Archivi autore: Giorgio Jannis

Cose di oggi, e un po’ di yesterday (zero Beatles, è per farsi trovare sui motori)

Oggi ho imparato cos’è un hcard sul sito dei microformati, e ho provato a usare hcalendar.
C’è in giro tutta una discussione molto interessante, sulle forme dell’identità online, che se avessi tempo (ma qui mi fanno lavorare, orpo) mi piacerebbe alquanto affrontare in una paginetta almeno un po’ pensata, prima di buttarla giù come invece sono solito fare con questi appunti qui.
Penso che il problema sia questo: negli ultimi sei anni (lo sbarco in web), molti si sono cimentati su web, dando immagine di sé in chat, sui forum, su geocities prima e portali poi e blog dopo ancora, e commentando e partecipando di qui e di là, usando magari molteplici nick, ovvero disperdendo la propria identità socialweb in mille rivoli; ora sento in rete espresso un bisogno di unitarietà, di riconoscimento, di visibilità pubblica, di accorpamento degli avatar (!), ovvero un centro identitario più o meno solido, dove sia possibile per gli altri – e anche ai nostri stessi occhi – seguirci e comprenderci come entità sì polimorfa ed articolata, epperò nucleata. Io sono i frammenti, le facce , le maschere di me, sparsi in giro per il mondo, ma ci metto un tag sopra i frammenti, che possa ricondurre alla mia identità, che a questo punto mi viene da raffigurare come un hub identitario ed esistenziale, il mozzo della ruota, il vuoto centrale che ne permette l’esistenza. Continuo a vivere in molti modi diversi sulla circonferenza, lascio tracce rotolando nei territori digitali, e lascio anche un’impronta che voglio sia mia, che sia possibile navigare e scoprire e risalire e comprendere in un’immagine ampia, data dalla mia multicolore espressione di me lungo sentieri elettronici.
Chiaramente il web 2.0 ci aiuta nel ri-capitolare un Io forte, ad esempio con ClaimId, una sorta appunto di hub identitario.

Poi ho guardato, su consiglio di .mau., la tavola delle religioni mondiali, e seguendo Luisa Carrada ho sbirciato le regole di stile per la buona scrittura su Wikipedia: interessantissimo, mi viene subito in mente l’utilizzo che potrebbe farne un insegnante creativo in quarta superiore, sottoponendo a vaglio critico insieme ai suoi allievi le indicazioni “ivi contenute”; graditissima l’ironia mescolata alla fermezza: riguardo il ricorso a paroloni e frasi contorte, si legge che … spiegandoci in parole veramente povere, certe circonlocuzioni, concordemente con quanto asserito dai massimi fra gli accademici della Crusca, tenderebbero ad esacerbare alcuni segnali semantici all’interno del contesto espressivo, influendo non lievemente sulla prassi di decodifica cognitivo-funzionale del potenziale fruitore: tali propensioni stilistiche influirebbero inoltre sui risvolti più prettamente gnoseologici del testo, rischiando di sottendere l’elaborato alle più trite e abusate tendenze sintattico-espressive, di tipo puramente aforistico, forse dissimulando, tra pindariche figure retoriche, un più coerente anelito comunicativo ehehehh

Aiuto:Manuale di stile – Wikipedia

Per ultimo, David Byrne e Brian Eno hanno reso disponibili le tracce di due canzoni contenute in My Life in the Bush of Ghosts, sì da poter essere liberamente sotto Creative Commons utilizzate nei propri pezzi, oppure remixate e spedite sul loro sito. I due ci dicono che è la prima volta che questo accade, e su questo ho i miei dubbi, perché già anni fa partecipai a simili esperimenti remixando Beck e Robert Miles, e credo che anche Paolo Benvegnù stia conducendo un simile progetto in quel di Firenze, come mi fece notare l’Impostore via S.O.M .
Rimane il fatto che My Life… è un disco del 1981, e ripeto 1981, che per contenuti e forma potrebbe essere tranquillamente stato scritto a metà anni ’90, risultando comunque straordinario ed anticipatore. Lo considero tuttora il massimo risultato artistico raggiunto sia da Byrne sia da Eno (per quest’ultimo, almeno per quanto riguarda la musica “pop” strutturata, non ambientale).

Syd

A diciott’anni facevo i compiti di scuola fumando e ascoltando The Piper e Relics con le cuffie; a ventisei la seconda sbandata, mentre facevo l’obiettore. Tuttora ascolto psychobeat inglese dei sixties, Zombies Kinks Donovan Hollies e Searchers, le stesse canzonette che Syd ascoltava nei suoi diciott’anni, e ritrovo quelle intonazioni agrodolci, quella melancolia favolosa di fine estate, quella progressione di accordi così inglesi, che il Testamatta avrebbe reso sublimi nei primi due dei PinkFloyd. Canzoni che ho suonato e cantato per strada in Olanda, musica che mi far star bene.

EFFERVESCING ELEPHANT

An Effervescing Elephant
with tiny eyes and great big trunk
once whispered to the tiny ear
the ear of one inferior
that by next June he’d die, oh yeah!
because the tiger would roam.
The little one said: “Oh my goodness I must stay at home!
and every time I hear a growl
I’ll know the tiger’s on the prowl
and I’ll be really safe, you know
the elephant he told me so.”
Everyone was nervy, oh yeah!
and the message was spread
to zebra, mongoose, and the dirty hippopotamus
who wallowed in the mud and chewed
his spicy hippo-plankton food
and tended to ignore the word
preferring to survey a herd
of stupid water bison, oh yeah!
And all the jungle took fright,
and ran around for all the day and the night
but all in vain, because, you see,
the tiger came and said: “Who me?!
You know, I wouldn’t hurt not one of you.
I’d much prefer something to chew
and you’re all too scant.” oh yeah!
He ate the Elephant.

Mondialismi: affettività e senso

Credo non sapremo mai cosa Materazzi ha detto a Zidane, sì da causare una testata sul plesso solare con rincorsa. Sarebbe interessante per conoscere un aspetto di psicologia, non certo per giustificarlo.

Qui sopra, il momento gangherologicamente decisivo, quando qualcosa ha fatto click dentro la testa di quest’uomo che qualcuno (forse un giornale inglese) ha recentemente definito “il calciatore più calmo mai visto”, mentre personalmente ho sempre ritenuto Zidane una persona agitata dentro, poco consapevole dei propri stati d’animo e delle proprie emozioni. Ed il fatto che risulti recidivo a certi episodi, fa pensare: ha già preso a testate qualcuno, ad un altro gli ha camminato sopra.
Nella foto, è il momento in cui la coscienza si obnubila, non si vede più niente (oppure si vede rosso, come il cartellino), si agisce in maniera irriflessa, in realtà si è agiti da qualcosa che non siamo noi, e i comportamenti violenti vengono a galla.
E pensare che lo sport per chi lo pratica servirebbe proprio a questo, ad alzare la soglia del conflitto, a fornire strumenti per l’educazione sentimentale, a padroneggiare le emozioni nel confronto con gli altri, imparando a prendersela quando è veramente il caso e non per un nonnulla, come può essere qualsiasi parola pronunciata dall’avversario sul terreno di gioco.
Tornato in sé, Zidane avrà realizzato (come dicono gli americani) il senso dell’azione compiuta, la macchia terribile ed incancellabile sulla propria carriera, la vergogna e la rabbia del non essere riuscito a controllarsi, perché è persona intelligente e conosce di sé questo difetto, la propria incapacità di abbassare rapidamente il termostato interiore nei momenti opportuni, come opportuno sarebbe stato evitare di lasciare di sé una simile immagine, nell’ultima partita della sua vita, in una finale mondiale.
E piangerà per anni, non penserà ad altro fino alla morte, poveraccio.

Valori, psicologia, letteratura


Leggendo Baudrillard, Rifkin, Braudel, ma anche Houellebecq o Ballard (per non citare autori più vetusti), comprendo lo sgretolamento dei valori sociali, delle stesse classi sociali per come sono state concepite e vissute negli ultimi 400 anni, il crollo delle ideologie politiche e delle fedi religiose, e vedo nel contempo emergere nuove assiologie e nuovi strumenti di identità collettiva, al servizio di gruppi che
si
ritrovano attorno a qualcosa (un passatempo, un marchio, una merce,
un’azienda, una squadra di calcio, una community). I meccanismi nei gruppi umani sono sempre gli stessi, sia nei comportamenti che vengono adottati all’interno (scissione, attacco-fuga) sia rispetto all’esterno del gruppo, come le dinamiche di autodifesa del tipo “dentro o fuori”, miti fondativi, futuri vagheggiati, individuazione/creazione del nemico, teoria del complotto. Bisogni identitari, individuali e gruppali, perseguiti a quanto pare sempre attraverso l’alienazione da sé, nell’abbraccio fusionale rassicurante di un gruppo malamente materno.

La psicologia dei gruppi ci insegna come queste collettività sociali ristrette, cinghia di trasmissione tra l’individuo e la società ampia, debbano saper maturare al proprio interno un linguaggio sufficientemente articolato, in grado di veicolare contenuti affettivi potenzialmente distruttivi dell’identità personale e pubblica, al fine di permettere ai partecipanti del gruppo stesso il superamento del “noi” fusionale indifferenziato in cui ci si rifugia in cerca di protezione annientando la propria identità personale, per giungere attraverso profonde e dolorose prese di coscienza alla solidarietà interumana, al riconoscimento dell’unicità dell’Io che si confronta in modo consapevole con l’Altro, riconoscendo le proprie proiezioni e gli inganni difensivi, crescendo e arricchendosi di esperienza.

Troppo dolore, molto più facile fuggire nell’alienazione da sé.

Per il resto, credo sia possibile affrontare letterariamente, magari armati di buona semiotica, un confronto tra Piattaforma di Houllebecq e Cocaine Nights di Ballard: ci penserò.

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Isola della Rosa: una micronazione italiana

Anche l’Italia ha avuto la sua micronazione, negli anni sessanta.
La tipica piattaforma per ricerche petrolifere o simili, al largo di Rimini, dove tal Giorgio Rosa decise nel 1969 di aprire un ristorante e di emettere francobolli, e forse si favoleggiò di radio libere. C’era traffico, dalla costa verso la piattaforma, e viceversa.
Poi sono arrivati 4 (!) carabinieri e hanno fermato tutto, e poi ancora l’han tirata giù, con gli esplosivi.

Beh, da bambino avevo spesso questa fantasia, di fondare uno stato in giardino – e so questa essere idea comune; non si tratta tanto di essere re o cose simili, quanto di battere bandiera, emettere francobolli, coniare moneta, rilasciare passaporti… diciamo che si tratta della bellezza dei rituali, delle regole del gioco che tanto preoccupano i bambini verso i nove anni.

Republic of Rose Island – Wikipedia, the free encyclopedia

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Blogthings e stanze di legno

Ecco, ci sono ricascato. Un altro quizzetto su blogthings. Posso condividere l’idea del vagabondo (sempre stato, e con la Vespa mi viene proprio bene), un po’ meno quella del tipo “grounded”, a meno che invecchiando i gemelli perdano potere, e io mi stia muovendo verso l’altro segno della mia cuspidosa nascita cancro. Ma spero di tornare indietro, mi sento ancora un gemello di me stesso.

What Your Soul Really Looks Like

You are a wanderer. You constantly long for a new adventure, challenge, or eve a completely different life.

You are a very grounded, responsible, and realistic person. People may not want to hear the truth from you, but they’re going to get it.

You see yourself with pretty objective eyes. How you view yourself is almost exactly how other people view you.

Your near future is in a very different place (both physically and mentally) from where you are right now.

For you, falling in love has never been easy. You can only fall for someone who is very patient and persistent.

Blogthings – Welcome to Blogthings!

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Un logo su un giornale

Ad onor di questo blog, devo anch’io riportare la notizia: i supplementi tuttolibri e Tuttoscienze de La Stampa hanno una licenza Creative Commons.
Ripeto, che magari leggete di corsa i blog, visto che non sono libri: du eopere editoriali classiche escono con una licenza Creative Commons, di quelle che riguardano le modalità di distribuzione dei contenuti.
Sono con .mau.: speriamo sia il primo passo verso un cambiamento, nella mentalità e nelle cose.

Notiziole di .mau.: Tuttolibri sotto Creative Commons

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CC Creative Commons

Quasi quasi mi tatuo, metto su una chiappa (ok, sulla nuca) il logo della creative commons, il tondo con dentro CC.
Però poi mi tocca scrivere “Some rights reserved”, ché mica vorrei mi utilizzassero per fare gli spot e non mi arrivasse neanche un soldino in tasca

CreativeCommons.it | Creative Commons, un copyright flessibile per opere creative

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Farsi un blog su L’Espresso

Ierisera Mantellini segnalava alla 22.44 l’apertura dei blog per gli utenti sul sito dell’Espresso, ovvero chiunque passi per di lì avrà uno spazio tutto suo in cui esprimersi su argomenti di varia natura.
Sarebbe da interrogarsi sul senso dell’iniziativa, certo, ma credo ci sia da aspettare un po’, per vedere cosa succederà.
Già .mau. nei commenti a manteblog sottolinea “l’autorevolezza della fonte”, l’importanza della collocazione e le arie che si darà chi comincerà a dire in giro: “sai, il mio blog è su L’Espresso…”

Magari nasceranno dei nuovi giornalisti, “dal basso” come net-philosophy vuole, che riuscendo a richiamare (e mantenere) migliaia di persone sul proprio blog verranno notati dalla redazione del giornale, e magari assunti come collaboratori (spero senza richieste di iscrizione all’albo, senza contratti truffaldini)

Magari nasceranno centinaia di siti fuffa, volgarità, vacuità. Vedremo.

L’espresso | Blog

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Six degrees di separazione

Bene, c’è una teoria sociologica abbastanza famosa che parla dei “sei gradi di separazione”, ovvero in qualche modo misura le distanze fisiche e sociali tra le persone di questo pianeta.
Secondo questa teoria, se doveste dire qualcosa a G.W.Bush (personalmente avrei qualcosa da dirgli, sì) sarebbero sufficienti sei passaggi per recapitare il messaggio.
Telefonate a qualcuno che lo dice ad un altro che poi inoltra ed ecco che giorgetto ne viene a conoscenza. Il mezzo può essere qualsiasi, passaparola o telefono o lettera, i sei gradi rimangono validi.

Qui trovate i ragguagli wikipediani, che ci spiegano come la teoria risalga (accademicamente; letterariamente un po’ prima) alla fine degli anni ’60, quando fu portato a termine un esperimento riguardante la consegna di una lettera ad un destinatario sconosciuto. I crismi della ricerca sociologica lasciavano un po’ a desiderare, però lo studio fu ripetuto negli anni ’90 utilizzando internet e la posta elettronica, coinvolgendo un campione di decine di migliaia di mail, ed il risultato fu confermato: sei. In sei passi la vostra voce è dappertutto.

Allora cosa è successo? Che all’Università della Virginia, già un po’ di tempo fa, hanno deciso di scaricare il database di IMDB (il principale database del cinema mondiale) e provare ad incrociare i gradi di separazione degli attori mondiali. Dopo un po’ di ricerche, si è scoperto che Kevin Bacon costituisce un “nodo” della rete, perché ha recitato in numerosi film con attori sempre diversi, quindi il suo “numero di connessioni” è molto alto: ad esempio, usando il motore “Oracolo di Bacon“, ho scoperto che Nancy Brilli (il primo nome che mi è saltato in testa) ha un Bacon Number pari a 3.

nancy brilli
has a Bacon number of 3.
Nancy Brilli
was in Italia-Germania 4-3 (1990)
with Fabrizio Bentivoglio

Fabrizio Bentivoglio
was in Apartment Zero (1988)
with Colin Firth

Colin Firth
was in Where the Truth Lies (2005)
with Kevin Bacon

Se dovete dire qualcosa a Kevin Bacon, ditelo a Nancy, in tre mosse ci siete.
Qui Wikipedia parla di questo Bacon-giochetto, e si scopre che in realtà Sean Connery è un nodo già migliore, ma il massimo è Rod Steiger: passando per lui arrivate da chiunque in meno di tre passaggi.

Questo concetto risulta utile all’ingegneria delle comunicazioni, sia chiaro. Ad esempio nella progettazioni di un social networking, o negli studi del comportamento di un virus in rete.

“Sei gradi di separazione” è anche uno splendido film con Will Smith, del 1993 ( tre anni prima del Principe di BelAir, per intenderci), il quale potrà fugare sicuramente i vostri dubbi sulle capacità attoriali di questo rappettaro mainstream, che in realtà è un artista coi fiocchi.

UVA Computer Science: The Oracle of Bacon at Virginia

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Piermario Ciani

E’ morto Piermario Ciani, un artista che da anni viveva nel futuro, e leggeva bene le dinamiche della modernità.
Non lo conoscevo bene, ho giusto partecipato ad un ritrovo estivo a casa sua qualche anno fa, a cui vanno sommate delle belle chiacchiere in occasione di qualche evento culturale qui in Friuli, tra cui Topolò.

Ho letto però il suo libro, l’ho visto trasmettere passione ai ragazzi dell’Agenzia Giovani di Udine parlando di mail-art e grafica, ho incrociato il suo sguardo attento.

Riporto qui la mail spedita da WuMing

Lo abbiamo appreso pochi minuti fa, da una laconica e disperata mail di Vittore Baroni.
Dopo mesi di lotta e terapie, stanotte un male subdolo ha stroncato la vita iper-sinaptica di PIERMARIO CIANI.
Piermario era fotografo, grafico e mail-artista;
testimone privilegiato dell’avventura punk italiana;
leader della rock-band virtuale Mind Invaders, poi divenuta pseudonimo multiplo;
colonna portante del Luther Blissett Project e, prima ancora, di tanti altri progetti in network da cui LB prese le mosse (es. TRAX, Stickerman);
autore degli adesivi “blissettiani” che nel decennio scorso tappezzarono i muri delle città italiane;
tra gli inventori della celebre beffa a “Chi l’ha visto?” (1995) e delle beffe che costellarono la Biennale di Venezia 2005 (es. Loota, la scimmia pittrice);
fondatore (insieme a Vittore Baroni) delle edizioni AAA;
principale animatore della rassegna annuale “Stazione Topolò-Postaja Topolove.

Piermario aveva cinquantacinque anni. Nel 2000 aveva pubblicato una sorta di autobiografia/antologia/libro-oggetto, Piermario Ciani. Dal Great Complotto a Luther Blissett (AAA edizioni e Juliet Art Magazine). Celiando, l’aveva alternativamente titolato: “I miei primi cinquant’anni”. Purtroppo, altro mezzo secolo non seguirà. Quel libro è una testimonianza cardinale di mezzo secolo di underground italiano. Descrive le radici di quel che è seguito. La vicenda individuale di Piermario illumina un’epopea che va dalla dimensione locale (la scena punk del Friuli) a quella transnazionale (la mail art, il LBP, l’alba del web etc.). Duecentocinquanta pagine di meraviglie grafiche e autentico amore per la creazione.
A Piermario dobbiamo tanto, tantissimo. Il suo contributo è stato inestimabile. E’ un colpo durissimo, lascia con le labbra in preda a un formicolìo e il rimorso di averlo sentito di rado, negli ultimi anni. Ti appunti sempre: “Un giorno o l’altro lo chiamo… Appena ho tempo gli scrivo…” Sai che sta poco bene, ti informi, ti dicono che migliora, allora pensi: adesso lo chiamo, poi capita sempre qualcosa, e infine la notizia ti dà il capogiro e ti fa sentire una merda, l’ultimo dei vermi. Ti rendi conto di quanto gli volevi bene, di quali miracoli possa fare una rete: hai condiviso innumerevoli momenti con una persona che, fisicamente, hai incontrato soltanto una manciata di volte.
Piermario era – in senso buono – un piccolo patriarca, fin dall’aspetto una sorta di quieto capostipite biblico. Dai suoi lombi sono discese tante vite. Si lascia alle spalle una famiglia numerosa, a cui mandiamo queste impacciate condoglianze… e una famiglia allargata che copre tutto il pianeta: nelle prossime settimane, man mano che la notizia li raggiungerà, migliaia di artisti e attivisti riempiranno le reti con il loro dolore. Noi, con queste righe, cerchiamo di dare un apporto non di circostanza. Qui sotto proponiamo alcuni link, perché chi non ha conosciuto Piermario e il suo lavoro possa farsene un’idea.
Addio, Piermario.

Piermario Ciani: Maschingegno
I divertissments sessuografici di un artista totale
Blissett e non più Blissett
Intervista a Piermario Ciani
Fra arte e anti-arte
Intervista a Piermario Ciani
Le origini della mail art in Italia
Intervista a Piermario Ciani

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Topolò, arte sul confine

E’ arrivato anche quest’anno il tempo di andare a Topolò, per riflettere di arte e multiculturalità.
Vedete, Topolò è un piccolissimo paese di montagna, con le case fatte di sassi ed il tetto in legno, senza macchine, situato alla fine di una valle, e oltre solo boschi fino alla Slovenia, poche centinaia di metri.

Eppure in dieci anni di qui sono passati decine di artisti, anche di fama internazionale, che soggiornando qualche giorno, ispirandosi a ciò che trova intorno (architettura, vicende, dialetto sloveno, la natura forte, il silenzio, i riti, la strada che finisce) hanno lasciato come memoria delle opere e delle installazioni permanenti: non posso non ricordare gli “strumenti a perdifiato” disseminati per le stradine, ovvero dei tubi circolari di ottone di circa un metro, con cui bisogna interagirci parlando ad un’estremità e contemporaneamente avvicinando all’orecchio il terminale, per ascoltare la nostra stessa voce però rimbalzata per l’intero universo. Al fruitore decidere cosa narrare, per parlare con sé stesso.

Poesia, multimedia, situazionismi, immagini, installazioni sonore: per dieci giorni a Topolove (nome in sloveno) c’è di tutto, ma soprattutto si respira la ricchezza dello scambio culturale con persone di altre nazionalità, espressioni artistiche mai banali, e quel sentimento d’ospitalità che porta i pochissimi abitanti rimasti a condividere vino rosso con noi ospiti tranquilli e curiosi.

Stavo per andarci ieri sera, a vedere un documentario di un mio amico sulla storia dell’emigrazione friulana nel mondo, e ci sarei andato in Vespa, perché sappiate che non c’è nessuna stazione a Topolò; però gli altri anni ad un angolo delle ripide stradine c’era un tabellone della Solari, come quelli che si trovano negli aeroporti di tutto il mondo con le lettere mobili: chissà se c’è ancora, stasera o domani vado su e controllo. Perché una stazione dove le persone si incrociano e si scambiano sguardi e segni può benissimo essere in fondo ad una valle nel profondo nordest, dove binari non ne sono mai passati, ma le genti si mescolano e si conoscono da millenni, e i confini sbiadiscono.

Stazione di Topolò – Postaja Topolove 2006

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Beatles, Apple, Times (are a-changing)

Innanzi tutto, cerchiamo di ricordare: i Beatles sono dei poveretti, in confronto a quello che hanno venduto e tuttora vendono. Il buon Epstein aveva forse fiuto come pr e curatore d’immagine, ma dal punto di vista economico-finanziario si è fatto buggerare in lungo e in largo.

Notorio è l’episodio di quando andò a contrattare i diritti per la Capitol americana, ed esordì dicendo: “Non accetteremo meno del 12,5%”, al che i manager prontamente assentirono, visto che stavano per offrirgli il 25% su tutti i proventi delle vendite americane dei dischi del Favoloso Quartetto.

Oppure quella volta che affidarono tutto il merchandising per gli States ad un tipo ubriaco conosciuto in un bar (se avessi il diritto di vendere anche solo una spilletta con sopra la parola Beatles, vi scriverei dalla mia stazione spaziale orbitante).

Insomma, i Beatles hanno visto solo pochi spiccioli dell’immensa fortuna guadagnata, hanno avuto pessimi consiglieri ed amministratori che cercavano solo di fregarli, in piene visioni da acido hanno dato vita a progetti imbarazzanti, tipo comprare un intero building a Londra, dipingerlo di bianco e venderci solo abbigliamento di colore bianco, un negozio dove non serviva pagare e le impiegate telefonavano per farsi accompagnare a casa in limo mettendo tutto sul conto della Apple, dopo che loro e decine di altre persone avevano festeggiato tutto il giorno con cibo alcool e acidi offerti dalla casa.

Ecco, la Apple Corporation, l’idea finanziaria che avrebbe dovuto cercare di rimettere in sesto i conti dei Beatles. LE vere questioni volgarmente pecuniarie per cui di lì a tre anni, nel 1970, il gruppo si sarebbe sciolto. Non approfondisco il discorso, compratevi i libri o cercate in rete.

Senonché, fin dal 1978 la Apple Corps ha cercato di far causa alla Apple Computer, perdendo regolarmente. L’8 maggio 2006, l’Alta Corte ha sancito che l’utilizzo del marchio della mela, in relazione alla novità dell’iTunes Music Store, è legittimo, intanto perché è collegato al negozio, e non ai contenuti creativi musicali veicolati, ma soprattutto perché in un contratto del 1991 la Apple Corps aveva riconosciuto alla Apple Computers, al punto 4.3, il fatto che “alla computer company è permesso usare il logo mela in connessione con ogni forma di distribuzione musicale eccetto i formati fisici”.

Ahia, che batosta. Negli ottanta l’ex-negretto pedofilo (vedi foto) ha comprato i diritti delle canzoni e Paul si arrabbiò alquanto. I Beatles non ci sono su iTunes, non hanno mai dato il permesso per via dell’annosa questione. Hanno cercato di tutelare il marchio Apple, e non ci sono riusciti. Il mondi si è evoluto in direzione di formati immateriali, e loro non hanno saputo prevederlo. E ora Paul, Ringo e le vedove Lennon e Harrison devono pagare qualche milione di sterline per la causa persa. Sono 40 anni che cercano di tutelarsi, e non hanno ancora capito niente.

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Chi ha ucciso l’auto elettrica? Un mistero che sa di petrolio

Sul Messaggero Veneto di oggi Paolo Menis, consigliere regionale FVG, propone encomiabilmente delle soluzioni per le auto blu, suggerendo di rinunciare alla Lancia Thesis per concentrarsi sulle Alfa diesel che costano meno, e facendo notare come 2400cc di cilindrata siano sufficienti, non serve per forza avere un 3000cc per andare a zonzo.

Poi leggo questo articolo su repubblica, e penso al GPL, all’olio di colza (sarebbe meglio di canapa), alle auto a idrogeno di Grillomemoria o semplicemente a quelle elettriche, silenziose ed efficienti, una scommessa su cui era facile vincere ma nessuno ha voluto puntare.Dài Menis, un po’ di coraggio.

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CCC5

Ecco il sito del Comitato Contro il Corridoio 5.

Non perché io sia a priori contro il Corridoio 5, come ho già avuto modo di spiegare

ma per capire meglio le posizioni e l’impatto territoriale della questione (che per come è progettato attualmente, con un mostruoso tunnel di 20km sotto il Carso, è follia pura)

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