Archivi autore: Giorgio Jannis

Orchestrina del Titanic

SWG aveva ottenuto un via libera dall’AGCom per commercializzare una app riguardo i sondaggi pre-elettorali, anche durante il silenzio mediatico dei 15 giorni. La vende a 9.90€, è tra le più scaricate, quindi parliamo di migliaia o decine di migliaia di persone. Poi la marcia indietro, perché dice AGCom (e qui mi vien da ridere) “l’applicazione, nei termini in cui viene pubblicizzata, rende accessibile – previo il pagamento di un prezzo contenuto – il risultato dei sondaggi ad un pubblico potenzialmente molto vasto, con inevitabili effetti di diffusione incontrollata dell’informazione”. 
Poi ci sono anche altri che offrono lo stesso servizio, a quanto pare al riparo per il fatto di vendere l’app a pochi (seh), come scenaripolitici.com.
Come dire: finché lo venite a sapere voi che siete quattro gatti in un baretto, ok.
Ma quando mi accorgo che siete tanti, blocco tutto. Ah, AGCom, che cornice novecentesca quella dentro cui pensi e emetti sentenze. Quanto non capisci.
Se uno di quelli che compreranno il servizio, da SWG o da altri, mette in giro le informazioni sulle preferenze di voto (rete TOR, modi anonimi, passaparola, o anche smaccatamente) crolla tutto il palco. Cosa vuoi tener nascosto, un segreto di Pulcinella? Siamo in Rete, non siamo mica dentro un sistema dove se fai saltare un traliccio oscuri tutta una regione geografica. Sveglia. Quella legge non sta in piedi. Se si possono fare i sondaggi, si possono pubblicare.
E anche un altro esempio mi viene in mente, per mostrare quanto abitiamo in luoghi nuovi.
Una foto che vedo in internet, su facebook, dove si dice di mettere il proprio IBAN sulla scheda elettorale, se si vuole essere rimborsati dell’IMU. Ovviamente così facendo la si rende nulla. Cos’è questa, una campagna di disinformazione? Perseguibile? Se ho 5000 amici su FB, cos’è questo, un mass-media e quindi mi blocchi l’account? Questo blog?
Non regge. Niente, regge. Verrà giù tutto.

La scuola vista da Londra, Marte.

Mi capita, non abbastanza spesso, di prendere un aereo per andare a vedere come altri cercano di rispondere alle domande che mi faccio, più o meno quotidianamente. In questo caso la domanda è: “di che tipo di scuola hanno bisogno le mie bimbe?”.
Ho scelto il BETT a Londra, formerly known as the British Educational Training and Technology Show, ovvero una fiera sulla tecnologia nell’education inaugurata nel 1985 (millenovecentoottantacinque): un posto strano, dove ci sono migliaia di scuole che acquistano (ACQUISTANO) tecnologia, dove i responsabili scolastici dei VLE (Virtual learning Environment) cercano nuove soluzioni, dove le Università si confrontano attivamente sui MOOCS.
Si, lo so, il paragrafo precedente non è semplice per un lettore italiano: sarà che noi siamo abituati alle note scritte a mano sul diario, alle bacheche, al flauto, al laboratorio di informatica (per i più fortunati) dove si impara a schiacciare una tastiera. Sarà che da noi gli strumenti sono salvifici, e basta installare una LIM (la lavagna digitale) per sentirsi proiettati nel futuro; sarà che troppi dirigenti pubblici ancora pensano che comprare un po’ di tablet conferisca un titolo di modernità.
Un rappresentante del Governo inglese, certo non giovane ma straordinariamente competente, ha detto con chiarezza che l’education è la priorità: e ha detto che occorre formare gli insegnanti per avvicinarli anche ad un mondo del lavoro dove già si usano nuove tecnologie e nuovi modelli. Poi è arrivato un giovane, straordinariamente competente, che si occupa di valutare l’adozione di nuove tecnologie in tutti i settori pubblici del Regno Unito, ed ha intrattenuto la platea sui modelli che rendono più efficienti le attività di apprendimento.
Sia chiaro, non è la tecnocrazia ad affascinarmi: una buona scuola è fatta di bravi maestri, appassionati, dedicati ai loro studenti. Però, spesso, la passione è direttamente proporzionale all’attenzione che uno riceve, agli strumenti che vengono messi a disposizione, al riconoscimento sociale. Ecco, al BETT tutto è dedicato all’insegnante, metà dell’audience era fatta da insegnanti venuti per confrontarsi, imparare, chiedere; e non in una triste aula magna con un burocrate ministeriale, ma in un confronto con grandi innovatori, studiosi, professori.
Io non avevo mai visto una responsabile ICT di una scuola, peraltro donna e poco più che trentenne: una che ci ha spiegato come tutte le attività suBlackboard inaugurate una decina di anni fa siano oggetto di una profonda revisione, che segue una metodologia oramai consolidata di confronto con il corpo docente, gli studenti e le novità sul mercato. Per inciso ha detto, sorridendo, che la sua maternità ha determinato un aumento del lavoro per tutti i colleghi, determinati a partire quanto prima con strumenti più efficienti.
Poi ho incontrato anche qualche rockstar, come Daphne Koller di Coursera, una professoressa di Stanford che ha portato a frequentare corsi universitari online 2,5 milioni di studenti da 123 paesi del mondo. Ecco, Daphne ha affrontato, molto bene perché è tostissima, un vivace contraddittorio con insegnanti, professori, digital manager di università, maestri-blogger: gente preparata, consapevole, contemporanea.
Ecco, quello che mi colpisce è la normalità, la consuetudine con queste materie: il BETT è parte di un sistema, non è un folkloristico raduno di visionari ma un passaggio obbligato per l’attività di migliaia di formatori. L’industria inglese dell’education è florida, le scuole investono, il dibattito pubblico è continuo: con tutte le posizioni, contraddizioni e difficoltà che il tema comporta, la tecnologia non risolve ma, se ben usata, aiuta.
La normalità: è normale per dirigenti pubblici venire qui, per le scuole adottare sistemi gestionali moderni, per i bambini usare le tecnologie che li circondano. E ne ho visti molti di bambini, ovviamente quelli delle scuole più capaci e più attente: venivano a ritirare dei premi, tutti felici per aver creato la migliore applicazione, un software utile alla comunità. Un po’ di demagogia, un po’ di competizione tra scuole, ma tutto mi sembrava comunque stupendo, ubriacante; lo so, poi riflettiamo anche sul modello sociale, sulle scuole elitarie, sulle sperequazioni etc. etc. Ma davvero possiamo continuare a non fare nulla, procrastinare, prendere tempo? Non dovremmo, forse, prendere il (tanto) buono che c’è altrove e trovare un senso nostro, riflettendo sui rischi di confondere “educazione” e “conoscenza”, sui rischi di omologazione dell’insegnamento, sulle troppe spinte alla creazione di fabbriche in batteria di iperspecialisti per le aziende?
Non ho risposto alla mia domanda, ma ho qualche idea in più: io vorrei per le mie figlie insegnanti appassionati, consapevoli del mondo che sarà e capaci di prepararle alle novità. Vorrei che insegnassero loro il meglio del passato con modalità e strumenti contemporanei, e vorrei che una delle mie figlie mi dicesse, sognante, “io da grande voglio fare la maestra, come mia nonna”.
Perché mia madre è stata una straordinaria maestra, che a tre anni dalla pensione, una decina di anni fa, mi chiese di comprarle un computer e di spiegarle qualcosa: “posso non capire quello che fanno a casa i miei studenti?” Sarebbe venuta volentieri con me tra gli stand del BETT, a farsi fermare ogni dieci metri da venditori di software che, speranzosi, chiedono “Tu fai il maestro, vero?”.

Wifi comunitario, libero

Alla base c’è una legge italiana, il Decreto legislativo n. 70 del maggio 2012, riguardo il codice delle comunicazioni elettroniche in attuazione delle direttive europee.
La questione è quella del wifi libero in Italia, che dopo l anon-proroga della Pisanu ha ritrovato un po’ di vita, anche se le autenticazioni avvengono sempre nei locali pubblici tramite invio di password su cellulare, il quale cellulare in Italia è attivato con una SIM individuale e registrata (altrove no), e quindi siamo sempre nella tracciabilità.
Ma ora si possono fare collegamenti tra privati su determinate onde radio, e quest non prevedono autorizzazioni, e sono libere.
Metto dei link
Così come in tutto il resto dell’Europa, i collegamenti radio tra privati sulle frequenze collettive (2.4 GHz, 5 GHz, 17 GHz) sono stati liberalizzati dal nuovo codice delle comunicazioni elettroniche entrato in vigore a giugno 2012, così come recita il sito dell’ispettorato delle comunicazioni della Liguria:

“Uso privato: non è prevista alcuna autorizzazione. Le apparecchiature sono comprese in quelle previste di libero uso ai sensi dell’art. 105, comma 1, lettera b del D.Lgs. 259/2003 (Codice delle comunicazioni elettroniche), così come modificato dall’art. 70 del D.Lgs. 70/2012.”

Più specificamente, il Decreto Legislativo 28 maggio 2012, n. 70 ha modificato il D.Lgs. 259/2003 (Codice delle comunicazioni elettroniche), a seguito del recepimento delle direttive europee 2009/140/CE e 2009/136/CE. A partire dall’entrata in vigore del Decreto (1 giugno 2012), non sono più soggette ad autorizzazione le reti RadioLAN-HiperLAN (wi-fi) ad uso privato, anche nel caso transitino al di fuori del proprio fondo.
Anche condividere la propria connessione WI-FI liberamente non è più illegale da quando il decreto Pisanu, che imponeva pesanti restrizioni e condizioni all’accesso ad internet, non è stato prorogato.

Open Source in Regione FVG, sito morto

Sono anni che parliamo di utilizzo di software opensource nelle pubbliche amministrazioni, ci sono anche le leggi nuovissime e meravigliose che ne stabiliscono la precedenza nell’adozione rispetto a soluzioni commerciali.
La Regione Friuli (trattino) Venezia Giulia ha promosso nel 2009 la realizzazione di CROSS, un portale

“attivato nell’ottica delle nuove strategie di innovazione programmate con il Piano strategico della Regione FVG.
Il progetto, presentato dalla Direzione centrale organizzazione, personale e sistemi informativi e coordinato dal servizio eGovernment, come azione di innovazione tecnologica ICT, intende creare un Centro Regionale per l’Open Source Software (CROSS) con l’intento di favorire la diffusione del Software Open Source nelle PA e nelle imprese presenti sul territorio regionale. “

e tenete presente che questo copiaincolla dal sito non avrei nemmeno potuto farlo, perché a pie’ di pagina c’è scritto “Copyright ® 2009 Regione FVG”. Che ridere.

Ma il problema è questo: perché questo sito è morto? Ha pubblicato una cosetta come fotografia del territorio rispetto alle soluzioni informatiche adottate (con errata corrige), ha segnalato un’altra cosetta in un convegno, ha fatto un po’ da vetrina domanda-offerta. Proprio adesso che sarebbe utilissimo, e servirebbe un regìa regionale per l’attuazione dell’Agenda digitale declinata contestualmente su necessità e peculiarità regionali.

Cambiamento

Un articolo di Carlo Mochi Sismondi su ForumPA.

Che questo sia un anno di discontinuità non c’è bisogno di dirlo: cambierà il Governo, molti Governi regionali e locali, il Presidente della Repubblica, si darà finalmente inizio (speriamo) alle attività dell’Agenzia per l’Italia digitale per recuperare l’enorme divario che abbiamo accumulato rispetto agli altri Paesi avanzati, ci dicono persino che finirà la crisi!
Mi sto preparando a questi cambiamenti leggendo con attenzione non Nostradamus, ma i programmi elettorali delle forze politiche che, chi più chi meno, concordano tutte sulla necessità di innescare una ripresa basata sulla crescita e sull’innovazione.
Eppure ho la netta impressione che in queste analisi e in questi programmi la realtà sia uscita dalla porta di dietro e che non stiamo cogliendo il punto. Mi pare quindi che abbiamo bisogno di un terzo occhio e di un nuovo paradigma. Questa volta permettetemi quindi un approccio meno contingente, proponendo un necessario spiazzamento e candidando FORUM PA a raccontare questo punto di vista.
Non sto parlando certo di un occhio mistico, ma un terzo occhio è necessario perché tutto quel che potrà costruire il futuro mi sembra sia fuori dal perimetro in cui gli occhi della politica (e anche dei tecnocrati) sembrano cercarlo.
Provo a fare qualche esempio richiamando alla mente in estrema sintesi cose già dette e proponendone qualcuna nuova:
  1. La PA non può riformare se stessa: la riforma della PA non è dentro il sistema, ma riguarda la sua capacità di governare con la rete: ne consegue che pretendere che l’apparato si riformi da solo, magari con qualche iniezione di nuovo e illuminato diritto amministrativo, è una fatica di Sisifo, come la storia delle riforme legiferate e abortite ha sin qui ampiamente dimostrato. Ne consegue che da una parte dobbiamo seriamente ripensare ai perimetri dell’azione pubblica, dall’altra dobbiamo inserire nuove competenze, ma soprattutto nuovi modi di pensare dall’esterno. La necessaria trasformazione della PA da apparato autoreferenziale a strumento di attuazione delle politiche e di risposta ai bisogni è impossibile restando all’interno della PA.
    Ne consegue che la ministerializzazione della dirigenza pubblica, specie quella apicale, sarebbe la iattura peggiore: quel che ci serve non è una nuova classe di burocrati modello ENA francese (per altro se ne sono accorti anche i cugini d’oltralpe), ma manager flessibili e innovativi, specializzati nella difficile arte del coaching e della negoziazione, che sappiano far lavorare assieme pubblico, privato, privato sociale, terzo settore e cittadinanza organizzata e che siano misurati sui risultati oggettivi non tanto del loro lavoro come singoli (output) ma delle loro organizzazioni (outcome).
  2. L’innovazione non nasce dove la stiamo cercando: ossia non nasce, armata come Atena dalla testa di Zeus, nelle Università e negli istituti, ma nasce da un disobbedire, da un “uscir fuori” che è sintesi hegeliana tra una tesi data dai risultati della ricerca e dall’impegno della migliore tecnocrazia e un’antitesi data dalla tenace volontà dei prosumer (ossia i consumatori che nell’economia 2.0 sono anche produttori di servizi) di usare le innovazioni come gli pare per raggiungere i loro propri obiettivi. In parole povere l’innovazione diventa cambiamento sociale e quindi nuove opportunità di vita solo quando incontra la creatività di chi la usa. Solo così riesce a sviluppare le sue potenzialità rivoluzionarie.
    Ne consegue che l’innovazione, come la conoscenza, è tale solo se diffusa e disponibile: la cosiddetta “free knowledge society” non è roba da fricchettoni, ma l’ecosistema dello sviluppo sostenibile.
    Nel campo dell’innovazione della PA questo vuol dire sviluppare ogni occasione di vera Partnership-Pubblico-Privato che abbatta il muro tra domanda e offerta e promuova un lavoro collaborativo di co-progettazione.
  3. Le città e le comunità intelligenti non si identificano con le loro istituzioni: se possiamo immaginare smart city, non ha senso immaginarle chiuse nei loro Municipi.
    Come giustamente fa notare Mauro Bonaretti “La città è un insieme ben più ricco e articolato del Comune inteso come singola organizzazione pubblica. Comprende i cittadini, le imprese, il terzo settore, le associazioni di rappresentanza, gli intermediari finanziari, le public utilities, le fondazioni bancarie, le altre istituzioni pubbliche e private. Limitare il dialogo tra l’offerta di tecnologie e il Comune è restringere a un perimetro troppo ristretto la rete degli interessi in gioco. E’ pur vero che sempre più ai Comuni è richiesto un ruolo di governance (regista e catalizzatore delle politiche pubbliche), di tessitore principale di una rete diffusa di attori protagonisti per il successo di obiettivi condivisi. Ma è pur altrettanto vero che progetti così ambiziosi come quello di infrastrutturare la città di sistemi permanentemente interconnessi, interattivi e di interesse generale, non possono vedere coinvolta la sola responsabilità dell’attore pubblico.”
    Ne consegue che i progetti per le smart community non si vincono “dentro” l’amministrazione della città, ma in un più ampio spazio di co-progettazione con tutti i portatori di interesse.
  4. La crisi dell’informatica non si risolve dentro l’informatica: se i mercati dell’hardware e del software decrescono irrimediabilmente, con altrettanta certezza sono in crescita tumultuosa i mercati dei servizi digitali a valore aggiunto, della gestione dei cosiddetti big data, dei contenuti digitali, ecc.
    Ne consegue che se vogliamo sostenere la nostra ICT non dobbiamo chiedere alla PA di comprare più informatica, ma di creare le condizioni favorevoli per lo sviluppo di imprenditoria innovativa (non solo start-up).
  5. La crisi della politica non si risolve dentro la politica, né tantomeno dentro la sua caricatura controdipendente che è l’antipolitica. Come la cronaca di questi giorni dimostra è estremamente difficile che la politica sia in grado di autoemendarsi. Quel che la farà cambiare sarà una robusta inserzione di vera trasparenza che abiliti il controllo sociale e l’empowerment dei cittadini. Solo abbattendo l’asimmetria informativa di creano infatti le condizioni per la cittadinanza attiva che, come la nostra Costituzione impone, deve essere favorita da tutte le articolazioni della Repubblica.
Potremmo continuare l’esercizio all’infinito: la crisi della sanità, stretta tra meno soldi e più bisogni, non si risolve dentro la sanità, ma sulle nostre tavole, nei nostri stili di vita, nelle nostre palestre…; la crisi della sicurezza non si risolve dentro le forze dell’ordine, ma con la sicurezza partecipata…. ma mi fermo perché credo che il concetto sia chiaro.
E allora? Allora purtroppo non possiamo che constatare che la realtà è molto più complessa delle facili formulette in cui cerchiamo di ingabbiarla. Ma per fortuna anche molto più ricca.
L’immediata conseguenza di questo approccio è che se non possiamo trovare le cose “dentro”, dobbiamo cercarle “fuori”. Ma per uscire fuori dobbiamo aprire le porte, fare entrare aria nuova, accettare la contaminazione, accettare di considerare la trasparenza, la collaborazione, il co-design, la partecipazione non come attributi, ma come sostanza costituente del nostro operare. Qui forse sta l’essenza del cambiamento necessario: aprire la porta alla ricchezza delle relazioni, dare spazio alla partecipazione civile, trasformare la guerra in “competizione cooperativa”. Ci vengono qui in aiuto i concetti e le definizioni di “sussidiarietà orizzontale”, di “economia civile”, di “big society”, di “economia della felicità” , di “gratuità ed economia del dono”, di “innovazione sociale”.
Forse qui sta la novità che cercavamo: l’Italia ha su questa attenzione ai beni relazionali e alle reti di collaborazione una tradizione antica. Sarà ora di darle una spolverata, di dotarla delle tecnologie abilitanti che ora possiamo permetterci e di riprenderla come stella polare di un nuovo e meno effimero sviluppo.

Trasparenza delle Pubbliche Amministrazioni

Roberto Scano per IWA sintetizza il decreto del Consiglio dei Ministri del 22 gennaio 2013, su obbligo trasparenza delle Pubbliche Amministrazioni
Il Consiglio dei Ministri n. 66 del 22/01/2012 ha approvato, su proposta del Ministro della pubblica amministrazione e semplificazione, due decreti legislativi che attuano la legge 190 del 2012 (“Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”).
Il primo provvedimento riordina tutte le norme che riguardano gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione delle informazioni da parte delle PA e introduce alcune sanzioni per il mancato rispetto di questi vincoli. Di seguito, in sintesi, i punti principali del provvedimento:
  1. viene istituito l’obbligo di pubblicità: delle situazioni patrimoniali di politici, e parenti entro il secondo grado; degli atti dei procedimenti di approvazione dei piani regolatori e delle varianti urbanistiche; dei dati, in materia sanitaria, relativi alle nomine dei direttori generali, oltre che agli accreditamenti delle strutture cliniche.
  2. viene data una definizione del principio generale di trasparenza: accessibilità totale delle informazioni che riguardano l’organizzazione e l’attività delle PA, allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche. Il provvedimento ha infatti lo scopo di consentire ai cittadini un controllo democratico sull’attività delle amministrazioni e sul rispetto, tra gli altri, dei principi costituzionali di eguaglianza, imparzialità, buon andamento, responsabilità, efficacia ed efficienza dell’azione pubblica.
  3. la pubblicazione dei dati e delle informazioni sui siti istituzionali diventa lo snodo centrale per consentire un’effettiva conoscenza dell’azione delle PA e per sollecitare e agevolare la partecipazione dei cittadini. Per pubblicazione si intende la diffusione sui siti istituzionali di dati e documenti pubblici e la diretta accessibilità alle informazioni che contengono da parte degli utenti.
  4. si stabilisce il principio della totale accessibilità delle informazioni. Il modello di ispirazione è quello del Freedom of Information Act statunitense, che garantisce l’accessibilità di chiunque lo richieda a qualsiasi documento o dato in possesso delle PA, salvo i casi in cui la legge lo esclude espressamente (es. per motivi di sicurezza).
  5. si prevede che il principio della massima pubblicità dei dati rispetti le esigenze di segretezza e tutela della privacy. Il provvedimento stabilisce che i dati personali diversi dai dati sensibili e dai dati giudiziari possono essere diffusi attraverso i siti istituzionali e possono essere trattati in modo da consentirne l’indicizzazione e la tracciabilità con i motori di ricerca. È previsto l’obbligo di pubblicazione dei dati sull’assunzione di incarichi pubblici e si individuano le aree in cui, per ragioni di tutela della riservatezza, non è possibile accedere alle informazioni.
  6. viene introdotto un nuovo istituto: il diritto di accesso civico. Questa nuova forma di accesso mira ad alimentare il rapporto di fiducia tra cittadini e PA e a promuovere il principio di legalità (e prevenzione della corruzione). In sostanza, tutti i cittadini hanno diritto di chiedere e ottenere che le PA pubblichino atti, documenti e informazioni che detengono e che, per qualsiasi motivo, non hanno ancora divulgato.
  7. si disciplina la qualità delle informazioni diffuse dalle PA attraverso i siti istituzionali. Tutti i dati formati o trattati da una PA devono essere integri, e cioè pubblicati in modalità tali da garantire che il documento venga conservato senza manipolazioni o contraffazioni; devono inoltre essere aggiornati e completi, di semplice consultazione, devono indicare la provenienza ed essere riutilizzabili (senza limiti di copyright o brevetto).
  8. si stabilisce la durata dell’obbligo di pubblicazione: 5 anni che decorrono dal 1° gennaio dell’anno successivo a quello in cui decorre l’obbligo di pubblicazione e comunque fino a che gli atti abbiano prodotto i loro effetti (fatti salvi i casi in cui la legge dispone diversamente).
  9. si prevede l’obbligo per i siti istituzionali di creare un’apposita sezione – “Amministrazione trasparente” – nella quale inserire tutto quello che stabilisce il provvedimento.
  10. viene disciplinato il Piano triennale per la trasparenza e l’integrità – che è parte integrante del Piano di prevenzione della corruzione – e che deve indicare le modalità di attuazione degli obblighi di trasparenza e gli obiettivi collegati con il piano della performance.
  11. Altre disposizioni riguardano la pubblicazione dei curricula, degli stipendi, degli incarichi e di tutti gli altri dati relativi al personale dirigenziale e la pubblicazione dei bandi di concorso adottati per il reclutamento, a qualsiasi titolo, del personale presso le PA.

Italia connessa – Agende digitali regionali

Italia indietro sui servizi digitali. Questa volta ad analizzare lo stato di attuazione dell’agenda digitale europea, è una ricerca di Telecom Italia “Italia connessa – Agenda digitali regionali” presentata oggi a Bologna con la regione Emilia Romagna.
Il rapporto, secondo anticipazioni stampa, rende evidenti le forti differenze persistenti tra le diverse regioni in quanto ad innovazione tecnologica e sviluppo digitale, sottolineando il ritardo particolarmente forte per quanto riguarda lo sviluppo dei servizi digitale. L’analisi di fondo prevede il mancato raggiungimento degli obiettivi fissati a livello europeo e nazionale a meno che le Regioni non accelerino e rinnovino i loro piani digitali.
Lo sviluppo delle infrastrutture necessarie a garantire il raggiungimento degli obiettivi fissati è in ritardo, ma sarebbe possibile ancora tenere fede agli impegni. La UE ha stabilito che tutti i cittadini dovranno avere accesso a reti a banda larga (almeno 1 megabit al secondo) entro fine anno, ma al momento il 10% delle abitazioni italiane non è ancora stato raggiunto. Il rapporto di Telecom ritiene, però, l’obiettivo UE raggiungibile entro l’anno a patto di agire in fretta. La situazione italiana è, al contrario, più grave a livello infrastrutturale per quanto riguarda la banda ultralarga (11% di copertura), ma c’è ancora un po’ di tempo per raggiungere gli obiettivi fissati dall’Unione (entro il 2020, 100% di copertura con connessioni a 30 megabit e 50% a 100 megabit).
Gli obiettivi più difficilmente raggiungibili, secondo il rapporto, riguardano, però: utilizzo delle reti e servizi digitali. Il 75% dei cittadini dovrebbero utilizzare regolarmente la rete Internet entro il 2015, stando agli obiettivi europei, ma ad oggi lo fa soltanto il 47% degli italiani. Situazione ancora peggiore per l’e-commerce (terzultimi in Europa) utilizzato per gli acquisti dal 15% degli italiani contro un obiettivo fissato nel 50% entro tre anni. E altrettanto lontano appare l’obiettivo per le aziende (33% entro il 2015). Soltanto l’11% delle piccole e medie imprese acquista tramite rete e addirittura solo il 4% vende attraverso il canale digitale. Se i servizi digitali commerciali non decollano, non lo fa, però, neanche l’amministrazione digitale (penultimi in Europa, circa il 22% dei cittadini ha utilizzato servizi di e-government).
Il rapporto, come si accennava, si concentra particolarmente sull’apporto delle regioni all’Agenda Digitale, riscontrando forti differenze tra i vari enti territoriali. I ritardi sono forti e mentre alcune regioni hanno varato piani, esplicitamente riferiti all’Agenda Digitale Italiana o più genericamente allo sviluppo dell’ICT, altre ci stanno ancora lavorando. L’implementazione di molte delle novità introdotte per l’amministrazione digitale è, inoltre, scarsa e fortemente disomogenea. A questo vanno ad aggiungersi ritardi forti, rispetto alla media nazionale, di alcune regioni riguardo all’utilizzo delle rete e dei servizi digitali, che danno il quadro di un forte digital divide territoriale. La maglia nera per l’utilizzo di Internet va alla Puglia (57% non usa regolarmente), mentre quella per il più ridotto utilizzo di servizi di e-commerce alla Campania (6%).
Ritardi gravi, quindi, che possono essere colmati soltanto con forti interventi a livello sia nazionale, che regionale. Interventi che potrebbero, però, non arrivare in tempo visto che come sottolinea Franco Bernabè, amministratore, delegato di Telecom Italia, il tema dell’Agenda Digitale è sostanzialmente assente dal dibattito politico-elettore. “Non mi sento di rimproverare nessuno . Siamo ancora nel pieno di un’emergenza che, dopo il salvataggio del sistema finanziario, adesso impone la ripartenza dell’economia. E’ questa la vera priorità, del resto solo restituendo respiro alle imprese si potrà riattivare un ciclo di investimenti ad ampio raggio, incluso ovviamente l’Ict”. Il manager non riterrebbe una cattiva idea quella di un ministero dedicato alla tematica. “Spetterà al nuovo Governo stabilire le priorità, ma parlare di un nuovo Ministero delle Comunicazioni e dell’Agenda digitale o comunque di un Ministero dell’Industria con una forte delega avrebbe senso. In altre parole, assegnare una responsabilità politica per i grandi fattori di competitività dell’economia italiana, l’economia digitale al pari di infrastrutture ed energia, sarebbe un grande passo avanti”.
Bernabè ritiene più di tutto prioritari, però, l’approvazione dei provvedimenti attuativi del decreto crescita 2.0 messo e il coinvolgimento degli enti territoriali, vanno “mobilitate le Regioni, le Province, i Comuni”.
Gerardo Di Meo

Rasol (sì, ruzzle)


C’è questo gioco che si chiama Ruzzle, e ci sto giocando anch’io sul tabletto.
Ne parlo perché è un esempio di spread, più che altro. Ha trovato una decina di milioni di account in qualche giorno, e il tutto può essere fatto partire da dicembre, al massimo.
E trovo su un sito una notizia simpatica: facendo in qualche modo reverse dei flussi di propagazione, il creatore ha scoperto che il tutto è partito da una cittadina americana, e poi via per il mondo.
E a me vine in mente uno di quegli stagni dove ci sono le bollicine che emergono, e seguendo a ritroso le onde sull’acqua scopriamo l’origine.
E’ come un tag RFID, che però si porta dietro il progetto e la storia del fenomeno culturale, del meme. Tracciare tutto, scoprire cosa pensiamo e cosa facciamo.


Grazie a Google Analytics, Skagerwall ha poi scoperto che la febbre di Ruzzle ha cominciato a diffondersi dalla città di Collins, in Lousiana (Usa), l’8 dicembre scorso. “Possiamo solo ipotizzare che un gruppo di adolescenti abbiano iniziato a sfidarsi condividendo il gioco coi loro amici“.

Dov’è finito?

Solstizio è nato certamente il 21 giugno. Appartiene al segno dei Gemelli, per pochi minuti, e Hermes/Mercurio fattivamente ne governa l’esistenza, instillando curiosità ed intuizione per ciò che cambia, per la trasformazione, per quella soglia o limine che scandisce il passaggio. Di una situazione, di un senso interpretativo, di un gesto affettivo, di un evento storico, c’è sempre un prima e un dopo. Lì, sulla soglia, il significato attraversa la porta semiotica, e giunge a noi come nuovo senso nella novella situazione. Gangherologo infatti è la professione praticata da Solstizio, ovvero studioso esperto di cardini/gangheri delle porte.

Agenda per la scuola

Riflessioni di Mariangela “Galatea” Vaglio, da L’Espresso.

Copioincollo integrale.

Ecco, sì, visto che va di moda, lo fanno tutti, sarei tentata di metterla on line anche io una bella “Agenda” delle cose che secondo me sarebbero proprio da fare a scuola, e dire «Queste sono le idee, chi ci sta a realizzarle, con me.» Purtroppo sono cose che può fare solo Monti perché è Monti, e ho anche qualche dubbio che poi pure lui non riuscirà a realizzarne qualcuna delle sue, anche vincendo. Perché l’Italia è quel paese strano dove prima le elezioni tutti si dicono pronti a cambiare, e poi appena le elezioni sono passate, vinte, perse o pareggiate che siano, c’è sempre qualcosa di più importante, di più urgente, di più, e le idee van messe in soffitta, che possono tornare buone per il prossimo giro.
La prima idea riguarda noi insegnanti, e questo benedetto fatto dell’orario di lezione, che i più confondono con l’orario di servizio, pensando che noi lavoriamo solo 18 ore, cioè quelle che passiamo fisicamente in classe. Io vorrei un cartellino da timbrare, come gli altri impiegati. Così tutte le ore di programmazione, di studio e di ricerca che faccio a casa adesso finalmente risulterebbero da qualche parte. Certo, mi ci vorrebbe un ufficio dove stare, o almeno una scrivania, ed un pc collegato alla rete con una adsl non pagata da me. Per lo Stato sarebbe forse una bella botta economica dover ristrutturare gli edifici per trovare questi luoghi di lavoro per i docenti, e anche i pc e i router in grado di supportare tante connessioni. Ora risparmia parecchio, con questa bella trovata, lo Stato, ma per noi insegnanti queste ricorrenti offese di essere dei privilegiati e degli scansafatiche costano ancora di più, in termini di prestigio sociale, e alla lunga tolgono la voglia di impegnarsi a farlo bene, il nostro mestiere, anche a quelli che ci terrebbero assai. Sono cose che ti logorano, queste continue accuse e questa diffidenza nei nostri confronti. Per cui, dateci il cartellino e una scrivania per lavorare a scuola fino alle cinque del pomeriggio. Così, dato che ci siete, mentre siete là a ristrutturare per creare i nostri uffici, date anche una controllata alle mura delle scuole, ai tetti, ai solai e ai controsoffitti, che quasi mai sono a norma e rischiano di caderci addosso. Un po’ di sicurezza per tutti, visto che noi ci lavoriamo ma i vostri figli ci studiano, dentro quei muri.
La seconda idea anche questa è molto semplice: vorrei delle classi di venti alunni al massimo, quindici se per caso dentro alla classe ci sono ragazzini certificati, o con problemi comportamentali. Sembra strano, eh, ma quando hai venti alunni da seguire, e non 26, 29 o 30, viene più facile seguirli meglio. Si possono fare, per esempio, più giri di interrogazioni, più compiti, verificare più spesso chi non ha capito e cosa. Si riesce anche ad instaurare con ciascuno di quegli alunni un rapporto più personale (non “personalizzato”, più personale proprio, nel senso che hai più tempo per parlare con loro, ascoltarli, capirli) e quando un ragazzino si sente così, ascoltato, pare impossibile ma rende di più. Anche qua, ci vorranno vagonate di soldi, perché il numero delle classi salirà, bisognerà assumere più docenti, forse anche costruire qualche scuola nuova. Però, non c’è alternativa: solo un cretino può pensare che con sei ore di una materia in una classe di 30 alunni si possano fare le stesse cose che si fanno con sei ore della stessa materia in una classe di venti. Quindi siamo sempre là, purtroppo le nozze non si fanno con i fichi secchi, e per avere una buona qualità dell’istruzione bisogna anche trovare il modo di finanziarla.
In cambio, però, potremmo stabilire, per esempio, che i docenti fanno solo i docenti, e che l’insegnamento non è un lavoro part time per gente che fa soprattutto altro. Vuoi fare il professionista? Benissimo, allora la scuola ti fa un contratto a progetto, mirato, per un tot numero di ore. Ma la cattedra di ruolo la tiene solo chi di mestiere fa l’insegnante e basta, perché se hai una professione, uno studio, una azienda da seguire non puoi trovare il tempo di prepararti bene ogni santo giorno per quei poveri ragazzini che ti ritrovi per alunni. E quei ragazzini lo meritano, invece.
Altra cosa è che si potrebbe stabilire che ogni tot anni anche gli insegnanti di ruolo devono passare degli esami e delle verifiche, e magari produrre dei testi, delle tesine che dimostrino cosa fanno a scuola e quali tecniche o scelte didattiche hanno fatto nella loro esperienza di insegnamento; e stabilire che nel corso dell’anno i dirigenti dirigono davvero, cioè controllano i furbi, quelli che presentano certificati di malattia assurdi stilati da medici compiacenti, in classe vegetano come funghi sulla cattedra. Se per un tot di tempo hai valutazioni negative e se poi risulta pure che non ti sei aggiornato e non ti ricordi i fondamentali della materia che dovresti insegnare, via, vai a fare altro.
Ah, i corsi di aggiornamento, altra piaga dolente. Io vorrei anche un po’ di controllo qua, perché è un guazzabuglio in cui si trova di tutto. Oggi basta che tu li frequenti per avere qualche tipo di bonus, e comunque se ci vai sembra che tu sia un docente che ci tiene, e se invece ne salti qualcuno no. Ma anche lì, ci sono tantissimi corsi di aggiornamento che sono fuffa pura, tenuti da personale dalle competenze non ben chiare e su argomenti anche abbastanza idioti. Io li dividerei in corsi fondamentali, che riguardano non solo la didattica ma proprio la materia di insegnamento specifica, magari con tanto di esame finale per vedere se chi lo ha frequentato ha seguito davvero o ha fatto solo atto di presenza. Basta però ai corsi “onnicomprensivi”, destinati a docenti di ogni ordine, grado o materia. No, specifici: quelli per chi insegna matematica alle medie, quelli per chi insegna inglese alle superiori e così via. E ci aggiungerei anche dei bei corsi di lingua inglese gratuiti per tutti, con lezioni di lessico specifico mirate, perché il Ministero ha detto che alcuni di noi dovrebbero saper fare lezione in lingua, e questo è bello e giusto, però non può pretendere che la lingua uno se la debba imparare o rinfrescare spendendo centinaia di euro privatamente.
Passiamo alle valutazioni degli alunni. Pare che gli INVALSI diventeranno il metodo principe. E su questo, sinceramente, ho qualche dubbio. Perché i test INVALSI possono andare anche bene, purché siano fatti meglio – molto meglio – di quelli di questi anni, ma vanno integrati con altro. Intanto non si può farli solo di italiano a matematica, allora, ma di tutte le materie, e per tutte intendo tutte tutte. Poi fa ridere pensare che solo sulla base dei risultati degli INVALSI si pensi di stabilire se un docente è bravo, ed eventualmente premiarlo con bonus economici. Perché gli INVALSI non tengono conto dei livelli di partenza di una classe, per esempio, e anche del fatto che il lavoro di un docente spesso può anche non avere ricadute precise e quantificabili nell’immediato, e che poi la sarabanda dei docenti in più anni può rendere impossibile identificare chi poi abbia materialmente svolto il lavoro. Soprattutto, poi, gli INVALSI non tengono conto che un ragazzino o una classe che sa rispondere bene agli INVALSI potrebbe anche essere semplicemente una classe di brave scimmiette ammaestrate. Quindi, ok, facciamo gli INVALSI, se volete, ma affianchiamoli ad altri tipi di prove, che tengano conto dei programmi reali svolti nella classe e somministrate nel corso di tutto l’anno: prove di grammatica, problemi di geometria, test di traduzione dalle lingue straniere.
C’è poi da affrontare un altro grande problema: come trattiamo chi non ce la fa. Perché se una scuola vuole funzionare seriamente non va invocata la meritocrazia, parola che io non amo molto, ma la più banale serietà: a fine anno non tutti possono essere sempre promossi con un pietoso sei. E chi non passa, come lo trattiamo? Innanzitutto bisognerebbe, e questo si fa già nella maggioranza dei casi, tentare di evitare la bocciatura. Ma per farlo bisogna poter fornire ai ragazzi in difficoltà delle ore di recupero, dedicate solo a loro. Il problema è che questo si può fare sempre meno, specie ora che abbiamo visto tagliare i fondi di istituto, che servivano proprio a questo tipo di attività. Perché se un docente deve fare un corso di recupero, magari pomeridiano, per un gruppo di alunni, bisogna che ci siano, molto banalmente, i soldi per pagare gli straordinari che fa, e questi oggi non ci sono più. Anche qua, rendiamoci conto una buona volta che non si può avere scuola di qualità senza spendere soldi, perché sarebbe come pretendere di comprarsi una Ferrari senza avere il becco di un quattrino.
Altro problema è che la scuola ha spesso degli orari che non sono più rispondenti alle esigenze delle famiglie di oggi E’ nata quando le famiglie erano formate da una mamma ed un papà, papà lavorava e mamma stava ai fornelli, per cui al pomeriggio ai figli ci badava lei. Famiglie così non ce ne sono più, anche perché se non ci sono almeno due stipendi da lavoro a tempo pieno a fine mese non si arriva. Che facciamo? Proviamo a pensare una scuola che è aperta anche al pomeriggio? Sì, certo. Ma non si può risolvere il problema dicendo che i docenti fanno 40 ore a settimana tenendosi i ragazzi anche al pomeriggio, perché sennò quando è che preparano le lezioni, correggono i compiti, eventualmente tengono corsi di recupero per chi va male? Quindi bisognerebbe assumere del personale che garantisse lo svolgere di attività pomeridiane, tipo un doposcuola assistito per fare i compiti, o anche dei corsi gratuiti specifici per piccoli gruppi. Potrebbe essere un canale per inserire i giovani aspiranti docenti, che potrebbero (ovviamente con contratti regolari e stipendio dignitoso) farsi le ossa prima di diventare stabilmente di ruolo, imparare a trattare le problematiche degli alunni, farsi una idea di come funziona una scuola, senza essere “buttati” subito in trincea come invece è capitato a noi, ma potrebbe essere anche uno sbocco lavorativo per chi non è proprio un docente, ma magari solo un educatore generico, che avrebbe compiti di supporto.
Voi mi direte: ma che schifo, in questa agenda manca il digitale! Da te non ce lo saremmo aspettato mai! Ecco, e invece aspettatevelo. Perché io sono favorevolissima che nelle scuole si insegni agli alunni ad usare il computer, ci mancherebbe. Ma credo anche che spendere vagonate di soldi per la sola vuota digitalizzazione senza prima mettere mano a tutto quanto ho elencato sia come pensare che se su una catapecchia vecchia do una dipintina ai muri fuori e ci metto una porta blindata di ultima generazione si trasformerà per incanto nel palazzo di Cenerentola. Mandate al diavolo e accusatemi di essere retrograda, ma per me la scuola di qualità si può fare persino solo con una lavagna e con un gessetto. Se imparano bene le tecniche per fare i riassunti, scrivere un testo, contare e risolvere problemi, poi ad usare l’ultimo cazzabubbolo informatico ci mettono due secondi. E allora non sono contraria agli investimenti sul digitale, ma io prima lavorerei sulla formazione degli insegnanti, investirei su quello: perché a fare lezione non è mai il tablet, ma la persona che lo tiene in mano.
Tutto questo, naturalmente, potrebbe funzionare solo ad un patto: che oltre alla scuola deve cambiare, e anche parecchio e profondamente, la società che le sta attorno. Perché si può costruire una scuola efficientissima, che sforna, come già fa ora in molti casi, alunni competenti e bravi, ma se poi l’Italia attorno continua a non valorizzarli perché assume il cugino scemo del capo anche se ha preso la laurea comprandola sottobanco, e al ragazzo preparato ma privo di appoggi offre solo un contratto precario, tutta questo sforzo sarà solo un enorme spreco: i ragazzi formati e preparati scapperanno all’estero, e tutti i soldi spesi per la loro formazione frutteranno ad altri brevetti e scoperte scientifiche, mentre noir resteremo al palo. E giustamente, perché il male che ci si cerca, come diceva mia nonna, non è mai abbastanza.
Insomma, io la mia “Agenda Vaglio” ce l’ho, e come le altre agende in circolazione, lo so che è in fondo un libro dei sogni. Perché nello scriverla sono consapevole che per metterla in pratica ci vogliono tre cose: una ferrea decisione nel mantenere fede agli impegni, molta serietà e anche tanti, tanti, tanti soldi. Delle tre, lo confesso, tutto sommato i soldi sono quelli che reputo più facili da trovare, in qualche modo, perché al mondo, e non solo in Italia, quando ci sono determinazione e serietà i finanziamenti poi da qualche parte si trova il modo di farli venire fuori.
Sono le prime due cose che mi paiono assai difficili da reperire, perché noi siamo il paese dove scrivere una agenda è facilissimo, sono buoni tutti: ma quando poi bisogna metterle in pratica e stringere i denti per vedere i frutti, eh, c’è sempre qualcosa di più urgente, e poi anche di più facile ed immediato, che dà più soddisfazione.

Democrazia 2.0

Democrazia 2.0 non significa solo voto elettronico.
La Rete abilita nuovi comportamenti negli attori sociali, i quali fatta propria una certa etica della comunicazione dovrebbero sentirsi in dovere di manifestare in modo trasparente le proprie idee, e di discuterle pubblicamente con i portatori di interesse. E questo vale anche per i partiti politici, e per i candidati. Sembrerebbe ovvio, ma non lo è. 
Un colpetto qui e uno là, nel corso degli ultimi due o tre anni (le piattaforme, gli aggregatori, i canali youtube, i twitter, le primarie online, le campagne di comunicazione su community) hanno fatto emergere la consapevolezza riguardo a ciò che è buona cosa fare oggi, per comunicare la propria visione politica e abitare in Rete in modo nativamente conversazionale, dialogico.
Ecco un decalogo di buona comunicazione, diffuso da un appello di Democraziaduepuntozero

1. di pubblicare online l’’elenco di tutte le candidature, offrendo a tutti i candidati una piattaforma web attraverso la quale aprirsi al dialogo e al confronto con i cittadini e presentarsi ai propri elettori con il proprio curriculum, le proprie idee e il proprio programma: massima trasparenza e apertura anche alle critiche dovranno essere irrinunciabili principi ispiratori della campagna elettorale online.

2. di dare pubblicità a tutte le riunioni politiche di vertice in live streaming e successiva archiviazione online, perché chi si candida alla guida del Paese non può e non deve avere niente da nascondere ai cittadini.

3. di garantire che tutti i candidati si impegnino, se eletti, a consultarsi costantemente attraverso strumenti telematici con i propri elettori, rispondendo settimanalmente online a interrogazioni pubbliche in livechat.

4. di impegnarsi nella prossima legislatura perché l’accesso a Internet diventi un diritto fondamentale del cittadino.

5. di impegnarsi perché la Rete sia davvero neutrale e sia vietato ai fornitori di servizi di comunicazione elettronica ogni genere di attività di network management suscettibile di incidere sulla libertà degli utenti di accedere a ogni tipo di contenuto a condizioni tecniche ed economiche non discriminatorie.

6. di impegnarsi perché tutti i dati e le informazioni in possesso delle pubbliche amministrazioni siano resi disponibili online, in tempo reale, in formato aperto e con una licenza che ne autorizzi l’uso da parte di tutti anche per finalità commerciali

7. di impegnarsi perché i tribunali (e tutte le autorità svolgenti funzioni giurisdizionali) rendano accessibili ai cittadini, online e gratuitamente,i testi integrali di tutte le proprie decisioni.

8. di impegnarsi a fare in modo che il diritto d’autore sia, anche in Rete, uno strumento di promozione della creazione e circolazione dei contenuti artistici, culturali ed informativi e non solo un vincolo e un impedimento.

9. di impegnarsi a garantire che nessun contenuto di carattere informativo possa essere rimosso dallo spazio pubblico telematico o reso inaccessibile in assenza di un ordine dell’’Autorità giudiziaria.

10. di impegnarsi nell’adozione delle politiche di governo aperto che vanno diffondendosi in tutto il mondo creando straordinari benefici in termini di trasparenza ed efficienza dell’attività della pubblica amministrazione e di rafforzamento e consolidamento della democrazia.

Jannis on TV

Un raggiungimento di un traguardo professionale, per me. E ovviamente uno sprone a continuare a fare quello che faccio dal 1996, ovvero parlare scrivere e raccontare il cambiamento sociale indotto dalla Cultura digitale. Non so se ci riuscirò, a continuare, ma mi piacerebbe. E questo vale come augurio a me stesso, per il 2013.
A questo indirizzo, oppure qui a destra sul blog, trovate tutte le trasmissioni che ho scritto e condotto per Telefriuli, come iniziativa legata a #udinesmart, il convegno promosso dal Comune di Udine in dicembre 2012, dove ho collaborato come coordinatore del comitato tecnico scientifico.
Il programma televisivo si chiama “Non è mai troppo digital”, giusto per riprendere quel maestro Manzi che alfabetizzò l’Italia negli anni Sessanta. Nove pillole di Cultura digitale, ogni puntata dura all’incirca sette minuti.

Open Udine

Era una delle portate più sostanziose, presentata alla cittadinanza durante il convegno #udinesmart.
Udine è la prima città in Italia a essere completamente trasparente, ovvero monitorabile dagli interessati.
La piattaforma è OpenMunicipio, l’indirizzo è udine.openmunicipio.it
Ci si iscrive, e dovrebbero farlo secondo me almeno mille udinesi, l’un per cento della popolazione residente, poi si clicca qua e là per restare aggiornati sugli atti e le delibere comunali, oppure sulle attività di un determinato amministratore.
Si tratta di un punto di arrivo importante, a quindici anni dalla legge Bassanini, un segno tangibile del cambiamento della PA rispetto alla comunicazione istituzione-cittadini. E costituisce un punto di partenza per una pubblica amministrazione condivisa e collaborativa, un’ideale di trasparenza che ora tutti noi dobbiamo saper mettere a frutto, perché in fin dei conti parliamo di cosa pubblica.
I documenti consultabili (atti, delibere, mozioni, etc.) sono però in formato proprietario .doc, e non credo la cosa sia corretta, secondo le stesse indicazioni del Codice dell’Amministrazione Digitale.

Agenda digitale: è legge

“Lo Stato, nel rispetto del principio di leale collaborazione con le autonomie regionali, promuove lo sviluppo dell’economia e della cultura digitali, definisce le politiche di incentivo alla domanda dei servizi digitali e favorisce, tramite azioni concrete, l’alfabetizzazione e lo sviluppo delle competenze digitali con particolare riguardo alle categorie a rischio di esclusione, nonché la ricerca e l’innovazione tecnologica quali fattori essenziali di progresso e opportunità di arricchimento economico, culturale e civile.”

E’ legge italiana, gente. Anni di battaglie.