IA

Un ambiente tossico, e ce lo diciamo da anni. Una macchina automatica e disumana fatta di interfacce comportamentali, di estrattivismo, di manipolazione degli affetti e della’attenzione, disegnata per ingaggiarci.

Il web, un tempo terreno fertile per idee e connessioni, è diventato un cimitero digitale, vittima di un suicidio a puntate. Google, con il suo algoritmo onnipotente, ha trasformato la creazione di contenuti in un gioco di prestigio per accontentare una macchina, piuttosto che un pubblico reale. Parole chiave, ottimizzazioni ossessive, tutto finalizzato a un traffico inutile e anonimo.

Facebook, da sua parte, ha fagocitato le comunità online, trasformando le interazioni genuine in freddi numeri. I commenti, un tempo cuore pulsante delle discussioni, sono diventati un’eco lontana. L’ossessione per i numeri ha portato a un’inondazione di contenuti di bassa qualità, clickbait e fake news, soffocando le voci autentiche.

I blog, nati dalla passione di condividere, sono diventati aziende costrette a inseguire i banner pubblicitari, sacrificando la qualità per la quantità. Gli influencer, con la loro capacità di catturare l’attenzione delle masse, hanno attirato i finanziamenti, lasciando i piccoli editori a lottare per sopravvivere.

Il web è diventato un pantano di pubblicità invasiva, un luogo dove la ricerca della monetizzazione immediata ha prevalso sulla qualità. La pandemia ha accelerato questo declino, aumentando il traffico ma anche la frustrazione degli utenti, stanchi di navigare in un mare di contenuti inutili.

Oggi, i modelli di business tradizionali del web sono in crisi. Gli abbonamenti stentano a decollare, i banner pagano sempre meno. Il pubblico, disilluso, cerca alternative.

Tuttavia, c’è un barlume di speranza. Piccole comunità e progetti editoriali stanno rinascendo, puntando su un approccio più umano e meno mercantile. Il web non è morto, ma è in coma. Sta a noi decidere se risvegliarlo o lasciarlo morire definitivamente.

L’avidità, la ricerca del profitto immediato e la perdita di vista degli utenti hanno portato il web sull’orlo del collasso. La qualità è stata sacrificata sull’altare della quantità, e le interazioni genuine sono state sostituite da algoritmi e numeri. È tempo di ripensare il modo in cui utilizziamo e consumiamo i contenuti online.

Il testo qui sopra è stato graziosamente confezionato da Gemini attingendo a questa pagina https://www.clickbaiting.it/p/il-web-e-morto-lunga-vita-al-web

e quindi è allineato a destra.

Aggiornare la (propria idea di) collettività, per giornalisti

Ero a Cortina per partecipare alle giornate di aggiornamento professionale per giornalisti, da quest’anno (!) obbligatorie, chiamato dall’Ordine dei Giornalisti del Veneto tramite Carlo Felice Dalla Pasqua. Io e Sergio Maistrello, io per parlare di qualcosa vicino al civic journalism, lui di fact-checking.

Beh, a me interessava sottolineare quanto la percezione stessa che un giornalista ha del suo lavoro, del suo metodo, della sua ricaduta sulla collettività dipenda proprio dalla percezione che della collettività questo giornalista possiede. Una rappresentazione mentale, un Lettore (collettivo) Modello, a cui pensa e si rivolge mentre progetta e costruisce e distribuisce il suo pezzetto di informazione, magari fornendo approfondimenti e collegamenti.

Perché, vecchia tiritera, il messaggio assume senso nel momento in cui cade in un contesto preciso, qui e ora. Una circostanza di enunciazione, sissignori. E di quel testo si può analizzare il cotesto – pensiamo all’impaginazione a flusso di moderne forme di cronaca – comprendendo quanto la giustapposizione o la vicinanza di un articolo a un altro di tutt’altra specie determini l’interpretazione che ne daremo. Pensate a Twitter, pensate alla bacheca di Facebook.

Ma c’è di mezzo l’idea di collettività, appunto. Iperlocale o su scala nazionale, la dimensione e le dinamiche abitano nella testa del giornalista. Che magari pensa ai suoi lettori come audience, o come gentiluomini ottocenteschi che sfogliano il giornale mentre sorseggiano una bibita in giardino, quando invece è ben chiaro quanto la fruizione delle news sia radicalmente cambiata, nei ritmi, nei luoghi dove essa avviene, nei dispositivi su cui viaggia, per non parlare del fatto che proprio uscendo dall’idea di audience sia necessario provare a concepire i lettori come partecipativi, prosumer, commentanti e distribuenti, e altre cose così. Ovvio, cambia tutto. E civic journalism, lo dicono quelli bravi, significa in prima battuta proprio questo, modificare la percezione della collettività da cui un giornalista trae e verso cui rimanda l’informazione più o meno elaborata, riposizionando la propria professionalità in direzione di una responsabilità nei confronti della comunità. Fornendo strumenti per capire meglio le cose che avvengono, promuovendo il pubblico dibattito, affiancando i cittadini nelle scelte riguardanti la vita pubblica.

Grammatica dei contenuti editoriali – Un libro

La prefazione di Luca De Biase al libro “Io editore tu rete. Grammatica essenziale per chi produce contenuti” di Sergio Maistrello.
L’argomento riguarda ovviamente i cambiamenti dell’editoria elettronica, e della forma generale della Cultura per come essa ora vive nei supporti e nei processi digitali.

Gli editori sono in fermento. Internet sta cambiando radicalmente gli scenari del loro business. La tecnologia digitale sta trasformando i linguaggi espressivi e le filiere produttive. Le condizioni a contorno, nell’epoca della conoscenza, stanno mutando e facendo di ogni azienda, organizzazione, gruppo sociale e singola persona, un soggetto potenzialmente in grado di produrre e distribuire contenuti di valore pubblico. In questo contesto, gli editori vedono contemporaneamente uno scenario di crisi e una situazione densa di nuove opportunità. E la variabile essenziale che li conduce a privilegiare il giudizio ottimistico o pessimistico è la loro capacità di costruirsi una competente visione della situazione. E’ probabilmente il primo motivo di interesse per questo libro. Il secondo motivo discende dal fatto che il destino degli editori è importante per tutta l’evoluzione della capacità di generazione culturale delle società.

La storia dell’editoria moderna parte probabilmente all’inizio del Settecento nel momento in cui la corporazione degli stampatori riesce a ottenere il privilegio per ciascun affiliato di poter essere l’unico a pubblicare il libro di un autore con il quale si è messo d’accordo per la gestione del suo copyright. Tecnologia e diritto sono fin dal principio alla radice del business editoriale. In particolare il controllo della tecnologia di accesso ai contenuti, consentiva agli editori di far valere senza particolari problemi anche il loro diritto allo sfruttamento delle opere. Ma le trasformazioni attuali sembrano aver sottratto agli editori il controllo delle tecnologie strategiche e, di conseguenza, la tenuta del sistema del copyright. La leadership dello sviluppo delle tecnologie per pubblicare e distribuire contenuti sta progressivamente ma inesorabilmente passando alle piattaforme online, ai motori di ricerca, ai servizi di vendita di libri e giornali in rete, alle aziende che producono computer, tablet, cellulari, lettori dedicati alla lettura e così via. In qualunque business, l’impresa che non ha alcun controllo sulla tecnologia fondamentale per lo svolgimento del business rischia di essere marginalizzata.

L’impresa che non governa la sua tecnologia può superare con successo il rischio di perdere quote di mercato se conserva in qualche modo una relazione privilegiata con il suo pubblico o con i suoi fornitori. E indubbiamente i marchi e le testate aiutano gli editori a resistere nel cuore del pubblico, mentre possono conservare un’attrattiva nei confronti degli autori se riescono a convincerli di essere ancora il miglior interlocutore per generare reddito con il loro lavoro. Ma entrambe le difese sono superabili.

La struttura del mercato editoriale sta cambiando radicalmente. Un tempo la scarsità fondamentale era sotto il controllo dell’offerta: ciò che era scarso era lo spazio per la pubblicazione. Oggi, su internet, quello spazio è illimitato, mentre la scarsità fondamentale è sotto il controllo della domanda: ciò che è scarso è, prima di tutto, il tempo e l’attenzione del pubblico. Sicché, nel mercato editoriale, la domanda controlla le fonti del valore mentre l’offerta deve conquistare il suo spazio centimetro per centimetro. Contemporaneamente, nella relazione con il pubblico, gli editori si trovano di fronte nuovi agguerriti competitori, spesso dotati di marchi importanti e meglio posizionati sul piano tecnologico: quelli dei motori di ricerca, quelli dei negozi online, quelli dei produttori di device. Inoltre, molti ex inserzionisti pubblicitari sono partiti alla conquista del tempo e dell’attenzione del pubblico direttamente su internet senza la mediazione degli editori. E del resto, anche per gli autori stanno emergendo molte e interessanti opportuità per valorizzare le loro opere che a loro volta non passano per la mediazione degli editori. 

Il primo capitolo di chiunque operi nel business editoriale diventa la dimostrazione dell’unicità del suo servizio a vantaggio del pubblico. Segue, subito dopo nella scala di priorità, la riconquista di una forma di controllo della tecnologia. E in terza posizione c’è la rigenerazione della sua relazione con gli autori. In tutti i casi si tratta di fare un salto di qualità culturale: le vecchie soluzioni e le inveterate abitudini semplicemente non funzionano più: il salto culturale deve condurre a comprendere non come controllare ma come servire il pubblico, a trasformarsi da passivi fruitori ad attivi innovatori della tecnologia, a passare da rentier del copyright a promotori e valorizzatori dell’accesso alle opere degli autori. Si tratta di salti culturali che, spesso, appaiono troppo alti per gli editori troppo tradizionali. E che quindi favoriscono in certi casi i nuovi entranti nel business. 

Sta di fatto, che il pubblico cerca ancora le funzioni fondamentali che in passato erano svolte solo dagli editori, per scegliere a che cosa dedicare il tempo, per riconoscere autorevolezza e credibilità agli autori, per accedere in modo comodo e a un prezzo giusto alle opere. Le protezioni che favorivano gli editori nello sfruttamento di queste funzioni non ci sono più, ma le funzioni hanno ancora valore. E il riconoscimento di questa opportunità potrebbe rivelarsi la spinta decisiva per gli editori a rinnovarsi profondamente, per sincronizzarsi con la storia attuale e allo scopo di scrivere la storia futura.

Prestami un libro

Le stesse cose dette da Riccardo Cavallero di Mondadori a Rimini al convegno EbookLab Italia di qualche giorno fa, tramortendo la platea degli editori presenti, ora riappaiono in questa intervista a El Paìs, riportata da repubblica e dal Post.
Si potrebbe discutere dei modelli economici, delle “forme del contenuto” editoriale, ma la visione d’insieme del cambiamento culturale in atto è assolutamente condivisibile.
E interessante è l’accenno alle biblioteche, che presto potrebbero vedere rivitalizzato il loro ruolo e la loro importanza nel mercato dell’editoria elettronica, come a esempio prova da anni a spiegare Giulio Blasi di MLOL.

via Post

Da vendere i libri ad affittarliIl capo della Mondadori ha spiegato al Pais cosa pensa del futuro dei libri

Il direttore generale di Mondadori Libri, Ricky Cavallero, ha dato un’intervista al quotidiano spagnolo El Pais (Cavallero ha lavorato a lungo in Spagna prima di essere nominato a Segrate l’anno scorso) sulle prospettive del mercato dei libri, ripresa oggi da Repubblica nelle pagine di cultura.
L’era Gutenberg non è finita, anzi è destinata a continuare, ma sarà la rivoluzione digitale di Internet a segnare il futuro dei libri. «Il potere passa dall’editore al lettore, è lui a decidere cosa vuole, quando lo vuole e a quale prezzo»: a dirlo, in un’intervista uscita ieri sul País, è Riccardo Cavallero, direttore generale dei Libri del gruppo Mondadori in Italia, Spagna e America latina (compresi dunque i marchi Einaudi, Piemme, Sperling & Kupfer, oltre alla newyorchese Random House). Manager di segno cosmopolita, è nato 48 anni fa vicino a Torino, ha vissuto in America, poi in Spagna, e ora è a Milano. Tra le sue preferenze letterarie, indica anche Gomorra di Saviano.
A suo dire, intanto non è il libro on line a determinare quel cambiamento radicale nell’universo dell´editoria che paragona a una rivoluzione copernicana. Cavallero: «L’e-book in sé non vale niente. Nasce già vecchio. Quel che conta è la rivoluzione digitale. Come avvenne per i dinosauri, per sopravvivere bisognerà cambiare habitat, e invece molti editori non sono ancora pronti, non hanno la forza mentale per cambiare il proprio modo di lavorare, tenendo conto dei gusti di chi sta dall´altra parte. Finora siamo vissuti in una bolla di lusso dov’era possibile prescindere dal lettore: ora invece, per la prima volta, dovremo capirlo».
Più difficile da dire è come cambieranno gli editori, in che tempi, e soprattutto: che fine faranno i diritti d’autore? Azzarda Cavallero, un po’ ridendo: «L’editore diventerà un bibliotecario: non venderà qualcosa, ma lo presterà. Nel mondo digitale, avrà qualcosa di simile alla televisione a pagamento, con alcuni canali che vengono venduti a sottoscrizione… Inevitabilmente, si dovrà trovare anche una formula nuova per liquidare i diritti e non sarà più possibile farlo nel modo semplice di oggi: per ogni esemplare venduto. Il cambiamento avverrà tra una ventina d’anni, probabilmente, ma già ora il digitale fa nascere un mucchio di problemi agli avvocati che devono quantificare la somma destinata al pagamento dei diritti d’autore»

#ebooklab, e gioie della vita.

Nella primavera del 2007, dopo aver partecipato a qualche barcamp, provavo a scrivere qualche indicazione su come meglio organizzare gli eventi pubblici tipo convegni e conferenze, siano essi più o meno destrutturati, siano essi più o meno occasioni sociali “aumentate” dall’utilizzo di tecnologie come streaming video, wifi diffuso, uso massiccio di twitter e relativo feedback tramite twittervision proiettato nella stessa sala dove i relatori relazionano relazioni e tutti gli altri si relazionano tra loro.
Giovedì e venerdì scorso sono stato a Rimini, ospite dell’EbookLab Italia
Ospite, perché avevo contribuito a pompare il buzz preparatorio dell’evento, scrivendo una cosetta pubblicata su EbookLab e anche qui
Ospite, perché nonostante io per lavoro sia un libero professionista che cerca di raccontare e/o progettare iniziative in senso largo relative alla Cultura digitale, difficilmente mi sarei potuto permettere di pagare centinaia di euro per l’entrata al convegno. E so bene che per raccogliere bisogna dissodare, seminare, concimare (ah, questi soldi simbolicamente cacca), innaffiare il terreno: semplicemente il ROI mi sembrava sproporzionato, per quanto interessante sulla carta il convegno stesso si annunciasse, per la qualità dei relatori invitati e per la sua peculiare posizione narrativa, rispetto al discorso generale che in Italia si sta tenendo riguardo all’economia – oikos-nomos, sì, siam sempre lì – dell’editoria digitale. 
E invece la sala era sempre piena, centinaia di persone confermate ogni giorno, paganti e attente.
Una prima scommessa vinta, tutto sommato.
L’estate scorsa avevo contribuito a organizzare l’EbookFest a Fosdinovo, conosco da anni molte delle persone che sarebbero arrivate a Rimini e anche qualche relatore: questa occasione aveva le carte giuste per stabilire il punto di partenza delle riflessioni nazionali e professionali del settore; ho assistito a una fiera seria, con personaggioni, parole ufficiali, prese di posizioni che rappresentavano il punto di vista dei principali gruppi editoriali italiani. Non bazzecole. Nessuna bambola da pettinare.
E mi sono divertito, ho imparato cose. Gino Roncaglia che approfondisce via via nel tempo il suo discorso sul social reading, Ricky Cavallero di Mondadori spavaldo e cinico e cosmopolita (nel senso “non strozzato da una visione provinciale” come molti altri, che provocano le tempeste in un bicchiere giusto per sentirsi vivi e darsi importanza) che ha fatto più volte sobbalzare la platea con affermazioni durissime e proiezioni radicali sul futuro del libro, Maragliano e Rotta e Quadrino per i ragionamenti sull’editoria scolastica (settore surreale, paradossale, miope oltre ogni criterio), Tallone&Balocco squisiti e suggestivi nel dipingere lo sviluppo storico secolare dell’arte tipografica, dai caratteri aldini alla grazia del corsivo italiano al palatino tedesco all’elzeviro ai caratteri moderni, scherzosamente intrecciando tipografia e genius loci.
Ma ora dovrebbero pubblicare i video integrali degli interventi, restate sintonizzati sul sito di EbookLab, anzi sarebbe bello se Tombolini (Simplicissimus, promotore dell’evento) riuscisse a distillarne un sunto video, un documentario di una mezz’oretta ben montato e commentato, una narrazione, ekkemminkia, di un evento che si occupa di libri e di editoria e di forme della narrazione del XXI secolo.
Altrimenti il prossimo convegnone, chiunque lo organizzi, dovrà ripartire da zero o quasi, e qui non riusciamo a fare costruzione cumulativa della Conoscenza, riprendiamo i discorsi sempre dallo stesso punto. Vergognoso, nella nostra epoca, con gli strumenti che abbiamo.
A parte i contenuti, riprendo a parlare dell’organizzazione dell’evento. Anzi, linko Gianluca Diegoli, che ha scritto un ottimo post metalinguistico, ragionando proprio sul come organizzare un convegno di successo, e lui era tra quelli che si occupava di far filare tutto liscio là a Rimini.
Fondamentalmente, badare alla qualità. Semplice, eh? Ma a quanto pare per niente facile, ci vuole professionalità, come l’artista che nasconde la mano. Badare alla qualità dei relatori, badare alla qualità degli spazi relazionali (a partire dalla semantica dello spazio convegnistico, l’arredamento della sala, la forma e la disposizione dei tavoli), badare ai servizi offerti (un wifi serio, e una password per tutti uguale, finalmente), aver cura del clima – nevicava fuori, ma dentro era ben riscaldato da chiacchiere e incontri informali come sempre assai fecondi. Progettare il coffe-break, come dicevo anni fa, è la chiave del successo, o una delle.
Anzi, aggiungo un’ideuzza.
Come accade spesso, i relatori si ripetono. Quando fanno i preamboli, dicono le stesse cose. E sono decisamente stufo di sentirmi raccontare (anche malamente) la storia di Napster e la bolla del 2000, soprattutto da gente che vede ancora la Rete come uno strumento, e non come un ambiente, non come un territorio.
Allora ecco un suggerimento per chi organizza. 
Pensiamo al convegno tutto come una riunione di lavoro. 
Le posizioni dei parlanti, quello che rappresentano nella loro veste ufficiale, è la ricchezza del discorso, ma al contempo è un limite rispetto a quello che possono pensare, a quello che potrebbero dire.
Se il convegno, la riunione, il discorso, hanno come finalità quella di proiettarsi nel futuro, di stabilire linee d’azione e non solo di sancire l’esistente e fare il punto, allora c’è bisogno di pensiero laterale.
Vanno rotti certi schemi, servono visioni. 
Vi ricordate di DeBono, no? Metodologie per sprigionare la creatività, permettere al discorso di raggiungere e dissodare terreni che l’impostazione classica di un convegno impedisce di praticare, per il modo stesso con cui storicamente pensiamo la forma-convegno.
Prendete i sei cappelli per pensare, e fatene una versione social-convegnistica. Un sociodramma organizzato, direi. Un brainstorming su diversa scala.
La prima mattina, si comincia con il cappello bianco: voglio sentire relatori che parlano di dati, numeri, economia, tirature di libri, trend di mercato, prezzi all’ingrosso e al dettaglio. Relatori che sappiano di cosa parlano, solidi e concreti. Tutti avrebbero subito l’orizzonte.
Poi toccherebbe al cappello rosso, e vorrei sentire le emozioni risuonare. Il panico del libro che muore, le piccole case editrici che urlano spaventate, la nostalgia, l’indignazione per le politiche errate, la vergogna dei milioni di euro buttati in cose stupide. Ci vorrebbero relatori istrionici, contrapposti ai “ragionieri” del cappello bianco, capaci di dare corpo a tutto quello che si agita nella pancia del settore editoriale italiano, e spesso non trova parole per essere espresso e raccontato.
Con il cappello nero e con il cappello giallo siamo nel classico: i detrattori disfattisti e gli apologeti entusiasti, gli ottimisti e i pessimisti, il discorso prenderebbe quota e verrebbero a delinearsi i contenuti su cui vale la pena discutere, avendo tutti ben presente il COSA e il COME stiamo parlando, dopo i primi due cappelli.
Poi verrebbero i creativi, quelli del cappello verde, che dopo aver ascoltato per bene tutto proverebbero a individuare soluzioni out-of-the-box per risolvere il problema specifico posto dal convegno come situazione comunicativa, a esempio “Come evitare di farsi del male reciprocamente e come costruire Cultura in Italia dal punto di vista delle politiche editoriali, nei prossimi dieci anni“.
Il cappello giallo è già uno che potrebbe proporre soluzioni, ma tipicamente rimane dentro uno schema di pensiero statico, mentre nelle situazioni di cambiamento occorre uno che sappia vedere il bosco, non solo gli alberi. Uno che mette in dubbio e pone il dito su cose talmente ovvie da essere invisibili, su quello che le abitudini spesso nemmeno ci lasciano più pertinentizzare e quindi problematizzare, una persona un relatore o un manipolo di relatori che sappia pensare sistemicamente il tutto, senza settorializzare, ma alzandosi in volo e scorgendo nuovi territori da abitare per l’editoria.
Poi c’è il cappello blu, che sappiamo rappresenta il meta-cappello: il moderatore, quegli attori della situazione in grado di mantenere il focus dei discorsi centrati sul problema, e gestire i turni e la circolazione della parola, che provano a stabilire i punti fermi emersi dalla discussione complessiva affinché questi possano costituire il gradino su cui salire tutti per far progredire il discorso.
Insomma, ci siam capiti: minimizzare le occasioni di parlarsi addosso, e lavorare per dare sostanza e profondità.
Volevo aggiungere ancora una cosa, mia personale.
Io ero ospite di Mario Guaraldi, persona che stimo enormemente per la sua storia personale, per il suo essere personaggio, per il suo essere editore che pubblica quello che gli piace, e gli piacciono cose matte e bellissime.
La prima sera del convegno sono andato a mangiare carne e a bere vino rosso (come in un’ecatombe sulla spiaggia, dentro l’Odissea, quando Ulisse e i suoi scendevano a terra per la notte) con lui, con Sergio Metalli (scenografo famosissimo e visionario per i migliori teatri italiani, e non solo), e con Paolo Fabbri.
Cioè, Paolo Fabbri. Quello che considero tuttora uno dei migliori intellettuali italiani, quello che diciassette anni fa ha firmato il titolo della mia tesi al DAMS in narratologia, quello che tra un boccone di piada e un brindisi mi ha spiegato (lui settantenne a me!) i risvolti pop-culture di Lady Gaga, per dire, intrecciandoli con i codici del melodramma italiano settecentesco.
Questi tre qui son tutti di Rimini, si conoscono da decenni, ora si occupano tra l’altro della Fondazione Fellini, tutti e tre potrebbero parlare per ore dell’essere vitelloni e delle zingarate fatte nel corso degli anni, aneddoti a piovere, ridono e scherzano e si divertono molto, si palleggiano le parole lievemente mentre raccontano spezzoni della vita culturale italiana degli ultimi quarant’anni, amabili e romagnoli e vivaci.
Nella foto qui sotto, Metalli Jannis Fabbri e Guaraldi.
Io sono quello anziano.
Allorquando Pitagora trovò
Il suo gran teorema,
Cento bovi immolò.
Dopo quel giorno trema
De’ buoi la razza, se si fa
Strada al giorno una nuova verità.

Appunti sul mondo editoriale

Cultura digitale, flussi di narrazione, socialità in Rete.

Una parola sul dizionario può possedere molti significati, ma è il qui-e-ora della situazione enunciativa, è il reale contesto conversazionale in cui essa viene pronunciata che determinerà il senso di quella parola, fosse anche dentro un libro che dialoga col lettore. E’ il contesto che, selezionando e negoziando i significati pertinenti rispetto all’orizzonte di attese degli interlocutori, stabilisce una certa omogeneità nell’interpretazione e quindi una narrazione nel tempo, grazie alla cooperazione di tutti gli attori coinvolti nella circostanza. 
L’editoria, intesa qui come secolare attività umana tecnologica industriale e economica, si accorge in quanto attore sociale dell’inadeguatezza del proprio discorso, del proprio fare attuale. Sono cambiate le circostanze, le pratiche umane della produzione e della fruizione di oggetti culturali, i modi della comunicazione, la forma tutta della società e della socialità. 
Oggi c’è la Rete Internet, ovunque, tra di noi. La indossiamo con i telefoni cellulari, siamo permanentemente connessi, i flussi informativi e documentali con cui interagiamo abitano su molti dispositivi e in molti Luoghi digitali. Trattandosi di tecnologie abilitanti, le innovazioni abitano già anche dentro la nostra testa, nel modo in cui pensiamo la progettazione editoriale e la relativa opera di pubblicazione. Anzi, i significati di parole come “libro”, “autore” o “lettore”, “massmedia”, “biblioteca” o “libreria”, “filiera editoriale” hanno già concretamente oggidì assunto un altro senso, alla luce della rivoluzione sociale che il Web e la Cultura Digitale hanno reso possibile.
Vi sono delle nuove caratteristiche tecnologiche da comprendere per i supporti della Conoscenza, c’è un nuovo pubblico e un nuovo mercato, ci sono nuovi ambienti sociali digitali dove tutto riecheggia, nell’incessante Grande Conversazione.
Sono necessarie abilità e competenze aggiornate per il mondo editoriale, a partire da un saper scorgere il cambiamento culturale in atto, al saper ascoltare le conversazioni delle cerchie sociali digitali e delle community, passando per l’acquisizione di nuove tecniche produttive, di rinnovati modelli di organizzazione aziendale e di strategia di mercato, arrivando a padroneggiare il management della reputazione e del proprio abitare in Rete.

Figura e sfondo – reloaded

Un pezzo lungo, che scrissi tempo fa per un ebook di Datamanager. Ne parlavo qui.

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Figura e sfondo: il libro e la società connessa
Un secolo dopo le avanguardia artistiche del Novecento, abitiamo ancora dentro modelli di pensiero che non solo concepiscono l’opera come romanticamente formata in modo compiuto dentro la scatola cranica del suo autore, ma hanno in sé una propensione a leggere comunque il fare espressivo come svincolato dal contesto culturale in cui esso appare. Senza voler esasperare i termini, senza voler estremizzare le affermazioni di cui sopra – in fin dei conti i percorsi storici dei linguaggi espressivi più o meno “artistici” appartengono alla cultura generale della nostra epoca – rimane comunque viva l’idea di un “oggetto culturale” in sé conchiuso, capace di veicolare il proprio significato contando solo sulle proprie forze, sulla propria capacità di mettere in scena le circostanze di enunciazione e la relazione comunicativa con il fruitore, che sarebbe meglio da subito chiamare interlocutore.
Nella storia del ‘900 troviamo esplicite delle riflessioni teoriche e delle pratiche progettuali e realizzative che minano profondamente questa nostra fiducia piuttosto ingenua nella solitudine dell’opera: l’ideologia romantica perde molto del suo significato in un mondo dove molti possono accedere alla fruizione e alla produzione di immaginario nelle forme codificate – abbiamo quindi una democratizzazione dell’autore. Inoltre, l’industria culturale nel suo frammentare e rimescolare i processi produttivi e espositivi delle storie giunge (o permette al nostro pensiero critico di giungere) alla considerazione merceologica del nostro abitare riti e miti che però trovano format di divulgazione mediati dall’intelligenza di chi ragiona in termini di marketing, dando luogo a una Società dello Spettacolo, del simulacro. Ancor di più, l’analisi testuale ha mostrato come il testo in realtà sia sempre molti testi, e stiamo parlando proprio del punto di vista autoriale e della sua capacità di riorganizzare il contesto narrativo, piuttosto che concentrare la propria attenzione sul semplice messaggio.
Lungi dall’essere isolato, il testo è nativamente permeabile, attraversato da altre narrazioni, da libri che richiamano altri libri, e in fin dei conti in una biblioteca tutto si tiene con tutto, e tutte le biblioteche del mondo concepite come luoghi del sapere statico riecheggiano le une con le altre, nel tessere le forme stabili della Conoscenza. Ma il modello biblioteca, tanto quanto quello di opera autonoma, oggi non sono più sufficienti.
Oggi possiamo letteralmente vedere il farsi della cultura, nei processi dinamici dell’emergere della Conoscenza in Rete, su web, o su quelle nuove pratiche fisiche rese possibili dall’esistenza della Rete. Rete che va ribadito è sempre esistita, come legame tra le persone, tra le collettività, tra i libri e i depositi di conoscenza (memoria interne o esterna a noi) che tra loro tessono trame, e che le tecnologie dell’informazione e della comunicazione hanno potenziato, facendone emergere gli strati osservabili, il fare concreto umano di condivisione e scambio, il fare cultura che è sempre intercultura.
Di un testo oggidì immateriale, slegato dal suo storico supporto e veicolo cartaceo, anzi in grado di abitare indifferentemente la nuvola dei dispositivi di lettura oggi disponibili o nelle reti di visibilità elettroniche, comprendiamo la sua capacità di ri-giocare la relazione tra la figura e lo sfondo, relazione da cui orginariamente sgorga il senso dell’opera, nonché il senso del nostro fruire l’opera, nell’interazione. Anche ragionare al di là della figura dell’Autore, della sua intenzionalità, ci riesce facile nel provare a insistere con lo sguardo su paesaggi di pratiche culturali assolutamente innovative, quali quelle che vediamo a esempio per prove e errori sperimentare dall’industria editoriale, alla ricerca di nuovi equilibri e modelli economici di funzionamento, nell’epoca in cui non tanto l’informazione quanto l’attenzione è un bene prezioso, da contendersi.
Proprio questo è il posto dove ci troviamo: non più circoli di intellettuali dell’antica Grecia o cenacoli rinascimentali o avanguardie culturali tratteggiano il valore e la forma degli oggetti della conoscenza, ma in maniera condivisa e collaborativa tutti insieme nella Grande Conversazione stiamo patteggiando tra noi il modello di pensiero con cui pensiamo lo sfondo, il contesto da cui sappiamo dipende il senso enunciato dei messaggi, dei testi, delle opere d’ingegno.
E anche noi procediamo per prove e errori, congetture e confutazioni nel negoziare un concetto stabile (una credenza, sempre ipotetica e fallibile) di come sia da rappresentare lo sfondo, utilizzando metafore della Rete tecnosociale che richiamano rizomi, città di testi, viabilità delle idee, ambienti artificiali connessi in cui le collettività vivono, la mente che abita dentro e fuori di noi, l’ecosistema della conoscenza, il bosco delle narrazioni; da questo calderone un giorno nasceranno modelli maggiormente attagliati alla complessità attuale, nativi, e non banali adeguamenti di modi di fare obsoleti.
Agli albori del cinema, i Lumiere cercavano di rendere una realtà teatrale, mentre Georges Melies già sperimentava narrazioni nuove, avendo compreso il montaggio come proprium del linguaggio cinematografico. Inizialmente abbiamo sempre adeguamenti di vecchi format dentro i nuovi linguaggi, ma dovremmo ormai anche aver compreso che proprio in simili situazioni conviene osare qualcosa in più, per avere fiducia poi nella “pubblicazione” del nostro fare, rendere pubblico tramite la Rete, quale garanzia etica di controllo intersoggettivo, di trasparenza, di dialogo e pluralità.
I libri quindi, ma in realtà ogni porzione di contenuto di qualsiasi lunghezza o argomento, su molti media differenti, insomma qualsiasi testo, abita da sempre in Rete. Oggi in più si muove rapidamente su scala planetaria, innesca conversazioni in tempo reale, connota di sé relazioni e situazioni.
E il supporto tecnologico che lo veicola, passando dalla lenta carta all’interattivo ebook reader, diventa come una polla d’acqua nelle terre di risorgiva, dove affiorano in superficie brani di contenuti che circolano comunque in Rete. Il testo che leggiamo su un dispositivo connesso diventa segno e metonimia dello Scibile tutto, segno non solo letterario ma anche concreto in quanto permanentemente connesso con l’insieme, metonimia da interpretare dinamicamente, come capacità dell’opera di restare sintonizzata con il contesto di riferimento (l’ambito del discorso), e magari di cangiar forma e contenuti su pulsione di quello.
Quello che potremmo vedere in poco tempo, e che mi piacerebbe osservare, sarebbe la possibilità per il dispositivo di lettura di “campionare” e di riportare quel contesto unico e originale dato dal nostro personale interagire con il testo, la vera situazione di fruizione, riuscendo a tracciare dentro il flusso delle conversazioni in Rete alcune caratteristiche di questa relazione, quali i suoni ambientali, il ritmo e i tempi di lettura, l’insieme delle annotazioni e dei commenti e delle sottolineature del testo… qualcosa di simile già accade con i nuovi ebook reader, dove un manuale o un saggio di studio, vivi e cangianti, si modificano sotto i nostri occhi, per mostrarci come altri hanno letto quel testo, come lo hanno sottolineato, in una piena concezione socialdella tecnologia e della condivisione culturale.
In ogni caso, io ho paura delle idee vecchie, non di quelle nuove.

Social personal / Scenari digitali 2011

Ciao 2011.
Ho pubblicato una cosa sul blog collettivo Scenari digitali 2011, la trovate a questo indirizzo insieme a molte altre riflessioni di persone in gamba, su argomenti ovviamente inerenti lo sviluppo prossimo venturo dei mondi digitali. Lo metto anche qui, ma voi andate a leggere seguendo il link, per dar modo alla serendipita’ di farvi incrociare qualcosa che state cercando senza volerla cercare.

Giorgio Jannis – Social personal

Partendo da un’osservazione, quelle cose che noti mentre fai dei gesti. Come scambiarsi i dati personali al termine di una riunione di lavoro, o condividere documenti o dei giochi tra amici, in gruppo. 
Faticoso, macchinoso. Perché per farlo usiamo “macchine” vecchie – carta e penna! e la lista dei partecipanti con le mail scritte a mano – oppure cellulari o dispositivi elettronici dove immettere manualmente le informazioni, nomicognomi e numeri e indirizzi. 
Mentre credo dovrebbero essere molto più social, i gingilli connessi personali. Usate il bluetooth, il wifi, la rete telefonica, ma fate in modo che il mio cellulare al premere di un tasto invii a tutti quelli che voglio nel raggio di dieci metri i miei dati personali, quello che io deciderò di trasmettere e mettere in compartecipazione, foto indirizzo URL del blog e LinkedIn e socialcoso preferito. E i dati che ricevo dagli altri già sul mio dispositivo si legano ai miei e tra loro, creando la rete delle cerchie sociali, dandomene rappresentazione in una rubrica aumentata capace di contenere l’albero dei contatti, dove le foglie sono i profili oggidì coloratissimi di suggestioni e tracce, e al contempo in grado di mostrare il giardino tutto delle reti sociali in cui siamo coinvolti, le geografie relazionali, l’intersecarsi dei gruppi sociali di appartenenza, la condivisione dei gusti personali e le scie dei nostri lifestreaming.
Con la potenza di calcolo che la tecnologia informatica offre oggi alla statistica applicata, potrebbero poi venir fuori delle cose interessanti da tutti questi dati che riguardano le profilature degli umani. I comportamenti social del nostro abitare in Rete possono trovare visibilità e rappresentazione, si rende necessario inventare delle parole (o modificare vecchi significati) che siano adeguate al nuovo contesto, dove appaiono degli oggetti e degli atti che prima semplicemente non erano percepibili, un po’ come quando era difficile parlare del comportamento delle particelle dei gas, senza aver ancora inventato il linguaggio della termodinamica.
Parlare oggi della Nuvola elettronica in cui abitiamo, dove nascono nuove interpretazioni della socialità, nuove possibilità di azione collettiva, nuovi riconoscimenti identitari di gruppi sociali che individuano sé stessi per affinità tematiche svincolate dalla distanza geografica. O che di converso in quanto rete nervosa dotata di organi di senso – display, sensori, luoghi di socialità iperlocale – ci permetta di percepire dimensioni territoriali prima invisibili, processi e flussi di persone e cose che girano intorno a noi in questo momento, geotaggate e
organizzate dentro narrazioni per render conto del senso dell’abitare, delle parole che pronunciamo vivendo qui e ora in questi territori fisici e digitali.
Esseri umani come router, che reindirizzano il pacchetto dati pertinente alla giusta rete sociale, e questo nostro costruire e scambiare informazione, opinione e conoscenza provvede a rimescolare continuamente il calderone della collettività, nelle cose pensate e nel modo di pensarle. 
Moltiplicare l’efficienza e l’efficacia delle situazioni sociali in presenza, questo sì alzerebbe la fiamma sotto il calderone, velocizzando i processi. Perché nei gruppi si condivide l’opinione, ci si confronta, vengono prese decisioni. Il capannello di persone che chiacchiera è da sempre un Luogo della Conoscenza, dove si formano e circolano i punti di vista sui fatti del mondo.
La fisicità dei corpi salda con più forza le parole ai contesti emozionali, crea sintonie e affettività extraverbali, su cui come umani ci appoggiamo per sostenere relazioni di lunga durata, dar vita a realtà sociali come i matrimoni e le imprese e i governi di cui già concepiamo l’estendersi nel tempo, negli anni a venire.
Scambiarsi il profilo della rubrica premendo un bottone, ma appunto condividere i lifestreaming, e anche moltiplicare gli strumenti di produzione e distribuzione delle informazioni, questo vorrei dai dispositi portatili. Poter registrare l’esperienza, aggiungere contesto ai messaggi, facilitare la collaborazione tra le persone presenti in quella situazione, poter mentre si parla lasciare traccia del dire, e poter tutti insieme al contempo intervenire su quella storia, “modificare il documento”, disegnare in tanti sulla stessa lavagna, giocare tutti insieme a un videogioco in 3D e magari partecipare a attività civiche, aumentare la realtà del gruppo supportandola con appunto display e sensori, per potenziarla e cogliere della situazione interpersonale sfumature che altrimenti andrebbero perdute, o che non sarebbero nemmeno percepibili.
Ecco il 2011 cosa potrebbe portare: cellulari o comunque gingilli connessi migliori. Vogliamo tecnologia allo stato dell’arte, con dentro software sociali migliori, dispositivi che costino meno, tariffe di connettività molto più economiche: non si tratta mica di giocattoli futili, qui stiam parlando del progresso della specie umana, della qualità dell’abitare in tutti i luoghi fisici o digitali, degli strumenti con cui tessiamo la socialità, poffarbacco.

Esperienze immersive di lettura (e non distrarsi)

Un paio di riflessioni su due articoli recenti, argomento ebook e editori e forme narrative.
Il primo post è quello di Letizia Sechi, su FinzioniMagazine, intitolato La pratica degli ebook.
C’è una suggestione iniziale, dove si ragiona su come un editore sia originariamente uno che usa i libri, come lettore, e quindi comprendendone la tecnologia specifica organizza il suo fare professionale poggiando sulla comprensione del funzionamento del supporto. Cartaceo.
E l’esposizione delle scelte implicite è molto netta e chiara, nel tradursi nella qualità della fruizione che intrattengo con il libro, nella relazione che ho con l’oggetto in quanto interfaccia.
Sono secoli che libro e lettore e contenuto ballano tutti insieme, e insieme si evolvono, e il libro via via s’inventa formati caratteri interlinea materiali copertine.
Quindi si parla di ebook, e si ripercorre il ragionamento, stabilendo come le nuove potenzialità tecnologiche offerte dal supporto non potranno che dar luogo a nuove forme/formati.
E quindi c’è in corso una rivoluzione che stavamo aspettando (e siamo già nel campo delle aspettative del lettore rispetto al testo offerto dalla narrazione dei supporti alla narrazione) nei settori dell’editoria elettronica, e una “rivoluzione narrativa”, perché dice Sechi che quelli di noi che sanno cosa sono le narrazioni ipermediali aspettano qualcosa (sempre orizzonte di attese: siamo già calati nell’interazione lettore-testo) di più dall’ebook, un po’ di fuochi d’artificio per salutar la nuova era della narrazione e mostrare modi nuovi.

Alla domanda “se la tecnologia dell’ebook è tanto simile al Web, perché usarla in modo così depotenziato?” la replica è persino troppo ovvia: se il Web è il mezzo adatto per realizzare il genere narrativo del futuro, perché hai bisogno degli ebook (e degli editori) per iniziare a narrare storie in modo nuovo?

Qui mi sembra che ci siano più piani che si intersecano.
La contrapposizione web-ebook è ancora forse prigioniera (esagero i termini per esposizione) di un punto di vista che al massimo li integra, ma non riesce a pensarli insieme.
Anzi, credo servirebbe una bella matrice, per affrontare tutti i casi possibili.
Scrivere un testo lineare che vive da solo su qualsiasi supporto (fosse anche scritto sulla sabbia), scrivere un testo che in sé è organizzato ipertestualmente, ma senza apporti contenutistici esterni, scrivere un testo che prevede connettività esterna a sé stesso e sullo stesso supporto mostra l’extratestuale, scrivere un testo che invece proprio nella sua forma narrativa prevede l’irruzione di altri testi già in rete, scrivere un testo che non abita in forma conchiusa su un dispositivo ma anzi è da subito pensato come webbico, e talvolta diventa qualcosa che si muove dentro i dispositivi, ma la sua narrazione e il lavoro di noi lettori avviene dentro e fuori il dispositivo, oppure tramite il dispositivo ma fuori dal testo, e quindi assomiglia come da qualche parte già dicevo a una polla d’acqua di risorgiva, che fa sgorgare in superficie qui e là (nei dispositivi ebookreader, in luoghi web) delle messinscena del testo, ne fa emergere certi aspetti che richiamano una narrazione più ampia e dislocata e multicodice.
La questione della connettività è cruciale.
Non credo proprio in futuro verranno prodotti ebookreader che NON potranno connettersi, sprovvisti di browser.
Quindi nasceranno testi da parte di Autori che prevedono la classica lettura lineare, solo che sono fruiti su schermo elettronico e non su schermo cartaceo (la pagina, che fisicamente comunque perde senso come unità di misura e va articolata).
Poi nasceranno testi che invece sono costruiti secondo un’idea “aumentata” di sé e corrispettivamente (ma anche qui la dislocazione imporrebbe alcune ridefinizioni di questi concetti che stiamo usando) della pratica della lettura, dove alla linearità si aggiungono ipertestualità e ipermedialità. Ma siamo ancora dentro il libro, o dentro l’ebookreader.
E poi ci sono quei testi che nasceranno dislocati, indifferenti al supporto inteso come palcoscenico della loro messinscena, e la sfida nostra sta nel riuscire rapidamente a impossessarci e acquisire stabilmente nella nostra competenza di lettori una “mappa ecologica” che ci permetta di percepire e apprezzare esteticamente un oggetto che vive sulla Nuvola.
Qui c’entrano maggiormente i ragionamenti di Granieri, in questo pezzo “In difesa del libro tecnologicamente povero“, dove vengono trattati quelli che sono conosciuti come “movimenti cooperativi del lettore”, ovvero il lavoro attivo che siamo chiamati a svolgere nel decodificare un testo sempre concepito come una “macchina per produrre senso”, però appunto da riempire con le emozioni e i contenuti che noi e solo noi, con la nostra enciclopedia personale, possiamo riversarci dentro, mentre leggiamo e costruiamo nella nostra testa il “film” dell’esperienza.
Granieri, con Cerami da lui citato, insiste su un ragionamento classico di McLuhan, quello relativo ai massmedia “caldi” e “freddi”, che riprende il discorso di Letizia Sechi sull’ebook lato produzione per portarci a riflettere sul lettore e sulla sua interazione con il contenuto e il supporto.
Il libro è un media “freddo”. Su un solo canale, quello della vista, usando un solo codice, quello del Sistema Fonologico e codici della scrittura, allestisce dei segni (una singola parola, o un intero libro, o un’enciclopedia tutta, o una biblioteca considerata come insieme dei testi) che ci chiamano a interpretarli, e questo nostro riversare i nostri contenuti (esperienziali, emozionali, come immaginarci lo scenario e la fisionomia dei personaggi di un libro giallo, e ognuno di noi in realtà legge un libro diverso) nella macchina del testo avviene in quantità elevate, nel confronto di media “freddi”, che chiedono di essere scaldati.
Un libro narrativo da questo punto di vista è un diagramma di flusso, un algoritmo, un protocollo per direzionare l’immaginazione, un set di regole e procedure per la messinscena mentale, a cui poi appiccichiamo i giudizi estetici, a seconda di quanto ha saputo intrattenerci e sfidarci e giocare con noi, e con più sottigliezza ci chiama a giocare, incastrandosi meravigliosamente con le mie esperienze di vita e di lettura di altri testi, con più favore sono disposto a considerarlo.
E come dice Granieri, la forma classica e lineare della scrittura narrativa occidentale è ottima. E’ la forma che ha assunto l’algoritmo nel tempo dei secoli, nell’interazione tra opera e lettore e meccanismi editoriali. E’ perfetta per veicolare storie che si dipanano e emozioni da suscitare abilmente, nella capacità che la forma offre all’Autore nel progettare la propria narrazione.
Quindi il discorso cade su: le nuove forme di narrazione aumentata rese tecnologicamente possibili dai nuovi dispositivi di lettura, e conseguentemente le nuove modalità interazionali che come Autore devo prevedere tra il testo e il Lettore, sapranno ricreare quell’esperienza così coinvolgente e totalizzante, che è la Lettura?
Seguendo McLuhan, a parte il fatto che parlando di multimedialità esco un po’ dai suoi ragionamenti che sono più concentrati sulla densità informativa potenzialmente veicolabile dal media in considerazione (e paragonare la Radio con il Cinema è operazione da compiere con le molle), il fatto di avere a che fare con un media più caldo – il libro aumentato, ricco di apporti, diversamente organizzato, indifferente magari alla linearità – modifica radicalmente la nostra partecipazione alla costruzione del senso, limitandola.
Non sono più chiamato a “immaginare” molte cose, visto che posso “vederle” direttamente sulla “pagina”. Video, grafici, bacheche, sitiweb, applicazioni specifiche, gallerie fotografiche, audio musicale e parlato, recitazioni in video. 
La soluzione è nel tempo: come è già successo per gli altri media via via inventati, vedremo delle innovazioni linguistiche, vedremo la nascita di alcune poetiche (pensate al cinema del Novecento), vedremo un giorno la nascita di un’opera che romanticamente nasce perfetta nel suo sapersi allestire sui nuovi supporti, nei nuovi linguaggi, nei nuovi Luoghi in cui il testo abiterà.
Allora al contempo noi avremo sviluppato nuove competenze come lettori, saremo meno spiazzati dinanzi alle nuove forme della narrazione possibili, verrà emergendo un’estetica che ci saprà orientare nella valutazione delle nuove opere letterarie (che più tanto letterarie non saranno, quindi urge trovare anche nuove parole o nuovi sensi di vecchi significati, al mutar delle situazioni enunciative, ma siam qui per quello).
Rimane validissimo l’accenno di Granieri alla “facilità” con cui avverranno le interazioni tra testo e lettori, ovvero alla trasparenza delle interfacce, siano esse forme linguistiche o ergonomia dei dispositivi o codici interpretativi diffusi nell’Enciclopedia delle comunità linguistiche.
Il libro è molto trasparente, ci rapisce e ci dimentichiamo di tenere in mano un chilo di carta con sopra dei piccoli segni a inchiostro: ci educano da piccoli a leggere, e via via maturiamo un’abitudine alla lettura che si innerva, diventa automatica.
Quando leggiamo una frase, noi non leggiamo ogni singola lettera che compone il testo, piuttosto abbiamo maturato delle capacità che ci permettono di volare sulle parole scritte, e trattenerne/costruirne il senso. Siamo dimentichi del media.
Se però incontriamo un refuso, ecco che rapidamente vengono richiamate in superficie delle competenze linguistiche grammaticali che di solito facciamo girare in background: da qualche parte interrompiamo il meccanismo automatico, e ci concentriamo su quello che di solito non notiamo, la forma della parola e la sua adeguatezza formale.
Questo è qualcosa che comunque dovremmo raggiungere, a patto che si intenda costruire delle opere narrative che intendano catturare il lettore proprio con strumenti quali il farlo cadere in un’esperienza totalizzante, che sappiano allestire un mondo narrativo che ci coinvolge al punto di dimenticarci di essere seduti su una poltrona in salotto.
E prestare continuamente attenzione ai meccanismi di narrazione, ai refusi, al link che non funziona, al dispositivo che fa le bizze o riproduce malamente un inserto multimediale, o semplicemente un forma della narrazione che ci costringe a essere più attenti che rapiti difficilmente riuscirà a catturarci nello stesso modo in cui ci cattura un libro.
E’ come su un libro, lo abbiamo visto negli esperimenti delle Avanguardie, cambiasse continuamente disposizione del testo scritto, o scrivesse in verticale con tipografie differenti, o cambiasse sempre la qualità della pagina e dell’inchiostrazione, insomma quei libri che non vogliono farsi dimenticare mentre vengono letti, e continuano a dirti “guarda che stai leggendo un libro, eccomi qui”, si fanno notare, portano la nostra attenzione sul processo di lettura e sul funzionamento del media piuttosto che sul contenuto che intendono veicolare.
Ma spesso in quei casi storici il contenuto di quel testo era proprio farti riflettere sul processo di rappresentazione (come ingarbugliare tipograficamente il testo, oppure tagliare la tela di un quadro e metterlo in mostra, oppure Brecht che voleva che gli spettatori a teatro fumassero liberamente e faceva girare dei cartelli didascalici su quanto stava succedendo in scena, proprio per evitare che avvenisse eccessivamente l’immedesimazione con gli attori, e quindi venisse persa una visione critica che sempre doveva restar vigile), e quindi possiamo considerarli testi “riusciti” nel loro intento, di coinvolgerci secondo certe modalità esperienziali, dove è buona cosa che il flusso venga spezzato, l’esperienza interrotta per dislocare la nostra attenzione su altri livelli di contenuto.
Qui invece si cerca di ricostruire l’esperienza classica della fruizione di un libro di carta però secondo forme di narrazione radicalmente diverse. Progettare l’immersione, ma essere sempre distratti.
Messa così, non funziona. Piuttosto nasceranno nuove categorie estetiche di ricezione, nuovi tipi di esperienza di letture. “Leggere un buon libro davanti al caminetto” non è qualcosa che è sempre esistito, e si tratta di qualcosa che ha significati diversi nel tempo.
Stiamo aspettando abitudini, ecco.

ps. tutti i refusi qui dentro sono per non farvi distrarre, vadasé.

Ebookfest2010: gli atti liquefatti

Eccoli, gli atti del convegno Ebookfest2010: da subito pubblicati in forma liquida con licenza CreativeCommons, vedranno ovviamente la luce sotto forma di ebook pdf/epub, dove le parti stampabili potranno ricevere un ISBN e circolare ufficialmente. Tutto un blog loro dedicato, con relazioni, piccoli saggi, divagazioni, resoconti su quello che è successo a Fosdinovo il 10 settembre, ragionamenti intorno alla teoria e alla pratica dell’ebook.
Trovate anche una mia riflessione, più o meno inerente la tematica della tavola rotonda a cui partecipai, ma decisamente più interessanti delle mie parole sono i contributi di quelli che veramente in questi mesi stanno cercando professionalmente di capire cosa stia succendendo nel mercato dell’editoria digitale in Italia.

Complimenti a Noa Carpignano e Maria Grazia Fiore: io come parte della Redazione del convegno avrei dovuto curare la documentazione video, ma montare i video è una cosa noiosa e lunga, e il portatile su cui ho windows per fare videoediting sta collassando. La prossima volta si fa webtv con Livestream o con UStream, viene meglio. Trovate qualcosa qui, sul canale YouTube di Ebookfest2010, via via aggiungerò altri video, iscrivetevi.

Qui il sito dell’evento http://www.ebookfest.it/
Qui il blog con tutti gli atti: http://ebookfest2010.bibienne.net/

Capire l’ebook, laicarlo scerarlo e spredarlo

Spammare e taggare credo siano ormai sdoganati. Hanno anche un forma linguistica che s’incastra bene con le regole del Sistema Fonologico della lingua italiana, si declinano normalmente, potrebbero essere parole italiane “ben formate”. 
Laicare è un problemuccio. In italiano abbiamo /laico/, sostantivo, di tutt’altra area semantica generalmente poco intersecata con quella del “piacere”. “Ho laicato il tuo status”, una di quelle frasi che senti al bancone del bar, che cinque anni fa non esistevano, e oggi non potrebbero non esistere, nel loro identificare pratiche sociali comuni, comportamenti diffusi.
Scerare può essere reso con condividi, non dà tanti problemi. Anche la parola share è diffusa in italiano, pensate allo share televisivo o ai dividendi finanziari.
Spredare, da spread, di nuovo si intreccia con una /preda/ con cui solitamente non ha niente a che fare. Usiamo diffondere, ok. Mi piace spredare perché ha un suono più esplosivo, con quel spr, mi sembra una molla che scatta, e rende maggiormente la dinamicità della diffusione di un contenuto sulla Rete.
Comunque, io la vedo così.
C’è da capire cosa sia questo benedetto ebook.
Il modo migliore è fare sperimentazioni, immergersi nell’esperienza, parlarne, reintrodurre il feedback nel processo di progettazione, e via andare.
Parlarne in modi diversi, su mezzi diversi, in tv ai Saloni del libro, nei forum e sui blog, sui social, come interviste e come saggi teorici, nei convegni. 
Nei convegni si mettono in moto delle macchine che producono idee, e queste sono semplicemente costituite dai capannelli di persone che si creano negli interstizi del tempospazio convegnistico, ragion per cui insisto sempre nel progettare bene gli spazi informali dove la chiacchiera scorre limpida, mentre gli spazi formali delle relazioni verbali degli oratori hanno già in sé una struttura che ne prganizza la fruizione da parte dello spettatore. Lo spettatore nei convegni è ancora troppo passivo, vi è tecnologia in giro che potrebbe far brillare questi simposi di umanità di una luce nuova, dove con hashtag di twitter o con gli sms o con blog collaborativi georeferenziati verrebbero moltiplicati canali e le possibilità comunicative tra tutti gli attori della situazione. E finalmente che luoghi dell’invenzione collettiva di tematiche e opinioni, quelle chiacchiere veloci che si intrattengono tra un relatore e l’altro, oppure nei coffe-break, potrebbero trovare una dignità di solidità, venendo sostanziati nei flussi elettronici, scerati e spredati, senza rimanere soltanto voce senza memoria.
Non è che tutto deve diventare superipermediale, eh. Gli strumenti e le tecnologie abitano dentro nicchie ecologiche precise, col passare del tempo i linguaggi che vi girano come software, gli usi che ne facciamo, modificano la loro portata comunicativa, ma un criterio valido per il loro utilizzo e giudizio è sempre l’adeguatezza. La corrispondenza tra tipo di contenuto che intendo veicolare e la forma con cui lo rivesto. Un romanzo sta comodo (sono cresciuti insieme) in un libro dalla forma lineare, è una storia che si dipana, mentre un’enciclopedia sequenziale un po’ soffre, è costretta, non può allargare le braccia e accogliere con immediatezza i rimandi. Un sinolo, direbbe Aristotele, e una visione romantica moderna guarda con una lacrima di commozione quel momento magico in cui l’urgenza di un contenuto nuovo da esprimere precipita in una forma mai vista, una parola un testo un linguaggio, capace di significare appieno come significante i significati che intende significare. O perlomeno che incontra diffusi nella cultura già quei codici innovativi-ma-non-troppo che permettono ai lettori di impossessarsi di quella forma, comprenderla nella sua novità, e quindi di accedere al contenuto veicolato.
Quindi: un convegno è una forma storica, potrebbe modificarsi, ma far incontrare umani è essenziale, perché lo strumento “chiacchiera libera” è fondamentale, è brainstorming, produce semi di idee che nascono tra gli intelocutori e cominciano a germogliare a narrativizzarsi e a diffondersi: l’idea stessa di capannello di persone come supporto alla Conoscenza va potenziata tecnologicamente, mettendo dentro i cellulari dispositivi per intrecciare automaticamente le persone, scambiando rapidamente biglietti da visita elettronici che rechino seco tutta la cerchia sociale di ciascuno dei presenti, le reti relazionali che abbiamo sui social, i nostri luoghi di produzione e di conversazione, che permettano di solidificare giusto un po’ i flussi di ideazione libera, per poterli poi concretamente maneggiare e reintrodurre all’elaborazione collaborativa.
Sull’ebook nei prossimi sei mesi si parlerà molto. Sono nate molte piattaforme italiane per la distribuzione, gli editori si organizzano per il digitale, si stanno facendo molti sbagli perché chi pensa queste cose pensa ancora alla televisione e alla stampa come modelli economici di funzionamento del mercato, tra poco è Natale e speriamo si vendano milioni di ebookreader, nasceranno iniziative convegni e premi letterari e riviste specializzate.
Due mesi fa abbiamo fatto l’Ebookfest a Fosdinovo, tra poco vedremo di mettere in circolazione un ebook con le riflessioni dei partecipanti, c’è qualche video.
L’EbookFest è per definizione la festa dell’editoria digitale in Italia. Con tutti quei significati di festa che la parola festa intende. Si svolge a Fosdinovo in una castello di un accogliente piccolo paese medievale, si crea un clima relazionale caldo e tranquillo, ottimo per le chiacchiere. Editori, autori, e-tipografi, insegnanti (c’è sempre protagonista l’evento dedicato all’editoria scolastica) si incontrano e passeggiano per il castello o per il paese, assistono a relazioni piuttosto destrutturate tenute in un cortile, seduti in cerchio. 
Al Palacongressi di Rimini il 5 marzo 2011 avrà luogo Ebook Lab Italia, mostra-convegno per tutti i professionisti dell’editoria digitale sul mercato italiano. Nel palinsesto dei Luoghi italiani in cui verrà nel tempo sviscerato e approfondito il significato degli ebook, potrebbe senza dubbio candidarsi a diventare l’evento ufficiale, dove vengono sancite nel corso dei lavori convegnistici le posizioni dei parlanti, le aziende e gli editori, dove prende forma e concretezza il discorso degli ebook in Italia, dove le interpretazioni del fenomeno  vengono fissate, fino a quando nuove idee e nuovi approcci e nuove pratiche non richiederanno a convegni ulteriori (la progressione del “discorso pubblico sugli ebook”) di aggiornare le parole con cui pensiamo l’ebook e tutto quello che gli sta attorno.
Come quando il linguaggio si fa carico con la deissi di significare dentro le frasi anche quei pezzi di contesto che sono a tutti gli effetti attori della situazione enunciativa, così i convegni sull’ebook sono quel tipo di atto linguistico dove la partecipazione di molti portatori d’interesse è ratificata (proprio da quel con-venire nel con-gresso, nell’incontrarsi del meeting) e dà immagine di sé nel testo che produce, dove tematicamente si provano a tracciare interpretazioni e senso del fenomeno ebook.
Di cui oggi non si può non parlare, in modo creativo o in modo economico: vi è una certa urgenza.
Per EbookLab ho scritto un post, hanno intenzione di dar libera voce a quelli che provano a capire qualcosa di questa rivoluzione, e confusi dal delirio mi han ritenuto meritevole.

Ebook scolastici e pateracchi

Questo è il governo del fare business, nessuna meraviglia.
Ma qualunque imprenditore serio sa che la sua scommessa riguarda il futuro, e le aziende virtuose sono quelle che innovano, quelle che fanno ricerca.
Ma gli imprenditori che abbiamo al governo pensano all’oggi.
I fondi per ricerca, formazione e istruzione vengono inesorabilmente tagliati, viene seriamente compromessa la qualità dell’insegnamento e degli ambienti formativi.
Non solo: le cose pubbliche come la scuola vengono gestite come pretesti per fare affari, intrallazzi poco chiari.

La vicenda che racconta Agostino Quadrino di Garamond in questa nota su Facebook riguarda a esempio il mercato della didattica digitale, degli ebook e dei learning-object, dove curiose amicizie tra Telecom e Mondadori si spiegano alla luce dei 750 milioni di euro che ogni anno le famiglie italiane spendono in editoria scolastica.

La deriva (pilotata) dell’innovazione digitale nella scuola italiana.


Eccomi qui di nuovo per condividere alcune considerazioni sullo stato dei progetti di innovazione nella scuola italiana, che considero molto preoccupante, e non solo per Garamond. Purtroppo non riuscirò ad essere breve, e me ne scuso, ma la materia è tale e tanta che non è possibile sintetizzare con la consueta stringatezza.

Lo faccio con indignazione, perché è davvero inaccettabile la situazione di difficoltà in cui si trovano attualmente aziende serie e oneste come Garamond, impegnate da molti anni nell’innovazione a scuola, strette fra una pubblica amministrazione che riduce sempre di più le risorse per l’innovazione e in generale per la formazione e l’istruzione, e le lobbies delle grandi aziende editoriali, che vivono delle rendite di mercati chiusi e protetti, come quelli del libro di testo, che le inducono a restare allineate e coperte, cercando di protrarre più possibile la vita di un sistema molto redditizio (750 milioni di euro all’anno), magari fino alla pensione dei suoi anziani manager da 2-300 mila euro di compenso annuale, e alle spalle dei tanti giovani collaboratori precari, che lavorano 10-12 ore nelle loro redazioni per 8-900 euro al mese?

Partiamo dalla pubblica amministrazione e dalle responsabilità di chi ci governa.
Accennavo sopra all’indignazione e la ragione sta nel fatto che la pubblica amministrazione italiana non paga più. La società che dirigo vanta crediti con diversi soggetti della P.A. per svariate centinaia di migliaia di Euro, in sospeso da mesi o da anni, derivanti da forniture di beni (immateriali e anche materiali) e servizi (formazione e contenuti online) regolarmente acquistati e mai pagati, fino ad oggi.

Ciò inevitabilmente comporta una incapacità per Garamond di onorare a sua volta gli impegni economici con i suoi fornitori, con i tanti autori, consulenti, formatori, tutor ecc. che hanno lavorato per noi – magnificamente – in questi mesi/anni e che sono (più o meno pazientemente) in attesa di ricevere i loro legittimi compensi. Ce ne saranno certamente non pochi fra coloro che leggono questa newsletter, ai quali sono grato per la paziente attesa e – nella maggior parte dei casi – la fiducia e la comprensione che ci riservano, ben sapendo che hanno a che fare con una società seria e con gente onesta che ha sempre onorato i suoi impegni.

Però tutto ha un limite.
Non è più accettabile, ad esempio, che la Regione Lazio non eroghi i versamenti degli “acconti” (!?!) di quanto dovuto per un progetto da noi sostenuto – anche forniture hardware di centinaia di computer, lavagne interattive e videoproiettori – iniziato addirittura nell’ottobre 2008 e concluso nella scorsa primavera.
Non è accettabile che la Presidenza del Consiglio, per il tramite del Dipartimento Innovazione e Tecnologie per il progetto “Innovascuola”, non versi alle scuole i fondi stanziati da due anni per l’acquisto di contenuti digitali da noi forniti da quasi un anno, e di conseguenza le scuole non siano in grado di pagare noi.

La realtà e la ragione di questi “ritardi” è oramai evidente: il governo centrale, per ragioni politiche a tutti evidenti, ha deciso di non erogare più alcun finanziamento e fondo alle amministrazioni locali come le Regioni e ai singoli ministeri, come recentemente denunciato anche da un ministro in carica (“Le ricostruzioni del Tesoro sono assurde e fantasiose. C’è la fila di ministri davanti alla porta di Tremonti e tutti chiedono di poter spendere i fondi stanziati, ma bloccati con mille tecnicismi.” (S. Prestigiacomo). Il Ministro dell’Economia intende così mantenere artificiosamente l’equilibro finanziario dello Stato facendo una cosa veramente geniale: bloccando le uscite. Peccato che, così facendo, il peso del dissesto finanziario dello Stato sia scaricato sulle aziende come la nostra, sui suoi collaboratori e i suoi dipendenti, che non vedono riconosciuti i propri diritti ad essere regolarmente pagate e sono condannate a ricorrere a tutte le risorse possibili ed impossibili per restare in vita e non buttare a mare decenni di lavoro e di impegno.
Naturalmente, con l’attuale governo, i tagli più forti e inderogabili sono proprio ai settori della formazione, dell’istruzione, della ricerca, della cultura, e questo chiude il cerchio che soffoca tutti coloro che vi sono impegnati – insegnanti, formatori, ricercatori, operatori della cultura in tutte le sue forme – incluse le aziende che vivono di questo, come la nostra. Si tolgono fondi per i progetti di innovazione, non si paga più il pregresso, e si riducono sempre più gli investimenti in conoscenza e tecnologia: da qui al naufragio complessivo della nostra economia il passo è breve, anzi forse è già stato compiuto.

In questo contesto non è accettabile che capi-dipartimento, dirigenti e funzionari del Ministero della Pubblica Istruzione responsabili del progetto “Cl@ssi 2.0” (30 mila euro a scuola per le 156 medie selezionate lo scorso anno, 15 mila per le altre 250 elementari e superiori che saranno selezionate ora) dichiarino per due anni che tali fondi non possono essere spesi per i contenuti digitali perché beni immateriali “non inventariabili” (sic! ma non stiamo parlando di 2.0, di digitale e di rete? e ci venite a raccontare che può essere acquistato solo ciò che è materiale? surreale…) e poi fanno accordi con grande risonanza e firme in diretta a reti unificate fra MIUR e Telecom Italia sui progetti “Scuola digitale” – incluso “Cl@ssi 2.0” – in cui sono compresi anche “materiali didattici e contenuti digitali a integrazione e supporto della didattica e della formazione in servizio degli insegnanti impegnati nei processi di innovazione”.

Ah sì? Se i contenuti sono proposti da Garamond non vanno bene, mentre se è Telecom (ma che competenze e titolarità editoriale ha un’azienda di telecomunicazioni? non le si dovrebbe chiedere molto più semplicemente e correttamente di far arrivare la banda larga dove ancora manca, e in tutte le scuole?) allora la cosa è lecita, opportuna e benedetta dal Ministro in persona, con tutti i dirigenti in prima fila sorridenti e soddisfatti per l’ottimo lavoro svolto?

E che dire del fatto che la stessa Telecom Italia, con cui il MIUR firma accordi e protocolli d’intesa, ha appena lanciato “Biblet”, una piattaforma di E-Book http://ebook.telecomitalia.it/ quando sta per entrare in vigore la normativa sull’adozione obbligatoria di libri digitali come testi scolastici? Interessante coincidenza, no?

E vogliamo aggiungere anche che – guarda il caso – il partner editoriale di Telecom Italia per la medesima piattaforma di libri digitali è il principale produttore di libri di testo per la scuola in Italia (insieme a Rcs), ovvero la casa editrice Mondadori, la cui titolarità è notoriamente del Capo del Governo?

Che fare? Rimanere in silenzio o andare con il cappello in mano presso qualche dirigente ministeriale troppo preso da ben altre occupazioni per dare udienza ad una piccola realtà non sempre docile e accomodante? No, non lo faremo. Ora basta.

Ovviamente, sulle questioni qui sollevate abbiamo posto domande e quesiti per iscritto ai responsabili del MIUR, ovvero al capo dipartimento Giovanni Biondi, al direttore Fidora e alla dirigente Schietroma: siamo ancora in attesa di una pur minima replica, essendo il silenzio – da sempre – l’unico modo di reagire di un certo tipo di funzionari pubblici.

Da ultimo, su questo fronte: ho partecipato come membro della FIDARE, Associazione degli Editori Indipendenti, ad un incontro al Ministero in cui ci è stato prospettato un nuovo progetto, dotato di un finanziamento di 3 milioni di Euro, destinato proprio ai contenuti digitali. Tralascio in questa sede le nostre osservazioni sulle Linee Guida fornite in quella sede, concentrandomi su un punto capitale. Si hanno a disposizione 3 milioni di Euro per i contenuti didattici digitali e su che cosa punta il Ministero? Ebook, learning object per lavagne interattive (fornite in gran quantità, ma attualmente prive di contenuti disciplinari, quindi sostanzialmente vuote e dunque inutili). Nossignori: viene promosso un progetto che finanzia 30 “prototipi” (sic!) da 100 mila euro ciascuno, per contenuti realizzati sotto forma di “ambienti immersivi integrati anche tridimensionali”, sotto forma di videogiochi educativi di seconda generazione (?). Ma perdinci, come si fa ad assegnare fondi così cospicui (con cui ci si potrebbero acquistare migliaia di interi nostri cataloghi di E-book e Learning Object, nuovi, dignitosi e pronti per l’uso in classe) destinati ovviamente solo a grosse società di produzione di videogames, magari estere, parlando di “seconda o terza generazione”, quando nelle nostre scuole non si è vista nemmeno l’immacolata concezione dei contenuti digitali?

Ma questi dirigenti del Ministero sono mai andati in una scuola a vedere l’effetto che fa su insegnanti e studenti un semplice ma efficace learning object di matematica, di scienze o di inglese, eseguito su una lavagna interattiva? Hanno mai visto come si avvicini alla tecnologia e all’innovazione anche il docente più riottoso, quando gli si fa vedere un pezzo della sua lezione di domani o di ieri in seconda C, interattivo, multimediale e ricco di test e verifiche online e offline? Questi docenti sentono davvero l’esigenza di “ambienti immersivi tridimensionali” per dare un senso alle LIM che hanno sulla parete delle loro classi? Non sarebbe bene, prima di arrivare alle seconde e terze generazioni, far prendere contatto e familiarità con quello che già c’è, per tutte le materie e i gradi di scuola, realizzato da docenti per docenti, a basso costo e di grande spendibilità didattica, assegnando ad ogni singola scuola qualche centinaio di euro da impiegare su un mercato libero? Chiediamo troppo?
Forse il fatto che solo Garamond abbia investito in questo settore in questi anni, producendo più di seicento learning object e 45 Ebook di testo, ultimando i suoi cataloghi proprio ora con prodotti nuovissimi (del tutto innovativi quelli ad esempio per la scuola primaria), non fa piacere a qualcuno che invece è rimasto fermo? Diversamente non si spiega, visto che dovrebbe essere interesse della pubblica amministrazione dotare le scuole del grado iniziale dei contenuti didattici digitali, visto che ci sono e qualcuno ci ha speso anni di impegno per realizzarli.

Credo che questo stato di cose complessivo imponga moralmente una reazione, che spero sia compresa dai tanti colleghi che ci seguono da venti anni e più, e che voglio sperare non ci lasceranno da soli in questa dura battaglia. Ci batteremo con ogni mezzo lecito per difendere il lavoro di chi collabora con noi attualmente, di chi ha lavorato in passato con professionalità e passione per Garamond e ancora attende di essere compensato per quello che ha fatto, di chi si rivolge a noi augurandosi di trovare un futuro per le sue competenze e conoscenze.

Come sempre, tutti i nostri canali di interazione sono aperti, sul nostro Blog, sui nostri forum, su facebook e ogni altro ambiente di rete e non,per raccogliere le impressioni, le critiche e le proposte di chi come noi ha la ferma volontà a reagire a questo degrado di cultura, professionalità, dignità e iniziativa imprenditoriale libera e indipendente.

#ebookfest

Su, che devo bloggare il mio resoconto del supercampconvegnofest di Fosdinovo. Anzi, rispondendo a caldo dentro un ambientino sociale, ho scritto:

… devo dirti che è andata bene. Non per l’organizzazione logistica e copertura media (avrei dovuto strimmare parecchio, e niente; però ho 50 giga di video da spammare in giro, ora) resa complicata dall’essere dentro un castello medievale, o spalmati per il borgo. Ma proprio la location ha fatto molto, secondo me, e ha creato un clima eccezionale. Non starò a farti le pippe su grammatica situazionale, contesto e semantica degli spazi, tranqui :) Però puoi immaginare, incontri in piccole stanze arredate strane, atmosfera informale, botta e risposta caldi (pensa ai migliori camp a cui hai assistito), dibattiti che dopo aver personalmente forzatamente chiuso cacciando fuori tutti a calci in culo – sennò i seminari duravano otto ore – vedevo continuare lungo i corridoi e le terrazze panoramiche del castello, nei ciarlieri capannelli di illustri e di sconosciuti. Maragliano chiacchierava con Quadrino, a Quadrino stesso in veste inedita ho fatto intervistare Roncaglia, Guaraldi che rideva forte con Maria Grazia Mattei, la quale mi prendeva in giro per la perizia con la quale le ho collegato il videoproiettore, e una tavola rotonda con Marco Ghezzi e Guaraldi che sembrava un copione di sceneggiata napoletana, per quanto era effervescente, e invece era semplicemente una bella chiacchierata tra persone competenti. E i problemi sul tavolo erano quelli grossi, amazon che arriva, mondadori e rcs che hanno rotto il cazzo, drm una cippa, cultura digitale quasi sempre ben compresa, e non imparaticcia, se non dai soliti tecnosauri prontamente litigati da tutti. Nelle loro stesse parole, nelle parole dei personaggioni, un’ottima occasione di incontro vero tra studiosi e operatori del settore. Un anno di lavoro ci aspetta, a me, Noa Carpignano di BBN, Mario Guaraldi, tutta la crew, e chissà cosa succederà nel frattempo, ma vediamo cosa riusciamo a migliorare per il prossimo anno – a esempio, speriamo che arrivi l’adsl in castello :)

Riprendendo le parole di Mario Rotta, aggiungo due riflessioni.
Molti di coloro che hanno parlato nei seminari e nelle tavole rotonde lasciavano trasparire nei loro discorsi il giusto approccio rispetto ai nuovi modelli economici e logistici innescati dalle pratiche di Rete, a esempio riguardo le questioni della proprietà intellettuale o dei DRM. Eppure sentivo mancare in loro una vera cultura digitale, per come essa sorge in chi abita in Rete per un certo tempo con una certa assiduità.
Queste persone hanno raggiunto la posizione adeguata al mutato contesto con un percorso faticoso, fatto di piccoli miglioramenti apportati al vecchio modello economico editoriale e distributivo, e quindi sia reso loro l’onore del traguardo raggiunto. Ma nelle loro parole c’erano metafore sbagliate, contesti obsoleti del discorso, da cui poi discendono quelle incomprensioni e quelle modalità di conversazione in presenza eccessivamente polemiche, in quanto poggianti su fondamenta traballanti, quando in realtà lo sfondo tutto su cui inquadrare il fenomeno dei cambiamenti dell’editoria è sempre quello delle modificazioni culturali e sociali ampie e epocali, quale quella di internet che stiamo vivendo.
Gente brava nonostante, mi viene da pensare, nonostante il loro non essere abitanti consapevoli.
Come un bambino che passa dalla macchina per scrivere al pc, che capisce quanto un programma di videoscrittura possa essere più performante rispetto alla prima, ma ancora non ha modificato il suo sguardo in direzione di un orizzonte più vasto, dove vengono ripensate le stesse pratiche umane di scrittura (soprattutto quando si lavora connessi).
Nel mio intervento durante la tavola rotonda che mi vedeva partecipante, sono stato esplicitamente provocato da Mario Guaraldi a dare una lettura “filosofica” delle questioni in ballo, e come filosofo catastrofista ho risposto: ho provato a dipingere i cambiamenti sociali radicali in atto, ho mostrato come di qui a cinque anni il mondo dell’editoria e non solo potrebbe essere completamente diverso, ho messo in guardia su quelli che infervorati asseriscono oggi cose che domani stesso potrebbero essere differenti. Ma ho chiuso con nota positiva, essendo il mio l’ultimo intervento della giornata: ho parlato dei valori della Rete, della compartecipazione della condivisione, della fiducia e della reputazione, e ho riproposto il soltio parallelo del messaggio e del contesto in cui esso cade, da cui soltanto possiamo disambiguare i significati giungendo a un senso compiuto di una frase effettivamente pronunciata, le frasi che gli editori stanno provando a dire, nel loro fare, nel fronteggiare in modo nuovo la Grande Conversazione.
“Dare and share”, come si diceva in Rete tanti anni fa: “osa e condividi”, dove gli sperimentalismi assolutamente necessari trovano risonanza e validazione nella comunità sociale dei portatori di interesse.
Le solite cose: c’è di mezzo il fatto che ci sono in giro case editrici, persone appassionate di libri e di lettura, che queste cose non le capiscono, e su questi dinosauri incombe inesorabile la Morte, mentre già piccoli mammiferi a sangue caldo, più agili e adattati al mutato ambiente, stanno conquistando il mondo.

I classici italiani su Google

“Un primo passo importante verso la realizzazione del sogno che ha guidato i fondatori di Google: la creazione di una biblioteca universale”. Così Nikesh Arora, presidente Global Sales Operations and Business Development del gigante di Mountain View, ha definito la neonata cooperazione tra Google Books e il ministero per i Beni e le Attività Culturali. In base all’accordo, presentato oggi nella sede del MiBAC, nei prossimi due anni verranno catalogati e poi digitalizzati circa un milione di libri non coperti da copyright conservati nelle Biblioteche Nazionali di Roma e Firenze. Un’operazione che consentirà a chiunque nel mondo di accedere alle opere dei più grandi intellettuali, scrittori e scienziati italiani: il tutto a titolo gratuito e senza esclusive, tanto che i testi saranno disponibili anche sui siti web delle biblioteche stesse e su altre piattaforme, come ad esempio quella del progetto Europeana.

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