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Iniziative sulla webtv

Fonte: Innernet

Si chiama vogliamolawebtv il Movimento per una tv di qualità e l’informazione dal basso che raccoglie, in una sola home page, i volti degli italiani che dicono basta alla pessima tv generalista, commerciale, povera di contenuti, diseducativa. poco attenta ai grandi temi sociali.

Genitori, studenti, insegnanti, attori, psicoterapeuti, imprenditori, manager, musicisti, blogger e tanti altri hanno già aderito, alcuni anche con un video amatoriale in cui spiegano perché auspicano l’avvento di una nuova tv su web, più libera e democratica. Ma bisogna diffondere il tam tam in Rete. Bisogna essere in tanti.

Uno dei motivi per cui l’Italia è in declino sul piano sociale, economico e spirituale è perché, a mio avviso, stiamo subendo da circa vent’anni un poderoso inquinamento televisivo, e dunque mentale, che ci mostra un’Italia fatta di concorsi, veline, lacrime finte, nomination, reality, canzoni, pacchi e premi, aggressioni verbali, vip e roba del genere. Soprattutto: una informazione televisiva censurata, manipolata, controllata. La web tv, al contrario, può fare la differenza.

Video prodotti dal basso e dagli utenti, nessuna necessità di ottenere concessioni televisive, investimenti ridotti. Dunque una possibilità concreta di produrre contenuti di qualità e interessanti, che nutrono la mente e l’anima.

Se proprio dobbiamo guardare la tv, allora che sia di qualità. Personalmente, come spesso ripeto dal mio blog, la tv italiana è infetta e diseducativa. Io non la guardo. E’ una tv imposta dall’alto. Ma le cose possono cambiare: io mi batto per un’ecologia dell’informazione, soprattutto per i tanti giovani di questo Paese. Ed anche per le mamme e i papà che desiderano un mondo migliore per i propri figli e non si rispecchiano nella cattiva tv italiana, che veicola modelli molto discutibili. Posso assicurarvi, siamo davvero in tanti a non poterne più di questa pessima tv italiana.

Come presidente di Netdipendenza Onlus sono impegnato in progetti e iniziative che possano limitare la dipendenza dagli schermi. E la tv che abbiamo in Italia, imposta da un cartello politico e finanziario, induce la passività, il sonno delle menti, e ciò può favorire la dipendenza. Dunque, se proprio bisogna guardare la tv, allora che sia una tv di qualità.

Contribuiamo alla nascita di una web-televisione che migliora l’uomo. Una tv dove e’ possibile scegliere i contenuti e produrre notizie dal basso, per una ecologia della mente e dell’ambiente. E’ possibile sperare in questo paradigma? Si può credere che la web tv sia l’alternativa alla pessima tv di oggi? Io credo di sì. La Rete appartiene soprattutto alle nuove generazioni: sono loro i principali protagonisti.

Chi sceglie la Rete, a qualunque età anagrafica e specialmente i blogger, è gente che pensa con la propria testa, cerca, s’informa. Gli utenti stanno dominando la Rete con una informazione prodotta dal basso e le grandi aziende si adeguano. Dunque, credo che web tv possa sposare una nuova filosofia: cultura e qualità. Ci sarà comunque anche il peggio in Rete, è certo. Ma chi vuole contenuti migliori li troverà. Oggi, invece, sulla tv pubblica e privata non trova niente di interessante. E’ una sfida interessante: voi che ne pensate?

Sia chiaro: il mondo in cui viviamo lo hanno creato anche gli schermi. E gli schermi lo possono cambiare. Le grandi multinazionali che impongono modelli di sviluppo cosa sarebbero senza i milioni di schermi che per decenni hanno promosso i loro prodotti? Crescere, consumare, produrre. Per un certo periodo e’ andata bene, ma ora le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.

La pubblicità, veicolata da milioni di monitor, ha contribuito a rendere fragile l’ambiente in cui tutti viviamo. Le aziende hanno una grande responsabilità, certo. Ma non sapevano guardare oltre. Ci sono case automobilistiche che per anni hanno pubblicizzato auto inquinanti, ed ora si convertono all’ambiente per vendere veicoli a emissioni zero. Potevano pensarci prima? Eppure, ancora oggi, commissionano spot di auto che sfrecciano sui mari, sulle colline, tra i monti innevati, ben sapendo che chi le compra le usa in città. Dovrebbero invece realizzare spot di auto elettriche, solari, che si muovono in città senza emissione e senza rumore.

Questo significa guardare lontano. Ecco: bisogna cambiare modello di pensiero, partendo dal basso. Bisogna produrre contenuti sani, ecologici, e ora la Net Tv lo permette. La generazione del Terzo Schermo, a mio avviso, può determinare in Italia il cambiamento: i giovani devono studiare la tecnica televisiva (libri alla mano ragazzi!) per produrre (con pochi soldi) contenuti più interessanti. Lo chiamano citizen journalism (giornalismo partecipativo) o informazione dal basso. Video di pochi minuti, montaggio ben fatto, un tema interessante che fa riflettere.

I primi esperimenti di web tv, nel mondo e in Italia, sono nati dall’impegno dei giovani. Prendete l’esempio di Max Haot di Mogulus.com Oppure i ragazzi di Streamit.it. O Tommaso Tessarolo che porta in Italia Current Tv. Sono tutti giovani. E scelgono la “free Net-Tv”.

Gli italiani che non guardano più la tv tradizionale sono in forte aumento. Sono stanchi, perché hanno poca scelta. Girano canale e trovano sempre gli stessi format: canzoni, lacrime e risse. Sempre le stesse facce. Il Moige (movimento italiano genitori) ha denunciato innumerevoli volte i programmi diseducativi, infarciti di modelli effimeri e litigiosi, che i giovani subiscono. E’ materiale avariato. Roba che non aiuta a pensare.

L’Italia è stanca dell’inquinamento televisivo, che poi e’ inquinamento mentale. A sostegno di questa tesi ci sono ricerche serie, come quella di 60 psicoterapeuti che hanno analizzato i contenuti della tv italiana: sono arrivati alla conclusione che e’ ansiogena, diseducativa, stressante. Capite? Un tv malata genera persone malate. E in agguato c’è anche il rischio videodipendenza, cioé vivere passivamente incollati a uno schermo.

Il guru della pubblicita’ Kevin Roberts (Saatchi & Saatchi) parla di Screen Age (era degli schermi) e afferma: “I lovemarks si possono trovare ovunque, ma nell’epoca dell’attraction economy due sono i luoghi che contano: sullo schermo e in negozio. Nel XXI secolo il numero di schermi nelle nostre vite continua a crescere: cellulari, computer, cartelloni pubblicitari digitali e televisori ovunque. In questo mondo di schermi i consumatori si possono collegare subito on line o dal cellulare e interagire coi prodotti cui sono interessati.”

Bene. Se allora dobbiamo vivere nel mondo degli schermi, allora veicoliamo contenuti sani, culturali, ecologici, spirituali, riflessivi, che mostrano il lato bello del mondo. Chiediamo a gran voce in Italia una web tv che tenga conto dell’ecologia dell’informazione. L’Italia ha un ruolo importante: dopo anni di tv mediocre imposta dall’alto dalle logiche politiche e di potere lobbista, ora possiamo cambiare. Il movimento per l’Informazione dal basso è fatta di gente che ci mette la faccia. Attraverso Internet afferma: vogliamo una nuova tv.

WRU, non ci siamo

Bene, è online la radio dell’Università di Udine, WRU e la trovate qui webradio.uniud.it.
Tutto caruccio, angoli stondati, grigi e arancione; due colonne, interattività e navigabilità ok.
Il tutto ottimamente fatto con Joomla.

Però in fondo alla pagine c’è scritto “Copyright © 2008 Web Radio Uniud. Tutti i diritti riservati.” e questo mi piace poco o punto.

Tra l’altro, la scritta che proclama il copyright, e fa parte del sito, è anch’essa soggetta al copyright? Ho forse citato ciò che non potevo?

Nella pagina dedicata all’équipe scopro che questa webradio in realtà “è un progetto didattico e di ricerca con proiezione tecnico-pratiche deciso con decreto del Magnifico Rettore”, ma assume giuridicamente le forme di una testata giornalistica di quelle vere, regolarmente iscritta al tribunale di Udine con un direttore responsabile, e anche questa cosa mi sembra una contraddizione.

In fondo alla stessa pagina, trovo una deroga al copyright totale che c’è su tutto il sito: infatti le immagini prese da archivi online tipo FreeDigitalPhotos, in seguito editate dalla redazione di WRU, possono essere sì riutilizzate liberamente ma solo in progetti scolastici, e il tutto è scritto in inglese. Mah.

Allora vado a vedere quali trasmissioni sono disponibili: scopro che non esiste la radio in diretta (una verbosa spiegazione retorica racconta che forse non avere la diretta è una virtù, lasciando comunque intendere che in futuro ci sarà) e che fondamentalmente il sito della WebRadio è un archivio di podcast. Personalmente un sito di podcast non lo chiamerei “radio”, come Youtube non la chiamo “televisione”, ma queste sono paturnie mie.
Tra l’altro le singole trasmissioni registrate non sono tutte disponibili, ma quelle archiviate sono da richiedere spedendo una mail alla redazione, il che fa pensare che UniUd compri o disponga di spazio web a 50mega per volta, come nel 2002.

Finalmente clicco sul bottone “Ascolta”, e Seamonkey – il mio browser Mozilla – mi chiede se voglio lanciare un’applicazione esterna in formato proprietario (WindowsMediaPlayer) per ascoltare le trasmissioni in formato ovviamente .wma. Rispondo picche, non ho mediaplayer installato.
Figuriamoci il tutto: una Università statale che fa comunicazione pubblica fregandosene delle minime norme etiche alla base di una moderna circolazione delle idee, e disattende le stesse indicazioni ministeriali riguardo all’utilizzo di OpenSource; se si trattasse di editoria privata e commerciale, potrei anche capire (ma direi loro “stupidini” ugualmente, a privarvi di fette di audience), ma credo l’Università debba orientare le proprie scelte tecnologiche e le proprie logiche distributive di Oggetti di Conoscenza secondo obiettivi diversi da un’azienda. Uno straccio di licenza CC mi farebbe guardare al tutto già con occhi più benevoli, e invece sono qui a guardare un’altra occasione sprecata.

Un blocco laterale mi informa di quali software dovrei installare per ascoltare tutto con i vari sistemi operativi. Anche qui mi viene da pensare che gentilezza e usabilità dovrebbero consigliare ai webmaster la possibilità di provvedere modi alternativi di ascolto delle trasmissioni, anziché basarsi sulla buona volontà dei fruitori, ad esempio incapsulando l’audio in un Flash o simili o rendendo almeno possibile scaricare tutto anche in formato .mp3 aperto… non ci vuole poi molto.

Mi diranno che non si può.

All’interno di un sistema fatto di brevetti e di furbi spin-off universitari e di finanziamenti dati secondo logiche mercantilistiche a quelli che dovrebbero essere i liberi e pubblici Luoghi sociali della Ricerca e dell’Innovazione, io sono dell’idea che tutto ciò che le Università producono debba essere di pubblico dominio, patrimonio dell’umanità, distribuito in GPL o quello che volete, pubblicato su Wikipedia. La ricerca la pagano tutti, che i frutti siano di tutti. Bello, eh? Dentro questo sistema, impossibile. Messaggio e contesto non amoreggiano, non s’incontrano nemmeno.

Ma lasciamo perdere l’analisi del sistema economico università-aziende; mi piacerebbe però che almeno il Luogo web dove l’Università racconta sé stessa fosse uno spazio di libero scambio di conoscenze, altrimenti il messaggio che passa mi farà sempre pensare a “chiusura” e “possesso”, valori tipici di un’epoca ormai tramontata. Viviamo nella Società della Conoscenza, i mercati sono conversazioni, ma non potrò riportare in questo blog qualche interessante notizia appresa dalla webradio dell’Università di Udine (magari la notizia di un importante convegno sulla Società della Conoscenza promosso dalla stessa Università). Che contraddizione.

Ci sono anche cose sulle quali non transigo, le lascio per ultime: l’errore ortografico nel blocchetto del menù principale. Che gente laureata scriva (e non chattando, ma in homepage) “perché” con l’accento sbagliato, mi rende isterico. Ma son paturnie mie.

 

 

governoinforma.it

In aprile scorso con un decreto è stata istituita la struttura di missione per la comunicazione del Governo; come conseguenza ad un certo punto è nato il magazine online del governo italiano, lo sapevate? Si chiama governoinforma.it, mi sembra progettato con l’intenzione esplicita di offrire una comunicazione rapida e pulita delle tematiche istituzionali, e prevede aree di interazione.C’è perfino un copyleft, apperò, dove leggo che posso fare quello che voglio dei contenuti purché citi la fonte e per uso non commerciale. Mi par chiaro che the-times-they-are-a-changing.

Interessante anche lo spazio (troppo denso) dato alla descrizione dei contenuti del progetto e al loro allestimento grafico sulle pagine, e allo stile di comunicazione da adottare, come narrato da apposito .pdf dedicato proprio alle “Linee di stile” per la comunicazione pubblica, edito da governoinforma.it a fine novembre.

Secondo me, tutta la redazione ha LuisaCarrada nell’aggregatore.

Riti di passaggio

Riporto qui integralmente un articolo di Luca Sofri per Nova, riguardo la nota passione del giornalista Gigi Moncalvo per le querele verso chi scrive liberamente di lui.

Se siete interessati all’argomento, con qualche ricerca troverete tutto.

In realtà l’articolo si rivela molto interessante nella seconda parte, perché sancisce a chiare lettere le differenti “qualità ambientali” dei Luoghi online e conseguentemente la necessità per ciascuno di noi di immergersi in questa nuova realtà (flusso di informazioni, relazioni interpersonali, comportamenti) prima di pronunciare giudizi affrettati, malfondati.

E il ragionamento su quanto sia importante comprendere il mondo digitale nelle sue peculiarità (come forma e possibilità di Abitanza digitale, in questo blog), senza applicare pedissequamente norme e regole che qui dentro lo schermo semplicemente non funzionano, viene condotto da un giornalista di fama nazionale come Sofri jr., osservatore acuto di costumi e lifestyle, non certo informatico o persona connotata come geek.
Forse qualcosa si muove nell’opinione pubblica; forse stanno prendendo forma storica e sociale le prime norme etiche di una collettività in grado di comprendere il Ben-stare in maniera biodigitale.

L’onere delle avanguardie: educare le retroguardie di Luca Sofri

Ci sono alcune ragioni, dalla parte di Gigi Moncalvo. La pretesa che poiché la rete sarebbe libertà, democrazia, bla bla bla, questo consenta a chiunque qualsiasi inciviltà è una sciocchezza che ricorda le parodie di Corrado Guzzanti sulla Casa delle libertà, quella dove “facciamo un po’ come cazzo ci pare”. Poi si può suggerire a Moncalvo maggiore indifferenza e serenità nei confronti delle violente ma piccole aggressioni di critici con pochi mezzi, lui che va in onda in tv tutte le settimane: ma è indubbio che alcune delle sue querele stiano del tutto dentro la legittimità legale.

Poi ci sono diversi torti, dalla parte di Gigi Moncalvo.
Alcune delle sue denunce riguardano espressioni che solo giudici molto bigotti potrebbero definire “diffamazione” (e però ci sono, giudici molto bigotti), e le sue cause legali travolgono con seccature, spese, e preoccupazioni persone che non hanno fatto nulla di male. Quando non si arriva addirittura a una condanna – come è avvenuto – per l’uso dell’espressione “ex idiota”, di cui ognuno valuti la gravità: probabilmente dovrebbe esistere una differenza tra la critica antipatica o maleducata e la diffamazione.
Differenza percepita dal giudice che ha invece archiviato la denuncia nei confronti del blogger che lo aveva definito “leghistone” e “ridicolo”.

Ma gli argomenti di Moncalvo sollevano un altro problema, e non solo quello delle normative che riguardano internet. Ed è quello della grandissima difficoltà che molte persone hanno a relazionarsi con un mondo che non ha niente a che fare con quello che conoscono e a cui fanno riferimento. Ed è una difficoltà di cui non si può solo sorridere, avendo gli strumenti per farlo. Perché l’abitudine che tutti abbiamo, nel tentativo di definire le novità della rete, a fare dei paralleli con il mondo “di prima” o “di fuori”, è utile fino a un certo punto: oltre il quale diventa fuorviante o impraticabile.

Questo mondo, la rete, funziona in tutti altri modi e con tutt’altri meccanismi: è un’altra cosa. E bisogna inventare nuove regole per spiegarla e definirne i casi, e sapere chiarire queste regole.

Altrimenti, quando si parla di internet usando per facilità i paragoni con il mondo che c’era prima, poi bisogna affrontare l’obiezione di Moncalvo di fronte a un link: “io clicco, e mi trovo davanti un testo diffamante. È come un giornale che pubblichi una calunnia copiata da un altro giornale. È come se io in tv ospito uno che dice cose diffamatorie nei confronti di qualcuno: io sono responsabile, e vengo denunciato e condannato”. Avendo gli strumenti, è facile vedere le differenze tra questi casi: quello che è difficile, è vedere qualcosa a cui invece assomiglino, i links.

Perché non assomigliano a niente di quello che c’era prima, di quello che conoscevamo, di quello che per gran parte delle persone è ancora la realtà: e forse bisogna trovare modi e pazienze per spiegarle, queste cose, perché d’ora in poi siano chiare per tutti. E non definite dalla roulette russa delle sensazioni di giudici più o meno preparati e attenti.
Nova [*]

[il grassetto è mio]

Cos’è podcasting

Podcasting

La parola “podcast” deriva dalla fusione della parola “broadcasting” con il nome “iPod”, il popolare lettore MP3 commercializzato dalla Apple Computer; è però un gioco di parole improprio, in quanto implica che solo l’iPod sia in grado di leggere questo tipo di file, mentre in realtà esso può essere utilizzato con una grande varietà di formati audio digitali e supportato dalla quasi totalità dei lettori MP3 o dispositivi di riproduzione portatili attualmente in commercio. 

Con il termine inglese “podcasting” si intende il processo di “cattura” di un evento audio, video, una canzone, un discorso o un insieme di suoni e del loro caricamento in un sito web o in un “blog”, in una struttura di dati chiamata RSS 2.0 o feed RSS. 

Utilizzando particolari software chiamati RSS News Readers , gli utenti possono abbonarsi a determinate pagine web contenenti RSS 2.0 feed e scaricare automaticamente questi file su determinati programmi di riproduzione per computer, quali ad esempio iTunes, Windows Media Player o MusicMatch. Quando poi l’utente sincronizza il suo dispositivo portatile con il programma presente sul computer, il podcast viene automaticamente trasferito e l’utente ha la possibilità così di usufruirne nel momento per lui più conveniente. 

Uno dei vantaggi del podcast è il fatto che il file nel suo formato finale è distribuito su un dispositivo portatile del tutto indipendente da quello di registrazione. Il podcast segue un semplice modello di pubblicazione e sottoscrizione che può essere assimilato a quello degli abbonamenti alle riviste. Si può immaginare uno scenario del tutto simile considerando un ipotetico lettore di riviste che richieda alla compagnia di poter fare una prova gratuita del suo programma di abbonamenti: il lettore fa una richiesta iniziale alla compagnia, la quale si occupa di recapitare a casa sua una copia della rivista ogni settimana; una volta che essa si trova nella buca delle lettere, il fedele cane del lettore in questione trasferisce la rivista direttamente nella valigetta del suo padrone, cosicché egli abbia la possibilità di leggerla nel momento che preferisce, come ad esempio durante il viaggio in treno per andare al lavoro.

Barcamp efficaci

I BarCamp sono una cosa che i blogger sentono un po’ loro.

Nel senso (e procedo vagamente per inclusioni logiche) che fin dalle iniziali Un-conference o FooCamp i BarCamp sono storicamente la forma di convegno ideata e promossa da persone alquanto coinvolte nei settori sociali dell’educazione formale (università, o comunque laureati) oppure da lavoratori dell’IT,  spesso quindi di formazione scientifica, i quali a loro volta ovviamente sono stati tra i primi blogger esistiti e tuttora molti blog autorevoli (anche se magari non parlano più di tecnica, ma di cultura tecnologica o anche di comportamenti sociali legati ai nuovi mass-media) sono editati da professionisti informatici, gente che a colazione si pappa linguaggi di programmazione e TCP/IP come io caffè lungo di caraffa con una imitazione del buondìmotta ripieno di marmellata, che è più buona dell’originale.

Il BarCamp “appartiene” ai blogger, perché in Italia lo hanno fatto i blogger, viene tamtamizzato tramite blog e webpassaparola, presenta e si costruisce sugli stessi valori di comunicazione orizzontale, partecipazione dal basso, libertà di pensiero e di opinione, di fiducia nell’economia del dono quale garanzia dell’accrescimento e della condivisione dei saperi, di galateo online pragmatico che i blogger capaci di autocritica e metalinguaggio da tempo espongono quale propria assiologia di riferimento.

Al BarCamp ci vanno solo dei blogger, cioè gente cha ha un blog? Ecco una domanda da scriversi sul prossimo questionario in entrata al prossimo BarCamp: questo perché oltre a far aggiungere un link al proprio blog sul barcampwiki di riferimento, io farei proprio compilare un form essenziale ai partecipanti – e intendo tutti quelli che andranno lì quel giorno – giusto per cominciare a popolare dei database che fra tre anni sarà gustoso compulsare.

Al Barcamp si parla di contenitori web, di contenuti web dentro i contenitori web, di contenuti mondo dentro contenitori web, di contenuti mondo? Forse è ancora possibile fare dei BarCamp “puri”, appartenenti cioè esclusivamente ad una di queste categorie, ma in capo a qualche anno per molti la distinzione mondo/web perderà significato, e si parlerà in generale di “realtà” come infosfera soggettivamente e collettivamente vissuta. I BarCamp parleranno di mondo, e che il mondo sia un luogo cognitivo e affettivo fatto anche di web non stupirà nessuno.
Allo stesso modo forse non per molto ancora si potrà dire “barcamp ovvero il convegno dei bloggers”, perché i bloggers cominciano ad essere ormai di numero sufficiente a far esplodere qualsiasi peculiarità dell’etichettamento basato sul piccolo gruppo, dalle caratteristiche facilmente identificabili in quanto rilevanti (nel senso sfondo-figura) rispetto ad una socialità più ampia: nel senso che un barcamp diventerà un convegno, normale convegno, se un domani i blogger in Italia saranno cinque milioni.

I BarCamp sono in sé degli eventi sociali: vi convergono persone fisiche, si formano reti amicali e professionali, agiscono i soliti meccanismi di partecipazione ed sentimento di appartenenza che  scavano percorsi preferenziali nell’allestimento di categorie valoriali e schemi affettivi relazionali, esistono ormai rituali e cerimoniali (il cibo, il wifi, il reportage collettivo), uno sfondo mitologico, i primi semieroi, un’emozione condivisa, un centro di attenzione comune; più volte si è provato a riflettere sul modello del BarCamp, più volte si sono analizzati pro e contro, più volte si è provato ad indicare alcune migliorìe. Su IBlog e su Senzavolto trovo due recenti validi ragionamenti, qui ne parlai tempo fa, qui a Padova sono stato chiamato a raccontare qualcosa, e quindi sto saccheggiando il web per avere spunti di ragionamento.

Però volevo sottolineare che forse qualcosa si sta muovendo in direzione di una maggiore interattività dell’evento, oltre a chat spontanee a commento sincronico su skype o a dirette in videostreaming con supporto chat: questo applicativo TwitterCamp indicato da Giovanni Calia in pratica dispone su uno schermo tutti i twit ricevuti da un utente, cosicché durante un BarCamp potrebbe essere facile stabilire dialoghi polivocali, multi-loghi, e provare a sperimentare realmente nuove modalità di costruzione collaborativa della conoscenza. Non amo molto Twitter, ma vedrò cosa succede.
Quando cominceranno a diffondersi veramente modalità collettive di partecipazioni ad eventi  contemporaneamente fisici e mediatici, all’inizio ci sarà inevitabilmente confusione, mancando in noi le competenze per poter padroneggiare tale esplosione di flussi informativi contemporanei e paralleli, non possedendo i codici comunicativi su cui impostare comportamenti adeguati alla nuova situazione.
Ma ho fiducia nelle capacità adattive degli Umana, soprattutto riferendomi alla plasticità hardware e software del cervello: in fondo, anche il telefono (parlare con qualcuno non presente) credo abbia suscitato al suo apparire delle crisi esistenziali in molte persone.

Sempre mantenendo ferma l’idea che presenza fisica e presenza mediata degli interlocutori sono due àmbiti diversi, che in un caso la comunicazione assume caratteristiche che nell’altro non sono praticabili, e viceversa. Ma le tecnologie si integrano e si sommano, lo sappiamo.

Daniel Dura » TwitterCamp

Implicazioni podcast

Nel momento in cui io scrivendo una mail dal client locale al blog pubblico un contenuto audiovideo, sto mettendo un documento dentro il PC di tutti voi, a me connessi feedati con iTunes o quello che volete.

Pubblico un mp3 su un web, rendo pubblico un mp3 via podcast/rss.feed/push technology (è più di pubblicizzo, perché sto già fornendo l’opera, non faccio solo reclame).

Il prossimo podcast che faccio, recito frasi apocalittiche della durata di 20 secondi. Così ogni mattina chi mi ascolta parte la giornata con l’idea della catastrofe prossima ventura.

Sarebbe certo interessante anche fare un notiziario video, della durata di un tre minuti, in cui un mezzobusto (“abbiamo l’ampex?”) dà notizia delle ultime idee pervenute in redazione riguardo i possibili format di un podcast. Un tg in cui si parla di idee per fare tg.