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Attrattività, ecosistema, comunità

Ieri c’è stato qui a Udine, tra gli appuntamenti elettorali, questo bel convegno su tematiche economiche, o meglio di sostenibilità economica per il futuro della città.

Ottimi relatori han saputo dipingere il passato e il presente di Udine, raccontando le scelte territoriali fatte nel tempo nella logistica e nella manifattura, indicando come dal modello “emporiale” ci si stia ora spostando verso una città decisamente orientata al terziario avanzato, all’economia della conoscenza guidata dall’Università e dalle mille realtà imprenditoriali – leggi KIBS Knowledge Intensive Business Service, la loro eccellenza e la loro capacità di fare rete – che lavorano con il digitale e le nuove tecnologie, e al contempo analizzando i flussi economici e la propensione al consumo di una popolazione cittadina dove ormai un quarto degli abitanti ha più di sessantacinque anni..

Ci sono delle parole chiave: attrattività, ecosistema, comunità.

L’attrattività va innanzitutto riferita alla propensione di questo territorio a chiamare a sé “cervelli”, persone altamente qualificate dal punto di vista professionale, invertendo le dinamiche migratorie che vedono anche e di nuovo Udine e il Friuli come allevamenti da esportazione, giovani e meno giovani che ogni anno lasciano tutto e vanno altrove, spesso all’estero, in quanto molto meglio remunerati e accolti.

Perché parlo di accoglienza? Perché quelli che vengono qui alla periferia dell’impero (e che si vorrebbe giustamente far diventare cuore dell’Europa, multiculturale, innovativo in quanto capace di abitare la frontiera di una nuova concezione socioeconomica consapevole delle transizioni ecologiche e digitali del XXI secolo) dovrebbero anche rimanerci, trovare una bella casa e dei servizi territoriali di alta qualità, mettere magari su famiglia. E questo lo si ottiene appunto costruendo pazientemente ma consistentemente la qualità dell’Abitare che il territorio può offrire, nei suoi paesaggi naturali e soprattutto antropici, facendo emergere una partecipazione sociale alla vita della collettività e quindi un sentimento di appartenenza ai Luoghi.

Se un dirigente di una azienda si trasferisce a Udine e dintorni, non è tanto lo stipendio da 100k e il macchinone aziendale che lo trattiene qui, ma è la bellezza e il sentirsi a proprio agio, accolto in una comunità.

Il ragionamento vale anche se parliamo di attrattività turistica, ovvero vanno capovolte alcune affermazioni che ho sentito ieri, ovvero che andrebbero realizzate delle narrazioni territoriali capaci di chiamare qui persone per promuovere il territorio.

È tutto il contrario, e lo dico avendo progettato simili iniziative: l’obiettivo della progettazione territoriale e le azioni da compiere deve riguardare quella promozione culturale e sociale capace di rendere ricco di storie e “caldo” e desiderabile il Friuli e la sua identità in quanto brand, su cui poi costruire delle linee di progettazione anche turistica in grado di instaurare nel tempo una certa reputazione e di scandire con adeguati storytelling la ragione per cui visitare queste terra può essere meraviglia – schivando anche in tal modo sciocche propensioni a un turismo mordi-e-fuggi, a favore di esperienze lente di sapori e stili di vita, di relazioni autentiche, di “comodità psicologica” per il viaggiatore (non più “turista”) che si avventura nei patrimoni Unesco o nelle cittadine medievali o rurali o nella wilderness della Carnia.

Il termine ecosistema non può che riferirsi alla capacità di visione, alla concettualizzazione che abbiamo ora, per progettare il futuro di Udine. Non mi interessa tanto Udine “capitale del Friuli”, e nemmeno “caput”, è un modello gerarchico di organizzazione dei territori che credo destinato a essere superato, a giudicare dai comportamenti delle collettività. Il territorio va pensato “a rete”, policentrico, dove i nodi della rete sono strettamente connessi – servizi, logistica, digitale – e il valore sta nelle relazioni, nella percezione ampia di un Noi orientato al futuro caratterizzato dai nostri storici valori di industriosità e innovazione, quella solita triade di “saper-fare, fare, far-sapere” dove allestire e comunicare lo stile peculiare del nostro abitare il mondo in quanto friulani.

Udine – se proprio vogliamo paradossalmente trovare un centro in una rete – dovrebbe piuttosto essere un hub, il mozzo della ruota che dà senso alla ruota stessa per muoversi su territori più lontani, non spazio vuoto ma pieno di know-how avanzato per la gestione organizzativa complessa di tutte le realtà manifatturiere e amministrative, per l’innovazione nei processi lavorativi, per ascoltare e metabolizzare a vantaggio dell’intero corpo sociale lo sviluppo di soluzioni iperlocali emergenti da promuovere sull’intero territorio, per costruire sistemi scolastici e formativi avanzati in grado di leggere e scrivere le necessità e le opportunità del tessuto tecnosociale.

Fare comunità è l’aspetto più delicato, perché stiam parlando dell’anima di una collettività, che si traduce poi in spinta motivazionale all’abitare avendo cura del territorio stesso, la nostra casa, il fuoco che la rende viva e intrisa del calore delle relazioni umane. Sopra dicevo delle pratiche di partecipazione, che portano a sviluppare un sentimento di appartenenza: vale per gli individui, vale per le collettività che si riconoscono in valori condivisi, e sanno parlarne per farli emergere affinché diventino patrimonio comune e modo originale per raccontarci a noi stessi e al mondo, in una presa di coscienza forte delle qualità e dei tratti distintivi, nel nostro trovare una nostra voce corale.

Abbiamo storicamente il capitale economico e il capitale umano – traggo spunto dalle organizzazioni lavorative, ma possiamo traslare il ragionamento alle realtà territoriali – a cui dobbiamo accostare appunto il capitale sociale dato dalle reti relazionali di cui il territorio è intessuto, ovvero come somma olistica delle risorse reali e potenziali sommerse che traggono il loro valore proprio dalla rete di relazioni, dall’impasto unico di impegno civico, fiducia e solidarietà negli individui e nelle collettività, tra i cittadini e tra i cittadini e le istituzioni, tra le istituzioni e le realtà imprenditoriali.

Fare rete, far emergere il valore delle relazioni, orientarsi a obiettivi a lungo termine di Benessere socioeconomico promuovendo trasparenza dei processi, innovazione culturale e consapevolezza dei Luoghi.

Questo può essere raggiunto nella cooperazione e nella collaborazione dei nodi territoriali, nella condivisione della conoscenza, nell’interoperabilità dei sistemi e dei processi di comunicazione – il digitale fa emergere il senso dei Luoghi, in quanto insieme canale e messaggio, rappresentazione mediatica delle collettività e delle prassi territoriali, nelle narrazioni.

Servono grammatiche territoriali, semantica sintassi e morfologia, quindi nuovi significati, nuove importantissime connessioni tra le parti del discorso, serve un nuovo lessico: dobbiamo imparare a leggere e poi a scrivere cose nuove in un modo nuovo, e direi anche piuttosto rapidamente.

Comunità autonome – Bifo

Abbiamo quest’etichetta un po’ stantìa, quella di “lucido visionario”, che si adatta perfettamente a Bifo.

Non perché Franco Berardi viva in stati di allucinazione, ma per la sua capacità, da moderno “filosofo del sospetto” e critico, di saper leggere dietro la realtà dei fatti, o meglio dietro lo schermo di quella che ci viene presentata come realtà, trattandosi sempre di manipolazioni della percezione e dell’opinione comune, di quelle rappresentazioni o messe-in-scena che poi costituiscono il vero inganno rispetto alla situazione concreta dei fatti.
Bifo qui dice – più che altro, prendo appunti e parafraso quello da lui scritto – che la crisi economica attuale non assomiglia a quelle novecentesche: non abbiamo oggi una crisi finanziaria che investe l’economia reale. Anzi, i mercati finanziari godono di ottima salute, in questa fase post-Covid che tanto post ancora non è.

Proprio il Covid, come leva biologica e informazionale, ha reso manifesto uno scollamento tra, diciamo così, realtà e narrazione della realtà: l’astrazione finanziaria, gli stessi meccanismi economici del funzionamento del mondo come ciclo di produzione e distribuzione delle merci, nulla hanno potuto contro il virus né contro lo “psico-virus” della paura dell’epidemia, i suoi effetti psicologici nell’immaginario collettivo.

La globalizzazione oggi patisce molti sgambetti, perché non è più possibile garantire la catena integrata della distribuzione dei beni – great supply chain disruption – eppure il sistema borsistico è al rialzo, le grandi compagnie del ciclo digitale vedono moltiplicarsi i profitti: “Poiché l’astrazione – cioè il sistema interconnesso degli automatismi tecno-finanziari e dei flussi di informazione – diviene sempre più incapace di interagire con il collasso della materia organica, psichica e sociale possiamo aspettarci che a un certo punto l’intera macchina globale collassi”, dice Bifo, e in questo scollamento si disgregano le giunture della vita civile.

Le merci non sono disponibili, le materie prime latitano, la produzione diminuisce, la disoccupazione cresce, la società si impoverisce, il lavoro si precarizza, i salari scendono. Muta la psicologia, mutano i comportamenti: il consumismo non può più contare sul mercato della paccottiglia o drogare gli acquisti con beni voluttuari, quando c’è di mezzo la questione degli approvvigionamenti sostanziali delle industrie. Il capitalismo entra in una fase caotica, non più controllabile con strumenti della finanza e stimolo monetario, perché questo caos riguarda la sfera del concreto, dei corpi che si ammalano, delle menti che impazziscono, delle appartenenze sociali che si svincolano dal globale. Il denaro sta perdendo il suo fascino e la sua efficacia.

Se la misura dell’economia diventa l’utilità, è assai più facile prevedere per il futuro “la formazione e la secessione concreta di comunità autonome” che garantiscano alimentazione, cura, educazione… comunità fondate sul principio di uguaglianza e della frugalità, sul primato dell’utile rispetto al denaro. Questo può accadere a patto che la soggettività sociale sia in grado di esprimere autonomia, mentre oggi il sentimento prevalente è quello della depressione da parte di una generazione precaria incapace di solidarietà, e il panico di una popolazione sull’orlo di una crisi di nervi, sradicata e ora consapevole del proprio vivere dentro una illusoria bolla narrativa, una fiction non più capace di tenere salda e coerente la trama nel racconto sul funzionamento del mondo.

The Great Disruption | Fine o trionfo dell’astrazione – di Franco Bifo Berardi

Turismo locale, storytelling - Giorgio Jannis

Format di turismo locale, e narrazioni social territoriali

Format di turismo, social media, user-experience, dimensioni affettive, web marketing, narrazioni territoriali: tutto si tiene.

Incollo qui una cosa rapida che ho scritto ieri su Facebook. Per un motivo semplice: tutti gli approcci di marketing moderni ci dicono che quello che in realtà si vende è l’esperienza del servizio o del prodotto per l’utente, quindi tutto l’aspetto connotativo della fruizione di quel bene materiale o immateriale, il piacere, l’emozione, la qualità di quella nicchia di tempo e spazio dove chi compra valuta meritevole insediarsi, per ritagliarsi un momento per sé.

Conseguentemente, da parecchio tempo il mantra del marketing moderno è diventato “bisogna progettare delle esperienze”, meglio ancora se nel caso di social web marketing vengono concepite da subito, nativamente, delle progettazioni riguardo l’esperienza di una intera community, la quale poi, essendo intessuta di passioni e abitando attivamente una qualsiasi piattaforma, se ben coinvolta – senza raccontare fuffa, con originalità e autenticità – saprà dare gambe alla value proposition, che appunto sempre meno riguarda il singolo prodotto o servizio, ma piuttosto l’esperienza “di vita” che quel prodotto o servizio mi promette e mi garantisce.

Se devo promuovere un prodotto enogastronomico, a esempio, quindi direttamente legato a uno specifico territorio in modo non altrove replicabile, non posso non concepire il marketing in ottica di promozione turistico-territoriale. Il compratore vorrà affezionarsi al processo di coltivazione o di produzione, vorrà conoscere il vignaiolo e parlarci, vorrà soggiornare in loco e non in anonimi alberghi ma in luoghi caratteristici, vorrà in qualche modo partecipare alla realizzazione di quella bottiglia di vino o di quel prosciutto, per appunto far parte di un’esperienza unica: in tal modo maturerà un sentimento di appartenenza a quel territorio, dimensioni psicologiche affettivamente connotate che donano identità e senso al fruitore di un bene che è ben più ampio del comprare vino online.

Conseguentemente, tutta la narrazione sul prodotto va reimpostata sull’esperienza-utente; la conversazione sui social media va improntata sul feedback del cliente – la sua narrazione diventa la conversazione, smettiamola di parlare del prodotto; il social web marketing dovrà comprendere la necessità di inseguire i clienti attuali fidelizzandoli con approcci rispettosi della persona e dei suoi sentimenti, piuttosto che dilapidare patrimoni nella ricerca di nuovi like e fan e follower sperando in una lead generation che porti al semplice acquisto del prodotto, per poi abbandonare l’utente. Ma questo è un altro discorso, lo affronterò più avanti.

Qui sotto, il post su Facebook.

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Ma guardate qui. E faccia un ragionamento chi progetta esperienze turistiche e relativo storytelling in FVG.
Metti cento russi su un aereo, li fai atterrare a Ronchi dei Legionari, poi li porti a dormire in bed&breakfast con agriturismo, in qualche magnifico borgo rurale lì al centro della mappa tipo Clauiano o da qualche parte lungo il Torre. Poi nel raggio di VENTI CHILOMETRI gli organizzi le escursioni: Aquileia per cose romane e romaniche, Cividale per i Longobardi ottavo secolo, Palmanova e Gradisca come fortezze rinascimentali e secentesche, Torviscosa come esempio urbanistico pregevole di città di fondazione novecentesca. Se vogliono, si allunga fino a Udine, fino a Grado, fino a Marano, fino a Villa Manin, fino a San Daniele, fino a Trieste. Li porti a mangiare ovunque, li porti sul Collio o sui Colli Orientali a bere vino sopraffino, li fai passeggiare nelle vigne e nei castelli. Tutti in furgoncino, e via andare, felici e contenti. Oppure comitive di russi in Vespa.

BES, benessere equo e sostenibile

Tutto sul BES, il Benessere Equo e Sostenibile, per comprendere meglio la differenza tra sviluppo e progresso. http://www.misuredelbenessere.it

Il progetto per misurare il benessere equo e sostenibile – nato da un’iniziativa congiunta del Cnel e dell’Istat – si inquadra nel vivace dibattito internazionale sul cosiddetto “superamento del Pil”, stimolato dalla diffusa convinzione che i parametri sui quali valutare il progresso di una società non debbano essere solo di carattere economico, ma anche sociale e ambientale, corredati da misure di diseguaglianza e sostenibilità.

Dodici dimensioni del benessere rilevanti per il nostro Paese, 134 indicatori.

La piattaforma visualizza valori e andamenti degli indicatori in tre modalità: grafici, mappe e tabelle. E’ possibile inoltre scaricare le serie storiche, esportare i dati in xls o csv, eseguire confronti tra regioni e macroregioni su più indicatori. Si segnalano le funzionalità: Checkup che definisce stato di salute di una regione , Benchmarking che permette il confronto tre o più Regioni; Report che produce un file pdf con le informazioni degli indicatori presenti nelle dimensioni selezionate; Gap Analisi che mostra lo scostamento tra due regioni in riferimento agli indicatori di una dimensione.

Il territorio è una piattaforma per lo sviluppo

Un bell’articolo di Luca De Biase (qui la fonte

Il territorio è come una rete e una piattaforma sulla quale si sviluppano attività, iniziative, startup. E come ogni piattaforma può essere aperto o chiuso, può avere un effetto frenante o può accelerare lo sviluppo, può essere dominato da pochi grandi poteri o essere competivo e creativo. E così via. Può anche essere modificato, pur con la lentezza che lo contraddistingue, anche in modo radicale.
Pensare il territorio è come pensare l’ecosistema. È un approccio ormai assunto anche dalla pubblicistica più semplificata, come dimostra anche il successo di un libro di moda come Rainforest. Del resto, il territorio come piattaforma era anche la metafora sottostante di un libro che ha avuto il suo momento di moda come quello di Richard Florida. Questo non elimina la complessità di una politica territoriale. Come dimostra la lunga e profonda esperienza del programma Leed dell’Ocse, al quale ci può riferire per avere un senso dell’ampiezza degli argomenti che l’approccio territoriale contiene, della sensibilità umana che occorre per affrontarlo, della rischiosità di ogni banalizzazione dell’argomento.
Come scrive Flaviano Zandonai, se il territorio è rete esistono territori-rete aperti, che rischiano la concorrenza dei free rider (che ne sfruttano la capacità di generare conoscenza senza restituire altrettanto) e territori-rete densi che rischiano la chiusura. Nel quadro della globalizzazione i territori competono sulla base della loro unicità, ma la precondizione è la connessione. Si formano, con ogni probabilità, diverse missioni – implicite o esplicite – nei diversi territori. E le relazioni che intrattengono con il resto del mondo sono fondate su quelle missioni, mentre i risultati che ottengono sono fondati sulla loro capacità di collegarsi, attrarre risorse, coltivare risorse, esportare. È chiaro che i territori con una missione di hub sono decisivi per una geografia molto ampia e i rischi che corrono si trasmettono ad altri territori che dipendono da loro per la connessione al resto del mondo. Mentre i territori con una missione di destinazione tendono a portare qualità, unicità, cultura. I territori-hub che si “addensano” – come le città troppo piene e troppo poco efficienti – si trasformano da acceleratori in freni dello sviluppo. I territori con una missione di destinazione che non coltivano le loro unicità, che non si confrontano, che si chiudono, finiscono per perdere qualità e senso nell’insieme geografico a cui si riferiscono. Infine, si sa che i territori troppo specializzati tendono a rischiare lo spiazzamento a ogni cambiamento organizzativo generale. Come in un ecosistema, anche quello del territorio umano ha bisogno di una certa diversità per essere stabile e rigoglioso. In generale, ogni territorio ha bisogno di pensarsi non come un insieme finito di risorse ma come un attrattore e generatore di nuove risorse: altrimenti corre il rischio più grande, quello di trasformarsi in una gabbia nella quale tutti i soggetti si combattono accanitamente per difendere una fetta di risorse e preferiscono impedire agli altri di innovare e crescere piuttosto che collaborare per aiutare l’insieme a innovare e crescere.
Semplificando, si può dire che un indicatore importante è la capacità del territorio di definire una sua prospettiva di sviluppo e di coordinare gli sforzi, anche la competizione, intorno a quella prospettiva. Spesso questo si misura in termini di attrazione di investimenti ed esportazione di prodotti e servizi. Ma il successo ha bisogno anche di elementi meno misurabili perché attiene anche al softpower, all’attrazione di talenti, alla generazione di una visione e alla sua capacità di fascinazione. La quantità non riesce sempre a dar conto della qualità. Il che implica che gli indicatori statistici vanno rinnovati per tener conto sia dei risultati economici tradizionali, sia degli obiettivi che attengono di più all’economia della felicità.
Una conclusione dalla quale non si può più prescindere sembra essere che le politiche territoriali giuste non sono mai definite dagli strumenti adottati ma dalla coerenza tra gli strumenti e gli obiettivi. E gli obiettivi, quando sono condivisi, entrano a far parte delle risorse fondamentali: proprio perché una visione condivisa di per se è un generatore di energia e di iniziativa. Insomma: reti e racconti, efficienza e visione, azione e prospettiva, devono essere pensati e sviluppati insieme.
Quella territoriale, del resto, è una dimensione nella quale la storia ritrova di preferenza i fenomeni di lunga durata. Non si parte mai dal nulla. Anche la storia delle innovazioni più radicali, a livello territoriale, contiene le esperienze sedimentate nel tempo. E se ne arricchisce. Proprio perché ogni territorio ha bisogno di unicità, dunque di storia, di identità. Su questa base può raccontare agli altri la sua strategia per esportare e attrarre investimenti e risorse.
La politica territoriale dunque diventa l’articolazione di una sintesi tra queste tensioni: tradizione e innovazione, esperienza e prospettiva, connessione e identità, contaminazione ed essenzialità. Una visione cosmopolita è un po’ l’insieme di questi atteggiamenti culturali.
All’atto pratico, questa visione diventa la lista di priorità che un territorio si dà. Ovviamente con la capacità di tenere la barra dritta ma con l’elasticità intellettuale necessaria ad affrontare il cambiamento. Ci sono esempi fondamentali dai quali trarre spunto.
Il Trentino ha una base fondamentale nell’agricoltura avanzata, grazie alla ricchezza culturale e pratica che è alimentata dalla Fondazione Mach, nel turismo di qualità e nella sua tradizione cooperativistica e autonomista. Su questa base si è data una missione di lunga durata investendo nella ricerca tecnologica, scientifica e artistica con strumenti di altissima qualità, come laFondazione Bruno Kessler, Trento Rise, il Mart e molte altre istituzioni valorose. Esplora nuove possibilità nella meccatronica e nell’edilizia sostenibile. Pur avendo qualche difficoltà per quanto riguarda le connessioni fisiche, si è data un piano di investimenti nelle infrastrutture digitali. Ma deve darsi nuovi obiettivi per affrontare il futuro e tra gli strumenti per riuscirci si porrà probabilmente il tema dell’accelerazione di startup, tecnologiche e culturali che consentano di aumentare nel tempo le esportazioni e l’attrazione di capitali e talenti.
Venezia grazie alla sua grande area metropolitana di terraferma, tra Padova e Treviso, è molto orientata alla generazione di nuove imprese, sia nel digitale che nell’artigianato avanzato, dispone di una “vetrina” straordinaria con il suo centro storico, ha scuole e università di primo piano, ha un esempio fondamentale di riconversione industriale nel Vega e moltissime risorse da riorientare. Oltre a una grande opera in corso come il Mose. Lo spopolamento del centro storico è una delle dimostrazioni di quanto si possa migliorare. Come pure lo spaesamento di un centro come Mestre e un’area da bonificare come Marghera. Il punto di partenza di una nuova missione è bellissimo e sfidante come pochi al mondo. Le divisioni tra i poteri forti che la governano sono un freno. La sua struttura attuale sempra la migliore delle dimostrazioni possibili di quanto una grande iniziativa strategica possa raccogliere in termini di coesione culturale e imprenditoriale. L’energia repressa dalla mancanza di prospettiva sembra pronta a trasformarsi in sviluppo.
Cagliari unisce le meraviglie geografiche e storiche alla sedimentazione di una cultura tecnologica che diverse iniziative locali, da Video Online a Tiscali, sono riuscite ad aggregare. Il numero di startup e nuove attività che sembrano pronte a nascere sono talvolta sorprendenti se non ci si rende conto del fatto che le storie imprenditoriali hanno conseguenze di sviluppo che vanno molto oltre i confini delle aziende e che diventano competenze generative straordinarie.
La Puglia è una realtà complessa che si sta dando una missione articolata, dall’energia all’innovazione agricola e turistica, con una consapevolezza del valore delle tradizioni culturali che non ha prezzo. Salerno sembra un polo di iniziativa locale importante per un territorio difficile e allo stesso tempo denso di opportunità. Torino è un esempio di riconversione strategica di livello europeo: i suoi risultati sono sotto gli occhi di tutti e saranno oggetto di studio e ispirazione per molte grandi città. Pisa è un fantastico esempio di come l’università sia una risorsa di sviluppo. Bergamo non cessa di avanzare con le sue grandissime potenzialità. Bolzano, Trieste, Gorizia, Perugia… Impossibile nominare tutti i centri di iniziativa e innovazione che non cessano di affacciarsi all’attenzione. Del resto, gli infiniti distretti idustriali e di competenze dei quali l’Italia è ricca e che la sostengono anche in questa fase estremamente critica si adattano, si riconfigurano, si ripensano. Soffrono ma vivono. L’Italia non è quella che si vede con gli algoritmi astratti della finanza globale. Anche se con quegli algoritmi deve fare i conti. E mentre forse sta coltivando una prospettiva per i suoi giovani, che passa per l’adozione di un nuovo paradigma di progresso orientato alla qualità della vita, non può non porsi l’obiettivo di crescere per restare agganciata alle richieste della finanza globale, alla quale, indebitandosi, ha ceduto una parte di sovranità. Le baruffe della politica e le scorrettezze del suo bizzarro capitalismo sono uno dei pesi che si porta dietro. La sua ancora, in questo senso, è l’Europa. La sua ricchezza però è nei suoi territori.
Come farà un governo passeggero e instabile come l’attuale per favorire i suoi territori?
Startup digitali, startup industriali, nuove imprese sociali, sono possibilità di rigenerazione. Non certo esaustive. Le grandi opere sbloccate sono spesa pubblica che può aiutare. Semplificazione fiscale e burocratica sono azioni ineludibili. E il confronto pragmatico con le condizioni offerte all’impresa dai paesi concorrenti è una via di avanzamento chiara.
Ma per i territori occorrerà attenzione e cura. Educazione, ricerca, ambiente, urbanistica, infrastrutture, progetti di smart city. Iniziative sociali. Civic media. Ma forse più di tutto, difficili e generativi, saranno importanti le forme di azione orientate a favorire la progettazione e la narrazione di missioni e prospettive adatte al territorio. Sia attraverso proposte disegnate dal centro, sia soprattutto favorendo l’elaborazione di strategie unitarie e catalizzanti che nascono nei territori stessi. Vasto programma. Un po’ come una ricostruzione.

Post di servizietto

L’Agenzia per la diffusione delle tecnologie dell’innovazione ha pubblicato (link diretto) il resoconto, a cura di Pierluca Santoro, dell’evento Innovatori Jam, tenutosi lo scorso settembre: ne parlavo qui su NuoviAbitanti.

In quell’occasione svolgevo il compito di facilitatore nei forum dedicati all’e-tourism, provando a bilanciare ragionamenti che andavano dalle cartografie digitali ai possibili emergenti format digitali di narrazione territoriale, con cui arredare le mappe oppure provvedere autonomi “percorsi di senso” dell’abitare un territorio, quando oggidì possiamo noi stessi “scriverci” sopra, raccontandolo.

Il Report rappresenta la sintesi dei contributi di coloro che hanno partecipato ai 10 focus del Jam, e mi fa piacere segnalare come la discussione appena descritta sia stata messa in rilievo, a testimoniare la buona qualità degli apporti.

Nel frattempo vado in giro a raccontare cose di web a insegnanti e studenti: a Pordenone, domani 24 febbraio alle 17.30, presso l’ex convento di San Francesco.

Innovatori Jam 2011

C’è un articolo interessante di Riccardo Luna su Repubblica, dove l’ex direttore di Wired elenca i tentativi e le sperimentazioni che negli ultimi mesi hanno riguardato le pratiche italiane e europee di costruire democrazia grazie al web.

Meccanismi comunicativi nuovi, prese di coscienza, piattaforme online per la wikicrazia, Open Data. Partecipazione libera di cittadini che contribuiscono con le idee a migliorare il funzionamento concreto dello Stato, la sua efficienza come macchina amministrativa e la sua efficacia nel provvedere qualità della vita.

“… passare dall’e-gov, il governo che si mette in rete per dare servizi; al we-gov, i cittadini che diventano cocreatori delle politiche pubbliche.”

A un certo punto Luna dice che “non è dai Governi che arriva la wikicrazia”. Nell’ultimo paragrafo dell’articolo si legge che “il governo italiano è assente per ora” nella promozione di simili iniziative partecipative, benché attivo.

La prima frase, a ben vederla, è un capovolgimento logico, perché sono i Governi che arrivano dalla democrazia. I popoli hanno combattuto per avere sistemi di potere sempre più giusti e adeguati alle esigenze e ai diritti dei singoli e delle collettività: se a esempio mancasse la democrazia, quella forma di governo si chiamerebbe dispotismo. Nella parola wikicrazia è poi esplicitamente contenuto il concetto di “partecipazione paritetica”, come condivisione e scambio libero e a tutti accessibile.

I Governi possono promuovere la democrazia, confidando nel miglioramento del sistema. Possono affinare gli strumenti dell’amministrazione del territorio, possono studiare il modo per incrementare la circolazione delle informazioni e delle opinioni (come la Scuola, come la libertà di espressione e di stampa). E possono oggi imparare a ascoltare sempre meglio i cittadini, coinvolgendoli attivamente nella produzione di soluzioni e proposte.

E’ come nel caso degli Open Data: se i governi (Open Government) pubblicassero *tutto*, tutti i dati statistici e tutti gli atti amministrativi etc., i singoli potrebbero utilizzare quei dati per ricavarne delle analisi, degli studi comparativi, perfino delle applicazioni software con cui ottimizzare l’Abitare concreto e quotidiano sul territorio.

Pubblicare i dati sarebbe per i Governi un segnale di apertura alla conversazione, tanto quanto sollecitare la pubblica partecipazione dei cittadini dentro “contenitori di wikicrazia”, affinché possano nutrire con idee e contenuti il dibattito pubblico. Perché i contenuti (le idee) sono di tutti, e offrire dei contenitori governativi per ospitare queste idee è una buona idea, se non vogliamo finire a parlare di queste cose su Facebook, che è un luogo privato e commerciale, mentre questi discorsi devono avvenire in piazza e non nei salotti di qualcuno, e le piazze sono pubbliche.

Ci sono stati in passato esempi di “call for ideas” governativi. La Riforma Brunetta è stata pubblicata lo scorso anno sui siti istituzionali in forma “provvisoria”, sono stati aperti dei forum su cui chiunque poteva intervenire per apportare commenti e suggerimenti, e dopo qualche mese è stata promulgata in maniera definitiva.

Sempre per smentire bonariamente Riccardo Luna sull’assenza del Governo italiano nella promozione di “contenitori di wikicrazia”, segnalo anche una importante iniziativa che si terrà il 13 e il 14 settembre prossimi, a cura dell’Agenzia per la diffusione delle tecnologie dell’Innovazione.

L’iniziativa si chiama Innovatori Jam 2011, sul sito viene descritta come un evento di massa gestito on-line che, attraverso la partecipazione e la collaborazione di migliaia di persone, consente l’emersione e la contemporanea condivisione di idee, valori, best practice e soluzioni ovvero quell’insieme di elementi che costituiscono l’”intelligenza collettiva” di una comunità.

Come in una jam session musicale, L’Agenzia governativa (con IBM) mette a disposizione di 20.000 persone una piattaforma online di discussione, dalla partecipazione libera.
Gli argomenti sono stati suddivisi secondo dieci aree tematiche:

1- Innovazione e internazionalizzazione: Italia degli Innovatori
2- Giovani, talento e merito nella ricerca e nell’innovazione
3- Start up, incubatori, venture capital
4- I ranking dell’innovazione
5- Accessibilità, apps e nuovi canali
6- Digital agenda: open data, cloud computing e banda larga
7- e-commerce & e-tourism
8- Il Codice dell’Amministrazione Digitale
9- Informazione e nuovi canali
10- Le Smart Cities del futuro?

Personalmente curerò in veste di facilitatore le discussioni sull’area di discussione n. 7 (avendo interesse all’innovazione relativa ai sistemi di rappresentazione – cartografia digitale – del territorio) e sull’area 10, sulle Smart Cities. nelle mattine del 13 e del 14 settembre. Magari andrò a sbirciare anche negli altri forum: come NuovoAbitante, sono decisamente curioso.

Per partecipare occorre iscriversi, è gratis; poi il 12 Settembre via e-mail direttamente dai promotori di Innovatori Jam 2011 riceverete tutte le info per contribuire a questa iniziativa.

Su twitter l’hashtag è #ij11.

Se l’Italia va in fallimento

Trovato qui.

Default. Ok, ma cosa comporterebbe per me?

Forse sarà il caso di cominciare a rifletterci. I nostri politici non sembrano un granché consapevoli di ciò che sta accadendo. Ma anche i cittadini paiono abbastanza distratti. E c’è perfino chi invoca il default come una manna che risolverebbe tutti i problemi del paese. Dunque, forse, è giunta l’ora di porsi seriamente la domanda: cosa succede a me se l’Italia va in default?

Difficile rispondere, salvo dire che sarebbe l’evento più traumatico affrontato dal paese dai tempi della seconda guerra mondiale. Non perché non vi siano esempi in età contemporanea di paesi che non sono stati in grado di onorare i propri impegni finanziari (Corea del Nord, Argentina, Russia solo per citarne alcuni), ma perché il default sul debito italiano sarebbe veramente un evento epocale, una crisi finanziaria come il pianeta non ha conosciuto dai tempi dei grandi conflitti mondiali. L’Italia possiede il primo debito pubblico in Europa per un valore pari a circa 1900 miliardi di euro. Il mercato BTP era considerato, fino a non poco tempo fa, come uno dei più liquidi su cui investire. Dunque nelle grandi istituzioni della finanza vi sono depositati enormi quantità di titoli pubblici italiani che, a Wall Street, senza tanti giri di parole, vengono già apertamente paragonati ai tanto famigerati titoli tossici di tre anni fa (i subprime, ricordate?). Ed infatti già è partita la gran corsa a liberarsene il più in fretta possibile. I record registrati dallo spread del BTP decennale sull’equivalente bund tedesco stanno a rappresentare proprio questa corsa alla salvezza dal rischio di un default dell’Italia. Nessuno sa di preciso cosa accadrebbe. Tutti però sanno che sarebbe devastante.

 Ma aldilà delle ripercussioni sulla finanza globale (come, ad esempio, la fine dell’euro e una crisi finanziaria globale senza precedenti) che già di per se dovrebbero destare enormi preoccupazioni (una tale crisi infatti avrebbe immediate e devastanti ripercussioni sull’economia globale con l’avvio di una crisi economica che colpirebbe tutte le principali economie del mondo, in particolare la nostra), cosa accadrebbe ai cittadini normali? Ripeto, difficile rispondere, ma sarà meglio cominciare a farsi un’idea, anche a costo di essere brutali.

Come prima cosa partirebbe la corsa agli sportelli delle banche. In verità, come ci raccontano le cronache, questa corsa è già partita in sordina, soprattutto per portare fuori dalle filiali tutta quella liquidità che è a maggior rischio di essere soggetta ad imposte di emergenza come i patrimoni evasi. Partita la corsa, le banche si ritroverebbero presto a corto di liquidità e i cittadini finirebbero rapidamente per trovare le serrande alle filiali con la scritta “chiuso fino a data da destinarsi”. A questo punto, i risparmiatori, finalmente resisi conto della serietà della cosa, correrebbero ai supermercati per fare provviste, salvo rendersi conto che le loro carte di credito e i bancomat non vengono più accettati. E mentre il commercio andrebbe in tilt, le banche si vedrebbero costrette a chiudere le linee di credito verso le aziende. Come noto, le nostre aziende sono straordinariamente sottocapitalizzate e dipendono in modo essenziale dal credito. Comincerebbero a saltare i pagamenti. Prima si tagliano i fornitori con aggravio ulteriore della posizione di cassa delle aziende. Ma ad un certo punto, arriverebbe il giorno degli stipendi, e sarebbero fortunati coloro che si trovassero a ricevere solo una decurtazione nella busta paga. Peggio andrebbe ai dipendenti pubblici e ai pensionati. Con lo stato incapace di reperire liquidità sui mercati, si andrebbe a raschiare il barile e sarebbero in tanti a rimanere completamente a secco. Nel frattempo l’Italia sarebbe già fuori dall’Euro, costretta a reintrodurre la lira. Evviva, grideranno in molti, soprattutto le imprese esportatrici, a partire da quelle manifatturiere che costituiscono il nerbo dell’economia nazionale. Con il ritorno alla lira, in automatico partirebbe la svalutazione che renderebbe più competitivi i nostri prodotti sui mercati internazionali. Certo! Peccato però che il debito pubblico, oggi al 120% del PIL, è stato in buona parte emesso in euro. Quindi, altrettanto automaticamente, si assisterebbe ad una rivalutazione del debito che non farebbe fatica a raggiungere il 200% del PIL, rendendo, a quel punto, qualsiasi futura azione di ristrutturazione l’equivalente di una carneficina. E non parliamo del peso che graverebbe sulle generazioni future.

E tutto questo non sarebbe che l’inizio. Con il commercio in tilt, le aziende a secco e lo stato incapace di pagare anche la cancelleria, seguirebbe una crisi devastante con un’inflazione a due-tre cifre, milioni di nuovi disoccupati, il crollo dei valori immobiliari e i risparmiatori sul lastrico. Ed un giorno avremmo anche la notizia di pugliesi sui gommoni che schivano le vedette della guardia costiera albanese per raggiungere le coste di quel ormai prospero paese….

Ripeto, si tratta di una brutalizzazione. Molti di questi eventi comincerebbero a manifestarsi già prima di un default. Ma che dite? Vogliamo provarci seriamente ad evitare questo scenario?

Il lavoro di domani

Un’importante compagnia telefonica offre un posto di lavoro, di quelli moderni, di quelli che nessun padre oggi sospetta il figlio potrebbe occuparsi domani, perché si tratta di professionalità nuove, mai viste.
Quali scuole preparano le persone a affrontare con competenza il mercato lavorativo della Società della Conoscenza? Come rifare la scuola, per adeguarla ai cambiamenti odierni?

User Experience Manager
Il ‘manager dell’esperienza-utente’ gestisce la valutazione della progettazione centrata-su-l’utente (user-centered design), esegue analisi sull’architettura dei contenuti, agisce come Esperto di Usabilità su progetti online, pianificando, eseguendo e documentando test di usabilità di vario tipo. Avendo come responsabilità massima l’analisi e l’ottimizzazione dei percorsi di navigazione dei fruitori online dentro l’Online Marketplace, lavora a stretto contatto con i manager di Prodotto e di Contenuto aiutando a identificare aree di miglioramento e possibili soluzioni di sviluppo. Cerchiamo una persona con la passione di identificare schemi (patterns) dentro i dati e usare queste informazioni per ridurre i fattori di attrito tra i siti istituzionali di e-commerce e info-commerce della Compagnia, le campagne mediatiche online, gli strumenti di cura digitale (digital caring tools).

Far saltare il dispositivo Maastricht, E poi?

Bifo, da qui

Rivolte nelle strade di Londra di Roma e di Atene, occupazione di centinaia di piazze nelle città spagnole. Quel che è accaduto tra l’autunno 2010 e la primavera 2011 non è stata un’improvvisa effimera esplosione di rabbia ma l’inizio di un processo che continuerà per anni e crescerà raccogliendo forza e visione strategica.
Un processo simile è iniziato nelle città arabe. Quella che vediamo là non è una rivoluzione per la democrazia, come dicono ipocritamente gli occidentali. Non è in vista nessuna democrazia nei paesi arabi, né alcun segnale di stabilizzazione post-rivoluzionaria. Quel che vediamo in Nord Africa come nel Medio Oriente è l’emergenza di una nuova composizione sociale fondata sul lavoro precario cognitivo, sull’intelligenza sociale collettiva che è sottoposta al dominio dell’ignoranza religiosa della privatizzazione economica e della corruzione. E’ l’inizio di una rivolta dilungo periodo destinata a convergere con quella europea.
Dieci anni fa, in seguito al dotcom crash che segnò la crisi della new economy, il semiocapitalismo finanziario iniziò lo smantellamento della forza politica dell’intelletto generale.
La privatizzazione delle risorse comuni della conoscenza e della tecnologia, la precarizzazione e lo sfruttamento crescente del lavoro cognitivo avanzarono insieme. Ora, in seguito al collasso finanziario del settembre 2008 il capitalismo finanziario ha lanciato l’aggressione finale. La spesa sociale viene tagliata, la scuola pubblica e l’università vengono distrutte, la ricerca è sottoposta a strategie di profitto di breve termine. L’insieme della società viene aggredita, impoverita, minacciata e umiliata, per imporle di pagare il debito accumulato dalla classe finanziaria.
Nei prossimi mesi le lotte sono destinate a proliferare radicalizzarsi. Questo è inevitabile, perché è la sola alternativa alla miseria e alla depressione generale.
Combatteremo uniti. Ma non basterà. Il problema che dobbiamo affrontare adesso è un problema d’immaginazione, non di forza. Cosa verrà fuori dalla insurrezione che si prepara in Europa?
Tutti vediamo il pericolo del crollo d’Europa: il ritorno dei peggiori incubi è già percepibile nell’espansione del nazionalismo del populismo mediatico e del razzismo nella psiche sociale.
L’assassino nazista di Oslo e i figuri leghisti che si riuniscono a Monza per celebrare i loro riti razzisti fanno parte dello stesso processo: la frustrazione ignorante e il fanatismo si saldano in una miscela tremenda di tipo nazista che è già forza di governo in paesi come l’Ungheria.
Cerchiamo di capire le premesse di questa situazione.
L’Unione Europea, che nel dopoguerra ha rappresentato una speranza di solidarietà sociale, negli anni della svolta neoliberista venne riprogrammata come congegno di governance monetarista, con una fissazione centrale: ridurre il costo del lavoro, ridurre la quota di reddito che va ai lavoratori.
In ossequio al nuovo dogma liberista e monetarista, nel 1993 venne costruito un dispositivo politico-finanziario che prese nome di Trattato di Maastricht.
Questo dispositivo comporta alcuni criteri che debbono essere rispettati dagli stati che non vogliano essere espulsi dall’UE. I criteri fondamentali sono questi:
Il rapporto tra deficit pubblico e PIL non deve essere superiore al 3%.
Il rapporto tra debito pubblico e PIL non deve essere superiore al 60% .
Il tasso d’inflazione non deve superare l’1,5% rispetto a quello dei tre Paesi più virtuosi.
Il tasso d’inflazione a lungo termine non deve essere superiore al 2% del tasso medio degli stessi tre Paesi.
L’ordine monetario dell’unione europea viene sottoposto alla supervisione della Banca Centrale Europea, il cui statuto prevede una completa autonomia rispetto alle decisioni del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali, e stabilisce una finalità primaria dichiarata, che è quella di contenere l’inflazione.
Questo ferreo dispositivo giuridico-finanziario sul quale si fonda l’Unione Europea funziona come un automatismo che governa i processi di decisione politica e in ultima analisi costituisce un limite per le possibilità di immaginazione della società europea. Funziona in modo tale da costringere i paesi dell’Unione a ridurre il costo del lavoro, a ridurre la massa di risorse investite nel benessere della società, per contenere l’inflazione, per ridurre il deficit pubblico e per aumentare il profitto finanziario.
Naturalmente si potrebbero perseguire strategie differenti, come quella di tassare le transazioni finanziarie e di tassare i grandi patrimoni. Ma nel dispositivo neoliberista queste misure sono interdette, impronunciabili. Di conseguenza l’applicazione dei criteri di Maastricht ha prodotto negli ultimi due decenni uno spostamento gigantesco di risorse dal lavoro verso il capitale e dalla società verso la rendita finanziaria.
L’Europa è un continente ricco, ricchissimo. Milioni di tecnici, ingegneri, medici, progettisti, architetti, poeti, artigiani, biologi, insegnanti, donne e uomini di ingegno e cultura raffinata hanno reso questo continente agiato, comodo, piacevole. Da cinque secoli la borghesia, classe laboriosa e disciplinata ha progettato le città, le fabbriche, le strutture della vita civile. Una classe operaia vastissima, addestrata, qualificata e costretta alla disciplina ha innalzato ponti e grattacieli, prodotto milioni di macchine e macchinette.
Con la lotta sindacale e politica la classe operaia ha imposto alla borghesia di condividere parte della ricchezza prodotta, così che una parte vastissima della società europea ha potuto godere dei prodotti del lavoro industriale, e ha potuto avere accesso ai servizi che rendono la vita tollerabile, talvolta perfino piacevole.
Poi è arrivata la deregulation, la competizione internazionale si è fatta sempre più feroce, e la borghesia industriale ha dovuto cedere il posto di comando a una classe eterogenea, più spregiudicata e poliglotta, spesso arricchita grazie ad affari criminali, che detiene e maneggia un capitale immateriale, puramente semiotico: la classe detentrice del capitale finanziario.
Si tratta di una classe de territorializzata che possiamo definire come classe virtuale, in quanto essa sfugge all’identificazione fisica, territoriale, eppure i suoi movimenti e le sue scelte producono effetti visibilissimi nel corpo vivente della società. La classe finanziaria ha carattere virtuale perché essa non si presenta con un volto riconoscibile, ma piuttosto agisce come pulviscolo di innumerevoli scelte compiute da agenzie impersonali, come sciame guidato da una volontà inconsapevole.
Per quanto non identificabile e pulviscolare la classe de territorializzata della finanza sta imponendo all’Unione Europea il dogma secondo cui la società europea deve diventare povera, miserabile, infernale per essere competitivi sui mercati internazionali.
Il dispositivo Maastricht ha cominciato a funzionare come un sistema di automatismi tecno-finanziari il cui effetto è il contenimento e la riduzione della spesa sociale e l’aumento della rendita finanziaria.
Questi criteri non sono affatto naturali né inevitabili, ma neppure sono il risultato lineare di scelte politiche individuabili. Essi si impongono con la forza dell’automatismo. Possiamo definirli come dispositivo, cioè prodotto dell’azione umana che si sottrae alla volontà e si sovrappone all’azione umana, automatismo che pre-dispone l’azione umana a ripetere una procedura. Dopo il 2008, dopo la crisi dei mutui immobiliari americani e il successivo sconquasso della finanza occidentale, la rigidità dei criteri di Maastricht ha impedito qualsiasi flessibilità della decisione politica.
Il dispositivo Maastricht ha fatto fallimento. La crisi greca e tutto quel che segue é dimostrazione del fatto che questi criteri non hanno prodotto dei buoni risultati. Andrebbero rivisti, in modo da rilassare un po’ il respiro degli europei, in modo da restituire risorse alla società.
Ma l’autorità europea (che è un’autorità unicamente finanziaria, dal momento che l’autorità politica non conta niente) applica questi criteri in maniera tanto più fanatica quanto più fallimentare.
A partire dalla crisi greca della primavera 2010 l’effetto del dogmatismo neoliberista e monetarista è visibile: peggioramento delle condizioni di vita della società, aumento della disoccupazione, smantellamento delle strutture della vita civile e dei servizi sociali, insomma impoverimento generalizzato.
La classe finanziaria (le banche, le assicurazioni, il mercato borsistico), che pure hanno lucrato sul rischio (ad esempio imponendo alti interessi sui Credit Default Swaps) ora rifiutano di assumersi le conseguenze di quel rischio, e vogliono scaricarlo sulla società.
Per pagare il debito accumulato negli ultimi decenni dalla classe finanziaria, la società europea viene sottoposta a un dissanguamento generalizzato:
il sistema educativo, che costituisce il pilastro fondamentale per lo sviluppo civile, viene de finanziato, ridimensionato, impoverito, privatizzato in parte.
Il sistema sanitario viene definanziato e tendenzialmente privatizzato.
Le strutture di trasporto e di approvvigionamento energetico vengono privatizzate e quindi sottoposte a logiche economiche del tutto estranee ai bisogni della collettività e funzionali soltanto agli interessi del ceto finanziario, e agli obiettivi strategici della Banca centrale.
Insomma, la società europea viene drasticamente impoverita, tendenzialmente devastata e imbarbarita, pur di non scalfire il castello d’acciaio della cosiddetta stabilità finanziaria.
Se questo è il prezzo dell’adesione all’Unione Europea, presto nessuno vorrà più pagarlo, e allora si rischia il crollo dell’Unione, la cui conseguenza può essere la moltiplicazione dei populismi territorialisti e mediatici, il diffondersi della peste fascista e razzista ai quattro angoli del continente. l’Italia ha anticipato questa tendenza, con il lungo predominio del partito mafioso di Berlusconi e del partito razzista di Bossi.
L’insurrezione europea è nell’ordine dell’inevitabile. Il problema non è organizzarla, si organizza da sé. Il problema è immaginarne l’esito, costruire le istituzioni che rendano possibile l’autonomia della società dalla catastrofe inarrestabile dell’economia capitalista.
Bifo
25 luglio 2011

L’ossimoro del capitalismo ecologista

Una buona intervista a Severino, su Il Manifesto.

… andiamo verso un tempo in cui il mezzo tecnico, essendo diventato la condizione della sopravvivenza dell’uomo – ed essendo anche la condizione perché la Terra possa esser salvata dagli effetti distruttivi della gestione economica della produzione – è destinato a diventare la dimensione che va sommamente e primariamente tutelata; e tutelata nei confronti di tutte le forze che vogliono servirsene. Sommamente tutelata, non usata per realizzare i diversi scopi «ideologici», per quanto grandi e importanti siano per chi li persegue. Ciò significa che la tecnica è destinata a diventare, da mezzo, scopo. Quando questo avviene, capitalismo, sinistra mondiale, democrazia, religione, ogni «ideologia» e «visione del mondo», ogni movimento e processo sociale, diventano qualcosa di subordinato; diventano essi un mezzo per realizzare quella somma tutela della potenza tecnica, che è insieme l’incremento indefinito di tale potenza.. Perciò spesso dico che la politica vincente, la «grande politica», sarà delle forze che capiranno che non ci si può più servire della tecnica. La grande politica è la crisi della politica che vuole servirsi della tecnica. Non si tratta di un processo di «deumanizzazione», o «alienazione», come invece spesso si ripete, dove l’uomo diventerebbe uno «schiavo» della tecnica; perché in tutta la cultura – anche in quella che alimenta ogni più convinto umanesimo – l’uomo è sempre stato inteso come essere tecnico. Le sto descrivendo il futuro: non prossimo, ma neanche remoto. In questo senso appunto parlo da decenni di inevitabilità del tramonto del capitalismo.

Agenda Digitale per l’Italia

Un articolo di Stefano Quintarelli per il Sole24ore

In Australia, l’anno scorso, la strategia sulla rete digitale è diventata per i media «uno dei punti di divergenza più drammatici tra i partiti in campagna elettorale». Dopo le elezioni, sono risultati decisivi i parlamentari indipendenti che hanno orientato il loro voto verso i Labor proprio per il programma di rete in fibra più coraggioso.

Il commissario europeo per la Società dell’Informazione, Neelie Kroes, ha lanciato l’Agenda digitale europea per indicare la strategia fino al 2020 e la considera elemento cardine di sviluppo e sostenibilità socioeconomica.

Secondo uno studio di Boston Consulting Group, nel Regno Unito la «internet economy» vale il 7,2% del Pil, più del settore sanitario, e il governo ha sviluppato il piano «Digital Britain» per garantire al paese un futuro tra le maggiori economie del sapere digitale. Il Technology Strategy Board ha definito le linee guida strategiche per settori fortemente condizionati dalle tecnologie digitali quali l’Ict, l’elettronica e la fotonica, la generazione e fornitura di energia, i materiali avanzati e la manifattura ad alto valore aggiunto.

L’Italia affronta da tempo un ritardo, non solo economico, ma anche infrastrutturale e culturale, rispetto alle principali economie occidentali. Abbiamo subito una perdita di competitività anche rispetto ai nostri principali partner europei. Tra il 1998 e il 2008 il costo del lavoro per unità di prodotto nel settore privato è aumentato del 24 per cento in Italia, del 15 in Francia; è diminuito in Germania. L’affermarsi dell’economia della rete digitale rende necessario affrontare trasformazioni radicali dei modelli di sviluppo. Secondo un rapporto del l’International Telecommunication Union al mondo ci sono 161 paesi che si sono dotati di una strategia digitale, ma l’Italia non è in questo elenco.

Non mancano le iniziative significative in Italia. Ma non c’è una visione né un dibattito politico in materia. Eppure, molti studi indicano che i differenziali di crescita e di produttività che si sono sviluppati negli ultimi 10 anni tra i principali paesi sono spiegati dalla diversa intensità con cui imprese, pubbliche amministrazioni e individui hanno investito in Ict. Per questo molte persone si sono unite all’appello per un’Agenda digitale per l’Italia che si trova su www.agendadigitale.org.

Enzo Rullani: territori e valori

Rullani mette in luce alcuni risvolti dell’economia globalizzata, e indica vie da prediligere per comprendere il territorio e la sua collettività, come progetto identitario e conversazione.

Qui una sintesi per punti fatta da Dario Salvelli

  • In un economia della conoscenza se tu sei uguale ad un altro non porti un piffero, il tuo valore aggiunto è zero
  • Una buona idea che rimane confinata in un ambito ristretto vale poco non diventa una forza trainante, una motrice, una spinta di business. Il valore si crea moltiplicando l’idea.
  • Le aziende più o meno se la cavano sempre ma chi rischia con la globalizzazione sono i territori, che non si possono spostare, ed i lavoratori che dovranno giustificare la differenza di reddito con altri mercati, oggi scontata, ma tra 3-4 anni assurda ed indifendibile.
  • Dobbiamo avere una diversa economia della conoscenza nelle fabbriche usando in maniera diversa le idee, i significati, il valore che si dà al prodotto che ha valore perchè si inserisce in una filiera che gli dà qualità, moltiplicatori. E’ l’intelligenza che sta nella testa delle persone che conta non nelle macchine.
  • Il nostro sistema industriale non ha mai presidiato le filiere, nessuno ha mai controllato e organizzato il valore che c’è a valle delle filiere.
  • Il territorio è una delle reti, non il contrario. Il territorio deve dare delle reti importanti locali basati sulla prossimità e l’accesso alle reti grandi e aperte.
  • Il territorio è l’identità costruita non quella storica. Bisogna interrogarsi su cosa il territorio vuole diventare. Dobbiamo imparare a raccontare e a raccontarsi: il racconto è fatto di arte, letteratura, di film, esperienze, del creare una città viva, del fare in modo che emergano idee condivise da una popolazione.
  • Dobbiamo cominciare a costruire lo spazio metropolitano, lo spazio di quelli che lavorano con noi in idee di mercato e servizi rari, importanti.
  • Il territorio non è affidato al Comune, alla Provincia, alla Regione, al federalismo. E’ una idea sbagliata: il territorio è dei cittadini che si muovono nello spazio e vanno a cercare ciò che gli serve.
  • E’ l’apertura della Rete delle persone che fa i moltiplicatori.

Ecosofia e grassroots

Copio qui un articolo divulgativo intitolato “Ecofilosofia, Ecosofia e il Movimento dell’Ecologia Profonda“, trovato sul portale di bioetica.
Interessante anche il ragionamento sulla cultura dei movimenti grassroots, l’emergere locale di valori e posizioni etiche della collettività, e come la logica orizzontale reticolare si attagli e possa essere fortemente potenziata oggi dalla presenza di una Rete globale, Internet.

EcofilosofiaEcosofia e il Movimento dell’Ecologia Profonda

Durante gli ultimi trent’anni, i filosofi occidentali hanno criticato gli argomenti di base della filosofia moderna riguardo ilmondo naturale. Questa maturazione è stata solo una parte della continua espansione del lavoro filosofico che ha coinvolto studi comparati sulle opinioni del mondo e sulle più recenti filosofie. Siccome gli studi filosofici occidentali hanno spesso ignorato il mondo naturale e siccome la maggior parte degli studi etici si sono focalizzati sui valori umani, gli approcci che mettono in risalto i valori ecocentrici hanno preso il nome di ecofilosofia. Così come la sofia o la saggezza sono la meta della filosofia tradizionale, così il traguardo dell’ecofilosofia è l’ecosofia o la saggezza ecologica. La Procedura dell’ecofilosofiaè un’indagine continua, vasta e profonda, nei valori, nella natura del mondo e nel sé.

La missione dell’ecofilosofia è quella di esplorare tutti i punti di vista che riguardano i rapporti e le relazioni tra uomo e Natura. Essa fa proprie le relazioni armoniose e più profonde tra il luogo, il sé, la comunità e il mondo naturale. Inoltre si accresce attraverso la comparazione delle diverse ecosofie con le quali le gente sostiene i principi della piattaforma del movimento, vasto e globale, dell’ecologia profonda.

Ecco la definizione originale di ecosofia di Arne Naess: «Per ecosofia intendo una filosofia di equilibrio, e armonia, ecologico. Una filosofia, del tipo sofia (o) saggezza, è apertamente normativa; essa contiene norme, regole, postulati, dichiarazioni di priorità di valori ed ipotesi che riguardano lo stato degli avvenimenti nel nostro universo. Saggezza vuol dire politica saggia, norma, non solo descrizione e previsione scientifica. I dettagli di una ecosofia avranno molte varianti in quanto esistono delle diversità che sono dovute a significative differenze non solo nei “fatti” come l’inquinamento, le risorse, la popolazione ecc. ma anche nelle priorità dei valori.» (Vedi A. Drengson e Y. Inoue, 1995, pag. 8.)

Nel 1973 (Inquiry 16, pp. 95-100) il nome deep ecology movement, ovvero “movimento dell’ecologia profonda”, venneintrodotto nella letteratura ambientale dal professore filosofo e scalatore norvegese Arne Naess. (Per una ristampa dell’articolo vedi Drengson e Inoue 1995.) L’ambientalismo nacque come movimento politico popolare, grass root, negli anni 1960 con la pubblicazione del libro Primavera silenziosa, Silent Spring, di Rachel Carson. Coloro i quali erano già attivi nelle battaglie della conservazione/preservazione vennero affiancati da molte altre persone preoccupate per gli impatti ambientali negativi della moderna tecnologia industriale. Andando indietro nel tempo potremmo considerare come vecchi membri del movimento gli scittori e attivisti Thoreau e Muir, mentre la consapevolezza della nuova corrente è più vicino alla filosofia della saggia conservazione di persone come Gifford Pinchot.

L’articolo di Naess era basato su un intervento che fece a Bucarest nel 1972 alla Conferenza sulla Ricerca del Futuro del Terzo Mondo, Third World Future Research Conference. In quell’intervento Naess discusse il vasto retroterra del movimento ecologico e le sue connessioni col rispetto per la Natura e il valore inerente degli altri esseri viventi. In quanto amante delle montagne che aveva scalato in tutto il mondo, Naess aveva avuto l’opportunità di osservare le azioni politiche e sociali nelle diverse culture. Sia storicamente che nel movimento contemporaneo Naess vide due forme di ambientalismo, non necessariamente incompatibili l’una con l’altra. Una la chiamò “il vasto movimento dell’ecologia profonda”, long-range deepecology movement, l’altra “il movimento ecologista superficiale”. La parola “profondo” si riferiva anche al livello di ragionamento sulle nostre intenzioni e sui nostri valori quando discutiamo dei conflitti ambientali. Il movimento “profondo” riguarda il porsi quelle domande che vanno direttamente alla base dei principi fondamentali. Quello superficiale si ferma prima.

Analizzando comparativamente i movimenti sociali e politici di base, grass root, nella sua struttura ecofilosofica Naessdistingue quattro livelli di ragionamento (vedi la tabella sotto). Durante la formazione dei movimenti culturali trasversaliglobali, si sviluppano delle idee condivise generali che mettono a fuoco il movimento attraverso dei principi piattaforma (questo è il caso di molti movimenti di letteratura, filosofici, sociali, politici, ecc.), così come lo sono i principi di giustizia sociale, o i principi di pace e non violenza, o i principi del movimento dell’ecologia profonda, deep ecology movement (DEM). I principi di questi movimenti emergono dalla base e per questo vengono chiamati grass root movements (come nella tradizione gandhiana), e non sono caratterizzati da un potere gerarchico che va dall’alto al basso.

Lo scopo dell’ecofilosofia è quello di raggiungere una visione totale, completa, della nostra condizione, sia come genere umano umana che come singolo individuo. La completezza comprende l’intero contesto globale, con noi in esso, noi che condividiamo un mondo di diverse culture e di diversi esseri viventi. Ci muoviamo verso una visione totale ponendoci domande profonde – sempre chiedendoci perché – verso norme e condizioni supreme, anche attraverso la formulazione (o l’applicazione) di politiche e azioni. Molto del lavoro culturale integrato viene svolto al livello dei principi della piattaforma, e le nostre opinioni trovano un’ampia convergenza a questo livello che Naess chiama Livello II. Dal questo livello possiamo iniziare impegnandoci in questioni profonde e procedere ad una elaborazione della nostra ecosofia personale, che può basarsi su alcune delle principali filosofie o religioni, come ad esempio il Panteismo o la Cristianità. Questo livello che comprende le filosofie supreme è chiamato Livello I. C’è una diversità considerevole a questo livello. Dai principi del Livello II possiamo sviluppare delle specifiche raccomandazioni e formulazioni politiche, che stanno al Livello III. L’applicazione delle politiche del Livello III porta alle azioni pratiche del Livello IV. Esistono grandi diversità di opinioni a livello delle politiche e ancor di più a livello pratico.

Nel porci domande profonde ci muoviamo verso presupposti e norme supremi [dal livello II al livello I – n.d.T.]. Nel processo di acquisizione e di applicazione ci muoviamo verso un sostegno alla piattaforma e verso politiche di sviluppo ed azioni pratiche [dal livello II ai livelli III e IV – n.d.T]. Questo è un processo continuo di avanti e indietro che mantiene la nostra conoscenza e le nostre azioni in armonia con il mondo che cambia. L’approccio profondo, quindi, diventa evolutivo, cambiando al cambiare delle condizioni naturali. (Per esempio, la “new corporation”  [o comunità] deve impegnarsi in questo movimento di avanti ed indietro e così richiede una completa partecipazione degli impiegati, dei diversi leader e dei decisori). Nei tre movimenti grass root  menzionati prima, i principi sono individuali e internazionali. E’ importante notare che c’è unagrande diversità al livello delle filosofie supreme. Non abbiamo tutti l’obbligo di sottoscrivere le stesse filosofie ecologiche supreme per lavorare assieme per il beneficio del pianeta e delle sue comunità di esseri viventi. Il fronte è molto ampio e ognuno di noi ha dei valori per dare il proprio contributo nella realizzazione di qualità di vita globalmente migliori. Dobbiamo lavorare a diversi e svariati livelli. 

Alan Drengson (Tratto da: The Trumpeter: Journal of Ecosophy, Vol 14, No. 3, Summer 1997, pp. 110-111)

Critica dell’automobile

Daniel Cohn-Bendit, europarlamentare verde e leader di Europe écologie, propone nel suo ultimo lavoro “Osare di più” riflessioni sul futuro della politica e sull’economia ecologica. Avanzando proposte radicali.
“Osare di più. Morte e rinascita della politica” è l’ultima fatica  di Daniel Cohn-Bendit, in uscita per i tipi “I libri necessari” della neonata “edizioni dell’Asino”, un progetto editoriale frutto della collaborazione tra Lunaria e Lo Straniero con la partnerschip di Redattore Sociale. Ne pubblichiamo una anticipazione con la cortese autorizzazione dell’editore. E’ possibile acquistare il libro anche dal sito www.asinoedizioni.it La sintesi del testo che segue – a cura di Gianpaolo Silvestri – è parte del capitolo “Per una nuova ecologia politica” raccolto da Giulio Marcon e rivisto dall’autore. 
Innanzitutto dobbiamo ricordare un dato fondamentale, da cui partire: oggi abbiamo raggiunto un livello impressionante di sovrapproduzione dell’automobile. Per l’Unione Europea la produzione di automobili è certamente un fatto importante: in Europa si concentra quasi il 35% della produzione automobilistica mondiale. Ogni anno si producono più di 19 milioni di automobili e l’industria automobilistica coinvolge oltre 12 milioni di famiglie. È un fatto importante. C’è un però. C’è una crisi di sovrapproduzione. ..Produciamo molte più automobili di quelle di cui abbiamo bisogno: questo il dato di fatto. Perciò, non è vero che oggi sia possibile salvare contemporaneamente le industrie della Fiat, dell’Opel, della Peugeot, della Mercedes e altre ancora…Oggi abbiamo una sovrapproduzione del 30% di automobili in Europa: non è possibile mantenere questi livelli di produzione e non è possibile salvare contemporaneamente tutte le fabbriche di automobili europee. È impensabile, a meno che di non mettere in campo una politica assistenzialista di stato per la produzione di merci di cui non abbiamo bisogno e che fanno male al nostro ambiente. Il tutto a carico dei cittadini.
Ma, purtroppo, il discorso economico prevalente sull’automobile nella sinistra tradizionale e nella destra è sempre lo stesso: bisogna salvare l’industria automobilistica, è necessario rilanciarla e svilupparla, bisogna dare nuovi e sempre più consistenti incentivi, eccetera. È un discorso vecchio e sbagliato; ed è lo stesso discorso che si faceva vent’anni fa sulla siderurgia, di fronte alla crisi evidente di una produzione che – oltre a essere dannosa per l’ambiente – era condannata a essere ridotta e limitata…Si trattava di un settore produttivo indifendibile: si è tentato l’impossibile, sono stati spesi un sacco di soldi e l’obiettivo non è stato raggiunto. Lo stesso discorso si può fare per l’industria automobilistica. Dobbiamo avere il coraggio di dire a tutti noi, alla politica, alle imprese, ai sindacati, ai lavoratori, alla società: l’era dell’automobile è finita e dobbiamo pensare a come gestire la sua riduzione e limitazione, non a come salvarla e rilanciarla. Dobbiamo porre fine a questa illusione e all’idea che si possa rilanciare l’economia attraverso la produzione automobilistica, un settore produttivo che non ha futuro. Dobbiamo chiedere alla politica europea di assumersi la responsabilità di un nuovo modello di sviluppo e di una nuova mobilità che non sia più fondata sull’uso privato dell’automobile. In questo senso sarebbe necessario creare una sorta di Agenzia europea per la trasformazione dell’economia e utilizzare il Fondo europeo per lo sviluppo regionale per favorire iniziative di riconversione e cambiamento delle produzioni. Perché più in generale dobbiamo essere consapevoli che una parte della attività industriale (oltre alla siderurgia e a quella automobilistica) del’900 è condannata inesorabilmente a scomparire. Per questo dobbiamo essere in grado di anticipare il più possibile i tempi, evitando un assistenzialismo che non serve a nulla, e avere il coraggio di investire in altre produzioni, compatibili con la crisi ecologica che stiamo vivendo.
Giustamente si dice che tra qualche anno, quando tutte le famiglie cinesi e indiane avranno una automobile, o più di una come succede da noi, (e anche magari un condizionatore d’aria, un frigorifero, una lavatrice, una lavastoviglie, eccetera) il nostro mondo andrà in rovina: l’inquinamento sarà insostenibile e il consumo di energia oltre ogni livello accettabile. Ma c’è una considerazione in più da fare, ed è questa. Se pensiamo che questa richiesta di beni dei cinesi e degli indiani possa essere soddisfatta dalle nostre industrie, ci illudiamo. I cinesi e gli indiani non compreranno certo le nostre automobili, se non in minima misura, perché se le produrranno – e già se le producono – nel loro paese con le loro industrie (e naturalmente a prezzi inferiori dei nostri). È un’illusione che i nostri mercati e le nostre industrie (e questo vale anche per gli altri settori produttivi) possano produrre per la Cina, per la l’India e magari anche per la luna. Questa è – appunto – una pura illusione, generata da una visione economica, quella del produttivismo illimitato, che non ha alcun futuro nel mondo globalizzato.
Analizziamo ad esempio le misure – come la rottamazione – che molti paesi europei hanno preso in questi mesi per far fronte alla crisi dell’automobile: una misura che alcuni di questi paesi prendono in realtà normalmente, anche in periodi in cui non c’è crisi economica. Si tratta di una misura assistenzialistica, ormai, ordinaria e continuativa. La rottamazione è una misura inutile e dannosa. È una misura che non serve a nulla. È una boccata d’ossigeno per un sistema economico e produttivo insostenibile e che non ha futuro. Lo stato dà questi soldi per niente, sono soldi buttati al vento…. 
Per dare un futuro all’industria automobilistica – per farla sopravvivere ancora per un po’ – l’unico modo sarebbe quello di costringere le persone a cambiare sempre più velocemente la vecchia macchina con una nuova: oggi, magari, cambiandola ogni tre-quattro anni, e poi domani ogni due, e dopodomani una volta l’anno. Ma questa è una vera follia e ci porterà al disastro ecologico e sociale. È vero che nel’900 l’automobile è stata un simbolo di modernizzazione, di stile di vita, anche di libertà e di democrazia, di avanzamento ed emancipazione sociale, ma oggi non è più così. Dobbiamo avere il coraggio di dire alle persone: è ora di cambiare totalmente e radicalmente il sistema della mobilità esistente. Quello dello sviluppo illimitato della produzione delle automobili ci porta al disastro ambientale e sociale. Il futuro non è dell’automobile… 
Dobbiamo porre fine a un sistema della mobilità fondato sull’automobile privata e a un modello di sviluppo economico fondato sulla produzione di automobili. Le automobili vanno certamente rottamate, ma definitivamente, non per farne delle altre.
Fonte: Terra

Acqua, treni, km0, fotovoltaico: segnalazioni

In Regione esistono dei Comitati dei Pendolari. Sì, i comitati di quelli che quotidianamente o comunque con notevole frequenza prendono dei treni per recarsi sul posto di lavoro, e ogni giorno possono notare le criticità (pulizia, riscaldamento, puntualità, linee soppresse) delle Ferrovie. Negli anni scorsi, in maniera assolutamente spontanea, molti pendolari han fatto passaparola tra loro, riuscendo in tal modo a essere talvolta ascoltati nelle loro richieste di miglioramento dei servizi ferroviari.
Cercando in Rete, ho trovato il blog del Comitato Pendolari Gemona Udine e quello del Comitato Pendolari FVG: su quest’ultimo trovate, a questo indirizzo, un interessante intervento di Marco Chiandoni intitolato “Acqua e ferrovia” dove con gli opportuni distinguo viene tentato un parallelo tra le reti di distribuzione dell’acqua e le reti di distribuzione di umani, ovvero i binari, e le conseguenze di una loro privatizzazione, come in molte parti è successo.
Contro la spesa a chilometri zero. Certo, il più delle volte ridurre le distanze tra produttori agricoli e consumatori migliora la qualità dell’ambiente, in quanto evita di immettere nell’atmosfera quintali di anidride carbonica prodotta dai necessari trasporti delle derrate.
Ma bisogna porre attenzione: dobbiamo sempre procedere pragmaticamente, senza che una visione ideologica (il km0 è sempre preferibile) condizioni i nostri comportamenti d’acquisto.
Un articolo di Dario Bressanini, nella rubrica “Scienza in cucina” sull’Espresso, spiega che le cose non sono semplici come sembrano. A esempio, metà dell’inquinamento è provocato dal consumatore, non dal produttore e dalla filiera dei trasporti. Se devo fare 20 km in auto per fare il giro dei negozietti alimentari che vendono prodotti a km0, inquino di più di quanto farei se andassi direttamente in un unico luogo di grande distribuzione, dove tutte le merci convergono.
E’ da comprendere un fenomeno che si chiama economia di scala. L’ipotesi che un cibo locale richieda sempre meno energia si è rivelata falsa. Produrre carne d’agnello in una grande fattoria in Nuova Zelanda e portarla ad Amburgo richiede meno energia che l’allevamento in Germania, dove visto il clima dovrebbero essere inclusi nel ragionamento anche gli sprechi dovuti al riscaldamento delle fattorie, i mangimi, la cura.
Se compro pomodori in un Farmer’s Market a febbraio a Udine, sicuramente sto comprando pomodori cresciuti in serra: potrebbe facilmente darsi che il consumo energetico complessivo per produrli in FVG sia superiore a quanto gli stessi pomodori richiederebbero se fossero stati coltivati in SudAfrica, tenendo conto anche del trasporto per portarli sulle nostre tavole.
Il fotovoltaico ha bisogno di una filiera. Per potenza installata l’Italia, dopo il boom degli ultimi due anni, si trova al secondo posto nella classifica in Europa dopo la Germania per potenza installata. Se però allarghiamo lo sguardo allìintera filiera di produzione dei pannelli fotovoltaici le cose purtroppo cambiano decisamente in peggio.
Basti pensare che l’industria italiana delle energie rinnovabili complessivamente deve importare circa i tre quarti della componentistica necessaria. Un problemino che non incide negativamente solo (si fa per dire) sullo sviluppo occupazionale ed economico che invece potrebbe derivarne, ma che fa salire anche i prezzi mettendo a rischio il raggiungimento degli obiettivi che su scala europea toccherebbero all’Italia, ovvero il 17% di produzione da fonti rinnovabili al 2020. E a dirlo è la Commissione europea, che ha già fatto cattivi pronostici per il nostro paese.
Quando invece, secondo uno scenario condotto da Iefe-Bocconi, se l’industria italiana riuscisse a coprire almeno il 70% del fabbisogno interno di componenti per la generazione di energia rinnovabile da qui al 2020, si potrebbero creare almeno 175 mila nuovi posti di lavoro e un fatturato di circa 70 milioni di euro.