Archivi categoria: Arte

Pantalone pagherà

Commedia dell’Arte. Come la Satira, la Commedia è cosa tutta nostra. Tre, quattro secoli di egemonia culturale italiana in tutta Europa, dalle corti rinascimentali alle rappresentazioni per i regnanti francesi, al teatro inglese del Seicento, per tornare a Goldoni e diventare, perdendo le maschere e le acrobazie, l’infinito repertorio compiutamente borghese delle trame e delle situazioni, degli intrecci amorosi, delle complicazioni insolubili e delle soluzioni complicate. E tutti quei personaggi, signora mia, capaci ciascuno di cogliere due o tre caratteristiche al massimo dell’eterna natura umana, il fanfarone la furbetta lo sciocco l’avido l’assennata il lascivo e il brillante, eppure sempre in grado di raccontare su un palcoscenico la grandezza e la miseria in cui ci dibattiamo nell’affannosa ricerca di un senso della Vita, l’Universo e Tutto Quanto.

Insomma, possibile che non si trovino dei Brighella e Arlecchino, una sveglia Colombina capaci di ridicolizzare, smascherare addirittura, questi Pantalone che ammorbano l’italia?

Coprifuoco a Udine

Ne ho già parlato altre volte qui su questo blog, perché si tratta di una situazione oggettiva, misurabile, non dei deliri di uno come me a cui talvolta piace andare in giro di notte a vedere cosa fa la gioventù per sentirsi viva e dirlo al mondo. Capirai, vado al cinema, a vedere delle robe di arte, a sentire musica nei locali, cerco gente e idee. Socialità. Udine è un deserto di per sé, dove una pozzanghera minuscola diventa un mare di novità dove si ritrovano a sguazzare quelle poche centinaia di ragazzi e ragazze, forse mille, che animano la vita notturna di una città di centomila abitanti, dove i pubblici esercizi possono contare su un certo numero di clienti, anche grazie all’Università.

Un anno fa chiudeva il NoFun aka LaCantina, un circoloarci dove Gaetano era riuscito a portare con costanza un po’ di gruppetti simpatici a suonare, persino americani o inglesi, una programmazione di qualità. Questo faro di cultura giovanile udinese (se non altro per il fatto di essere l’unico posto stabile per fare concerti con 80 persone dentro, ripeto ottanta; a Udine non ci sono posti per fare un concerto con chessò 300 persone) dopo quindici anni di presenza non ha ottenuto il rinnovo del contratto di locazione, e può capitare.
Un altro circoloarci, il Pabitele aka Zoo, è riuscito a fare pochi anni di concerti e djset, ma sempre in modo un po’ precario, e ora credo facciano solo delle serate di milonga e tango, perché il vicino da sempre protesta a tal punto da far passare la voglia ai gestori di combattere con denunce e sanzioni.
Ora gli eventi stanno precipitando: hanno chiuso il Barcollo, in pieno centro, dove i ragazzi soprattutto universitari si incontravano per i rituali dello spritz, e hanno fortemente limitato gli orari di apertura dei Provinciali, che è (era) un osteria con la cucina aperta fino alle 23.
Nel primo caso il gestore ventitreenne seguiva scrupolosamente gli orari di spegnimento musica, stop somministrazione bevande, chiusura serranda: poi la gente rimane a parlare in strada, com’è ovvio, e le forze dell’ordine hanno chiuso il locale, una mattina, su denuncia di qualcuno che abita nelle vicinanze. Chiuso, e basta, con i dipendenti a casa e migliaia di euro di perdita a fronte di un affitto che immagino stellare.
Il gestore dei Provinciali ha dovuto mandare a casa quattro o cinque dipendenti, non potendo più contare sulle entrate serali legate all’attività di ristorantino: gli è stato imposto di smettere tutto alle 21.00.
Se a Udine andate al cinema di sera, uscendo dal primo spettacolo (!) troverete con difficoltà un locale dove bere qualcosa, e camminando in centro a mezzanotte e mezza sentirete solo il silenzio.


Perché l’ultima novità è quest’ordinanza sindacale con cui si stabilisce che la musica nei locali (live o riprodotta) deve finire appunto a mezzanotte e mezza, 00.30 anziché all’1.00, e i locali hanno mezz’ora o un’ora massimo per far sgombrare la gente. A casa, a dormire, e non rompere i coglioni soprattutto.
L’altro sabato sera in piazza hanno fatto smettere di suonare a mezzanotte una tipa che era da sola sul palco con la sua chitarra, mica una band di metallo pesante.

Il Visionario, che fondamentalmente è un bar lungo con una stretta terrazza e con un palchetto buono appena per ospitare un paio di dj, quando offre una serata musicale vede arrivare centinaia di ragazzi e ragazze, perché non ci sono altri posti dove andare, semplicemente. Ieri sera scommettevo col gestore non sul fatto che la polizia arrivasse o meno a controllare il rispetto dell’ordinanza sindacale, quello era ovvio: noi puntavamo sul loro orario di arrivo. Io dicevo prima della chiusura, lui diceva appena dopo. Ho vinto io, e titubante mi son scolato lo shottino di uischi in palio temendo che insieme all’unico drink bevuto mezzora prima mi facesse salire il livello alcolico oltre il fatidico 0.5, e qui ci fermano anche sulla Vespa per farci il palloncino.

Di questa cosa ne parlano Gaia Baracetti e Alessandro Venanzi, quest’ultimo anche ventisettenne consigliere comunale, che provano bontà loro anche a suggerire delle soluzioni ispirate al buon senso e al dialogo, nella consapevolezza che l’offerta di luoghi cittadini di socialità (rispettosa delle leggi, certo) sia un sinonimo di qualità del vivere, di vivacità culturale.

A Udine c’è una giunta di sinistra, il sindaco è quell’Honsell ex-rettore dell’Università, che scrive su Wired e andava da Fazio a spiegare matematicamente perché se piove è meglio camminare che correre. Non posso credere che la Giunta comunale abbia motu proprio operato questo giro di vite, questo inasprirsi del controllo sociale su Udine, che quasi sembra un piano repressivo. Udine è morta, sia chiaro, culturalmente parlando.
Potrebbero essere indicazioni dei Destri (Regione e Provincia) sul questore, che però difficilmente si muove senza coordinarsi con il sindaco di una città. Oppure siamo dentro un do ut des, dove in cambio di una certa tranquillità politica la Destra ha ottenuto appunto la certezza di vedere applicate certe iniziative di controllo sociale. Non c’erano più locali da strigliare, siam passati a chiudere i bar.

Ecco a cosa potrebbe servire Facebook: a far arrivare per caso 800 ragazzi e ragazze in piazza, con i bidoni per suonare e cantare la bellezza di una vita, quale potrebbe essere e non è.

Abitare mondi

In un romanzo cyberpunk di William Gibson, a metà anni Ottanta, due protagonisti si incontravano virtualmente in un parco digitale, e la progettazione e la definizione grafica del mondo erano talmente raffinate da permettere di scoprire il cadavere di un’ape tra la ghiaia dei percorsi pedonali.
Qui di seguito, un bell’articolo su Apogeonline, dedicato ai mondi-specchio e ai relativi risvolti sociali. Guardate anche il video, e immaginate il vostro avatar, a voi somigliante o meno, a spasso per la vostra città, che incontra e chiacchiera con amici e conoscenti, che va al cinema e al bar.

Twinity, a spasso per Berlino.
di Giuseppe Granieri

Riflessione digitale del mondo atomico, questo nuovo mondo metaforico permette di socializzare e svolgere attività tra gli spazi e le architetture della città scelta (sono in arrivo anche Londra e Singapore). Parola d’ordine: powered by real life Twinity è un mondo mirror che riproduce (per ora) la città di Berlino, nei sui spazi e nelle sue archetitetture. Ma è anche una piattaforma sociale e uno spazio relazionale. Vi raccontiamo le nostre prime impressioni.

A differenza di Second Life, che con il nome e l’abuso iniziale dell’aggettivo “virtuale” ha sempre creato un’idea erronea di mondo altro rispetto a quello reale, il claim di Twinity è decisamente più efficace: powered by real life. Twinity è uno dei tanti nuovi metaversi che stanno fiorendo ovunque. È, tecnicamente, un mondo mirror perchè è basato sui dati del mondo atomico (Google Earth e Satnav) e tende ad essere una riflessione digitale della realtà materiale. La prima città riprodotta è Berlino (non a caso, data la matrice tedesca del mondo, ideato dalla startup tedesca Metaversum), ma le ambizioni sono molto più grandi: si mira a Londra e, con finanziamenti governativi, a Singapore.

Entrare in Twinity oggi, dunque, ci consente di fare una passeggiata per le strade di Berlino, di cui è stata riprodotta una buona parte con buona accuratezza. Come già con Second Life, va osservato, le architetture che replicano spazi e ambienti delle nostre città non hanno una grande capacità di emozionare o di offrire un forte “senso di essere lì”, soprattutto quando sono realizzate su piattaforme che, non essendo realtà virtuale, tendono a mantenere forte la percezione del medium che usiamo per visitarle. Si tratta, soprattutto per Second Life, della scelta più facile per raccontare un territorio: ma questi primi anni raccontano che il potenziale comunicativo di simili esperimenti è abbastanza basso se limitato alla semplice riproduzione del reale.

Nel caso di Twinity, la logica di geolocalizzione e di replica “a specchio”, può però rivelarsi interessante nel tempo. Sul piano della comunicazione territoriale (e turistica) si tratta di un esperimento ancora rudimentale, forse, ma con buone potenzialità: abbiamo la capacità di muoverci e orinetarci in una simulazione abbastanza realistica degli spazi e dei percorsi all’interno di una città e possiamo quindi cominciare a farci un’idea del posto che visiteremo e che vorremmo visitare. Il costo che si paga, ovviamente, è il basso contenuto creativo ed esperienzale, a tutto vantaggio di un contenuto informativo. Rispetto a Second Life, direi, meno creatività e contaminazione, più voglia di realismo e appeal patinato.

Ma Twinity non è solo una versione in 3D di servizi diversi come Google Earth o come i GIS: è un “mondo” (nel senso esteso di altri ambienti come Second Life o MMOG) e quindi è una piattaforma sociale. In realtà, rispetto a Second Life ci sono molte differenze di approccio: si può scegliere di usare il proprio nome e cognome (e ci sono le opzioni per decidere a chi mostrare il cognome), il sito web ha tutte le caratteristiche dei social network (profilo, messaggi) e anche “dentro” il mondo la parte sociale è gestita con logiche e interfaccia simile in tutto a quanto ci hanno abituato gli strumenti di social networking che utilizziamo ogni giorno.

In generale l’aspetto di social networking è meglio assecondato nel mondo metaforico tedesco laddove per i residenti del mondo Linden spesso ci doveva appoggiare a strumenti esterni (come i social network costruiti su Ning). Poi, naturalmente, anche su Twinity si può prendere casa o avviare attività. E la personalizzazione del proprio avatar è orientata al powered by real life: si può anche modellare il volto del proprio avatar partendo da fotografie. Il client, rispetto a quello di Second Life mi pare abbia raccolto molte esperienze dai client di gioco dei vari MMORPG. Ma è solo per sistemi Windows.

Insomma, la prima impressione è cauta ma positiva, anche se è ancora tutto in beta (pubblica solo da un mesetto) e anche se certe scelte – escludendo la logica mirror e le future finalità di comunicazione territoriale – mi pare appiattiscano Twinity più sul versante relazionale (in versione social network 3D) che su quello di insieme (contenuti, relazioni, design ecc.) che conosciamo in Second Life. Non è ancora un mondo molto popolato: si parla di poche decine di migliaia di utenti registrati (che non sono quelli attivi) e prevedibilmente si tratterà soprattutto di utenti tedeschi, per i quali il metaverso patrio può avere un senso differente. Ma, proprio come ci ha insegnato Second Life, alla fine la qualità di questi mondi è determinata dalla qualità delle idee che le persone vi portano dentro. Tanto più che non staremo mai tutti nello stesso: ognuno cercherà quello che gli è utile o in cui si trova meglio o che asseconda i suoi interessi.

Da tenere d’occhio, in ogni caso.

Blogger morti

E son tutti lì a parlare dei blog, quelli dei blog.
Perché prima dei blog magari c’erano delle webstarz, immaginate quelli bravi e smart dentro i newsgroup e nei forum, i magici affabulatori nei canali su IRC, e poi il tale che intendeva costruire la propria identità in Rete metteva su un sito e pubblicava qualcosa. Ma il feedback era privato, la gente gli spediva mail per dirgli sei bravo o sei bufo o non capisci una mazza. Fin da qui, posso ancora scorgere le macerie annerite e fumanti di pacifici guestbook devastati da guerre di insulti, poi nella ricerca di interazione sui siti abbiam messo delle chatbox, eppoi finalmente sono arrivati i blog, che riescono a essere per noi casa riconosciuta con indirizzo, luogo di espressione, luogo di interazione pubblico via commenti e relative litigate, ma nel frattempo avevamo imparato la grammatica delle litigate online. D’un tratto le personalità emergenti del web avevano strumenti per un buon allestimento scenico di sé e del proprio dire, non restava che sperimentare argomenti e forme di narrazione, e creare sottoreti selezionate, anche con un filtro connotante tipo il blogroll.
Questo ha fatto in modo che noi italiani venissimo a conoscenza dell’esistenza di centinaia di persone simpatiche, tuttora tra le più lette in italia, capaci con stile originale e talvolta veramente splendide doti letterarie di raccontare vita quotidiana, posizioni etiche o politiche, tecnologie e antropologie, amori e passioni.
Molti di questi erano già passati nella palestra delle altre forme di pubblicazione, quelle più vecchie che dicevo sopra, erano blogger anche prima dei blog, avevano già scelto o trovavano naturale esprimersi in rete. Altri si sono buttati un po’ alla cieca e si sono scoperti apprezzati nel loro modo di scrivere o di fotografare, e ora stanno valutando se aggiungere “blogger” al proprio biglietto da visita o sul curriculum.

E i blog diventavano sempre più casetta, le colonne si arricchivano di dettagli di vita del bloggante, foto e articoli e indirizzi di amici… ho visto architetture barocche, grafica ricercata, luminarie e riccioli decorativi, ma poi è arrivato il duepuntozero. Quindi molte cose a questo punto era meglio (più semplice, più efficace) farle fuori dal blog, tipo le foto su flickr e i video su youtube che poi sono anche posti per chiacchierare, e poi ecco qua fiorire delle comunità sociali online e poi ancora i servizi attuali di lifestreaming.
Ovvero, il blog per suo stesso format (ci sono ovviamente blog che mi contraddicono, ma infatti sono gioiose invenzioni di usi alternativi) e per come viene percepito cioè interpretato nel contesto ormai storico della sua fruizione collettiva in quanto “luogo editoriale”, si presta ad ospitare (ci si attende di trovare) articoli di una certa lunghezza, porzioni di contenuto capaci di ospitare in sé un minimo di articolazione e sviluppo narrativo, ad esempio secondo i generi letterari di un panegirico o una perorazione o di una lagnanza o di un annuncio o di racconto breve di ingegno letterario.
Certo, esistono i blog aforismatici e anche di successo, ma oggi esistono luoghi web dove la scrittura breve è maggiormente a suo agio, come twit o come status dentro i messenger e dentro i socialnetork, oppure nelle tracce georeferenziate che lasciamo marcando la nostra mobilità fisica con i cellulari e i servizi di presenza e prossimità digitale permessi da questi ultimi.

E quindi il blog come casa identitaria ha potuto nuovamente alleggerirsi, brani del nostro fare abitavano in altri luoghi web che a loro volta permettono relazioni interumane, quindi noi stessi abitiamo in molti luoghi, e proprio recentemente hanno preso piede degli ambienti capaci di radunare il nostro fare digitale, fatto di commenti e di foto pubblicate e di libri messi sullo scaffale e di video embeddati sui microblog e parole scritte su html più o meno dinamico in un unico flusso che vorrei chiamare vitale, ma in italiano non va bene, e allora propongo solo per la durata di questa frase di chiamarlo flusso vitico o viviflusso o digivita perché in qualche modo il concetto di lifestreaming ci serve.

Qui Mantellini dinanzi alle considerazioni di Squonk riguardo al blog come biblioteca o emeroteca, dove in un clima meno chiassoso di una piazza sia possibile trovare archivi stabili e sedimentazione nel tempo dell’espressione e dell’identità di chi scrive, trova interessante che “venga individuato una sorta di baluardo immaginario che separa il lifeastreaming da contenuti maggiormente organizzati”, ma la distinzione non mi convince, perché è la stessa differenza che c’è tra il mio salotto pubblico e la piazza dove vado a chiacchierare. Anche le cose che dico in salotto finiscono in piazza, ma hanno una provenienza, non sono dette lì: quando un blogger progetta un suo scritto su un blog consapevolmente o meno pone un determinato Lettore Modello quale suo immaginario interlocutore, e l’orizzonte delle attese autoriali relativo a “scrivere sul blog” suscita inventio, disposistio ed elocutio completamente diverse rispetto a mandare un twit (come al solito, svolgete voi l’esempio contraltare relativo alle attese del lettore reale, secondo sociologia della ricezione).

Quindi: il futuro sicuramente ci offrirà sempre più luoghi di espressione personale, luoghi sempre più raffinati per pubblicare contenuto di qualsiasi forma e ampiezza e per distribuirlo con facilità, sempre più raffinati nel riuscire a connotare l’identità dell’autore e lo stile del suo abitare la Rete, e arriveremo chessò al punto di cambiare automaticamente la grafica, calda o fredda, delle nostre case digitali, secondo le nostre variazioni di umore misurate e trasmesse in realtime dal cellulare che ci sta ascoltando il cuore e l’attività neuronale.

Ciascuno di noi a seconda della sua competenza digitale sceglierà quale strumento usare a seconda del tipo di contenuto che deve mostrare e della necessità o meno di sviluppare la narrazione, prevedendo o meno l’intervento costruttivo di altri. Ciascuno di noi – qui è dove poi interviene il discorso educativo – avrà poi per abitudine data da frequentazione o per alfabetizzazione secondaria (è una battuta: in questo momento le scuole sono ancora a ragionar di scanner e dischi fissi, figuriamoci se pensano a organizzarsi per fornire offerte formative in grado di provvedere ai cittadini delle competenze per abitare la Rete, come aspetto di un diritto civico) la capacità di decodificare i contenuti di conoscenza offerta in Rete a seconda dell’ambiente che li ospita o del tipo di prodotto “editoriale” che essi rappresentano, adattando via via diverse categorie di giudizio pertinenti al testo in esame.

Facciamo finta di entrare dal dentista, e di trovare sul tavolino d’angolo una vecchia copia di DonnaModerna: al semplice vederla, al semplice pensare di leggerla si sono già attivate in noi decine di reti enciclopediche, e DonnaModerna non è più un insieme di fogli di carta stampata a inchiostro multicolore sul tavolino. Prima ancora di aprire quella rivista so già molte cose, di cosa potrebbe dirmi e del modo in cui me lo dice e di cosa significa essere visti mentre si legge DonnaModerna in una sala d’aspetto.
Abbiamo un mucchio di competenze che non sappiamo di avere, rispetto a tutto il mondo editoriale degli ultimi quattrocento anni, e siamo diventati talmente raffinati da giocare con i libri e le biblioteche come con le parole, e magari ci immergiamo nella decodifica del Vangelo come fosse un giallo.
O meglio ancora, se parliamo di entrare e uscire da un mondo all’altro, mi viene in mente quando Don Chisciotte nel secondo libro incontra uno che ha letto il primo libro, e si complimenta con lui. Beh, siamo nel 1615, i giochi artistici e letterari erano pieni di inganni, pieghe, attorcigliamenti barocchi e straniamenti, e i mondi della letteratura e della realtà si rinfocolavano a vicenda, in modo (meta)linguisticamente moderno.

Se Mantellini dice che tutto è un calderone dove tutto è confuso con tutto, forse tale è agli occhi di chi non sa distinguere. Prendete Mozart e mettetelo davanti al tavolino del dentista: non saprà distinguere una rivista dall’altra (la loro identità editoriale) a colpo d’occhio, come facciamo noi oggi senza pensarci. Non ha grammatiche, non maneggia codici. Credo che un millennial sveglio, o una persona con sufficiente esperienza di abitanza digitale, siano perfettamente in grado di desumere corrette informazioni dal contesto della pubblicazione di qualsiasi proteiforme opera su web e conseguentemente organizzare i propri strumenti interpretativi, cosicché seguire i lifestreaming degli amici o degli opinion leader nella piazze e poi risalire i feed come i salmoni fino ai blog tematici autoriali per poi andare a esplorare youtube e tornare in qualche social utility a render conto delle cose scoperte in giro o per commentare e ri-giocare la realtà con altri diventa una operazione fluida, connaturata al nostro essere animali sociali costantemente alle prese con l’esplorazione dell’ambiente di vita e la nominazione delle cose in cui ci imbattiamo.

Tutto questo per dire: non vedo il problema.
Nell’ecologia dei Luoghi espressivi online sono nate delle cose più veloci o più social dei blog, abitano meglio in certe nicchie. Il blog che è stato per un po’ di tempo una cittadella che conteneva tutto (biblioteca, bottega, pinacoteca, piazza, indirizzi) ora appalta spesso felicemente certe attività a servizi esterni, e sebbene ridimesionato viene comunque a essere il miglior strumento per determinati tipi di letteratura, e del resto tra le cose nuove che sono nate ci sono quelle fatte apposta per tener traccia di tutto e quindi niente si perde e anzi il flusso sociale diventa visibile.

Per arredare di sé gli ambienti digitali in cui abita, oggi uno dispone di molte diverse possibilità, e ciascun autore può trovare gli strumenti più confacenti al suo dire. Il lato produzione non presenta problemi. Piuttosto il problema è nell’organizzazione dei flussi di memi generati da una specifica pubblicazione di Tizio o Caio, perché se fino a ieri la massa di idee suscitata dall’opera letteraria nei lettori trovava luogo conchiuso di visibilità nei thread di un forum o nei commenti di un blog, oggi è possibile che gli apporti dei lettori vedano la luce in ambienti diversi da quello dove è alloggiato “fisicamente” il post originale. Quindi ecco cosa ci serve: tecnologia tracciante migliore dell’attuale.

Photografo

Ieri sera alla tv guardavo Matrix Reloaded, e ad un certo punto Neo deve andare a trovare l’oracolo, ma prima in anticamera incontra un tipo orientale e si mettono a combattere. Sembrerebbe una situazione narrativa tipo “trappola”, ovvero il tipo parrebbe un nemico, e invece dopo un paio di minuti di balletti kungfu l’orientale (sì, il firewall intorno a Oracolo) blocca tutto e svela di aver voluto sottoporre Neo a una prova, per conoscerlo meglio. Il dialogo dice più o meno “per conoscere veramente una persona devi combatterci contro”, che immagino come variante speculare di quella “per conoscere veramente qualcuno devi farci l’amore”.
Eh, ma quanti tipi di conoscenza ci sono?
Anche l’abitudine nei gesti è una forma di conoscenza, innervata e diventata automatismo, per liberare risorse in RAM. Molto economica, efficiente, purtroppo poco riflessiva.
Immaginatevi quando vi lavate le mani: ripetete da anni gli stessi identici gesti, il movimento delle dita e dei polsi segue pattern collaudati, è come un balletto automatico. Ma questo non dà garanzia di pulizia: alcune zone delle mani rimangono più sporche di altre.
Tant’è che i chirughi nei telefilm si lavano le mani con accuratezza, ponendo viva attenzione ai gesti, guardando le loro stesse mani come se non le conoscessero, proprio per evitare che l’abitudine e i suoi meccanismi ci agiscano a nostra insaputa.

Tant’è che quando leggiamo un giornale il pensiero corre veloce sui concetti, ma se ci imbattiamo in un refuso rapidamente riattiviamo alla coscienza dei livelli di competenza grammaticale che solitamente agiscono in background.

Anche fare arte, intesa come fare concreto artigianale, è una forma di conoscenza, e nel manipolare la sostanza dell’espressione, si tratti di lettere suoni o colori o materia, una persona curiosa nel rendere eloquenti le cose prova a straniare le abitudini percettive, prova a guardare un foglio di carta come se fosse di metallo, prova a scolpire la musica come se fosse marmo, si chiede cosa possa significare portare oggetti d’uso quotidiano in altro contesto o indagare lo spazio dentro e fuori la cornice del quadro o il rapporto tra il colore e la forma.
A me piace essere curioso: è un lavoro affaticante, ma fare lo sgambetto alle abitudini, metterle alla prova e saggiarne la portata conoscitiva, straniare la percezione e la destinazione d’uso degli oggetti che incontro mi fa scoprire cose di me che non sapevo, o che sapevo senza sapere di saperle.

Le grammatiche espressive vanno praticate: le mani gli occhi gli orecchi sanno fare cose che il pensiero non sa, e per meglio giudicare è meglio conoscere.
Ho lavorato in un teatro e costruivo scenografie inchiodando assicelle e tessuti, ogni tanto faccio ancora musica per il piacere di lavorare sugli oscillatori di un synth o di stiracchiare campioni, mi scopro onomaturgo paroliberista quando parlo in pubblico proprio per evitare di ricorrere a frasi fatte (anzi: a locuzioni ormai solidamente sedimentate etc.), ho provato a fare fotografia per cercare di capire qualcosa della luce, della visione e dell’inquadratura, e soprattutto qualcosa di quella pratica alchemica che è sviluppare le foto in bianconero dentro una camera oscura, con gli acidi e le bacinelle e le mollette per appendere le foto.

Questa cosa della fotografia l’ho imparata una dozzina di anni fa grazie a Jacopo De Marco, che è un fotografo vero di quelli che guardano il mondo come i chirurghi suddetti si guardano le mani, come aspettando che le cose stesse, se osservate dal giusto rispettoso punto di vista e senza volerle far parlare a tutti i costi proiettando noi i significati, diventino di per sé eloquenti nel raccontare il senso del loro essere al mondo, gli strati di significato che veicolano semplicemente per il loro essere parte di una circostanza poi enunciata nell’inquadratura di una foto, per le tracce antropiche presenti nelle loro connotazioni.
Sabato scorso sono andato ad una sua mostra, qui a Udine. Mi piacciono, le foto di Jacopo: pur mancando facce e persone, sono come reportage di ambienti relazionali, luoghi di archeologia industriale o di socialità assente, dove però uno sguardo militante e l’attenzione agli aspetti materici dell’espressione – il dettaglio del colore, la fisicità, la grana stessa delle foto – riescono a trasmettere emozioni senza ricorrere a trucchi eye-catching. Raccontano storie di umanità, costruiscono un contesto, fan capire senza urlare, eppure ti arrivano addosso.

Conosco Jacopo: dietro c’è una riflessione, una scelta poetica, uno stile. Da dieci anni vive a Berlino: gli auguro mille momenti di rapimenti creativi con l’occhio incollato al mirino, e di ottenere meritoria visibilità per le sue opere (trovate qualcosa qui, le foto di questo post le ho fatte col cellulare e ovviamente non rendono l’idea).



Dal gangherologo, con affetto

Sebbene innumerevoli esseri siano stati condotti al Nirvana nessun essere è stato condotto al Nirvana

Prima che si passi la porta
si può anche non essere consci che c’è una porta
Si può pensare che c’è una porta da attraversare
e cercarla a lungo
senza trovarla
La si può trovare e
può darsi che non si apra
Se si apre si può attraversarla
Nell’attraversarla
si vede che la porta che si è attraversata
era l’io che l’ha attraversata
nessuno ha attraversato la porta
non c’era porta da attraversare
nessuno ha mai trovato una porta
nessuno ha mai compreso che mai c’è stata porta

R.D.Laing, Nodi

Fahrenheit 451, Ray Bradbury

Pace, Montag. Offri al popolo gare che si possono vincere ricordando le parole di canzoni molto popolari, e il nome delle capitali dei vari Stati dell’Unione o la quantità di grano che lo Iowa ha prodotto l’anno passato. Riempi loro i crani di dati non combustibili, imbottiscili di “fatti” al punto che non si possano più muovere tanto son pieni, ma sicuri d’essere “veramente bene informati”. Dopodiché avranno la certezza di pensare, la sensazione del movimento, quando in realtà sono fermi come un macigno. E saranno felici, perché fatti di questo genere sono sempre gli stessi. Non dar loro niente di scivoloso e ambiguo come la filosofia o la sociologia onde possano pescar con questi ami fatti ch’è meglio che restino dove si trovano. Con ami simili, pescheranno la malinconia e la tristezza. Chiunque possa far scomparire una parete TV e farla riapparire a volontà, sarà sempre più felice di chiunque cerchi di regolo-calcolare, misurare e chiudere in equazioni l’Universo, il quale del resto non può esserlo se non dando all’uomo la sensazione della sua piccolezza e della sua bestialità e un’immensa malinconia. Lo so, perché ho tentato anch’io; ma al diavolo cose del genere. Per cui, attàccati ai tuoi circoli sportivi e alle tue gite, ai tuoi acrobati e ai tuoi maghi, ai tuoi rompicolli, autoreattori, motoelicotteri, donne e eroina, e ad ogni altra cosa che abbia a che fare coi riflessi condizionati. Se la commedia non vale niente, se il film non sa di nulla, se la musica è sorda, punzecchiami col pianoforte elettronico, fragorosamente. Io crederò di rispondere alla musica, quando invece si tratta soltanto di una reazione facile alla vibrazione. Ma che importa? Tanto, a me piacciono i divertimenti solidi e compatti.

Nasce la Storia

La fine della pre-Storia

Nel momento in cui il “personale” diventa “pubblico” nasce un’estetica completamente nuova, e un’enorme porzione delle interazioni sociali, normalmente invisibili, viene memorizzata per sempre. Come nota Charles Stross, stiamo vivendo la fine della “pre-Storia”, gli ultimi giorni della storia-patchwork umana. Le vite di domani saranno ricordate dagli storici di dopodomani con strabiliante chiarezza e lucidità, ricostruite attraverso l’enorme massa di blips, twits e cirps emessi dai nostri software sociali.

Comparate a queste, le nostre vite attuali sembreranno opache e inimmaginabili come quelle vissute dai nostri progenitori che hanno abitato la stessa caverna per duecentomila anni, generazione dopo generazione, lasciando come unico ricordo nulla di più persistente di qualche osso sparso per terra.

Cory Doctorow sui diritti degli artisti. Ovvero come capire il copyright senza avvocati. :)

Fonte: Bookcafè

Le linee dei sogni

Vi ricordate quando dentro So Far, So Close di Wenders tutti quanti si pèrdono a guardare i propri sogni su dei visori portatili?

Ecco qua Dreamlines, un vero sito concettuale: infatti noi mettiamo delle parole chiave di ricerca, e lui ripropone un cangiante quadro “pittorico” dove i singoli elementi figurativi sono presi da immagini sparse su web, rispondenti ai tag di ricerca. E’ deliziosamente lento, veramente onirico, manifestazione unica e irripetibile, e pone un mucchio di belle domande, come leggo nell’about.
Chi è che sogna? L’utente, o la stessa Internet? Non stiamo forse inseguendo scie di senso nelle sinapsi della Rete, per associazioni di parola o per somiglianze iconiche?
Poi mettiamo un ulteriore tag, e reimmettiamo in circolo tutto.

Melanconico englishman

Ieri sera sono andato al NoFun/LaCantina.
Suonava la Luzzi, e volevo salutarla e avendo la videocamera girarle anche un video di una sua esibizione live e poi spedirglielo. Pensavo che siccome era lunedì ci sarebbe stata poca gente, e quindi potevo inquadrare il palco stando un po’ più lontano, e migliorando di conseguenza l’audio.
Sapevo che avrebbero suonato lei e Ant, e mi immaginavo quest’ultimo personaggio a supporto della gentile front-woman. Erano le sette di sera, credevo di avere tempo davanti a me.Ho dormito sul divano fino alle 23.00.
Comunque determinato a videare, ho tenuto fede ai miei propositi e sono andato al NoFun.
Per scoprire che FRLuzzi con Marco alla fisarmonica aveva già cantato, e sul palco ci stava questo lungagnone english con chitarrina acustica e atteggiamento intimista; la musica mi piaceva, tutto sommato, le emozioni arrivavano, e Gaetano ha fatto bene a quietare l’eccessivo brusìo del pubblico, perché le canzoni richiedevano un’atmosfera adeguata. Lo spilungone inglese si chiama Antony Harding, in arte Ant, per l’appunto, quello che io pensavo fosse il supporter. Dopo il concerto l’ho trovato al banco, abbiam bevuto una birra, lui mi ha raccontato che vive in Svezia con la sua tipa, io gli ho chesto dove ha suonato in Italia. Abbiam parlato di Bologna, gli ho descritto il clima cultural-musicale della città rossa a fine anni settanta, e siamo arrivati via Clash a brindare in memoria di Joe Strummer.

Melanconico, pacato, occhi trasparenti e vivaci: si è rivelato una bella persona, Ant.
Ovviamente un pezzo di video l’avevo girato, mentre cantava; tornato a casa, cosa potevo fare alle tre di mattino se non un po’ di montaggio? L’ho pubblicato su YouTube (con il consenso dell’artista), lo metto anche qui.

Quel giro mi ricorda qualcosa…

D’accordo che le note sono dodici, d’accordo che esiste il “plagio inconsapevole”.
Ma qui si sfiora il ridicolo: ascoltate i Red Hot Chili Peppers che prendono spunto da Celentano, gustatevi Vasco d’annata che cita Mina, i Gorillaz che omaggiano gli U2.

Tutto ciò mi è stato segnalato da Paco dei Sillyphon, che hanno un blog moolto silly comprensivo di jukebox, dove potrete ascoltare alcune loro canzoni.

Plagi Musicali – Il sito più fornito della rete

Los Angeles 1964

Ecco, dichiaro ignoranza.
Non è una grossa fatica, finché riesco a rimanere fedele al mio motto personale riguardo l’atteggiamento da tenere nei confronti della conoscenza e del conoscere, ovvero “Vai verso l’ignoto”.
Lavoro con argomenti che non ho studiato a scuola ma ho appreso sul campo, sposto continuamente la mia attenzione su quello che non so, cammino in paludi con le scarpe sbagliate ed inizialmente faccio un sacco di fatica, però ne esco fortificato (ai muscoli delle gambe soprattutto).
Non ho nessuna scienza a cui appoggiarmi, essendo la semiotica nient’altro che una disciplina, un punto di vista, un metodo per guardare proprio lì dove sgorga il senso, dove s’accende la scintilla della significazione.
Poi nelle sfere altissime della cultura planetaria si parla da decenni dell’importanza della multidisciplinarità, e spesso incontro universitari che sono dei cretini specializzati. Cheppalle.
Sei un ingegnere? Prova a ragionar di psicologia cognitiva e di apprendimento per tre anni, con degli insegnanti preparati e motivati. Sei un archeologo? Prova putacaso a “divertirti” per qualche tempo con le nanotecnologie: arricchirai te stesso, l’archeologia, i nanotecnologi ed il mondo intero, perché porterai un punto di vista nuovo in territori prima mai attraversati da persone con simile bagaglio culturale, e acquisterai a tua volta un paio di occhiali che magari (benedetta serendipità) ti permetteranno in seguito di scoprire novità nel giardinetto di casa tua.

Senonché, mi piccavo di essere un buon conoscitore della cultura musicale degli anni sessanta, soprattutto british. Ho persino dato il mio contributo a delle voci sulla wikipedia (magici Zombies).
Anzi, più che limitarmi alla sola musica pop e alle analisi più o meno musicologiche, mi piace investigare il “contorno”, i fenomeni culturali, gli ambienti di crescita degli stili giovanili… sociomusica.
Indagare cosa significa essere teddyboy, mod, freak, grunge, dark, glam, punk, raver non solo negli stilemi musicali, ma anche nell’abbigliamento e nelle idee politiche e nell’atteggiamento dinanzi al mondo. Perché tutti siamo stati giovani, e le idee che aleggiavano nei nostri ambienti di crescita, in cui ci siamo per sorte imbattuti nella nostra adolescenza, diventano cardini fondanti e spesso rimossi della nostra personalità.
E che ci crediate o no tutti noi, ovvero il modo in cui pensiamo il pensabile, il modo in cui siamo stati ribelli a diciassette anni e conformisti a ventisei, è tuttora frutto di idee germogliate negli anni sessanta.
Si è magari aggiunto il “no future” del settantasette come scenario esistenziale, il don’t-believe-the-hype hip-hop degli ottanta come riflessione esplicita sui media, l’accesso a fonti e culture planetarie come nei novanta, le nuove forme di “intimismo elettronico” come in questa decade, ma leggendo i sixties inglesi e americani mi accorgo che si tratta appunto di forme, di nuove vesti e paramenti di contenuti già espressi altrove ed in altri tempi, e che la loro rivisitazione permette il progredire della consapevolezza (per gli adolescenti di ogni tempo, l’iniziale presa di coscienza delle forme di essere al mondo) perché traduce in linguaggi e codici aggiornati i soliti grandi temi delle narrazioni umane, le mitologie ormai pop della nostra cultura occidentale. Amore, destino, solitudine, eroismo, squallore, tradimento… “E’ sempre la stessa canzone che va, la stessa di 1200 anni fa” pseudoreppava Jovanotti prima di essere per fortuna solo Lorenzo.

Perché i punk ballano musica reggae e indossano scarpe creepers con inserti in pelle leopardata? Se vi interessa rispondere a questa domanda, vi consiglio il classico “Sottocultura: il fascino di uno stile innaturale” di Dick Hebdige, Costa e Nolan 1983.

Bene, torno sull’argomento principale.
Ascoltavo Joanna Newsom, una delle grandi scoperte musicali del 2006 (belle cose, bei testi, ma non mi piace), e vedo che gli arrangiamenti sono di Van Dyke Parks, la produzione è di Steve Albini e il mixaggio è di Jim O’Rourke. Però. Guardate Parks in questa foto qui a lato, e ditemi se non sembra un giovanotto di oggi, mentre in realtà l’immagine risale alla prima metà degli anni sessanta.
E’ famoso soprattutto per i lavori con Brian Wilson dei Beach Boys, ma il punto non è questo.
Mi sono chiesto ad un certo punto perché in California a fianco del surf in quegli anni ci fosse questa “scuola” di musicisti e produttori decisamente non-rock, anzi di estrazione orchestrale, acculturati, capaci di badare alle costruzioni armoniche delle canzoni (fatto per me importantissimo, perché le riff-based songs mi stufano presto), portatori di un estetica musicale peculiare. Da dove venivano? Chi erano?
Ecco, ho trovato questo bell’articolo di Fred Cisterna, e ho capito che mi mancava una fetta importantissima di cultura sociomusicale dei sixties. Per dire, adesso anche i Doors mi sembrano molto più chiari, nello spiegarmi quella strana commistione di generi presenti nei loro primi due LP (gli altri dischi, quelli dei Doors blues, sono abbastanza inutili), del perché il batterista si dicesse “venisse dal jazz” (locuzione linguistica odiosa… “sai, Tizio Sempronio viene dal jazz…”, e dove sta andando, per curiosità?) ed il chitarrista avesse una passione per i ritmi caraibici o sudamericani.

Poi surfando sui link della Wikipedia giungo a Jack Nicholson, altro tipico figlio della cultura californiana di quegli anni: mi era giunta una notizia secondo cui sarebbe stato scoperto da Dennis Hopper durante “Easy rider”, poiché fino a quel momento altro non sarebbe stato che un giovane contestatore/capopopolo (po po po, come gli WhiteStripes: trovatevi i loro primi dischi) nei movimenti giovanili universitari della Bassa California, un po’ come un Mario Capanna chiamato a fare per caso l’attore.

Tutto falso: Nicholson ha fatto gavetta come attore e sceneggiatore fin dalla fine degli anni ’50, si è costruito una carriera con le proprie mani, ma soprattutto non sapevo avesse scritto la sceneggiatura assai sperimentale di The Trip, un film del 1966 dichiaratamente allucinogeno con la regìa di Roger Corman, dove gli attori protagonisti sono proprio Peter Fonda e Dennis Hopper.
Come dire: Easy Rider a questo punto mi sembra la versione per famiglie.

Tra il pop orchestrale di Los Angeles e il Trip di Nicholson, mi tocca ora rivedere tutti i miei collegamenti mentali per cercare di dare un senso compiuto ai mille rivoli di quel fiume in piena che è stata la cultura giovanile californiana post-beat, il calderone dove han preso forma gli atteggiamenti innanzitutto mentali di una generazione che ha cambiato veramente il mondo, e di cui noi siamo tuttora figli somigliantissimi.