Archivi autore: Giorgio Jannis

Ospedale di Pordenone: fact-checking

Sappiamo quanto le battaglie di opinione che prendono le mosse da posizioni esclusivamente ideologiche possano essere addirittura controproducenti rispetto al cambiamento che intendiamo produrre nella società. La narrazione della Transizione, della decrescita, dell’economia solidale ha fatto giustamente ricorso negli anni a una cospicua produzione documentale, a eventi internazionali (Barcelona, Venezia) e locali per provare a “ricolonizzare l’immaginario” (Latouche) in direzione di una comprensione ampia delle implicazioni sociali di un simile mutamento.
In ogni caso, riportare il discorso sui fatti concreti e misurabili costituisce il modo migliore per ragionare tutti insieme, evitando fughe ideologiche.
A Pordenone bisogna decidere dell’ubicazione del nuovo ospedale.
Sospendete per un attimo il giudizio, e date una letta a questo documento (aperto ai contributi) http://ospedalepordenone.wikispaces.com/ pubblicato da Sergio Maistrello, pordenonese, riguardo i fatti relativi al nuovo ospedale. Poi prendete posizione, serenamente.
via RESFVG

OMG, lo streaming, che schifo

Vedo un po’ di gente (Orson, Amenduni, Costa, Cocconi) che si scaglia contro lo streaming dal Parlamento, e citano Barthes (linkando la pagina di wikipedia, poi) per la differenza tra erotismo e pornografia, e Goffman per i ruoli, e quell’altro per la disquisizione su cosa sia trasparenza, e la donna è più sensuale quando lingerie che quando è nuda.
E cosa volete fare, tornare indietro? Protocollare la mail di carta dall’usciere, prelevare i soldi solo in banca? Pagare un regista perché organizzi i flussi di trasmissione campo e controcampo e grammatiche varie? E’ così, punto. Oppure il Parlamento redige il Protocollo delle trasmissioni in streaming, questo sì e questo no. Perché è il Parlamento quello di cui stiamo parlando, e a me va benissimo che tutto lì sia completamente trasparente, ogni incontro ufficiale di commissioni e camere e mandati esplorativi.
Perché la trasparenza non è pornografia, non è oscena, non è ob-scena. C’è il senso del racconto, c’è la scenografia, c’è il contesto narrativo. Dentro la Rete, dentro nuove pratiche tecnosociali mediatiche, dentro nuovi modi di leggere la realtà. Solo che si tratta di cose mai viste prima dalla specie umana, e sta a voi rinnovare le vostre categorie estetiche, prime di definire oscena una rappresentazione che non sapete mettere in scena nemmeno come spettatori. Gente pagata per interpretare la realtà, che non è in grado di decodificare i contesti mediatici attraverso cui la realtà giunge a noi. Meraviglia.

BES, benessere equo e sostenibile

Tutto sul BES, il Benessere Equo e Sostenibile, per comprendere meglio la differenza tra sviluppo e progresso. http://www.misuredelbenessere.it

Il progetto per misurare il benessere equo e sostenibile – nato da un’iniziativa congiunta del Cnel e dell’Istat – si inquadra nel vivace dibattito internazionale sul cosiddetto “superamento del Pil”, stimolato dalla diffusa convinzione che i parametri sui quali valutare il progresso di una società non debbano essere solo di carattere economico, ma anche sociale e ambientale, corredati da misure di diseguaglianza e sostenibilità.

Dodici dimensioni del benessere rilevanti per il nostro Paese, 134 indicatori.

La piattaforma visualizza valori e andamenti degli indicatori in tre modalità: grafici, mappe e tabelle. E’ possibile inoltre scaricare le serie storiche, esportare i dati in xls o csv, eseguire confronti tra regioni e macroregioni su più indicatori. Si segnalano le funzionalità: Checkup che definisce stato di salute di una regione , Benchmarking che permette il confronto tre o più Regioni; Report che produce un file pdf con le informazioni degli indicatori presenti nelle dimensioni selezionate; Gap Analisi che mostra lo scostamento tra due regioni in riferimento agli indicatori di una dimensione.

Democrazia di prossimità

Mi chiedevo delle differenze tra democrazia rappresentativa e democrazia deliberativa (di prossimità), ho cercato un po’ in giro, qualcosa ho trovato. Sarebbe certo da intraprendere una bella discussione con chi ne sa di più.
Qui un articolo interessante riguardo le forme di democrazia su politicadomani.it
Qui un pdf sulla democrazia di prossimità e l’integrazione europea
Qui su LabSus Laboratorio per la Sussidiarietà un confronto tra vari esempi internazionali di democrazia partecipativa
Qui due esempi italiani: la democrazia di prossimità e le leggi regionali 67/2007 Regione Toscana e 3/2010 Regione Emilia Romagna
La finalità è quella di ragionare sulla possibilità di affidare a organizzazioni civili alcune grandi decisioni come il governo del territorio, le grandi infrastrutture, la tutela dell’ambiente. Altrove qualcosa si è realizzato: esempi di forme di partecipazione popolare di tipo deliberativo sono state adottate in Francia, con la legge sulla “democrazia di prossimità” che impone il dibattito pubblico per le decisioni di lunga durata; nel Nord America, dove si vanno diffondendo i “forum deliberativi” (nel senso descritto da J. Fishkin); in Gran Bretagna, con le “giurie cittadine” e le “commissioni civiche” recentemente promosse da Gordon Brown, che possono far valere le loro ragioni su questioni di pubblico interesse (sanità, infanzia, crimine).
E non sto dicendo niente che non sia già nell’articolo 5 della Costituzione, eh.
Art. 5
La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento.

Non è decrescita felice, è modernità.

Scrivevo su Facebook ierisera

Tutti invocano un cambiamento radicale, di sistema. L’economia solidale, come forma economica da affiancare all’economia di mercato prestando attenzione alla dimensione locale e alla qualità dell’abitare, costituisce una soluzione certa, insieme ai suoi strumenti quali decrescita e transizione. Ma come ogni cambiamento deve saper raccontare sé stessa, senza suscitare risolini presso chi ignora i suoi presupposti teorici, l’ampia letteratura scientifica su cui si fonda. Come sempre, un problema di narrazione.

 Oggi Renato Soru, riportato da Ivan Scalfarotto in un twit, dice che

Non è decrescita felice, è modernità.

Ecco che trovo risposte nella serendipità.
Questo serve. Trovare metafore, parole chiave, suggestioni e connotazioni calzanti e adeguate, per raccontare l’economia solidale e la decrescita.  

Decrescita, una soluzione tecnologica

Proposta di confronto su un progetto per superare la crisi e creare un’occupazione utile

La crescita è la causa della crisi (potrebbe esserne la soluzione?)
In un sistema economico fondato sulla crescita della produzione di merci la concorrenza costringe le aziende ad aumentare la produttività adottando tecnologie sempre più performanti, che consentono di produrre in una unità di tempo quantità sempre maggiori di merci con un numero sempre minore di addetti. L’effetto congiunto degli aumenti di produttività e della riduzione dell’incidenza del lavoro sul valore aggiunto comporta un progressivo aumento dell’offerta e una progressiva diminuzione della domanda di merci. Nei paesi di più antica industrializzazione questo squilibrio è stato accentuato dalla globalizzazione, che ha permesso alle aziende di delocalizzare le loro produzioni nei paesi dove il costo della mano d’opera è minore, per cui il numero degli occupati in questi paesi è diminuito e nei paesi in cui le delocalizzazioni lo hanno fatto crescere le retribuzioni sono così basse che non compensano la perdita complessiva del potere d’acquisto.
Il debito è l’altra faccia della medaglia della crescita
Lo strumento per compensare lo squilibrio tra incremento dell’offerta e riduzione della domanda insito nelle economie finalizzate alla crescita è stato il ricorso al debito, pubblico e privato, dello Stato e delle sue articolazioni periferiche, delle famiglie e delle aziende. La somma dei debiti pubblici e privati nei paesi industrializzati ha raggiunto circa il 200 per cento del prodotto interno lordo. L’incremento del debito è stato superiore alla crescita del prodotto interno lordo perché sul suo ammontare gravano gli interessi composti e i tassi d’interesse aumentano con l’aumentare del debito. Inoltre la sua espansione non ha limiti se non nell’emissione di carta moneta, la cui convertibilità con l’oro è stata sospesa nel 1971 e dipende soltanto dalla volontà politica, mentre la crescita della produzione di merci trova limiti oggettivi nella disponibilità delle risorse, rinnovabili e non rinnovabili, da trasformare in merci, e nella capacità dei cicli bio-chimici di metabolizzare gli scarti della produzione, che è stata ampiamente superata soprattutto in relazione all’assorbimento delle emissioni di anidride carbonica da parte della fotosintesi clorofilliana.
Le misure tradizionali di politica economica non funzionano più.
I tentativi di rilanciare la crescita economica effettuati da cinque anni a questa parte non hanno dato i risultati sperati. Secondo la visione ottimistica dell’attuale primo ministro tedesco, signora Merkel, per superare la crisi ne occorreranno almeno altrettanti. Il fatto è che la domanda è sostenuta in maniera determinante dal debito, per cui le misure di politica economica finalizzate a ridurlo deprimono la domanda e aggravano la crisi, mentre le misure finalizzate a rilanciare la domanda attraverso la crescita dei consumi lo accrescono. Per superare questa impasse, senza peraltro ottenere i risultati sperati, le misure di politica economica adottate sino ad ora nei paesi industrializzati sono state finalizzate a:
  1. ridurre i debiti scaricandone i costi sulle classi sociali meno abbienti e sui ceti medi, mediante drastici tagli alla spesa pubblica per i servizi sociali, riduzioni delle tutele sindacali dei lavoratori, licenziamenti e blocchi delle assunzioni che hanno penalizzato soprattutto le fasce giovanili, inasprimenti della fiscalità indiretta, cessione ai privati della gestione dei beni pubblici
  2. rilanciare la crescita finanziando col denaro pubblico grandi opere infrastrutturali, realizzabili soltanto da grandi aziende multinazionali.
Inasprimento della lotta di classe dei ricchi contro i poveri.
Questa strategia, peraltro fallimentare, per superare la crisi, è sostenuta da un blocco di potere costituito da tutti i partiti politici, di destra e di sinistra, che hanno la loro matrice culturale nell’ideologia della crescita di derivazione ottocentesca e novecentesca, dalle industrie multinazionali e dalla grande finanza, con un progressivo disprezzo delle regole democratiche a cui pure dicono di ispirarsi. Nei partiti politici di destra e di sinistra, le differenze sui criteri di distribuzione della ricchezza monetaria prodotta dalla crescita della produzione di merci sono sempre meno significative, rispetto alla sostanziale convergenza sulla scelta di scaricare sulle classi popolari e sul ceto medio i costi del rientro dal debito pubblico e di rilanciare la crescita attraverso la mercificazione dei beni comuni e un programma di grandi opere.
Le posizioni neo-keynesiane.
All’interno dell’obbiettivo comune di rilanciare la crescita l’unica differenza politica sulle strategie per raggiungerlo si verifica con alcune frange della sinistra, le correnti new labour e l’estrema sinistra, che sostengono la necessità di
  1. ridimensionare le misure restrittive finalizzate a ridurre il debito pubblico perché hanno un effetto depressivo e, quindi, in realtà lo aggravano riducendo le entrate fiscali;
  2. realizzare una più equa redistribuzione del reddito alle classi meno abbienti perché è l’unico modo per rilanciare i consumi;
  3. aumentare il prelievo fiscale alle classi più ricche per sostenere gli investimenti, con un’attenzione particolare alla cosiddetta green economy;
  4. incrementare la spesa pubblica per creare occupazione nei servizi sociali a vantaggio delle categorie sociali più deboli.
Un’incredibile rimozione collettiva.
Un’incredibile rimozione collettiva induce i sostenitori della crescita, a qualsiasi corrente di pensiero appartengano, a ignorare i legami delle attività produttive con i contesti ambientali da cui prelevano le risorse da trasformare in merci e in cui scaricano le emissioni dei processi produttivi e gli oggetti che vengono dismessi al termine della loro vita utile. Nella fase storica attuale la crescita non solo è la causa di una crisi economica da cui non ci si può illudere di uscire ripristinando le condizioni precedenti ad essa, perché non può non accentuare progressivamente lo squilibrio tra gli incrementi dell’offerta e la diminuzione della domanda di merci, ma anche di una gravissima crisi ambientale caratterizzata da un prelievo di risorse riproducibili superiore alla loro capacità di rigenerazione annua e da un consumo di risorse non riproducibili che ha ridotto pericolosamente gli stock di alcune di esse, in particolare le fonti fossili, dove il rapporto tra l’energia ricavata e l’energia consumata per ricavarla è crollato (l’e.r.o.e.i., Energy Returned On Energy Invested, del petrolio, che fino al 1940 era superiore a 100, nel 1984 era sceso a 8), mentre al contempo l’aumento delle concentrazioni di CO2 in atmosfera ha raggiunto una soglia pericolosa per la sopravvivenza stessa della specie umana.
Investire nelle tecnologie che riducono gli sprechi di energia e risorse naturali.
La scelta strategica per uscire dalla crisi aprendo una fase più avanzata nella storia dell’umanità è lo sviluppo delle tecnologie che riducono gli sprechi delle risorse naturali aumentando l’efficienza con cui si usano. Nei paesi industriali avanzati gli usi finali dell’energia sono costituiti al 70 per cento da sprechi. Se la politica industriale venisse finalizzata a ridurli, si aprirebbero ampi spazi per un’occupazione utile, i cui costi sarebbero pagati dai risparmi economici conseguenti ai risparmi energetici senza aggravare i debiti pubblici e privati. Lo sviluppo di queste tecnologie consentirebbe inoltre di attenuare le crisi internazionali per il controllo delle fonti fossili e la crisi climatica causata dalle emissioni di CO2.
La decrescita selettiva della produzione di merci è alternativa sia all’austerità, sia al consumismo irresponsabile.
Il rilancio del consumismo a debito, che comporta un aggravamento della crisi ambientale, non è l’unica alternativa all’austerità, che comporta un aumento della disoccupazione, privando del futuro le giovani generazioni e causando peggioramenti alle condizioni di vita delle classi sociali più deboli. L’austerità non è l’unica alternativa all’aumento del debito pubblico. La decrescita selettiva della produzione di merci, finalizzata alla riduzione del consumo di materia e energia a parità di servizi, è alternativa sia alle politiche di austerità, che aggravano la recessione, sia alle misure espansive di tipo keynesiano basate sul rilancio del consumismo a debito, che mettono in luce solo il collegamento tra più equa redistribuzione della ricchezza monetaria, crescita della domanda e crescita della produzione di merci, ma espungono dal loro orizzonte mentale la correlazione tra l’aumento del debito monetario, finalizzato a rilanciare produzione e consumi, e l’aumento del debito nei confronti della natura che ne consegue.
Una politica economica e industriale finalizzata alla decrescita selettiva della produzione di merci.
La causa scatenante della crisi, a partire dalla crisi dei mutui subprime che le hanno dato avvio nel 2007 negli Stati Uniti, è stato il numero crescente di case invendute. Lo stesso problema è particolarmente acuto in Spagna, in Irlanda, in Italia. Questa situazione per la prima volta dal dopoguerra ha rovesciato uno dei capisaldi dell’ideologia della crescita, sintetizzato in Francia dal detto Quand le bâtiment va, tout va. Oggi l’unico modo di rilanciare il settore dell’edilizia non è la costruzione di nuovi edifici che non troverebbero una domanda, ma la ristrutturazione, principalmente energetica, degli edifici esistenti, affinché riducano almeno di due terzi i loro consumi riducendo le dispersioni termiche. L’unico modo di affrontare la crisi dell’industria automobilistica non è l’illusione di rilanciare la domanda con l’offerta di nuovi modelli, dal momento che dagli anni sessanta ad oggi le automobili circolanti in Italia sono passate da meno di 2 milioni a oltre 35 milioni, ma implementare la produzione di microcogeneratori, che raddoppiano l’efficienza nell’uso dell’energia, ovvero dimezzano i consumi a parità di servizi energetici. L’unico modo di ridurre i costi dei generi alimentari (aumentati del 170 per cento negli ultimi 10 anni a causa dell’aumento dei prezzi delle fonti fossili, che incidono non solo sui trasporti, ma in tutte le fasi produttive dell’agricoltura chimica) è l’incentivazione dell’agricoltura biologica, stagionale, di prossimità, con vendita diretta dai produttori agli acquirenti organizzati nei gruppi d’acquisto solidale, che richiede un maggior numero di occupati, riduce l’impatto ambientale e il consumo di fonti fossili, contribuisce a ridurre i dissesti idrogeologici, ammortizza i maggiori costi di produzione bypassando le intermediazioni commerciali.
Il blocco di potere cementato dall’ideologia della crescita.
La classe dirigente dei paesi industrializzati è composta dall’alleanza strategica tra tre soggetti sociali cementati dall’ideologia della crescita: i partiti politici di destra e di sinistra che hanno le loro radici nella cultura industrialista e produttivista maturata nel corso dell’ottocento e del novecento, le grandi aziende multinazionali prevalse nel corso del novecento dalla competizione con le loro concorrenti, e il comparto specifico dell’alleanza tra questi due soggetti costituito dal complesso politico-militare. Il fulcro su cui questa classe dirigente fa leva per far ripartire la crescita sono le grandi opere pubbliche, che possono essere commissionate solo dallo Stato centrale, o dalle sue articolazioni periferiche, e possono essere realizzate solo da aziende multinazionali. Ma la crescita economica richiede consumi crescenti di energia e materie prime che si possono ottenere solo attraverso il controllo militare delle aree del mondo in cui si trovano. I sistemi d’arma necessari per esercitare questo controllo possono essere commissionati solo dai partiti politici che li ritengono necessari per garantire l’incremento dei consumi energetici, e possono essere prodotti solo da aziende multinazionali. Non a caso le politiche restrittive adottate per ridurre i debiti pubblici non hanno scalfito i privilegi della casta politica, non hanno tagliato i finanziamenti per le grandi opere pubbliche, né le commesse all’industria militare.
Una nuova cultura per una nuova alleanza sociale.
Una politica economica finalizzata alla decrescita selettiva della produzione di merci e del consumo di energia e materia mediante la riduzione degli sprechi, può essere promossa solo da forze politiche non condizionate dai vincoli dell’ideologia della crescita di origine ottocentesca e novecentesca e può essere realizzata solo da piccole aziende, professionisti e artigiani radicati nei territori in cui operano, in grado di effettuare una serie di interventi puntuali, anche di portata limitata. Il settore prioritario in cui occorre intervenire è la riduzione degli sprechi e delle inefficienze negli usi energetici, in particolare negli edifici, che assorbono quasi la metà dei consumi energetici globali e dove si possono ottenere, a parità di benessere, riduzioni superiori al 70 per cento. Una politica industriale finalizzata alla ristrutturazione energetica del patrimonio edilizio esistente offrirebbe opportunità di lavoro non altrimenti ottenibili a una miriade di operatori del settore e consentirebbe di accrescere l’occupazione in attività qualificate.
Avviare un confronto tra i potenziali sostenitori di un progetto politico finalizzato a superare la crisi mediante una decrescita selettiva della produzione di merci.
Una politica economica e industriale finalizzata alla decrescita selettiva della produzione di merci si può realizzare soltanto se si aggrega un’alleanza di forze politiche, sociali, imprenditoriali e professionali consapevoli del contributo che possono apportarvi con la loro cultura, le loro scelte comportamentali, il loro impegno sociale o ambientale, le loro competenze tecniche, la legittima esigenza di utilizzare a pieno i loro impianti tecnologici per produrre e dare lavoro. I soggetti sociali potenzialmente interessati a collaborare a un progetto di questo genere, sono i seguenti.
1. Le forze politiche non catalogabili negli schieramenti di destra e sinistra in cui si suddividono i partiti accomunati dall’ideologia della crescita, già presenti in alcune istituzioni. Un esempio emblematico si è realizzato nel Comune di Avigliana, in Val di Susa, dove alle elezioni amministrative del 2012 si sono presentate due liste. Una composta dall’alleanza tra il principale partito di centro destra e il principale partito di centro sinistra, accomunati da un programma a favore della realizzazione del treno ad alta velocità con la motivazione che darebbe un impulso alla crescita e all’occupazione.[1] Nella coalizione antagonista, che ha vinto le elezioni, sono confluiti i rappresentanti dei movimenti contrari al TAV a causa della sua inutilità e dei suoi costi, che proponevano in alternativa di indirizzare gli investimenti sullo sviluppo di attività lavorative a tutela del territorio e a ripristino delle devastazioni che ha già subito. Accanto ad alcune di queste esperienze locali è anche in corso di realizzazione un progetto di aggregazione politica nazionale che sta ricevendo una quantità di consensi superiore a ogni altro partito storico, sebbene la sua fisionomia sia ancora caratterizzata prevalentemente dalla contrapposizione al sistema di potere incarnato da quei partiti più che da un progetto di futuro. Ma le fasi di passaggio di epoca storica non sono mai lineari. I progetti di rottura e ricostruzione si chiariscono progressivamente e solo se sono in grado di catalizzare e far interagire le altre forze che al di fuori delle istituzioni, nei contesti sociali più disparati e nelle attività produttive, realizzano tasselli di un progetto con caratteristiche analoghe.
2. Le piccole aziende e gli artigiani, che attualmente lavorano per lo più nell’indotto delle grandi aziende multinazionali, o come contoterzisti. Costoro non soltanto non vedono valorizzato socialmente il loro ruolo produttivo, ma sono costretti a operare in condizioni sempre più precarie e con utili sempre più ridotti perché in questo modo le aziende multinazionali per cui lavorano riescono ridurre i costi di produzione e sostenere la concorrenza sui mercati globali. La liberazione delle piccole aziende e degli artigiani, che costituiscono il 99 per cento del’industria italiana, da questo ruolo subordinato all’interno dell’economia della crescita può avvenire solo se si ricrea una rete di rapporti commerciali diretti con gli acquirenti che vivono nelle realtà locali in cui esse operano. In questo quadro acquistano un’importanza strategica i professionisti, che costituiscono il canale di comunicazione tra produttori e acquirenti. E un’importanza altrettanto strategica hanno le piccole aziende agricole biologiche di prossimità che sono in grado di garantire la sovranità alimentare a differenza delle grandi aziende multinazionali del settore agro-alimentare, che agiscono sul mercato mondiale e sono del tutto indifferenti alle realtà locali in cui operano.
3. I settori del sindacato che non si sono piegati al ricatto di accettare la riduzione delle tutele, della dignità, della salute e dei salari dei lavoratori per consentire alle aziende multinazionali di sostenere la concorrenza sui mercati mondiali riducendo i costi del lavoro anziché i costi degli sprechi nell’uso delle risorse, o nella patetica illusione di attirare gli investimenti stranieri attualmente indirizzati nei paesi dove il costo della manodopera è molto inferiore, gli orari di lavoro molto più lunghi e non esistono le garanzie conquistare dai lavoratori europei nei decenni passati.
4. Le molteplici forme associative in cui si esprime il bisogno di contribuire al bene comune da parte dei settori più sensibili della popolazione, che non trovano nelle strutture dei partiti esistenti i luoghi in cui esprimere la loro cittadinanza attiva: gruppi di acquisto solidale, banche del tempo, comitati per la tutela del paesaggio, movimenti contro la realizzazione di grandi opere devastanti per i territori in cui abitano, associazioni di volontariato sociale e culturale, associazioni volontarie di comuni impegnati nella tutela del loro territorio e della qualità della vita dei suoi abitanti, gruppi dell’associazionismo cattolico e di altre professioni religiose, aziende operanti nel terzo settore, associazioni ambientaliste e di promozione sociale, comitati di genitori nelle scuole, reti dell’economia solidale e della finanza etica ecc.
Il Movimento per la decrescita felice invita questi soggetti a verificare se, sulla base delle riflessioni qui riassunte, sia possibile realizzare momenti di confronto comuni per collaborare ad affrontare una crisi, che non è solo economica e ambientale, ma una vera e propria crisi di civiltà.
Movimento per la Decrescita Felice

Prevedere il mondo

Nel 2008 scrivevo su questo blog una cosa intitolata alla Petabyte Age, seguendo le suggestioni di un articolo alquanto provocatorio di Chris Anderson: qui il link.
Là si trattava di riformulare l’epistemologia della scienza, perché nell’epoca odierna dei Big Data e delle capacità computazionali e algoritmiche il procedimento mentale e operativo del descrivere il mondo e prevedere le conseguenze delle modificazioni (roba di scienza, sì) è profondamente cambiato.
Estremizzando, non è più necessario porre una domanda al mondo e formulare un’ipotesi da falsificare, come il metodo scientifico ci insegna.
Semplicemente processando dati, quantità di dati incomprensibili e non analizzabili da pensiero umano (che non riuscirebbe a cogliere nessuna correlazione significativa in essi) è possibile comprendere azioni del mondo, e prevedere i comportamenti dei sistemi complessi. Complessità e semplicità della teoria esplicativa, oppure eleganza, di questo stiamo parlando.
E oggi il discorso torna fuori, trasportato sul piano della ricerca linguistica, nella contrapposizione teorica tra Norvig e Chomsky, per come appare in questo articolo qui pubblicato su Tor.com.
Se parlassimo di fisica classica come qualche secolo fa, oggi Keplero non avrebbe bisogno di porsi il problema dell’orbita dei pianeti, per confutare la loro perfetta circolarità biblica e ipotizzare la forma ellittica: sarebbe sufficiente chiedere a Google le coordinate delle singole posizioni dei pianeti attimo per attimo, e l’ipotesi ellittica emergerebbe semplicemente, come dato della realtà, includendo la prevedibilità dell’evoluzione del sistema.
E se parliamo di grammatiche e di linguaggi, non è più necessario come fece Chomsky cinquant’anni fa ipotizzare strutture generative profonde della mente umana già grammaticalmente orientate, per prevedere quali parole possono occorrere in una frase ancora da pronunciare. Per ogni sequenza di parole, posso statisticamente estrapolare da Internet la parola da aggiungere alla serie, la parola grammaticalmente adeguata, senza conoscere le regole della grammatica, senza possedere preventivamente una teoria riguardo il funzionamento del linguaggio e il significato stesso delle parole che sto utilizzando. L’approccio “Google” non è quello di sviluppare una comprensione più sofisticata del linguaggio, ma quello di raccogliere più dati sul suo funzionamento concreto (quello che si dice e si scrive nel mondo, ora in questo momento) per costruire database migliori, che garantiscano una maggiore predittività.
E’ il sistema che usano i traduttori automatici, i dispositivi di intelligenza artificiale attuali, che si concentrano sugli algoritmi di ricerca e non sulla comprensione delle grammatiche profonde del linguaggio naturale (che non essendo appunto un linguaggio formale, è in sé contradditorio, non sistematizzabile né descrivibile stando all’interno dello stesso. E uscire dal linguaggio per parlare del linguaggio è epistemologia squisita).
E’ necessaria la comprensione umana per stabilire la prevedibilità di un fenomeno? Se la risposta è no, allora la figura dello scienziato va profondamente rivista.

Da UdineSmart a PotenzaSmart

Una sorta di passaggio del testimone, un resoconto dell’esperienza realizzata a Udine nei primi giorni di dicembre 2012, per contribuire con qualche idea al convegno PotenzaSmart. 
L’articolo è apparso sul sito del convegno lucano, qui www.potenzasmart.it/non-ce-smart-city-senza-smart-community/

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“Da udinesmart a potenzasmart, con tanta simpatia”.

Giorgio Jannis, coordinatore comitato tecnico-scientifico #udinesmart, ci racconta l’esperienza fatta da loro.

“Non c’è smart-city senza smart-community” è stata la sintesi in forma di slogan emersa dal primo barcamp tenutosi a Udine nel 2011 sulle tematiche dell’innovazione tecnologica e dei nuovi approcci della comunicazione pubblica nella Pubblica Amministrazione.
Quel convegno informale (il modello “barcamp” si presta perfettamente a incontri pubblici contraddistinti dalla libera proposizione di idee e di suggerimenti da parte della comunità dei portatori di interesse) fu caratterizzato da una notevole partecipazione spontanea da parte di cittadini, professionisti e operatori culturali; al di là dei preziosi contributi alla riflessione collettiva si è potuta in tal modo costruire una solida rete relazionale tra persone e realtà territoriali pubbliche e private orientate all’innovazione urbanistica e alla diffusione delle nuove forme di e-partecipation a finalità civica.

Partendo proprio dall’esperienza del 2011 il Comune di Udine ha promosso nel dicembre 2012 il convegno#udinesmart articolato su due giorni e tre diverse location tematicamente connotate, per offrire alla cittadinanza un resoconto delle iniziative smart promosse dalla Pubblica Amministrazione locale, e al contempo sollecitare nuovamente la cittadinanza a partecipare in moto attivo alla progettazione collaborativa della Udine del ventunesimo secolo.
Il Comune di Udine per voce dell’Assessore all’Innovazione ha illustrato il successo del sistema e-Part, mappa interattiva per la segnalazione da parte dei cittadini delle problematiche urbane riguardanti a esempio la viabilità o l’arredo urbano, e contestualmente è stata annunciata la realizzazione in partnership con Telecom di una rete di connettività in fibra ottica FTTC di nuova generazione, che permetterà entro quest’anno una navigazione internet a velocità di 50Mb/s per imprese e cittadini (ben oltre le indicazioni dell’Agenda digitale europea, 30Mb/s entro il 2020), abbattendo i costi e riducendo l’impatto ambientale dei lavori grazie all’utilizzo delle infrastrutture fognarie.
È da segnalare inoltre per la sua rilevanza di dimensione nazionale la presentazione insieme a Riccardo Luna e Vittorio Alvino del sito web OpenUdine grazie al quale Udine è diventata la prima città italiana totalmente trasparente nei suoi processi amministrativi e direttamente monitorabile dai cittadini, secondo la filosofia OpenMunicipio, in direzione di un e-government efficiente e una e-democracy efficace.
Al nuovo museo cittadino di arte moderna si è tenuto #udinesm.art, dando appunto possibilità al fiuto degli artisti e degli operatori culturali locali di “fare il punto” e proporre riflessioni creative sui processi innovativi dell’abitare il territorio ora innervato dalle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, mentre presso le strutture cittadine di Friuli Future Forum della Camera di Commercio si è tenuta una tavola rotonda sul futuro del giornalismo 2.0, presenti direttori e responsabili di quotidiani locali e giornalisti di fama nazionale, per ragionare sui meccanismi editoriali moderni dell’informazione e della pubblica opinione.
La comunicazione dell’evento si è avvalsa anche dei media tradizionali nella consapevolezza che l’alfabetizzazione alla Cultura digitale, soprattutto nei suoi aspetti di partecipazione civica, deve intervenire laddove risulta meno diffusa, a esempio tra le fasce della popolazione tuttora ancorate al mezzo televisivo quale unica fonte di informazione. Sono state realizzate nove puntate (pillole della durata di sette minuti) del programma televisivo “Non è mai troppo digital” trasmesse da emittenti locali a cavallo dell’evento #udinesmart, per la sensibilizzazione alla tematica della smart-city e delle potenzialità offerte dalla rete internet alle pratiche quotidiane dell’abitare in territori connessi.
Una città è un hardware fatto di infrastrutture tecnologiche (connettività a banda ultralarga, wifi cittadino, sensoristica) su cui “gira” un software costituito dalla collettività che risiede su quel territorio, dai suoi comportamenti mediatici, dallo stile peculiare della sua partecipazione alla conversazione su temi di natura civica o amministrativa. Il convegno #udinesmart è riuscito a mettere in luce entrambi gli aspetti, promuovendo consapevolezza nella popolazione sui cambiamenti tecnosociali che portano ora a definire le città come “intelligenti” in quanto ottimizzate dalla tecnologia di connettività nella produzione e distribuzione di merci energia e informazione, in quanto capaci di offrire luoghi di socialità digitale per la comunicazione pubblica ove i cittadini possano partecipare in modo consultivo o decisionale all’amministrazione della cosa pubblica.

Smart-city = decrescita

Unisco due passioni, diciamo così.
Ovviamente la smartcity è da interpretare come relazione tra città e collettività che la abita, nelle sue competenze e conoscenze. Con il solito parallelo tra hardware (gli edifici, le piazze, la sensoristica, la fibra ottica, il wifi) e i comportamenti umani software (i flussi di merci persone e informazione, l’abitare i media e i linguaggi, l’esercitare cittadinanza attiva) è da porre l’attenzione alla relazione tra gli elementi, oltre all’analisi degli elementi. Come un buon informatico, che è tale quando pone l’attenzione tra risorse e programma, e quindi progetta. Come un antropologo, peraltro, come uno psicologo post cognitivista, come un linguista post strutturalista, come tutta l’intelligenza dei pensatori bravi della seconda metà del ‘900 ci ha insegnato. Porre l’attenzione alla relazione, e quindi al contesto. Quel qui e ora dove avviene pragmaticamente la comunicazione, con i suoi impliciti e i suoi non detti. Gli automatismi, le abitudini.
E un’abitudine da spezzare è quella della pessima aura che la parola decrescita si porta dietro, come diminuzione, povertà, riduzione, de- qualcosa.
Meglio morigeratezza, sobrietà, o comunque ottimizzazione delle risorse e dei processi per sfruttare le risorse stesse, la qual cosa è proprio la linea d’intenti di una decrescita correttamente intesa. Tramite strumenti come filiere corte, distretti di economia solidale, incontro locale domanda e offerta, democrazia di prossimità. 
Non pensate al perché, pensate al come. Siate un po’ tecnologi, visto che viviamo in ambienti tecnologici da almeno due milioni di anni, e non eravamo nemmeno uomini quando addomesticavamo il fuoco.
E qui parlo di sistemi, metodologie, meccanismi per gestire la complessità dei luoghi in cui abitiamo ora.
Luoghi che noi stessi abbiamo inventato, il paesaggio è un oggetto tecnologico tanto quanto un prosciutto o un sistema elettorale, e quindi si tratta di cose che abbiamo progettato e realizzato e via via migliorato nel tempo, migliorandone la tecnologia.
La smart-city (o porzioni di territorio anche miste rurali, non solo metropolitane: la connettività è indifferente alla geografia) è social, e la collettività è il motore e il destinatario, la qualità del vivere da perseguire. Si tratta di ambienti economici basati su relazioni umane, e la città connessa è il sistema operativo del funzionamento. E’ anche il luogo della coscienza collettiva, della pubblica opinione, della formazione delle identità, della loro negoziazione e patteggiamento in termini interpersonali e gruppali, è il posto dove gli accadimenti diventano fatti storici.
Ecco perché ottimizzare la smartcity è qualcosa che va in direzione della decrescita, perché ottimizza sistemi produttivi e distributivi di beni e servizi, perché incrementa e moltiplica la partecipazione della collettività alla vita pubblica, decrescendo da un sistema (meccanismo) di rappresentatività politica e gestione amministrativa del territorio molto verticale, roccioso, gerarchico, fortemente strutturato, a modalità più liquide, orizzontali, partecipative.
Non abbiamo ancora una grammatica ben fondata per padroneggiare i nuovi linguaggi della partecipazione permessi dalle nuove tecnologie di connettività, non sappiamo parlare bene e ci stiamo inventando le parole più adeguate a denotare i fatti del mondo, ma d’altronde sette anni fa non c’era neanche Facebook, e non sapevamo nulla, solo vagheggiavamo possibilità. Siamo nella culla, as usual.
Credo anche che possedere molti dati su quanto avviene sui territori geografici, a vari livelli di pertinenza (iperlocale, comunale, regionale, etc.), sui flussi di persone beni e informazioni, sia fondamentale e necessario per poter analizzare dinamiche abitative e progettare migliorìe. Open data ovunque, di ogni tipo, dati crudi e già rielaborati, sintesi e spaccati, tutti devono pubblicare tutto, per trasparenza, per contribuire a rendere di migliore qualità l’abitare.

voglio sapere TUTTO. Disaggregate i dati, fate quello che volete. Propongo tra l’altro la distinzione tra dati caldi (sensibili) e freddi (quelli insensibili ehehehe). Voglio sia possibile sapere tutto di un’area geografica. Voglio sapere cosa facciamo come collettività MENTRE viviamo, voglio saper CHI SIAMO. E quindi capir come ottimizzare i nostri comportamenti, uscire da nevrosi di massa, coltivare la nostra personalità, rifinire il nostro stile dell’abitare come muffa su questo pianetucolo, voglio un’identità.

Questo era un mio commento su FB, dentro una discussione un po’ bislacca e quindi piuttosto libera su una correlazione tra fasi lunari e reati o comportamenti “devianti”, un mio vecchio pallino, che mi ha portato a scrivere il presente post.

#papa is the new #papa

Metti che il papa si dimette o abdica o quel che è, partono immediatamente, anzi mediaticamente, centinaia migliaia di commenti.
I battutari sono meravigliosi, l’italia è piena di gente di spirito, twitter farebbe la felicità dei ghistwriter dei personaggi televisivi e dei baracconi della risata, facebook con più lentezza sta arrivando, migliaia di persone che si arrovellano per trovare il gioco di parole giusto. Meraviglia. Crowdsourcing del commento di cronaca in tempo reale.
Secondo me l’ANSA dovrebbe contestualmente alla prima notizia dell’evento proporre l’hashtag giusto, sennò certe perle si perdono.
Poi ci sono i commentatori seriosi, i link alla storia del personaggio, gli approfondimenti di diritto canonico, i latinisti sguinzagliati, i facili collegamenti con la situazione politica, il mondo del lavoro, eccetera.
E questo varrà per tutti i prossimi eventi del pianeta, per i prossimi decenni. Vado a leggere un libro.

Propaggini incongruenti

Chissà, credo di averne parlato anni fa qui o su altri blog dove scrivo.
Una distinzione tra diverse posture mentali, relativa all’educazione, allo Stato, all’etica, ai comportamenti.
Puoi educare con il senso di colpa, come noi latini, oppure utilizzando la vergogna. 
Il primo è un fatto privato, intimo, e richiede un confessionale (cultura cattolica), il secondo è un fatto sociale, non ci si può vergognare da soli, e sociale è anche l’espiazione del “peccato” (orrenda parola), dell’errore commesso. Morale vs. etica.
Nel nord europa vige la disseminazione di un’etica della responsabilità, ovvero si fa in modo che gli individui diventino con l’educazione consapevoli delle conseguenze delle proprie azioni, qui da noi si pone un limite, perché lo Stato è una mamma italiana che ti dice di non fare quella cosa e poi quando tu adolescente ribelle la fai lo stesso la mamma sotto sotto è compiaciuta dell’intraprendenza del figlio, un rabbuffo sorridendo e via, è uno scugnizzo taaaanto simpatico. Incongruenza tra le parole severe e i gesti affettuosi, e quale vuoi che sia il messaggio che passa ai giovani, sul piano educativo? Di fare le cose, soprattutto senza pensare alle conseguenze.
Quindi al nord le autostrade tendenzialmente non hanno limite di velocità massima, da noi sì. E poi nella pratica (fino al tutor, che ha modificato i comportamenti, ovvero con politiche sanzionatorie e non educative) tutti andavano lo stesso a 170 km/h.
E’ proprio una forma mentis, sia chiaro. Della collettività, dell’epoca storica, delle istituzioni. Lo Stato mammone che deve pensare maternalisticamente ai noi poveri adolescenti ribelli, e pone dei limiti per il nostro bene, senza responsabilizzarci, senza fornirci strumenti concettuali metacognitivi che ci rendano in grado di giudicare noi stessi e i nostri comportamenti, rispetto alla socialità, all’etica. Non cresciamo mai, restiamo impaludati nell’osservanza bigotta della regola e l’anelito alla ribellione fine a sé stessa.
Come nota giustamente Mantellini, anche l’ultimo bisticcio sull’app di SWG e il parere dell’AGCom di cui parlavo qui risente di questa postura mentale novecentesca (secolare, direi io, e andrei tanto indietro) dello Stato-Mamma. 
Ma fino a ieri le modalità di funzionamento della società (i processi di formulazione di leggi, i meccanismi della loro applicabilità, la creazione e diffusione di opinione pubblica, i flussi informativi, i percorsi praticabili di partecipazione civica, etc.) erano broadcast, e se spengo un ripetitore su una montagna lascio all’oscuro tutta una valle. Oggi abitiamo in Rete, se non passo per lì arrivo all’informazione da un’altra parte, da un altro nodo, da un altro server, da un’altra persona. E non funziona più.

La par condicio è figlia di un concetto di democrazia non matura che nella seconda metà del secolo scorso ha dominato il pensiero del legislatore: una elite illuminata (o presunta tale) che segnava nella notte il sentiero al popolo verso il buono ed il giusto; una forma di intrusione gentile nelle vite dei cittadini che l’etica cattolica ha molto favorito.

(nella foto, mio padre che fa un backup su carta. Dentro il suo universo di discorso, ha ragione)

Orchestrina del Titanic

SWG aveva ottenuto un via libera dall’AGCom per commercializzare una app riguardo i sondaggi pre-elettorali, anche durante il silenzio mediatico dei 15 giorni. La vende a 9.90€, è tra le più scaricate, quindi parliamo di migliaia o decine di migliaia di persone. Poi la marcia indietro, perché dice AGCom (e qui mi vien da ridere) “l’applicazione, nei termini in cui viene pubblicizzata, rende accessibile – previo il pagamento di un prezzo contenuto – il risultato dei sondaggi ad un pubblico potenzialmente molto vasto, con inevitabili effetti di diffusione incontrollata dell’informazione”. 
Poi ci sono anche altri che offrono lo stesso servizio, a quanto pare al riparo per il fatto di vendere l’app a pochi (seh), come scenaripolitici.com.
Come dire: finché lo venite a sapere voi che siete quattro gatti in un baretto, ok.
Ma quando mi accorgo che siete tanti, blocco tutto. Ah, AGCom, che cornice novecentesca quella dentro cui pensi e emetti sentenze. Quanto non capisci.
Se uno di quelli che compreranno il servizio, da SWG o da altri, mette in giro le informazioni sulle preferenze di voto (rete TOR, modi anonimi, passaparola, o anche smaccatamente) crolla tutto il palco. Cosa vuoi tener nascosto, un segreto di Pulcinella? Siamo in Rete, non siamo mica dentro un sistema dove se fai saltare un traliccio oscuri tutta una regione geografica. Sveglia. Quella legge non sta in piedi. Se si possono fare i sondaggi, si possono pubblicare.
E anche un altro esempio mi viene in mente, per mostrare quanto abitiamo in luoghi nuovi.
Una foto che vedo in internet, su facebook, dove si dice di mettere il proprio IBAN sulla scheda elettorale, se si vuole essere rimborsati dell’IMU. Ovviamente così facendo la si rende nulla. Cos’è questa, una campagna di disinformazione? Perseguibile? Se ho 5000 amici su FB, cos’è questo, un mass-media e quindi mi blocchi l’account? Questo blog?
Non regge. Niente, regge. Verrà giù tutto.

La scuola vista da Londra, Marte.

Mi capita, non abbastanza spesso, di prendere un aereo per andare a vedere come altri cercano di rispondere alle domande che mi faccio, più o meno quotidianamente. In questo caso la domanda è: “di che tipo di scuola hanno bisogno le mie bimbe?”.
Ho scelto il BETT a Londra, formerly known as the British Educational Training and Technology Show, ovvero una fiera sulla tecnologia nell’education inaugurata nel 1985 (millenovecentoottantacinque): un posto strano, dove ci sono migliaia di scuole che acquistano (ACQUISTANO) tecnologia, dove i responsabili scolastici dei VLE (Virtual learning Environment) cercano nuove soluzioni, dove le Università si confrontano attivamente sui MOOCS.
Si, lo so, il paragrafo precedente non è semplice per un lettore italiano: sarà che noi siamo abituati alle note scritte a mano sul diario, alle bacheche, al flauto, al laboratorio di informatica (per i più fortunati) dove si impara a schiacciare una tastiera. Sarà che da noi gli strumenti sono salvifici, e basta installare una LIM (la lavagna digitale) per sentirsi proiettati nel futuro; sarà che troppi dirigenti pubblici ancora pensano che comprare un po’ di tablet conferisca un titolo di modernità.
Un rappresentante del Governo inglese, certo non giovane ma straordinariamente competente, ha detto con chiarezza che l’education è la priorità: e ha detto che occorre formare gli insegnanti per avvicinarli anche ad un mondo del lavoro dove già si usano nuove tecnologie e nuovi modelli. Poi è arrivato un giovane, straordinariamente competente, che si occupa di valutare l’adozione di nuove tecnologie in tutti i settori pubblici del Regno Unito, ed ha intrattenuto la platea sui modelli che rendono più efficienti le attività di apprendimento.
Sia chiaro, non è la tecnocrazia ad affascinarmi: una buona scuola è fatta di bravi maestri, appassionati, dedicati ai loro studenti. Però, spesso, la passione è direttamente proporzionale all’attenzione che uno riceve, agli strumenti che vengono messi a disposizione, al riconoscimento sociale. Ecco, al BETT tutto è dedicato all’insegnante, metà dell’audience era fatta da insegnanti venuti per confrontarsi, imparare, chiedere; e non in una triste aula magna con un burocrate ministeriale, ma in un confronto con grandi innovatori, studiosi, professori.
Io non avevo mai visto una responsabile ICT di una scuola, peraltro donna e poco più che trentenne: una che ci ha spiegato come tutte le attività suBlackboard inaugurate una decina di anni fa siano oggetto di una profonda revisione, che segue una metodologia oramai consolidata di confronto con il corpo docente, gli studenti e le novità sul mercato. Per inciso ha detto, sorridendo, che la sua maternità ha determinato un aumento del lavoro per tutti i colleghi, determinati a partire quanto prima con strumenti più efficienti.
Poi ho incontrato anche qualche rockstar, come Daphne Koller di Coursera, una professoressa di Stanford che ha portato a frequentare corsi universitari online 2,5 milioni di studenti da 123 paesi del mondo. Ecco, Daphne ha affrontato, molto bene perché è tostissima, un vivace contraddittorio con insegnanti, professori, digital manager di università, maestri-blogger: gente preparata, consapevole, contemporanea.
Ecco, quello che mi colpisce è la normalità, la consuetudine con queste materie: il BETT è parte di un sistema, non è un folkloristico raduno di visionari ma un passaggio obbligato per l’attività di migliaia di formatori. L’industria inglese dell’education è florida, le scuole investono, il dibattito pubblico è continuo: con tutte le posizioni, contraddizioni e difficoltà che il tema comporta, la tecnologia non risolve ma, se ben usata, aiuta.
La normalità: è normale per dirigenti pubblici venire qui, per le scuole adottare sistemi gestionali moderni, per i bambini usare le tecnologie che li circondano. E ne ho visti molti di bambini, ovviamente quelli delle scuole più capaci e più attente: venivano a ritirare dei premi, tutti felici per aver creato la migliore applicazione, un software utile alla comunità. Un po’ di demagogia, un po’ di competizione tra scuole, ma tutto mi sembrava comunque stupendo, ubriacante; lo so, poi riflettiamo anche sul modello sociale, sulle scuole elitarie, sulle sperequazioni etc. etc. Ma davvero possiamo continuare a non fare nulla, procrastinare, prendere tempo? Non dovremmo, forse, prendere il (tanto) buono che c’è altrove e trovare un senso nostro, riflettendo sui rischi di confondere “educazione” e “conoscenza”, sui rischi di omologazione dell’insegnamento, sulle troppe spinte alla creazione di fabbriche in batteria di iperspecialisti per le aziende?
Non ho risposto alla mia domanda, ma ho qualche idea in più: io vorrei per le mie figlie insegnanti appassionati, consapevoli del mondo che sarà e capaci di prepararle alle novità. Vorrei che insegnassero loro il meglio del passato con modalità e strumenti contemporanei, e vorrei che una delle mie figlie mi dicesse, sognante, “io da grande voglio fare la maestra, come mia nonna”.
Perché mia madre è stata una straordinaria maestra, che a tre anni dalla pensione, una decina di anni fa, mi chiese di comprarle un computer e di spiegarle qualcosa: “posso non capire quello che fanno a casa i miei studenti?” Sarebbe venuta volentieri con me tra gli stand del BETT, a farsi fermare ogni dieci metri da venditori di software che, speranzosi, chiedono “Tu fai il maestro, vero?”.