Archivi autore: Giorgio Jannis

Analisi sociale

Un’analisi quantitativa dove è possibile trarre indicazioni predittive, e osservare i sentimenti delle masse, correlarli ai comportamenti. In questo caso si tratta delle elezioni in Sicilia, ma al di là del contenuto quello che vediamo nel trattare i big data sono nuove metodologie e nuove grammatiche per rendere significativo quello che prima non poteva neppure essere percepito. L’alba della nuova percezione di sé delle collettività.
E forse un programma didattico per le scuole andrebbe preparato, su questi argomenti, per diffondere tra gli studenti quello che da sempre è appannaggio della scuola, ovvero saper leggere la realtà.

http://www.techeconomy.it/2012/11/05/elesicilia-twitter-le-reti-e-la-correlazione-tra-buzz-e-risultati/

Perdere il segno

I titoli degli articoli riportati dalla newsletter di Agendadigitale.eu

Giusto per avere un colpo d’occhio, e pensare all’importanza dei titolisti. Perché stavo pensando alle frasi tormentone, all’abuso dei luogocomunismi.
E mi era caduto l’occhio su quel “segnato il primo passo”.
Ora, segnare il passo significa subire una battuta d’arresto. Fare il primo passo significa invece intraprendere un cammino. Qui sono fusi insieme, e prevale alla fine nell’interpretazione l’idea di “primo passo in avanti”.
Perderemo il segno.

TOP STORIES
Biondi (Miur): “Diffonderemo il virus del digitale con nuovi testi scolastici”
Imprese ed eGov: se bastasse una buona intenzione per spazzare il carrozzone
Noci (Polimi): “Ecco come rimediare agli errori dello Sportello Unico”
Corso (Polimi): “La PA ha segnato il primo passo verso il cloud”
Dettori, startup: “Crowdfunding importante, ma Pmi dimenticate”
Fabris (Episteme): “La necessità di una salute digitale”
Fattura elettronica: i prossimi passi, verso l’Europa

PROTAGONISTI
Ferri (Bicocca): “Sulla Scuola il digitale parte a fatica dopo 15 anni di deserto”
Calderini (Miur): “Confuse le deleghe tra Stato e Regioni, frenano l’innovazione”
Tripoli (Mise), “Non ci siamo dimenticati delle Pmi. Né dell’eCommerce”
Palmieri (Pdl), Agenzia: “Missione all’apparenza sovra umana”
Biondi (Miur): “Al via l’iniziativa adotta la micro azienda, per gli studenti”

ESSENZIALI
Agenda digitale italiana: lo stato dell’arte tra decreto e altre norme
Le tempistiche dell’Agenda
Tutte le lacune del decreto
Risparmi per 20 mld e maggiori entrate per 5 mld in tre anni grazie all’Agenda. Ma solo in potenza
La rivoluzione digitale per non perdere il nostro welfare
Editoria anti innovativa, scuole poco connesse: fermi al palo i testi digitali
Agende digitali d’Europa, ogni Paese va per conto proprio.

Habemus Agenda (quasi)

(fonte: Apogeonline)
Habemus Agenda (quasi)
di Simone Aliprandi
È ora di chiudere le discussioni su che cosa significhi apertura di dati e formati all’interno della Pubblica Amministrazione.
Precisamente giovedì 18 ottobre il Presidente Napolitano ha promulgato il testo definitivo del decreto legge comunemente chiamato Crescita 2.0con il quale vengono attuate le riforme della cosiddetta Agenda digitale.
Questo fondamentale e tanto atteso provvedimento tocca davvero molti ambiti della legislazione italiana in materia di innovazione e digitalizzazione del paese (identità digitale, dati aperti, trasporti, istruzione, sanità digitale, digital divide, moneta elettronica, giustizia digitale, ricerca, smart community, startup innovative, nuove infrastrutture…) e porta succulente novità (tra cui – udite udite! – la previsione di specifiche sanzioni per i funzionari della Pubblica Amministrazione che non rispettano i criteri già stabiliti sette anni fa dal CAD, Codice dell’amministrazione digitale). In un’ottica di sintesi, desidero segnalare le non poche novità in materia di openness.
La più vistosa è relativa ad una ulteriore modifica dell’articolo 68 del CAD (oltre a quella recente di cui abbiamo già parlato): viene infatti modificato il testo del comma 3 rendendo più precisa e opportuna la definizione di formato aperto (quella precedente era infatti troppo generica e lasciava spazio a troppe interpretazioni strumentali); ma soprattutto viene cristallizzata una definizione legislativa di dati aperti:
sono dati di tipo aperto i dati che presentano le seguenti caratteristiche: 1) sono disponibili secondo i termini di una licenza che ne permetta l’utilizzo da parte di chiunque, anche per finalità commerciali; 2) sono accessibili attraverso le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, ivi comprese le reti telematiche pubbliche e private, in formati aperti […], sono adatti all’utilizzo automatico da parte di programmi per elaboratori e sono provvisti dei relativi metadati; 3) sono resi disponibili gratuitamente attraverso le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, ivi comprese le reti telematiche pubbliche e private, oppure sono resi disponibili ai costi marginali sostenuti per la loro riproduzione e divulgazione […].
Altro passo interessante del decreto è quello che interviene sull’articolo 52 del CAD e sancisce il principio per cui i dati e i documenti pubblicati con qualsiasi modalità dalle pubbliche amministrazioni senza l’espressa adozione di una licenza d’uso vengono considerati alla stregua di dati di tipo aperto. Nella sezione dedicata alle comunità intelligenti vi sono inoltre vari riferimenti al già noto concetto di riuso di sistemi e applicazioni, che ne esce ulteriormente chiarito e rafforzato.
Bisogna infine rilevare in tutto il provvedimento una spiccata attenzione per l’aspetto (a me molto caro) dell’interoperabilità e degli standard aperti, che sembra ormai essere entrato pienamente nelle corde del legislatore italiano.
E ora? Non è finita! Il decreto sarà vigente per sessanta giorni, periodo entro il quale il Parlamento dovrà convertirlo in legge ordinaria; dunque c’è ancora la possibilità che vengano effettuati emendamenti. A tal fine è stato aperto un apposito wiki sul sito degli Stati generali dell’innovazione, in cui tutti possono scrivere commenti e avanzare proposte; il tutto verrà poi sottoposto all’attenzione di alcuni parlamentari impegnati in tal senso.
Io ho già in mente che cosa proporre: un comma che riformi l’articolo 5 della legge 633 del 1941 e finalmente eviti confusione sulla titolarità di diritti di privativa su tutti gli atti ufficiali dello Stato e delle pubbliche amministrazioni, in qualsiasi forma essi compaiano.

Consultazione pubblica del Miur sui principi fondamentali di Internet

Consultazione pubblica del Miur sui principi fondamentali di Internet

Dal 18 settembre al 1° novembre è attiva la consultazione pubblica sui principi fondamentali di Internet, sulla piattaforma online http://discussionepubblica.ideascale.com. Il documento “Principi generali di Internet”, elaborato dal Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, rappresenta l’inizio di un dibattito pubblico sulla governance di Internet, vale a dire sui processi, attività, valori e tecniche di gestione della Rete e di buon comportamento nella Rete stessa. La consultazione riguarda cinque temi fondamentali (principi generali, cittadinanza in rete, consumatori e utenti della rete, produzione e circolazione dei contenuti e sicurezza in rete), avviene esclusivamente per vie telematiche ed ha una durata di 45 giorni.
E’ aperta a tutti i cittadini, organizzazioni private, espressioni della società civile organizzata o istituzioni pubbliche che vogliano inviare un contributo al dibattito. La consultazione servirà a definire e preparare la posizione italiana sui principi fondamentali di Internet in vista del settimo incontro dell’Internet Governance Forum, che si terrà a Baku, Azerbaijan, dal 6 al 9 novembre 2012. L’Internet Governance Forum è l’organismo delle Nazioni Unite che discute del futuro della governance della Rete, e che prevede la partecipazione in condizione di parità di governi, imprese private e società civile.

Comune di Udine, bussola della trasparenza

E’ stato resa disponibile dal Ministero per la Pubblica Amministrazione e la semplificazione la Bussola della Trasparenza, uno strumento che “consente alle pubbliche amministrazioni e ai cittadini di utilizzare strumenti per l’ analisi ed il monitoraggio dei siti web. Il principale obiettivo è di accompagnare le amministrazioni, anche attraverso il coinvolgimento diretto dei cittadini, nel miglioramento continuo della qualità delle informazioni on-line e dei servizi digitali.”
Ho cercato Udine, ma non ottengo risposte, come se il sito non fosse raggiungibile, quando invece lo è alla normale navigazione. Spero questo non sia a causa della nidificazione eccessiva degli indirizzi del sito web del mio Comune (per dire, l’homepage si trova qui http://www.comune.udine.it/opencms/opencms/release/ComuneUdine/index.html)
Ho provato anche a fare un confronto con il Comune di Pordenone, per vedere gli indicatori utilizzati, lo metto qui sotto. Udine è tutta negativa perché non raggiungibile, credo in realtà qualche faccina verde e sorridente l’avrebbe presa anche lei. Riprovo nei prossimi giorni.

Narrazioni mediatiche dei contesti situazionali

Ci ho pensato e ne ho parlato in giro spesso, per lavoro.
Come il pronunciare i ragionamenti, magari in quella meravigliosa escalation ideativa durante un brainstorming o anche solo una ricca chiacchiera, diventi oggi catturabile in tempo reale. 
E non registrando, ma anche scrivendo quello che diciamo. Tutti quei software speech-to-text da anni e anni fan viaggiare la fantasia nel provare a immaginare un mondo senza penna (ormai molto) e senza tastiera. Tutte le riflessioni sulle interfacce, quelle lì solite. Richiamo a semiotiche naturali nell’usabilità, trasparenza dell’interfaccia.
Quindi questa è anche l’epoca in cui una fetta gigantesca di umanità prima storicamente solo loquace, ma che non lasciava traccia perché le parole volano, diventa loquace e incide un supporto, come dire. Rende solido, copiabile, diffondibile, ricercabile un contenuto espresso parlando. 
Nella storia della Conoscenza, il fatto di poter scrivere e articolare i ragionamenti (mi vien sempre da pensare che molti filosofi famosi sono stati scrittori dallo stile eccezionale) abbiamo sempre avuto un filtro costituito da chi appunto sapeva scrivere e articolare ragionamenti. La civiltà è riuscita in duecento anni a garantire abbastanza del primo, forse meno del secondo, ma vabbè. In ogni caso, la storia delle idee progrediva su oggetti culturali abilitati dalla tecnologia della stampa, e quindi quotidiani e mensili e libri e atti di convegni e manifesti. Da vent’anni scriviamo direttamente in Rete, e pubblichiamo personalmente. Ora possiamo dire le cose a un dispositivo, e pubblicare. Ma lo stile dello scrivere nei secoli ha posto una correlazione tra sapere articolare in ragionamenti (inventio, dispositio, elocutio, siam sempre lì) in forma scritta e qualità del contenuto esposto. Se disponi bene i tuoi argomenti (approccio architettonico al discorso) o se sei abile a raccontarli sul piano dell’espressione (stilistica, strategie narrative, abbellimenti) eri più intelligente, per dire. E poi magari dici anche cose nuove e interessanti, che alla lunga non è un optional.
Adesso arriveranno in Rete gli strombolotti, milioni di anacoluti, inflessioni del discorso dalla sintassi labirintica, oppure brevissimi assaggi di pensieri spezzettati. Mi diranno “sei laconico come un twitter”, se parli a frasette, slogan, aforismi, proverbi. Oppure tanti, ma brevi. Assertivo in 500 caratteri letti davanti al telefonino, oppure romanticissimo. E quelli che si lasceranno prendere dal delirio e sproloquieranno per mezze orette, tanto abbiamo inventato lo sbobinatore.
Ma credo proprio che tra cento anni la nostra società sarà profondamente diversa, grazie al fatto di poter scrivere il discorso pronunciato, e portare con sé ampi stralci di situazione enunciativa dentro il testo. L’enunciazione enunciata, ora molto più efficiente grazie a tecnologie della comunicazione. Il discorso che si fa carico di rappresentare (vedremo con che codici) una colossale fetta del mondo, che fino a oggi andava persa. Un embrayage, oui.

Come scriveremo in un futuro senza tastiere?

Scritto da 40KTEAM | Pubblicato: OTTOBRE 8, 2012
“Le buone idee non arrivano parlando, ma scrivendo. Emergono dal pensiero calmo, dal trasferimento silenzioso delle parole sul supporto. Il punto non è se la buona scrittura e le buone idee sopravviveranno. Il punto è in che modo noi scrittori saremo in grado di adattarci. Saremo gli unici al mondo ancora legati alle vecchie tastiere? O impareremo invece a pensare abbastanza velocemente da poter esprimere a voce quegli stessi pensieri in modo chiaro e altrettanto bello?”
Fonte: 40k

Re-framing della collettività

Quelli della Decrescita e i movimenti ecologici mondiali dicono che bisogna ri-colonizzare l’immaginario, per spostare la nostra percezione e quindi progettualità e azioni lontano dalla visione capitalistica/consumistica così come propalata dalla fine della seconda guerra mondiale.
Quelli che si occupano di giornalismo e di editoria dicono che la circolazione fluida della conoscenza, compresi tutti i nuovi fenomeni di crowdsourcing informativo, fact-checking, produzione dei contenuti digitali aumentati e distribuzione su dispositivi elettronici, ha bisogno di fare un salto di qualità, deve rendersi conto che il contesto mediatico è radicalmente cambiato, e bisogna adeguarsi adottando nuovi punti di vista e competenze digitali.
Quelli che seguono l’innovazione nella Pubblica Amministrazione sottolineano come sia necessario ora con sforzo immenso ri-progettare la stessa organizzazione lavorativa, ottimizzare grazie a strumenti di comunicazione conversazionali l’efficienza della macchina passando necessariamente per un cambio di mentalità degli stessi amministratori (funzionari o politici), verso una postura di democrazia e di governo del territorio di tipo partecipativo, abilitato e favorito dalle tecnologie digitali.
Quelli che si occupano dell’Agenda Digitale, delle start-up nel settore ICT, delle smartcities, dei territori connessi, sta ora lottando per ridisegnare le priorità del territorio, sventolando i vantaggi che una buona cablatura può offrire, insieme a pratiche di trasparenza strumenti di sensoristica, partecipazione diretta dei cittadini. E le priorità vanno riordinate nella testa di ognuno e nella cultura di una collettività.
Quelli che fanno consulenza per le imprese, avendo capito quanto le modalità digitali odierne di comunicazione interna e esterna modifichino i comportamenti e la forma stessa dell’azienda per come essa si percepisce sul piano delle relazioni interpersonali e della socialità mediatica, avendo compreso quanto sia importante nel social web marketing lavorare sulla narrazione, sulla partecipazione e sulla appartenenza a una community, sulla sentiment analysis e sulla reputazione, devono gestire il cambiamento del gruppo di lavoro reimpostando dentro la testa dell’imprenditore tutta una visione del mondo, dove oggi i mercati sono conversazioni.
Forse si è capito che bisogna lavorare sul contesto, non solo sul messaggio.
Tutto questo è un re-framing cognitivo, per una collettività, per un’enciclopedia. Serve una nuova cornice dentro cui leggere il mondo, e solo dentro quella realtà mentale sarà possibile progettare iniziative di innovazione sociale adeguate ai nostri tempi, che rispettino gerarchie di obiettivi misurati sulle necessità attuali dei cittadini e dei consumatori.
Una colossale opera semiotica, per rinominare il mondo. 
Programmi narrativi, dove per agguantare i nuovi Oggetti di Valore diventa necessario innanzitutto manipolare lo spazio cognitivo dell’Eroe (ognuno di noi, in fondo) mostrandogli i vantaggi e i benefici di un nuovo mondo possibile dove tutti siamo connessi. Riuscendo a motivare l’Eroe, inneschiamo l’azione e il cambiamento. 
Questa cosa deve sicuramente accadere a livello individuale, però le scuole devono formare cittadini digitali, e la Pubblica Amministrazione in quanto cosa pubblica deve subito adeguarsi e diventare nativamente conversazionale.
Magari come pubblicitari, bisognerebbe indurre un bisogno, perché forse non ci siamo bene accorti che qui tutto è cambiato. Usare strategie di narrazione, appunto. Far leva sulla desiderabilità, sulla convenienza, sull’estetica e sull’etica, sui benefici sociali, perfino sul progresso della specie umana. E diffondere una nuova percezione della realtà, dove la socialità digitale è uno dei fondamenti di qualunque ragionamento.
Eppure basterebbe che riflettessimo (lo dovrebbero fare alle scuole medie, questo) su quanto ci ha cambiato avere in mano uno smartphone connesso, le possibilità oggi praticabili da ognuno di noi nella partecipazione digitale a finalità civiche o anche di produttività e di consumo.
Ci vorrebbero cartelloni sugli autobus (elettrici)  con su scritto “E’ CAMBIATO IL MILLENNIO. Guardati attorno, sei connesso”
Insomma, tutti dovrebbero parlare di questo. Tv, radio, giornali, al bar: mi piacerebbe che per un anno tutti parlassero di quanto è cambiato il mondo.

Binari che dividono. La ferrovia Monfalcone – Cervignano

Un esempio di tecnostoria. Cioè, una narrazione esplicativa di come una innovazione tecnologia (in questo caso, la progettazione e la realizzazione di una linea ferroviaria in Friuli Venezia Giulia) poi in qualche modo cagiona modificazioni di  natura sociale, economica, culturale.

Trovato qui.

Sbuffi di fumo – La ferrovia Monfalcone-Cervignano. Le cause storiche ed economiche di una polemica fra Gorizia e i centri della pianura
di Donatella Cozzi

Lo sviluppo ferroviario nei territori della Principesca Contea di Gorizia e Gradisca può essere suddiviso in due momenti cronologicamente distinti. La prima fase fu quella della costruzione della “Ferrovia Meridionale” e del tronco di collegamento con Gorizia e Udine. La “Meridionale”, com’è noto, fu realizzata per collegare Vienna con il suo porto adriatico, Trieste. Avviata alla metà dell’800 come impresa statale, essa fu portata a termine fra il 1857 e il 1859 appunto dalla k.k. Priv. Südbahn Gesellschaft. La seconda fase, invece, iniziò alla fine degli anni ’80 e nei primi anni ’90, quando venne progettata e costruita la congiunzione fra la “Meridionale” e la Bassa friulana, la Monfalcone-Cervignano, tronco austriaco del nuovo collegamento diretto fra Trieste e Venezia; e proseguì poi, nei primi anni di questo secolo, con la realizzazione della ferrovia “Transalpina”, seconda congiunzione con l’interno della Monarchia, che si inserì nel complesso di linee dei Tauri e delle Caravanche (1).
In questo articolo ci occuperemo in particolare della costruzione della linea Monfalcone-Cervignano, e delle polemiche che accompagnarono la realizzazione di questo progetto: cercheremo di illustrare i motivi per cui i comuni della pianura (Monfalcone, Ronchi, Cervignano), pur con qualche divergenza – come vedremo -sul tracciato, ne caldeggiarono la costruzione, mentre Gorizia, invece, manifestò contro di esso una forte ostilità.
Occorre premettere che già nella fase di progettazione del collegamento fra la “Meridionale” e Udine era stato sollevato il problema dei collegamenti fra l’alta e la bassa pianura goriziana. Allora, da parte della pianura, era stata espressa la preoccupazione che un tracciato ferroviario ad essa troppo sfavorevole (inizialmente godeva credito l’ipotesi di realizzare la congiunzione con Gorizia attraverso il Vallone) potesse danneggiarla ed emarginarla economicamente. Ed erano state avanzate delle proposte di tracciati alternativi, che per Gorizia prevedevano soltanto un raccordo supplementare, mentre la linea principale avrebbe dovuto raggiungere direttamente Udine, o lungo la direttrice Sagrado-Versa-Palmanova, oppure più a Sud, unendo Monfalcone a Palmanova attraverso Pieris (2).
Ma, com’è noto, non se ne fece nulla, e quindi il completamento della “Meridionale”, realizzato alla fine seguendo l’attuale percorso Monfalcone – Sagrado Gorizia, lasciò irrisolto il problema di una più diretta comunicazione fra la Destra Isonzo e i centri urbani di Trieste, Gorizia e Udine.
Successivamente, la stasi degli investimenti, conseguente al crollo della Borsa di Vienna del 1873, bloccò, come si sa, per oltre un decennio lo sviluppo ferroviario nei territori dell’Impero. Così dei collegamenti ferroviari attraverso la parte meridionale della pianura goriziana si ricominciò a parlare solo alla fine degli anni ’70, ma, come tenteremo di mostrare brevemente, il problema della creazione di questa infrastruttura ferroviaria si inserì questa volta in un contesto economico e sociale, ma anche politico-nazionale, notevolmente mutato rispetto agli anni ’50.
Il distretto di Cervignano, sorto dall’unione dei distretti di Aiello e di Monastero, era la più estesa zona agricola della pianura della Contea. Esso aveva conosciuto fino alla metà dell’Ottocento una notevole prosperità agricola. E se i contatti commerciali più intensi continuavano ad essere, come nel ‘700, quelli con il Friuli occidentale e con il Veneto, considerevolmente cresciuti erano anche i rapporti con Trieste, città in espansione, verso la quale sempre di più ci si rivolgeva per l’esportazione della ricca produzione vinicola locale. I legami e gli scambi economici con Gorizia erano invece rimasti sempre modesti, ma l’identità di lingua, di cultura e di valori dei ceti agrari dominanti (scarso era ancora il peso a Gorizia della borghesia urbana commerciale e delle libere professioni) era sufficiente a dare il senso di una comunanza di fondo fra il capoluogo e i vari territori della pianura.
La crisi agraria degli anni ’50, provocata dalle malattie che colpirono dapprima la produzione vinicola (ciò che determinò la perdita del proficuo mercato di Trieste, il quale si orientò verso i vini istriani e dalmati), e in seguito quella del baco da seta, modificò radicalmente la situazione precedente (3). Già di per sé grave, in quanto aveva investito un sistema agricolo ed economico arretrato, la crisi venne successivamente dilatata dalla delimitazione dei nuovi confini nel 1866, in quanto i nuovi vincoli doganali privarono il Cervignanese dei tradizionali sbocchi commerciali di Palmanova e Udine.
Sebbene dopo il 1866 il paese di Cervignano (come, in misura inferiore, Cormons e Gradisca) traesse un certo beneficio dal fatto che cominciò a configurarsi come centro urbano di scambio e di mercato, proprio in virtù della perdita dei mercati di Palma e di Udine, e alla conseguente crescita della circolazione delle merci all’interno del distretto, e per quanto sorgessero alcuni piccoli stabilimenti industriali (4), la situazione economica complessiva della zona andava continuamente peggiorando. Dopo il cattivo raccolto del 1879 cominciarono ad emergere anche le conseguenze sociali della prolungata crisi, e si diffusero progressivamente la miseria endemica, la disoccupazione, l’alcolismo e la pellagra. Così, tra la fine degli anni ’70 e la fine degli anni ’80 il Cervignanese venne – assai più duramente delle altre aree della Contea – investito dall’esodo migratorio verso l’America, segnale drammatico questo, della decadenza economica che ormai travagliava in modo cronico la zona (5).
Si può ben capire perciò come il ceto commerciale e imprenditoriale cervignanese accogliesse con grande fervore il ventilato progetto di congiunzione ferroviaria con Trieste (e con Venezia). Lo scalo fluviale sull’Aussa, che garantiva un quotidiano collegamento con Trieste, era reputato ormai del tutto insufficiente, e quindi Cervignano con sempre maggior forza e decisione, sostenuta dal consenso degli altri comuni della bassa pianura, cominciò a premere per la realizzazione della nuova ferrovia, ritenuta strumento indispensabile per risollevare “le Basse” e riportarle all’antica prosperità.
Ben diverso fu invece l’atteggiamento assunto da Gorizia di fronte a questa via di comunicazione. Il capoluogo provinciale aveva conosciuto fra il 1860 e il 1880 un discreto sviluppo. Grazie a Ritter, si era verificato un ampliamento e un potenziamento delle attività industriali, mentre la funzione commerciale della città si era andata rafforzando, in quanto né la zona del Collio, con i suoi vini pregiati, né la vallata del Vipacco, in cui si andava sviluppando la produzione ortofrutticola e la viticoltura, erano state investite dalle malattie e dalla crisi che aveva colpito la bassa pianura. Agli occhi della borghesia urbana italiana (ora molto più consistente) questa situazione, tuttavia, appariva preoccupante. Essa, infatti, dopo il 1866, si dimostrava sempre più attenta a salvaguardare la propria identità nazionale (auspicando in tal senso una più stretta unione con la pianura), e guardava quindi con sospetto una crescita che vedeva Gorizia diventare sempre di più centro di scambi commerciali per i contadini e i piccoli proprietari del suo circondario sloveno, dal quale proveniva anche la maggior parte degli operai occupati nelle fabbriche, mentre di fatto sempre più esili diventavano i rapporti e gli scambi con il distretto di Cervignano (6).
Gli italiani di Gorizia, insomma, sentivano che mentre in città cresceva la presenza ed il peso economico degli sloveni, i legami con il retroterra friulano e italiano si stavano progressivamente allentando, e temeva che tutto ciò in prospettiva finisse per determinare una situazione di debolezza per la loro componente. D’altronde il favore con cui la borghesia liberalnazionale aveva accolto e incoraggiato, alla fine degli anni ’70, lo sviluppo indutriale nel Gradiscano e nel Monfalconese, non aveva certo contribuito a rendere più solidi i rapporti con questi distretti, poiché aveva alienato ad essa le simpatie di molti proprietari terrieri, preoccupati dei fenomeni di dissoluzione del vecchio ordine economico-sociale che le fabbriche avrebbero potuto innescare (7).
E’ comprensibile perciò che tutti coloro i quali ritenevano essenziale impedire che Gorizia finisse per gravitare sempre di più nell’area slovena della provincia vedessero come un gran pericolo la costruzione della Monfalcone-Cervignano, che avrebbe contribuito ulteriormente a decentrare il capoluogo dalle correnti di traffico della pianura.
Ma non furono solo coloro cui stava a cuore la fisionomia nazionale della città a fare opposizione. Negli anni ’80 Gorizia cominciava anch’essa a risentire della generale recessione economica che aveva colpito l’intera Monarchia. Languivano le industrie, era in crisi il settore serico (che assegnava al capoluogo la funzione di polo di smercio per i bachicultori di tutta la provincia), cresceva la disoccupazione e segnali di stagnazione si cominciavano ad avvertire pure nel campo delle attività commerciali (8). Tutto ciò, quindi, favorì il coagularsi di un dissenso pressoché unanime nei confronti della progettata linea ferroviaria, che, si disse, avrebbe provocato un danno economico gravissimo alla città e ne avrebbe causato la “rovina”.
Queste preoccupazioni e questa ostilità, tuttavia, non emersero in seno alla Dieta provinciale. Dopo i primi contatti tra il governo austriaco e quello italiano, che si erano tenuti – mediatore l’ingegnere cervignanese Giacomo Antonelli – nel 1882, la Dieta nel 1885 incaricò l’ing. Stummer di stendere il progetto della linea, e nel 1889 si pronuciò a favore della sua realizzazione. Ciò avvenne perché in quella sede si determinò una convergenza tra i deputati italiani dei comuni e delle borgate della pianura e quelli sloveni, i quali dal canto loro premevano per la costruzione del tronco di collegamento diretto fra Gorizia e la “Meridionale”, da realizzare a Postumia o Loitsch (Logaec) attraveso la valle del Vipacco (9).
L’opposizione alla Monfalcone-Cervignano fu quindi un fatto essenzialmente cittadino. Si schierarono contro la ferrovia il “Corriere di Gorizia”, organo della borghesia liberalnazionale, con trasparenti (anche se non esplicite) motivazioni di ordine nazionale, la Camera di Commercio che si soffermò invece sulle ragioni di natura economica, e infine il Consiglio comunale, nel quale i due ordini di considerazioni finirono per sovrapporsi. Con una certa cautela e prudenza si mosse soltanto il foglio cattolico “L’Eco del Litorale” (10).
La presa di posizione del Consiglio comunale venne redatta al termine di una serie di riunioni abbastanza tormentate. Il 19.11.1889, nella prima seduta dedicata all’argomento, a dar voce all’opposizione più intransigente fu il conservatore indipendente on. Marzini. Egli, confutando la relazione presentata alla Dieta da Luigi Pajer, dichiarò che la ferrovia, oltre a causare un danno incalcolabile a Gorizia, non avrebbe giovato significativamente neppure ai comuni direttamente interessati dal tracciato. Il gruppo liberale, che per ragioni di autodifesa nazionale avrebbe volentieri fatto proprie queste posizioni, ma che temeva al tempo stesso di arrivare ad una rottura troppo netta con i “fratelli” del Cervignanese (ciò che dal punto di vista nazionale era altrettanto pericoloso), demandò ad una commissione lo studio delle iniziative da prendere (11). In questa sede, tuttavia, non si riuscì a giungere a conclusioni unanimi e, mentre in città si stampavano dei volantini rivolti alla cittadinanza e si raccoglievano migliaia di firme contro la ferrovia (12), la relazione di maggioranza presentata al Consiglio finì per attenuare l’opposizione, in quanto si limitava a chiedere che prima di costruire la Monfalcone-Cervignano si realizzasse un piano di trenovie locali, indipendenti dalla “Meridionale”, che servissero a collegare in modo più stretto Cervignano a Gorizia (13). In aula sorsero nuove divergenze e non si riuscì ad arrivare ad un voto definitivo. Il consigliere liberale Nardini non esitò a dichiarare apertamente che alla Dieta gli sloveni avevano appoggiato la costruzione della nuova ferrovia perché erano interessati a indebolire Gorizia come centro italiano (14).
A dar forza al partito degli oppositori intransigenti intervenne anche la risoluzione negativa votata dalla Camera di Commercio. Così alla fine, il 23.12.1889, venne redatta una petizione da rivolgere all’Impertaore, in cui si dava corpo in forme esplicite alle proteste e alla contrarietà di Gorizia alla linea (15). Unica voce di dissenso fu quella del conte Coronini, il quale lamentò la miopia della città che voleva imporsi, a suo giudizio, sui voleri e sulle necessità dei comuni della Bassa. Egli confutò tutti i supposti svantaggi del tracciato, e dimostrò come in realtà la crisi che travagliava Gorizia fosse imputabile a motivi che travalicavano la situazione locale, in quanto derivava da cause generali come le spinte protezionistiche, l’eccesso di produzione, l’elevata pressione fiscale e le esorbitanti spese militari, tutti fattori con cui la costruzione della ferrovia aveva ben poco a che vedere (16). Benché godesse di grande prestigio anche fra i liberalnazionali, il Coronini venne duramente criticato per questo suo intervento dal “Corriere di Gorizia” (17).
Non abbiamo fin qui accennato alle posizioni che di fronte al progetto ferroviario emersero a Trieste. La linea offriva il vantaggio di ridurre la lunghezza del tragitto Trieste-Venezia di ben 70 km, evitando il lungo giro per Udine-Conegliano-Treviso. Ciò in breve avrebbe permesso a Trieste di battere la concorrenza della città lagunare nel traffico con il Levante, offrendole al tempo stesso un ingresso più diretto verso Occidente. Ma Trieste aveva interesse a ricercare anche un “avvicinamento” con il Monfalconese e con il basso Friuli. Esaurita la funzione di emporio mercantile, e spinta alla ricerca di una alternativa industriale alla crisi che aveva colpito il porto negli anni ’60, la città che era priva di un immediato retroterra agricolo, che aveva notevoli problemi di rifornimento alimentare ed era povera di risorse idriche necessarie per alimentare le industrie, aveva cominciato proprio in quel periodo a rivolgere il proprio sguardo alla pianura occidentale, abbondante di corsi d’acqua, fertile e adatta all’insediamento di nuove fabbriche anche per la disponibilità di mano d’opera a basso costo (18).
E’ naturale pertanto che la stampa triestina caldeggiasse la realizzazione della nuova ferrovia e criticasse aspramente la posizione assunta da Gorizia, che essa giudicò di semplice difesa “campanilistica” (19). La Società degli Ingegneri ed Architetti di Trieste approvò all’unanimità, nel congresso del 27 dicembre 1889, una mozione a favore della direttissimo Monfalcone-Cervignano (20), mentre nel marzo 1890, nel presentare al Consiglio comunale di Trieste una relazione sulla questione ferroviaria, l’on. Angeli sottolineò i profondi legami che già univano la città con i distretti di Monfalcone e Cervignano (21).
Incoraggiata da questi appoggi, anche Cervignano decise di scendere in campo per far sentire la voce della pianura e controbattere l’ostilità di Gorizia.
Il 12 gennaio 1890 si tenne nel capoluogo distrettuale una grande manifestazione a favore della ferrovia, cui parteciparono i podestà delle località interessate (22), una rappresentanza della Società Ingegneri e Architetti di Trieste, il rappresentante governativo Giovanni Battista Wingschgau e numerose personalità politiche della provincia. Il successo della riunione fu tale che gli stessi liberal-nazionali di Gorizia dovettero prendere atto dell’importanza politica che assumeva una così vasta aggregazione attorno a questa rivendicazione (23). Tutti i relatori, infatti, sottolinearono con enfasi il ruolo che la ferrovia avrebbe avuto nel risorgimento economico della zona, mentre una commissione venne incaricata di redigere un memoriale da inviare all’Imperatore a sostegno della linea (24).
Dalle informazione che si possono desumere dalla stampa locale, risulta che le proteste di Gorizia non erano state accolte con molto favore a Vienna, anche perché, mentre la linea Cervignano veniva giudicata importante non solo per motivi economici, ma anche per ragioni strategico-militari, la richiesta che il capoluogo provinciale faceva di altre congiunzioni ferroviarie appariva al momento irrealizzabile, data la scarsa disponibilità di fondi (25). Perciò, quando giunse la risposta ufficiale ai due contrapposti memoriali, in cui si affermava che si sarebbe aiutata la pianura badando di non danneggiare Gorizia, tutto lasciò capire che, per quanto riguardava il governo, la vicenda era da considerarsi ormai chiusa, con l’assenso alla costruzione della linea, cui doveva soltanto aggiungersi, in sede legislativa, la definitiva sistemazione degli oneri finanziari e del tracciato (26).
Ma proprio su quest’ultimo punto, cessata la disputa di fondo (la stampa liberale di Gorizia finì per fare buon viso a cattivo gioco, per non aggravare ulteriormente la profonda frattura verificatasi con Cervignano(27)), si aprì una seconda controversia, sia pure di minor portata, relativa al punto di allacciamento della nuova ferrovia alla “Meridionale”, a Ronchi o a Monfalcone, alternativa che fino a quel momento non era stata approfondita, essendo in discussione la realizzazione stessa della linea.
A prima vista, considerata la vicinanza dei due centri, si potrebbe pensare che si trattava di una decisione di scarso rilievo, ma in realtà va ricordato come dietro ciascuna delle due ipotesi finirono per ritrovarsi nuovamente degli interessi contrapposti.
A spalleggiare Ronchi, che cercò ovviamente di mettere in campo le ragioni a proprio favore (28), si schierò infatti Gorizia, che si trovò a difendere questa scelta come il male minore, in quanto, sia pure di poco, le permetteva di ridurre la propria distanza dal nuovo tronco ferroviario.
Trieste, invece, puntò con decisione all’allacciamento a Monfalcone e sostenne questa tesi con l’argomentazione che il Monfalconese era la zona da privilegiare nelle comunicazioni, in quanto era destinata a svilupparsi industrialmente con capitali triestini (29). Anche Monfalcone, naturalmente, si adoperò per conseguire la soluzione più vantaggiosa per i propri interessi, e in tal senso presentò anche un ricorso alla Dieta provinciale di Gorizia, per confutare le tesi di quanti erano favorevoli all’allacciamento a Ronchi (30).
Questa querelle durò tre anni e si protrasse fino al 1893 con un’abbondante produzione di memoriali, prove e studi in appoggio all’uno o all’altro tracciato. Per quanto riguarda Cervignano, cui premeva soprattutto la rapida costruzione della linea, la sua podesteria dichiarò la propria disponibilità per entrambe le soluzioni, nell’interesse dei suoi abitanti e dei paesi vicini (31).
L’allacciamento a Monfalcone venne alla fine deciso il 21 marzo 1893 e, oltre al peso politico ed economico delle motivazioni addotte da Trieste, giocò a favore di questa scelta anche la considerazione che l’amministrazione italiana avrebbe acconsentito a trasformare il proprio tronco in linea di prima categoria, dotandola dei necessari requisiti solo se in territorio austriaco questa avesse raggiunto nel modo più celere un centro di movimento commerciale come, appunto, Trieste (23).
Il progetto di legge approvato alla Camera di Vienna (33) prevedeva, congiuntamente al prestito di 1.300.000 fiorini da estinguersi in 75 anni -emesso a condizione che i comuni dei distretti interessati e la provincia di Gorizia si impegnassero ad acquistare le azioni della società concessionaria (34) – una derivazione con trenovia a vapore per Porto Rosega, ed altre due per Aquileia-Belvedere e Villavicentina-Gradisca. La società della “Meridionale” da parte sua rinunciò al diritto di priorità sul territorio attraversato dalla Monfalcone-Cervignano, conferitole con la concessione del 23.09.1858.
Da Monfalcone la linea raggiungeva Pieris, oltrepassava il nuovo ponte di ferro sull’Isonzo, poggiante su sette pilastri di 50 m. di campata, costruito dalla Società alpina di Graz, per continuare fino a Cervignano. Tre anni più tardi si sarebbe completata la congiunzione Cervignano-San Giorgio di Nogaro, realizzando così il collegamento diretto con Venezia.
L’inaugurazione della direttissima Monfalcone-Cervignano avvenne il 10 giugno 1894 (35). Se al momento tutti fecero mostra di accogliere con gioia l’evento, in realtà assai profonda era la lacerazione che la vicenda di questa ferrovia aveva messo in luce e certamente aggravato.
Se ne era avuto un primo segnale già nel corso degli incontri fra gli esponenti liberalnazionali della provincia per la designazione dei candidati alle elezioni parlamentari del 1891. In una riunione di podestà, tenuta a Romans, si verificò una netta frattura fra i fautori del “goriziano” Marani e i sostenitori del “cervignanese” Lovisoni, e benché in minoranza i rappresentanti dei comuni delle “Basse” finirono per imporre il loro candidato: si sostenne che era ora di finirla con il “giogo goriziano”, e che era necessario che la provincia si “emancipasse” dalla “schiavitù” (politica, s’intende) in cui la teneva il capoluogo (36). Il risultato fu che, benché i tempi andassero mutando e lo spirito laico e liberale cominciasse a penetrare anche nei piccoli centri della provincia, la vittoria finì per andare ancora una volta al sacerdote candidato dai cristiano-sociali (37).
Innescato (o quanto meno dilatato) dalla polemica sulla ferrovia Monfalcone-Cervignano un velo di incomprensione e di diffidenza scese così a corrodere la reciproca fiducia fra gli esponenti della borghesia liberalnazionale delle Basse e di Gorizia e si protrasse nel tempo, rendendo particolarmente difficile a queste forze, quando alla fine del secolo furono investite dalla serrata polemica sociale del partito cattolico, ritrovare un comune terreno d’intesa.
Anche perché, grazie alla ferrovia, Monfalcone e Cervignano finirono per legarsi economicamente molto di più a Trieste che a Gorizia, la quale – le trenovie locali, come si sa, non vennero mai costruite – vide aggravarsi in tal modo il suo isolamento dai territori della pianura.

Nel frattempo, l’Agenda Digitale del Veneto

Focus Group per l’Agenda Digitale del Veneto

Dotarsi di un’Agenda Digitale, vale a dire di uno strumento programmatico per la promozione della conoscenza, dell’innovazione, dell’istruzione e della società digitale, rappresenta una priorità sancita a livello europeo, ora rilanciata anche a livello nazionale in Italia. Nel Veneto ciò significa dare continuità e nuovo impulso a processi pianificatori intrapresi da tempo.

Per questo la giunta regionale il 7 agosto scorso ha autorizzato la realizzazione dell’Agenda Digitale del Veneto e, a tale scopo, è stato individuato un “focus group” di esperti che si è insediato oggi a Palazzo Balbi e  che contribuirà alla redazione di questo importante documento programmatico.

Componenti Focus Group

  • Marco Camisani Calzolari, CEO di Speakage e docente IULM
  • Michele Vianello, Direttore Parco Scientifico VEGA
  • Stefano Micelli, Docente Economia Ca’ Foscari e VIU
  • Riccardo Donadon, CEO di H-Farm
  • Carlo Mochi Sismondi, Presidente di ForumPA
  • Stefano Quintarelli, Direttore dell’Area Digital del Gruppo 24 ORE
  • Ernesto Belisario, Presidente Associazione Italiana per l’Opengovernment

La stesura di un’Agenda Digitale del Veneto non è nella mia visione un punto di arrivo,  ma  èun assetto e una modellazione organica degli interventi che già abbiamo messo in cantiere per il rilancio della cultura ed economia digitale nel nostro territorio. L’Agenda Digitale del Veneto rappresenta quindi un punto di partenza per implementare questa prima fase e sapersi orientare all’interno di nuovi scenari di grande impatto economico e sociale.

In questi miei  primi due anni di mandato, la Regione ha dato attuazione a un ampio programma di lavoro su queste tematiche, comprendendo tra l’altro:

  • l’abbattimento del DigitaI Divide Infrastrutturale con la diffusione della Banda Larga, progetto per il quale sono stati messi a disposizione 40 milioni di euro ed è prossimo  un ulteriore finanziamento;
  • l’abbattimento del DigitaI Divide Culturale con la creazione di luoghi (Centri P3@) infrastrutturati orientati a soddisfare le esigenze di connessione, ma soprattutto di acculturazione informatica, in tutti i comuni veneti. Attualmente con 2 milioni di euro ne sono stati già aperti 167 ma la Regione si adoperando per raggiungere la totalità dei comuni del territorio veneto;
  • la diffusione del modello del “cloud computing” attraverso il finanziamento di 23 progetti delle PMI venete che operano nel campo dell’ Information & Communication Technology. Su questo ambizioso progetto, prima esperienza assoluta a livello nazionale, la Regione ha messo a disposizione 2.3 milioni di euro e, attualmente sta operando per stimolare la domanda verso questi servizi, offrendo incentivi alle PMI che non appartengono al settore dell ‘ICT, con altri 2 milioni di euro;
  • la diffusione della cultura della trasparenza e del dato aperto con più di 100 dataset nel portale veneto degli Open Data e molti altri che si stanno aprendo, anche grazie alla collaborazione con gli Enti e le Agenzie pubbliche di tutto il territorio veneto.

Facendo tesoro di questo bagaglio di progetti  è stato disegnato il proseguimento di un percorso con cui saranno definite le strategie digitali del Veneto per i prossimi anni. Servirà anche al rilancio di quei settori produttivi che, adottando il paradigma digitale, potranno competere a livello globale dimostrando ulteriormente il loro talento e l’indiscussa creatività che li ha sempre contraddistinti.

I temi da affrontare sono di primaria importanza come le start-up d’impresa, le reti di nuova generazione, le smart-cities e molto altro ancora. Con l’Agenda Digitale ci attende una sfida epocale che sono certo potremo affrontare mettendo in prima linea capacità e risorse per raggiungere i risultati che ci siamo prefissati per fare del Veneto una regione di primissimo livello nel campo delle comunicazioni tecnologiche”.

Martedì 18 settembre 2012 | Palazzo Balbi | Venezia

Vice Presidente e Assessore al  sistema informatico ed e-government
Regione del Veneto On. Marino Zorzato

Fonte: marinozorzato.it

Le scuole digitali, subito

Un articolo sulle difficoltà del progetto nazionale per la Scuola digitale, l’ho trovato su Agenda digitale
Subito dopo incollo le indicazioni del ANSAS del sito ministeriale Scuola-digitale per l’iniziativa Cl@assi2.0 (e smettiamola con questa @ nel nome, so nineties), giusto per dare un’occhiata alle tendenze diffuse più aggiornate rispetto alle metodologie didattiche mediate, e valutare appieno la distanza, avere orizzonti più ampi, osare. Perché l’azione di Cultura digitale tutta (dalle competenze digitali in classe per una cittadinanza piena, alle elementari fome di alfabetizzazione, alla riduzione del digital divide con banda ultralarga, all’adozione di dispositivi mobili connessi, alla ideazione e promozione di format di narrazione adeguati al contesto tecnologico e mediatico dell’apprendimento, all’organizzazione scolastica) sulla Scuola è necessaria e impellente, niente meno.
Scuola digitale ostacolata da classi senza internet e dal caos sui nuovi libri

 di Martina Pennisi

 Il ministero dell’Istruzione si accorda con le Regioni per attrezzare gli istituti. Le aule connesse però sono ancora troppo poche. E manca un modello condiviso di editoria digitale

Mentre procede il piano del Miur sulla Scuola digitale, emergono tutti gli ostacoli da superare per raggiungere gli obiettivi. In particolare la lacuna fondamentale sono le connessioni internet nelle classi, come evidenzia uno studiodell’Università La Cattolica. E c’è ora il caso di 3.800 scuole che, per motivi economici, perderanno la connessione all’Spc dal 20 ottobre. Regna inoltre, ancora, la confusione sulla nuova editoria scolastica digitale.

Gli ultimi passi avanti

Il tutto mentre nei giorni scorsi c’è stata una storica stretta di mano con 12 Regioni e 40 milioni di euro messi sul piatto: il ministero dell’Istruzione presieduto da Francesco Profumo spinge sulla digitalizzazione della scuola, in attesa che l’argomento faccia capolino all’interno dell’Agenda digitale. Il decreto sulle norme volte ad aggiornare il Paese dal punto di vista tecnologico e dell’innovazione verrà presentato a fine mese, come annunciato dal ministro dello Sviluppo Economico Corrado Passera in occasione della presenza del rapporto sulle startup. Profumo ha cominciato a muoversi nell’area di sua competenza a fine dicembre 2011, lanciando il progetto La scuola in chiaro e rendendo disponibili i recapiti e le caratteristiche principali di 11mila scuole italiane. In luglio è stata la volta della presentazione del portale UniversItaly, per aggregare le informazioni sugli atenei nostrani. 
Il primo giorno dell’anno scolastico 2012/2013 è stato occasione per annunciare lo stanziamento di 31,836 milioni di euro per portare un computer in ogni classe delle medie (34.558) e superiori (62.600) e l’intenzione di consegnare un tablet a ogni insegnante del 64,5% delle scuole di Puglia (599 istituti), Campania (712), Sicilia (584) e Calabria (233). La stretta di mano odierna con le regioni del nord, che contribuiscono con 16 milioni, vede Abruzzo, Basilicata, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Molise, Piemonte, Toscana, Veneto e Umbria spendersi per portare nelle aule 5.906 lavagne interattive, fornire agli studenti 77.073 tablet, realizzare 2.764 Cl@assi 2.0 (una lavagna interattiva, un device per alunno e per insegnate, accesso alla Rete e a contenuti didattici digitali) e 17 Scuole 2.0 (produzione digitale di processi e contenuti, orari scolastici compresi). Rimangono fuori solo Sardegna, attiva autonomamente con il progetto Scuola Digitale, Veneto, Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta.

I problemi

A fronte di un tale, e (pro)positiva, convinzione sul dispiegamento delle macchine sono due le valutazioni da fare: prima di tutto quella relativa alle connessioni a Internet degli istituti e, soprattutto, delle aule dei singoli istituti. E in seconda battuta sulla formazione dei docenti, che dovranno per forza di cose imparare a dialogare con i dispositivi di nuova generazione e trovare uno spazio agli stessi nel processo didattico. Il primo àmbito non è di competenza diretta del Miur: trattasi di cablaggio degli edifici pubblici, che è già stato menzionato fra le priorità della più ampia agenda. Di lavoro da fare ce n’è, a fronte di un 7% delle scuole con tutte le classi in grado di navigare e un 10,96% che si connette solo da alcune aule, parlando delle medie, e un 7% circa delle superiori dotato di collegamento wireless. La percentuale degli istituti cosidetti secondari con accesso alla Rete in tutte le classi sale al 13%. I dati sono contenuti in una ricerca dell’Università Cattolica di Milano del 2009/2010, commissionata da Scuola digitale. L’ufficio statistico del Miur accorpa tutti gli istituti e individua un 73% di scuole connesse, anche solo in biblioteca e segreteria, e un 33% in cui il segnale arriva nelle aule. L’Adsl è presente nel 44,8% dei casi. Riavvolgendo il nastro al Programma per l’informatica e la telematica voluto da Luigi Berlinguer, correva l’anno 1998 e si tratta dell’ultimo sforzo significativo prima di quello in esame, si parte dal 39,4% degli istituti collegati. Mentre ora si apprende che 3.800 scuole perderanno internet il 20 ottobre. Lo rivela una nota della Direzione generale per gli studi, la statistica ed i sistemi informativi del Miur; comunica la fine del progetto Spc scuole: “Ridotti i fondi stanziati per un’iniziativa che è interamente a nostro carico”. “Spc è un progetto finito e riguarda solo servizi in più, di segreteria. Non c’entra con la didattica”, ribatte Giovanni Biondi al nostro sito. E’ il responsabile di questi temi per il Miur. “Nell’Agenda prevediamo un piano di cablature e connessione delle scuole”. Altre scuole in digital divide dovrebbero essere coperte dal piano nazionale banda larga del ministero allo Sviluppo economico (ora in fase di approvazione; risorse comunitarie di 1,08 miliardi di euro che serviranno principalmente a dare banda larga di base alle case).
La variabile internet è determinante, come tiene a sottolineare il professore dell’Università meneghina Bicocca Paolo Ferri e consulente per l’innovazione del Miur, perché “senza Internet, senza la banda larga le macchine non servono. Il cablaggio di scuole e uffici pubblici deve essere la priorità assoluta”. L’approccio di Profumo, “che si è trovato senza soldi e al cospetto di una situazione a macchia di leopardo”, è da considerarsi positivo in termini di “attenzione al tema” e in un contesto in cui non si assiste a un “intervento strutturale da 12 anni”, la riforma Berlinguer appunto. La formazione dei docenti è il secondo aspetto su cui è necessario concentrarsi: “Qualcosa è già stato fatto, 4-500mila insegnanti sono stati formati in questi anni, ma bisognerebbe permettere l’incentivazione contrattuale nei confronti di chi si dimostra ricettivo”. “Se non”, provoca Ferri, “introdurre una carriera dell’insegnamento, ma la Cgil non lo permetterebbe mai”. Con la stessa urgenza, passando al terzo intervento auspicabile, bisogna “occuparsi dei contenuti”. Fra le voci evidenziate dal Miur è presente quella dedicata all’Editoria digitale scolastica e, secondo quanto stabilito da Tremonti nel 2009, i libri pubblicati dal 2011/2012 devono essere misti. Manca però un modello comune agli editori: negli Stati Uniti, spiega Ferri, “il libro digitale viene venduto al 50% del prezzo di copertina con funzioni aggiuntive”. Così facendo si è anche superata la riluttanza dei medio piccoli, il 40% del nostro mercato, che temono di rimetterci economicamente nella transizione al digitale. Profumo ha messo a disposizione 10mila euro a progetto per una ventina di spunti, ma “c’è il problema dei diritti d’autore da affrontare: il bando prevede che i contenuti realizzati siano di proprietà della scuola e possano essere sfruttati da terze parti”. Sulla possibilità che siano gli insegnanti a pubblicare i libri, l’iniziativa si chiamaBook in progress, Ferri è abbastanza scettico, “è uno scenario utopico e gli editori sono troppo legati al loro business tradizionale, non rendendosi conto che nell’arco di 5 o 6 anni i contenuti digitali saranno la maggior parte”. Così si spiegano anche alcune disavventure su cui, con il nuovo anno scolastico, si cimenta l’ironia dei blogger.
L’aspetto che desta meno preoccupazione è quello legato alla penetrazione dei dispositivi: “Hanno un costo ormai ridotto e l’80% dei genitori italiani ne possiede uno. E secondo i dati Istat, la percentuale degli insegnanti ad avere il computer è pari al 95%”. Oltre a essere una buona notizia in termini di alfabetizzazione digitale, quantomeno potenziale, potrebbe essere il punto da cui partire per organizzare una rivoluzione strutturale con le poche risorse economiche disponibili. Secondo un dossier de Lavoce.info servirebbero 10 miliardi di euro per portare la didattica nostrana al livello di quella britannica, banda larga ovunque, lavagne interattive e quattro o cinque computer connessi per aula. Una soluzione intermedia, spiega Ferri, dovrebbe partire dal “cablaggio delle scuole supportato dallo stato”, passare per “agevolazioni per le famiglie che investono in tecnologia”, tenendo conto della buona diffusione di partenza; e “trovare un accordo solido con gli editori”. La rondine di questi mesi non fa (ancora) primavera, ma ci sono buone ragioni per essere ottimisti. Le altre sono da ricercarsi nel decreto di fine settembre
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Da Scuola-digitale.it

Per il raggiungimento degli obiettivi previsti dal progetto Cl@ssi 2.0, che ha, a livello internazionale, dei “progetti gemelli”- in Spagna il progetto Escuela 2.0 e in Inghilterra il progetto CAPITAL – è necessario tenere presente alcune tendenze diffuse negli ultimi anni nell’ambito dei servizi e degli strumenti a supporto dell’apprendimento. Questi infatti si presentano come applicazioni di facile uso che non richiedono specifiche competenze e rendendo quindi indipendente l’utente. Tra queste tecnologie rientrano anche le Lavagne Interattive la cui rapida diffusione ha dimostrato l’alto  potenziale delle ICT nel guidare il cambiamento degli ambienti di apprendimento.
Terminati i processi di diffusione delle tecnologie su larga scala a scuola, anche a livello europeo, è urgente verificare se e quanto le tecnologie siano state integrate all’ambiente di apprendimento e se la loro presenza abbia apportato delle modifiche/cambiamenti alle metodologie didattiche al fine di sostenerne  il processo di stabilizzazione.
Alcune tra le tendenze diffuse (EU Digital Agenda, Marzo 2010, 2020 Vision – Report of the Teaching and Learning in 2020 Review Group) rivelano che:
  • I modelli pedagogici, costruttivista e sociocostruttivista,  includono le ICT come strumenti per potenziare la didattica tradizionale che privilegi un approccio attivo, compiti aperti che mirino alla riflessione sul processo ed alla personalizzazione dei percorsi di apprendimento.
  • Un ulteriore concetto ormai ampiamente condiviso, anche se ancora poco sperimentato realmente, riguarda il ruolo dell’insegnante che si configura come il punto chiave nel processo di trasformazione delle azioni di apprendimento. La presenza sempre più diffusa e naturalizzata nella scuola da qui a dieci anni delle tecnologie renderà necessario all’insegnante sviluppare e mettere in campo competenze oggi ancora timidamente espresse.
  • Gli spazi dell’apprendimento a livello strutturale probabilmente resteranno immutati, ma la differenziazione dei modelli di apprendimento sarà orientata prevalentemente alla  collaborazione tra studenti e alla personalizzazione dei contenuti/percorsi sia per il modello classe tradizionale che per modelli diversi da questa con il supporto delle ICT  (es. classe diffusa).
  • I vincoli strutturali sono stati superati in questi anni dall’estensione dello spazio classe con ambienti di apprendimento virtuale (VLE) e sistemi di gestione dei contenuti, LMS (Learning Management System), a cui si sono associati strumenti del Web 2.0.
  • Sul fronte contenuti didattici digitali si rileva la produzione di contenuti autoprodotti dall’utente che potrebbe restare la tendenza più diffusa se si trovassero standard descrittivi adeguati.
  • La grande diffusione delle lavagne Interattive Multimediali e di superfici interattive in generale avvierà l’ampliamento del numero di device tecnologici (tablet, netbook, ebook, risponditori…) che orienteranno l’attività didattica sempre più verso la collaborazione.
  • La valorizzazione dell’apprendimento informale sarà un ulteriore fattore chiave. In questa direzione l’uso di giochi, ambienti immersivi e augmented reality  richiederà ulteriori approfondimenti di ricerca per far si che questi vengano considerati come potenziali scenari di apprendimento.
  • Gli esiti di alcuni progetti in paesi europei ed extraeuropei hanno rivelato che la formazione degli insegnanti sia metodologica che tecnologica rivela l’estrema importanza della qualità della stessa e della necessità di identificare nuovi modelli di formazione continua adeguati alle esigenze della popolazione insegnante (OECD – Education at a glance).
  • La presenza diffusa delle nuove tecnologie sia in forma di strumenti (risponditori..etc) che in forma di applicazioni web 2.0 (wiki, blog, contenuti digitali o altro) consente di attivare processi di valutazione degli apprendimenti e di identificare le preferenze degli studenti. L’uso di questi strumenti probabilmente modificherà la valutazione formativa, mentre la valutazione sommativi manterrà un approccio basato sulla misurazione degli apprendimenti a partire da prove oggettive di valutazione (es. OCSE-PISA e INVALSI)
  • Un ultimo elemento chiave da non sottovalutare è il ruolo dei genitori sempre più coinvolti e partecipi nel processo di crescita e formazione dei figli. Questi ultimi si mostrano favorevoli all’adozione di nuovi strumenti.
L’azione Cl@ssi 2.0 intende offrire la possibilità di verificare come e quanto, attraverso l’utilizzo costante e diffuso delle tecnologie nella pratica didattica quotidiana, l’ambiente di apprendimento possa essere trasformato.
La logica del progetto tende a valorizzare l’attuazione di più modelli di innovazione che possano generare un contagio nel territorio anche tra quelle scuole che non partecipano all’iniziativa. In quest’ottica si auspica che si realizzi una casistica eterogenea di modelli di miglioramento nell’ottica dell’autonomia scolastica. In tal senso il processo di miglioramento che il progetto vuole promuovere comprende più livelli, dall’aspetto organizzativo a quello aspetto didattico nella gamma di azioni del processo insegnamento/apprendimento che, a partire dall’analisi dei bisogni della scuola, prevedano l’integrazione delle tecnologie (sia in termini strumentali che metodologici). Il focus non ruota attorno alla tecnologia in senso stretto, ma alle dinamiche di innovazione che può innescare.

Udine e Pordenone, distanze smart

Sullo scranno del Sindaco di Udine, due figure. Una indossa il pètaso, il cappello con le ali, si capisce che è Hermes Mercurio, l’altra rappresenta un fabbro, ci sono l’incudine e il martello, c’è anche una ruota dentata sulla destra, un Efesto Vulcano. Il Dire e il Fare. La Comunicazione e la Tecnologia, diciamo.
Speriamo che tutto questo sia di buon auspicio per progettare e realizzare Udine come smart-city, dove l’hardware di Vulcano – la città connessa, la cablatura in fibra ottica, le aree wifi – incontra un software sociale e partecipativo, ambienti online per la libera espressione delle varie forme di cittadinanza digitale.
Luoghi sociali che dovranno essere pubblici, cioè non privati/commerciali, visto che sopra gireranno dei contenuti, conversazioni discussioni e votazioni, riguardanti la gestione della cosa pubblica e  l’amministrazione del territorio, prodotti dai cittadini. Un e-government trasparente, preciso, dall’impostazione conversazionale saprà offrire contenitori digitali per la partecipazione della collettività, l’e-democracy iperlocale nel tempo scolpirà meglio i servizi e gli ambienti e gli strumenti, l’utilizzo indicherà forme migliori o modalità più feconde.
Udine ha appena varato un Piano Regolatore, lo ha sottoposto alle osservazioni dei cittadini in una fase partecipativa. Ma ho come l’impressione che questo di Udine sia la ciliegina sulla torta di una cultura progettuale novecentesca. E’ stato fatto tutto al meglio, per come si poteva concepire di realizzare un nuovo Piano regolatore. Le procedure erano quelle, i nodi di interesse erano quelli, ci si è mossi nel 2009 avendo in mente certi parametri per impostare il lavoro. Si parlava già di smartcity, ma non era certo parola diffusa come oggi, tra quanti si occupano di territorio o paesaggio o sistemi territoriali o cartografie o sensoristica o connettività o citizen engagement o sistemi economici cittadini o di meccanismi di partecipazione social web.
Pordenone promuove ora il proprio nuovo Piano regolatore, e i ragionamenti su smart-city e smart-community sono per così dire nativi dentro le prime mosse di progettazione. Son passati solo tre anni, tre anni in cui l’approccio teorico e pratico alla progettazione del futuro di una città è cambiato radicalmente. C’è un gruppo di lavoro misto, ci sono strumenti partecipativi classici e moderni, social web.
Sabato scorso a Pordenone c’era un convegno per lanciare i ragionamenti collettivi e collaborativi, tutto il progetto lo trovate sul sito Pordenone più facile, si prevede di organizzare le tematiche intorno alle parole Sostenibile, Mobile, Accogliente, Resiliente, Trasparente, S.M.A.R.T., al convegno c’erano Luca De Biase, Michele Vianello, Alberto Cottica, Elisabetta Tola, Enrico Finzi. Sergio Maistrello presentava l’incontro, si occupa anche dei media e partecipa alla progettazione, garanzia del fatto che Pordenone si faranno le cose per bene, con qualità. Si sono potuti ascoltare dei bei ragionamenti, parole nuove, approcci adeguati.
Mi piacerebbe Udine si muovesse, sì.

Soldini per la scuola digitale

Il Ministro dell’Istruzione Francesco Profumo, annuncia lo stanziamento di 40 milioni di euro per lo sviluppare del piano per la digitalizzazione della scuola. Siglati, inoltre, gli accordi con 12 Regioni (Abruzzo, Basilicata, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Piemonte, Toscana e Umbria) per il potenziamento e l’implementazione del piano nazionale. I finanziamenti verranno, infatti, sia dal Ministero (24 milioni) sia dalle regioni (16).
Condivisione e innovazione digitale sono i principi alla base dell’azione di Profumo. Gli accordi permetterebbero, infatti, di “condividere le esperienze per costruire un Paese migliore“, portando “al sistema Paese le migliori esperienze realizzate dalle scuole a livello territoriale”. L’obiettivo è offrire a studenti ed insegnanti la possibilità di “imparare e insegnare con l’innovazione digitale“.
I fondi stanziati andranno a finanziare e permettere l’implementazione delle quattro linee d’azione individuate per la Scuola Digitale: Lim, Cl@ssi 2.0, Centri scolastici digitali e Scuola 2.0.
La prima linea d’azione (Lim in classe) riguarda l’introduzione nelle classi delle lavagne digitali, in modo da favorire l’utilizzo di contenuti digitali. La seconda (Cl@assi 2.0) prevede di dotare studenti ed insegnanti di PC o tablet in modo che possano dialogare con la lavagna digitale e accedere alla rete e ai contenuti digitali. La terza linea d’azione (Centri scolastici digitali) mira a collegare tramite satellite le scuole con pochi iscritti in modo che possano continuare ad esistere e, come precisa il Minsitero, senza sostituire l’insegnante con il PC. L’ultima linea d’azione (Scuole 2.0) si propone di utilizzare le tecnologie digitali per trasformare l’insegnamento e le scuole, in particolare per quanto riguarda l’Editoria digitale. Con il progetto “Book in progress”, ad esempio, verranno realizzati, direttamente dalle scuole e dagli insegnanti, nuovi contenuti digitali.