Archivi autore: Giorgio Jannis
Carlo Ratti e le Città viventi
Fonte: Massacritica
Smart City o tirannie digitali: il nostro futuro secondo Carlo Ratti
Il 18 Aprile scorso si è tenuto l’incontro di Meet the Media Guru con Carlo Ratti, ingegnere e architetto di eccellenza, conosciuto a livello mondiale per i suoi progetti di miglioramento della vita metropolitana, nonchè insegnante del MIT e direttore del Senseable City Laboratory.
Ratti ha introdotto la conferenza parlando degli effetti della tecnologia sul nostro modo di vivere. Le città sono piene di sensori e di strati digitali, e grazie alla tecnologia l’ambiente sta iniziando a comunicare con noi. Ce lo dimostrano alcuni progetti realizzati dalla sua associazione: uno di questi è la Source Map, ovvero un chip che, installato su un qualsiasi oggetto di scarto ci permette di scoprire che percorso compie, perchè noi sappiamo sempre da dove proviene un oggetto che acquistiamo, ma non abbiamo nessuna informazione su dove esso venga portato una volta che noi decidiamo di sbarazzarcene.
Un altro progetto riguarda la ricezione di informazioni e immagini dal mondo attraverso un dispositivo installato su un portatile che permette di avere informazioni sulle abitudini delle persone; un caso curioso è stato quando uno di questi computer è stato rubato e grazie al dispositivo installato nel programma della fotocamera è stato possibile risalire ai delinquenti che, ignari di questa tecnologia, scattavano fotografie con la webcam.
Grazie alle fotografie e alla loro diffusione in rete, magari su siti come Flicker si possono quindi fare ricerche, per capire le abitudini o le esigenze della popolazione e agire quindi di conseguenza. La Senseable City Laboratory con i suoi studi ha dimostrato che grazie alla rete si può costruire una mappa di dove vengono scattate più fotografie in un determinato luogo, analizzare la vita notturna di Barcellona e scoprire, grazie alle immagini, i posti migliori per festeggiare, o ancora, in base ai colori presenti nelle fotografie, capire quali sono le zone a rischio siccità in Spagna. Questi sono solo alcuni esempi di come una città possa diventare vivente, come possa comunicarci tutto ciò che avviene attorno a noi: consumo di energia, eventi speciali, dove trovare un taxi quando piove o vedere anche i flussi globali di arrivi e partenze aeree.
Molte città stanno aprendo le loro porte alle nuove tecnologie e opportunità delle smart city, prima fra tutte Singapore.
In Francia è nata l’idea di studiare un’applicazione che permetta di capire quanto tempo ci vuole ad attraversare la città con i vari mezzi di trasporto e calcolare anche la quantità di anidride carbonica consumata. Oggi è possibile creare App per Smartphone che possano calcolare queste cose senza bisogno di fornire dati, infatti molti moderni cellulari sono dotati di sensori che permettono di assimilare nozioni dall’esterno: un nuovo modo, quindi, di vivere la città.
Si può portare la tecnologia anche nelle abitazioni: la Senseable City Laboratory ha ideato, tra i suoi vari progetti, una struttura di proiettori che permetta di vedere la tv in ogni angolo della casa.
Recentemente sono stati ideati anche elettrodomestici muniti di chip che ci permettono di controllarli tramite cellulare, consentendoci anche di avere tutte le funzioni necessarie senza bisogno dover leggere manuali di istruzioni, avendo modo di comunicare con i sensori per capire quando il loro lavoro è finito. E’ possibile anche avere informazioni, come ad esempio ricette per cucinare, facendo cosi diventare la preparazione dei pasti un gioco, grazie all’interazione col touchscreen degli smartphone.
Ma esistono tecnologie per rendere la città più sensibile? Più fruibile dagli stessi cittadini? La risposta è sì, ed è un progetto che arriva da Copenaghen: la Copenaghen Wheel.
Si tratta di una bicicletta che si ricarica con le frenate, e che, collegata all’iphone, si mette in contatto con tutta la città, per vedere i livelli di inquinamento, i percorsi consigliati, e perfino per dare un programma fitness personale. Tramite i social network inoltre, è possibile condividere le proprie informazioni, in modo che altri utenti possano usufruirne, per aiutare insieme a migliorare la città.
Ratti conclude dicendo che fino a pochi decenni fa si pensava che la conoscenza fosse l’incasellare e l’archiviare qualsiasi cosa, mentre oggi pian piano tutte le barriere artificiali stanno scomparendo, e che le idee oggi non nascono più dal colpo di genio di una singola persona, bensì sono il frutto dell’unione e del lavoro di più persone per un ideale comune. Come dice lo stesso Ratti
Alla fine dell’incontro sono state poste alcune domande che di seguito riportiamo.
Quanto i cittadini possono diventare protagonisti della riprogettazione della città?
Carlo Ratti. Le possibilità sono molte e ancora da esplorare. Quello che è interessante è questo: negli ultimi vent’anni siamo passati dal mondo fisico al mondo digitale. Oggi invece grazie al potere delle reti possiamo fare il contrario. Un esempio è stata la campagna di Obama, che è partita dalle reti per portare all’elezione reale del presidente.
La prossima frontiera sarà come usare tutto questo per gestire le città, e a New York e Boston ci sono già App che permettono ai cittadini di comunicare eventuali disagi. Arriveremo a città dove le nuove tecnologie permetteranno nuovi metodi di partecipazione.
Riguardo agli elettrodomestici: quanto l’industria è più avanti rispetto alla ricerca teorica in questo campo? Come si può usare la gente, attraverso sensori, per permettere a delle macchine di estrapolare informazioni rispetto alla società? Potremo vedere qualcosa, in un futuro prossimo, di applicazioni di Smart City? A che punto siamo? Il software che viene utilizzato è Processing?
Carlo Ratti. Si, noi utilizziamo Processing in quasi tutti i nostri lavori. Per quanto riguarda le città intelligenti: le nostre città stanno diventando computer all’aria aperta. Raccogliamo un gran numero di dati, le statistiche cambiano, e riceviamo un numero consistente di informazioni. Ciò è una cosa fondamentale ed anche una delle più interessanti da analizzare.
L’innovazione può partire da qualsiasi cosa, sia dall’industria che da noi, nessuna è molto più in vantaggio rispetto all’altra, si può partire da qualsiasi campo.
Come può l’Italia riuscire a competere con Singapore? Cosa si può fare per rendere le SmartCity più concrete?
Carlo Ratti. Ci sono molte iniziative in tutta Europa e anche in Italia. La cosa più importante è non occuparsi di tutto. Al giorno d’oggi ognuno cerca di creare il suo kit per SmartCity e il risultato è che tutti hanno tutto, ma oltre a non essere collegati tra loro non hanno nemmeno abbastanza soldi per permettersi sviluppi. Non serve battere Singapore, bisogna sviluppare cose nuove, non sperimentare qualcosa su cui già altri stanno investendo. Milano sta lavorando, ad esempio, sugli spazi pubblici legati a SmartCity e sul modo di lavorare. Bisogna puntare sulle caratteristiche dei nostri paesi e saperle sfruttare. In Italia non si crede più nelle istituzioni, magari con SmartCiry si può cambiare tutto ciò, per impegnarsi insieme per la città. Perchè non puntare su una forza nostra per poi magari esportarla?
Si parla di SmartCity da anni, ma perchè oggi fanno tendenza? Cos’è cambiato?
Carlo Ratti. Prima c’era un rapporto uomo-macchina, oggi la macchina non c’è più, c’è la rete distribuita nello spazio, c’è un’interazione uomo-tecnologia, quindi è proprio lo spazio a entrare in relazione con le persone, si sta cambiando il modo di pensare le città. La tendenza forse è un entusiasmo collettivo, molte città si stanno impegnando, ma è comunque una cosa molto profonda e destinata a rimanere per molto tempo.
Tutta questa tecnologia non rischia di creare problemi di sicurezza? Il fatto che gruppi come Anonymous siano riusciti a oscurare il sito della casa Bianca o della CIA non rischia di preoccupare tutta questa tecnologia nel quotidiano?
Carlo Ratti. Non riguarda solo la city, ma il mondo che stiamo costruendo. Quando usavamo solo sistemi digitali, come i computer, trovavamo i virus, che per quanti danni facessero non erano pericolosi a livello reale. Quando invece ciò succede in cose fisiche, ad esempio un auto che scambia l’acceleratore col freno, diventa già un problema. Sono tutti rischi che riguardano il mondo di domani e verso i quali ci dobbiamo prevenire tenendo i sistemi più aperti possibili in modo che più occhi possano controllarli.
di Francesca Pich
Svelo e rivelo
Media is what you make of itMa dico, li guardate i profili facebook dei vostri figli? No, non intendo dal punto di vista del controllo delle loro abitudini, delle persone che frequentano: su quello sappiate pure che quello che vedete è precisamente quello che loro vogliono che vediate, quindi mettetevi l’anima in pace.No, parlo dei dati personali. Del modo in cui si descrivono sulla loro pagina di presentazione. A cominciare dal dato più sensibile: il “relationship status”, quello dove magari pensereste di capire chi è “il fidanzato” o “la fidanzata” (giusto perché ci piacciono i termini romantici e consolatori).Ebbene, se avete una figlia in molti casi scoprireste che lei ha una relazione con un’altra ragazza. E magari vi preoccupereste. Inutilmente, ma non sono qui a farvi la morale sul tema della libertà sessuale, non ne avrei alcun titolo. Intendo, semplicemente, che su facebook per una adolescente molto spesso “avere una fidanzata” significa solo che lei è l’amica numero uno, l’amica inseparabile e così meravigliosamente fidata che si potrà pure scrivere sul proprio profilo pubblico che è, appunto, “la fidanzata”. Fino ad assumerne il cognome, e infatti i profili degli adolescenti traboccano di doppi e tripli cognomi.E’ un gioco, ma non esattamente “uno scherzo”. E’ una cosa importante, sotto almeno due aspetti. Da un lato sui social media i nostri ragazzi ragionano senza le gabbie di pensiero tipiche dell’ambiente culturale con cui i quarantenni di oggi hanno vissuto i temi dell’identità e della socialità. Senza, per intenderci, l’ossessione di “ritagliarsi un ruolo nel gruppo”, proprio perché la rete è fluida, e si può agevolmente passare da un gruppo all’altro, inseguendo i propri ondivaghi interessi del momento. Ma soprattutto – e questo è l’aspetto più interessante – i nostri adolescenti non vogliono accettare l’idea che qualcuno ti obblighi a dichiarare i tuoi legami sentimentali. E quindi quel campo, che molti adulti lasciano vuoto per rimanere “nel vago” (e non precludersi chissà quali avventure digitali) viene addirittura sbeffeggiato dalla generazione dei “nativi”, e stravolto nella sue funzione originale. Con l’implicito scopo di dichiararsi strutturalmente superiori rispetto alle squallide logiche di ruolo o – peggio – “proprietarie”: il “fai vedere che sei mia altrimenti non mi ami abbastanza” – per intenderci – esiste ancora, ma rappresenta nettamente una posizione di retroguardia, perdente in partenza.L’aspetto su cui vorrei mettere l’accento è i nostri ragazzi hanno deciso di fare un “hacking collettivo” della principale piattaforma di social networking, confermando un trendgeneralizzato (ma ancora largamente ignorato) per cui è molto difficile indirizzare tecnologicamente l’uso di qualcosa che – al momento di compilare il proprio profilo – di sicuro non comporta conseguenze legali se dichiari il falso.Ed è questo l’equivoco in cui spesso cadono gli “immigrati digitali” della mia generazione quando parlano, per esempio, di “privacy” o di “diritto all’oblio”. Diamo infatti per scontato che i presunti “inconsapevoli dei rischi” (sempre loro, i nostri figli) siano indifesi e inseriscano sempre dati utili, cioè veri. Mentre se andiamo a vedere, più la richiesta è invasiva (“religious views”, “orientamento politico”, “preferenze sessuali”) più si divertono a prenderla in giro con risposte che nella migliore delle ipotesi potremmo definire bizzarre.La verità è che anche una piattaforma di social media è soggetta alla legge del remake e del re-use, troppo spesso sottovalutata dai tecnocrati di oggi, che non a caso appartengono almeno alla generazione precedente. Cosa è diventata Facebook di sicuro lo decide Zuckerberg, ma non a prescindere da quello che gli utenti, tutti insieme, decidono di farci. E lo stesso vale per le altre, più piccole, piattaforme. Twitter, nata con pretese conversazionali, è diventato uno strumento principalmente di broadcasting. Friendfeed, concepita come aggregatore RSS, è stata apprezzata soprattutto come chat collettiva in tempo reale. La stessa MySpace, in origine, non aveva particolari ambizioni in ambito musicale: semplicemente, permetteva l’inserimento di lettori flash, e molte band indipendenti ne avevano approfittato.Eppure siamo ancora qui a versare lacrime (e fiumi d’inchiostro) sulla “generazione perduta”, quella che passivamente accetterebbe i diktat dei nuovi grandi fratelli della rivoluzione digitale. Dimenticando che proprio noi – i quarantenni di oggi – ci siamo fatti lobotomizzare per trent’anni da una passivissima e ineludibile televisione commerciale, con gli effetti culturali che proprio oggi più che mai sono davanti a nostri occhi. E non è esattamente un bello spettacolo.
Scuola e pensiero laterale
Fonte: Wired.it
Come dovrebbe essere la scuola di domani? Il quesito, alla base del numero di settembre, Wired lo ha posto a Sir Ken Robinson. Non fatevi ingannare da quel “sir” che potrebbe evocare la figura di un vecchio accademico prigioniero di biblioteche e antichi precetti. Robinson è l’esatto contrario. Presenza fissa al TED (le sue videoconferenze sono state viste in rete più di 7 milioni di volte), le sue idee sulla creatività e il “pensiero divergente” alla base di un nuovo sistema educativo, hanno fatto il giro del mondo. Su Wired trovate la trascrizione di un discorso che ha scritto per la Rsa, organizzazione che si impegna a cercare nuove soluzioni per il progresso e la ricerca. Cliccando il video in basso, potete ascoltare le parole di Sir Ken Robinson. La premessa alla tesi di Robinson è molto semplice: la scuola di oggi è una scuola antica, concepita “nel clima culturale e intellettuale dell’Illuminismo e nelle circostanze economiche della prima rivoluzione industriale”. La prova è che le scuole sono ancora organizzate sul modello della linea di produzione, come in una fabbrica. “Ci sono le campanelle, delle strutture separate, gli alunni si specializzano in materie diverse. Educhiamo ancora i bambini per annate: li inseriamo nel sistema raggruppandoli per età”. La scuola, quindi, è come una catena di montaggio da cui possono uscire solo due tipi di prodotti: studiosi e svogliati.
Si tratta di un sistema educativo non al passo con i tempi, secondo Robinson. Non un tempo in cui, su bambini e adolescenti, convergono le informazioni passate da Internet, dai telefonini e dalla tv. Ma allora, qual è il tipo di educazione adatta alla nostra epoca? Robinson prende in causa il “ pensiero laterale”, espressione coniata dallo psicologo maltese Edward De Bono che indica una capacità di risolvere i problemi in modo creativo e da diverse prospettive. Robinson cita l’esempio della graffetta: quanti modi ti vengono in mente per usarne una? “La maggior parte di noi ne trova 10-15. Quelli più bravi ne trovano anche 200. E li trovano facendo domande del tipo: ‘La graffetta potrebbe essere alta 60 metri e fatta di gommapiuma?’”.
La cosa tragica è che i bambini sono più portati a vedere le cose lateralmente – e quindi a fare più domande e a trovare più soluzioni – di quanto lo siano gli adulti. Questo non perché la crescita porti per forza di cose a una chiusura mentale, ma perché i luoghi in cui i bambini crescono invece di sviluppare e articolare il loro pensiero, lo standardizzano. “Il problema cruciale”, sostiene Sir Ken Robinson, “risiede nella cultura delle nostre istituzioni, nel clima che vi si respira e nelle abitudini che hanno consolidato”.
Iperlocale.info
Iperlocale.info è un osservatorio spontaneo, un quaderno d’appunti condiviso, nato per studiare la dimensione locale e iperlocale dell’informazione sul web. Si tratta di un progetto indipendente e autofinanziato, aperto alle riflessioni, alle segnalazioni e ai contributi di tutti. È nato nel marzo del 2012, per iniziativa di Sergio Maistrello.
[pigro, copioincollo il testo di Pasteris]
VeneziaCamp 2012 – Cartografie e narrazioni
Smart cities e smart communities
- La città delle reti o net city
- La città aperta o open city
- La città senziente o sentient cities
- La città partecipata o wiki città
- La città neo-bohème o città creativa
- La città resiliente
- La città 2.0.
- La città come piattaforma o cloud city
- “La Giornata delle Smart Communities” organizzata nell’ambito del prossimo FORUM PA che si terrà a Roma dal 16 al 19 maggio.
- SMART City Exhibition e che si terrà a Bologna nei prossimi 29-31 ottobre
Cartografie e narrazioni territoriali al VeneziaCamp
Chi racconta la realtà?
il canale avrebbe svolto attività giornalistica non occasionale diffondendo gratuitamente notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale specie riguardo ad avvenimenti di attualità politica e spettacolo
Ma quell’interpretare mi incuriosisce.
Ogni dire reca con sé un punto di vista. La percezione del mondo è già un’interpretazione. Osservare significa anche ritagliare, e dar senso. Una parola, o una fotografia sono una scelta di “inquadratura”, testo e narrazione, giocano con il lettore, e la realtà è inattingibile. Una webtv può dire di sé di essere semplicemente un tubo, un altoparlante? Riconfezionando flussi e discorsi in nuovi contesti di fruizione (diverse aspettative, orizzonti di senso per l’interpretante) può dichiararsi neutra rispetto al messaggio che veicola? Ogni blogger che scrive liberamente di fatti di cronaca, oppure un giornalista su una testata editoriale, può dire di fare semplicemente informazione? Non credo. Anzi, la capacità di adottare uno stile espositivo rispettoso dei fatti, su cui eventualmente costruire in modo fondato il proprio punto di vista e la propria riflessione è sempre garanzia di una coscienza “giornalistica”, segno dell’aver compreso e praticato una metodologia del “fare cronaca” in grado di sottoporre a critica i propri stessi strumenti del mestiere, in una deontologia esplicita.
E il lettore è alfabetizzato? Possiede competenze in lettura che siano in grado di fargli decodificare un testo come “pettegolezzo&propaganda” rispetto a un articolo “ben formato” dal punto di vista giornalistico? Ci sono dei marcatori, nel testo? Indicazioni intra o extratestuali (cotestuali, contestuali) che possano aiutare a disambiguare il messaggio correttamente, a porlo contro uno sfondo adeguato, per dargli la giusta ambientazione?
E se domani ci fossero centinaia di webtv (facilissimo), l’Ordine dei Giornalisti dovrebbe mettere il bollino a quelle che fanno informazione seria e quelli che invece giocano a fare i citizen journalist?
E come si fa a distinguere, visto che già ora ci sono cittadini che pubblicano dignitosissime cronache e ricognizioni e riflessioni su questioni d’attualità, più o meno iperlocali, e ci sono testate giornalistiche online registrate che assomigliano a dei forum di bimbiminkia?
E’ chiaro che il vecchio modello non può reggere. Vedremo emergere Luoghi di giornalismo vero e fondato sui fatti, sulla volontà di fornire informazioni e punti di vista per raccontare gli accadimenti avendo fermo riferimento nel nutrire l’opinione pubblica di cibo per la mente di qualità.
E noi tutti semplicemente esplorando il web e le nostre cerchie sociali e di affinità scopriremo e frequenteremo molti Luoghi d’informazione, istituzionali o partecipativi o artigianali, e daremo i nostri voti alla qualità dell’offerta.
Hardware delle sigarette e comportamenti umani
Sono stanco?
Idee
Ho una città con il wifi, un convegno o un evento, una situazione con gente che si muove. Sarà ben possibile inventarsi qualcosa dal punto di vista dei format comunicativi praticabili?
ForumPA con UrbanExperience ci prova.
Oltre al già citato walk show (passeggiate radioguidate attraverso le aree espositive per mostrare, attraverso le voci dei protagonisti, le caratteristiche delle diverse applicazioni innovative nell’ambito della PA), ecco qualche altra proposta di format per FORUM PA 2012:
Mobtagging: consiste nel posizionare lungo il percorso della manifestazione dei codici digitali (detti mobtag, o qr code), per taggare contenuti pertinenti con link al web (a video o audioclip con brevi interviste) o brevi testi informativi.
Whisper talk: il sistema whisper radio (utilizzato per la conduzione radiofonica dei walk show) potrebbe essere utilizzato per degli incontri informali, “ritagliati” all’interno di spazi non “istituzionali”, quindi al di fuori della classiche sale convegni.
Tag Cloud Live: consiste nel visualizzare in una ”nuvola” dei flussi di tweet e selezionare (attraverso una piattaforma dedicata) le tag-parole chiave in una sorta di “quarta parete”…una soluzione ideale per sessioni di brainstorming, incontri pubblici e molti altri contesti di comunicazione pubblica.
Visual thinking: durante un incontro c’è una persona dedicata che “prende appunti per tutti” e i partecipanti possono vedere i risultati di questa azione, che serve a qualificare l’attenzione e facilitare la partecipazione, o direttamente (se gli appunti sono tracciati su pannelli di carta) oppure attraverso degli schermi (se le tavole scritte e disegnate vengono riprese da una telecamera e proiettate).
Videotag: è un particolare format di instant video che si basa sull’integrazione tra parole chiave-tag e una sintetica ripresa audiovisiva realizzata sul campo, durante un evento (durante i walk show ad esempio). La peculiarità sta nella veloce pubblicazione on line (su YouTube e rilanciata sui social media) di video su cui innestare delle tag che sottolineano i contenuti più pertinenti dell’evento.
Le tradizioni finiscono
Falliti incontri
(fonte: Scorfano)
Falliti incontri
Oggi finisco in aula magna, con la mia classe prima, a sentire una «lezione» su un argomento del tutto marginale rispetto al nostro curriculum scolastico, ma che dovrebbe avere molto a che fare con la loro (e forse anche mia) coscienza civica, ambientale, ecologica e cose del genere. Finisco quindi in aula magna a sentire un signore che ci parlerà di una di queste cose e, di buon umore, mi siedo vicino ai miei primini, per evitare che parlino troppo e si facciano notare da quel signore coscienzioso.Il signore comincia quasi subito a parlare. Ma parla poco, e fa invece passare sul megaschermo un video che sta su YouTube e che dovrebbe subito illuminarci sulla sua teoria; solo che lui non è capace ad alzare il volume del video su YouTube e quindi noi non sentiamo quasi niente, e i ragazzi cominciano a ridere un sacco, finché qualcuno dalle prime file si alza e va sul palco e prende in mano il mouse e alza il volume del video su YouTube, e sono intanto passati 3 minuti e mezzo in cui il video è stato incomprensibile. Poi il signore mette su un altro video, di nuovo preso da YouTube. Ma è un video in danese, lingua a noi tutti ignota. Lui se ne rende conto, e infatti dice al microfono: «Strano, ieri c’erano i sottotitoli…» Io penso che boh, saranno scappati i sottotitoli, nel frattempo.Poi, ed è passata quasi mezza lezione (ma no, non si chiamano «lezioni», si chiamano «incontri»: che non vi venga mai in mente di chiamarli «lezioni», che poi la gente – tipo quel signore lì – si offende, chissà perché: forse perché le «lezioni» sono molto noiose e le fanno solo quelli un po’ sfigati, come me; gli «incontri» invece li fanno quelli brillanti, come lui, con i video presi da YouTube); ma insomma, quando già siamo quasi a mezza lezione, il signore che tiene l’«incontro» mette su il terzo video, preso da YouTube, che si vede e si sente bene (anche se noi capiamo subito che lui non sa usare la funzione «schermo pieno»), ed è pure in italiano, per miracolo, solo che nel frattempo a lui squilla il cellulare (suoneria molto invadente, com’è ovvio) e lui allora, sul palco, mentre il video di YouTube procede per suo conto a schermo ridotto, lui risponde a un messaggio che gli è arrivato, davanti a tutti noi, picchiettando sulla tastiera del suo cellulare.Io taccio. O almeno ci provo. Perché a un certo punto, Paoletta, che è una delle ragazze più sveglie della classe (e che ha pure preso 6 nell’ultima verifica di latino, ma ancora non lo sa) e che è anche proprio giovane, perché ha fatto la cosiddetta «primina», qualche anno fa, e dunque ha compiuto i 14 anni da meno di due settimane, Paoletta mi guarda e mi dice: «Ma prof, questo signore si rende conto che la sua lezione è stata un fallimento?» (E usa proprio queste due parole, «lezione» e «fallimento», che fanno un po’ impressione, soprattutto la seconda, su una faccia giovane e pulita come la sua). Io non rispondo. Le faccio solo il gesto di stare attenta, e zitta, e di guardare i video.Ma Paoletta, dopo qualche minuto, mentre gli altri ragazzi fanno casino e applaudono a qualunque frase che il signore, dal palco, sta dicendo, Paoletta mi dice: «Ma prof, questo signore si rende conto che tutti lo stanno prendendo in giro?» (e non usa esattamente l’espressione «prendere in giro» perché, per quanto giovani e innocenti, sono ragazzi che sanno usare la lingua italiana con grande icasticità, quando vogliono: e quindi usa la parola «culo», come vi siete ben immaginati). E io non le dico niente, nemmeno questa volta; ma le faccio di nuovo cenno, imperiosamente, di stare attenta.Ma dovrei dirle che no, non se ne rende conto. Non si rende conto, questo signore, del suo fallimento e nemmeno del fatto che i ragazzi lo stanno (e pure giustamente, sia chiaro) prendendo per il in giro. E non ce ne rendiamo conto noi che, da anni, lasciamo che venga questa gente, nelle nostre scuole, e che magari la paghiamo anche, questa gente che organizza gli «incontri», che non sono lezioni e che non servono mai a niente e a nessuno, se non a far perdere a tutti noi un po’ di tempo, come se ne avessimo, di tempo da buttare. Ma noi lo buttiamo, come buttiamo soldi ed energie, in tutte queste cose inutili. Poi l’ora finisce e noi torniamo a casa e quel signore non ha nemmeno capito che la sua lezione è stata un fallimento, misero e ridicolo; e non sa alzare il volume dei video di YouTube e nemmeno gli importa di saperlo, probabilmente. Ma immagino che sia in grado di offendersi se io chiamassi «lezione», e non «incontro», questa cosa che è venuto a fare oggi nella nostra scuola. Questa cosa patetica e ridicola, per cui mi è onestamente molto difficile trovare un nome; talmente ridicola che anche una ragazzina di quattordici anni appena compiuti si è fermata e, un po’ stupita, ha forse provato un po’ di pena per quel signore e per il suo (e nostro) fallimento.
Post di servizietto
L’Agenzia per la diffusione delle tecnologie dell’innovazione ha pubblicato (link diretto) il resoconto, a cura di Pierluca Santoro, dell’evento Innovatori Jam, tenutosi lo scorso settembre: ne parlavo qui su NuoviAbitanti.
In quell’occasione svolgevo il compito di facilitatore nei forum dedicati all’e-tourism, provando a bilanciare ragionamenti che andavano dalle cartografie digitali ai possibili emergenti format digitali di narrazione territoriale, con cui arredare le mappe oppure provvedere autonomi “percorsi di senso” dell’abitare un territorio, quando oggidì possiamo noi stessi “scriverci” sopra, raccontandolo.
Il Report rappresenta la sintesi dei contributi di coloro che hanno partecipato ai 10 focus del Jam, e mi fa piacere segnalare come la discussione appena descritta sia stata messa in rilievo, a testimoniare la buona qualità degli apporti.
Nel frattempo vado in giro a raccontare cose di web a insegnanti e studenti: a Pordenone, domani 24 febbraio alle 17.30, presso l’ex convento di San Francesco.
Web e noia
Sgranare l’interpersonale
Stavo parlando di chat, di FB, di bacheche social da Myspace in qua con gente che cinque anni fa era in seconda media. Tutto questa velocità d’innovazione del web di cui noi qui dentro da anni (liberateci) parliamo, il fatto che FB e Youtube siano roba del 2005, vive in una dimensione prospettica radicalmente diversa dentro le menti dei fanciulli. Che ci son cresciuti dentro, conoscono FB e gironzolano un po’ qua e là in internet, si scocciano forse. Immagino siano esistite persone che hanno sempre guardato le automobili con un po’ di meraviglia, per tutta la loro vita, essendo nati e cresciuti in un mondo senza automobili.