Archivi autore: Giorgio Jannis

Overload

Non ce la faccio a stare dietro a tutto.
In queste ultime settimane il mio aggregatore sforna feed a bizzeffe, le conversazioni si intrecciano frenetiche, la blogosfera è esplosa, molti strumenti di supporto al blogging hanno moltiplicato i canali comunicativi e i contenuti, ci sono in giro decine di mashups interessanti, i vari barcamp diventano luoghi prioritari di frequentazione professionale, tre ore buone ogni mattina diventano il tempo necessario per restare aggiornato e tentar qualche commento.
Da qualche parte tre mesi fa, forse complici i primi barcamp, forse twitter, forse chissà cosa, si è prodotta una scintilla, un’accelerazione del sistema, un incremento dei link e dei meme, una svolta operativa e costruttiva.
Prima i blogger parlavano, ora si incontrano e fan nascere cose.Guardate Ritalia.it: come diceva qualcuno (scusatemi: è sempre colpa delle centinaia di feed in poche ore) il wiki dedicato alla riprogettazione del portale turistico italiano è già un manifesto dell’intelligenza professionale italiana, è forse il movimento culturale italiano più importante degli ultimi tempi. Dall’incontro a Milano nascerà la postura mentale del fare cultura web in Italia dei prossimi anni, i modi le cornici i contenitori di un pensiero finalmente abbastanza maturo per informare di sé la qualità della comunicazione italiana.

Adesso vado a scrivere un progettino e a curare un po’ le mail di lavoro: tra un paio d’ore tornerò, e decine di feed nell’aggregatore mi faranno l’occhiolino.

CitizenCamp

Il primo Barcamp a cui ho partecipato l’ho organizzato io; ma la circostanza in cui ActionCamp ha avuto luogo, ovvero nel corso di più giorni, presso la manifestazione Innovaction di Udine, in un padiglione fieristico arredato da MTV, mentre nelle sale a fianco Negroponte, Derrick de Kerckhove, Fitoussi, Ridderstraale, Padoa-Schioppa, Martin Bauer e Oliviero Toscani to name but a few giocavano a “tocca a me parlare”, ha reso impossibile lo svolgimento canonico della de-conferenza in programma. Avevo già stigmatizzato questa peculiarità di ActionCamp, puntando fin dal wiki a far leva sulle libere relazioni interpersonali, sulla chiacchiera informale e sul concetto di capannello di persone. Credo però di aver salvaguardato comunque gli aspetti fondanti di questa modalità camping di diffusione della conoscenza e dello scambio di idee tra le persone, tant’è che ho conosciuto in quell’occasione diverse persone qui del nord-est, teste ben funzionanti con idee ed approcci nuovi e stimolanti.

Per l’appunto, al CitizenCamp di Casalecchio/Reno ci sono andato in macchina con Enrico: chiacchiere interessanti già a 140km/h. Appena parcheggiato abbiamo incrociato Sergio, poi siamo entrati alla Casa della Conoscenza, edificio civico e biblioteca bello quanto il suo nome, in legno acciaio e vetro. Ho conosciuto Antonella, da tutti giustamente lodata per il lavoro organizzativo, Gaspar, Vitta, Antonio Sofi e altri, che leggo e a cui ora posso associare uno schema corporeo, oltre che rappresentarmeli mentalmente secondo il loro stile di scrittura su web.
Gli interventi sono stati all’altezza della fama dei loro autori, posso confermare; ho anche registrato qualche metro di video, magari riesco a montare un rap della giornata.

Ma vi parlerò di quello che non mi è piaciuto.
1. Troppo casino. Nel senso di rumore, confusione, openspace, suddivisione degli spazi tra luogo (luoghi) dell’esposizione e luogo della chiacchiera. Sarò stato io di umore strano, ma non sono riuscito né a concentrarmi bene nell’ascolto dei relatori né a godere del libero scambio di opinioni nelle pause.

2. Non ritengo buona cosa, per un BarCamp, allestire due o più sale di esposizione. Un BarCamp serve a diffondere idee con un meccanismo agile e nuovo, non può impostarsi come un convegno istituzionale, dove magari ad un certo punto appariranno anche i famigerati “workshop del pomeriggio”.
Visto che il pubblico, tolti i relatori, era formato da cinquanta partecipanti forse, chi ha parlato nella sala grande aveva spesso davanti un gruppetto davvero sparuto di persone, anche solo quattro o cinque. Nella saletta piccola invece parlavano i pezzi grossi della blogosfera, che già si conoscono tra loro magari da anni, fondamentalmente davanti ad un pubblico di amici o conoscenti. Atmosfera ottima, ma a spese della qualità complessiva dell’evento. Mi è sembrato che in modo informale e certo inconsapevole venissero allestiti meccanismi di inclusione-esclusione, basati sulle frequentazioni amicali di alcuni relatori (ed è naturale che questo accada) ma ingigantiti dalla suddivisione dell’area dedicata al CitizenCamp in due diversi luoghi di conferenza (e questo poteva essere previsto ed evitato).
Mi spingo più in là: credo che gli interventi nella platea, più simili a studi di caso, siano stati in generale più pertinenti rispetto al tema “politico” della Cittadinanza Digitale, rispetto alle relazioni presentate nella sala piccola, maggiormente centrate su aspetti tecnici o rivolte a fenomeni comunicativi mediatici o economici indubbiamente significativi, ma non perfettamente tarati sul titolo dell’evento.
La soluzione è senza dubbio da ricercare nell’unitarietà del BarCamp, dove tutti dovrebbero essere in grado di sentire tutti gli interventi, perché le buone idee possono venire da ogni luogo e non esiste la suddivisione in serie A e serie B, quando si tratta di Conoscenza. Certo una struttura espositiva sulla falsariga dei Pecha-Kucha potrebbe giovare: 20 slides per 20 secondi ciascuna, quindi 6 minuti e 40 secondi per ogni relatore più eventuale dibattito (se ci sono poi molte domande e risposte, l’intervento è interessante per manifesta folksonomy) potrebbe essere il tempo giusto per raccontare la propria idea, e permettere lo svolgimento ritmato in un unica sala capiente e ben attrezzata.

3. Bisognerebbe inoltre ufficializzare l’apporto dei “remoti”, renderlo visibile e auspicato. Non è giusto che chi segue da casa o dall’ufficio il Barcamp debba sentirsi un lurker. Magari proiettare sul muro vicino al relatore gli interventi spediti in twit, sms, chat, skype genera un delirio (ho già provato) e l’approccio va progettato e inscatolato per bene, però degli strumenti di partecipazione collaborativa a distanza possono senza dubbio essere predisposti e proficuamente impiegati.
L’altra mattina seguivo l’interessante conferenza a ReggioEmilia sugli utilizzi di Moodle magnificamente disponibile in audiovideo su web (qualcuno conosce un sw opensource tipo Breeze di Adobe?), e Pasteris mi ha fatto ridere, mentre eravamo in chat pubblica su Skype, perché mi diceva che io e lui sembravamo i due vecchietti che guardano e commentano il Muppett Show.

E adesso non mi rimane che capire se riuscirò ad essere anche a Vicenza per il TrainersCamp.
Se smisto due impegni, potrei farcela.

Report su Telecom

In molti oggi si sono dichiarati delusi – segnalo Gaspar, Bonacina e Aghost – dalla puntata di Report dedicata agli intrallazzi della Telecom e compagnia bella, andata in onda ieri sera.
A mio parere, si trattava di una trama così fitta e arzigogolata che al solo concepire una sceneggiatura in grado di descrivere ed argomentare tutti i retroscena, le piste parallele, i personaggi, le ipotesi, gli autori si sono resi conto che sarebbe servito Ariosto come copywriter e Orson Welles come regista.
Inoltre, come due volte affermato dalla Gabanelli, i dirigenti Telecom e altri personaggi chiave si sono rifiutati di fornire testimonianze o giustificazioni: conseguentemente lì a Rai3 han dovuto allungare il brodo con i filmati stile “Chi l’ha visto”, con i portinai e le signore affacciate alla finestra con il telefono in mano, per avvisare subito la cognata che un cameramen di Report le aveva inquadrate.
Però un appunto lo vorrei fare: perché non sono state sviluppate delle presentazioni grafiche, anche solo con mappe concettuali delle relazioni tra le persone o le società coinvolte, oppure con qualche disegnetto animato sui flussi di soldi ed intercettazioni?
Con misura, buon senso ed eleganza, avrebbero potuto contribuire alla comprensione della ragnatela intessuta da questi faccendieri di denaro pubblico.

A casa di Quintarelli

Quintarelli racconta sul suo blog dei giornalisti del Corriere che sono andati a casa sua ad intervistarlo, scoprendo come in realtà il salotto sia attraversato da continui flussi informativi molti-a-molti, e come la sua famiglia, senza distinzioni generazionali e grazie ad un po’ di tecnologia e ad uno stagnatore per modificare un settopbox, sia diventata l’avanguardia antropologica su cui bisognerebbe riflettere in questi giorni, per dare sostanza ai ragionamenti social.

Quintanews – Interviste e citazioni: 2007.03.26 Corriere della Sera – Alle figlie racconto che una volta il telefono era appeso

Da Espresso

Da vergognarsi.

spreconi

Spreconi punto itdi Federico Ferrazza e Letizia Gabaglio

Un sito turistico da 45 milioni. Altri 37 per un portale culturale. Più centinaia di costosissime iniziative locali. E migliaia di pc regalati agli onorevoli. Così la pubblica amministrazione getta i soldi on line

Per favore, visitate il sito Web, per favore visitate l’Italia. Per favore, visitate il nostro paese: noi vi accoglieremo calorosamente… Il tormentone corre sul Web con un video in cui il vicepremier Francesco Rutelli, in un inglese non proprio da Oxford, invita gli stranieri a venire in Italia. Il leader della Margherita parla dall’ultimo sito della pubblica amministrazione: Italia.it, il portale del turismo italiano pensato per ospitare tutte le indicazioni utili per visitare il nostro paese. Indicazioni che l’Italia pagherà a peso d’oro: 45 milioni di euro è la somma stanziata per il progetto, la cui piattaforma tecnologica (7.850.040 euro, Iva esclusa) è messa a punto dalle tre aziende che si sono aggiudicate il bando per la sua realizzazione Ibm, Its, e Tiscover. Una cifra impressionante soprattutto se si considerano i prezzi di mercato: con alcune centinaia di migliaia di euro al massimo si realizzano portali Internet con i fiocchi.

Il webmostro Italia.it è nato nella scorsa legislatura quando, nel 2003, all’allora ministro per l’Innovazione Lucio Stanca venne affidato il compito di sostenere progetti ‘di rilevanza strategica e di preminente interesse nazionale’. Così fu istituito il Fondo di finanziamento per i progetti strategici nel settore informatico. Per il periodo 2002-2004 il fondo ebbe 154,938 milioni di euro e nella finanziaria del 2004 si autorizzò la spesa di ulteriori 181 milioni e mezzo di euro per il 2004-2006. Con un decreto ministeriale del 28 maggio 2004, il progetto ‘Scegli Italia’ (poi divenuto Italia.it) venne finanziato: 45 milioni di euro, appunto.

Ma è in questa legislatura che il portale vede la luce. E il 20 febbraio 2007, ancora in fase di realizzazione, viene messo on line, in tempo per presentarlo alla Bit (Borsa internazionale del turismo), come fortemente voluto dal ministro per i Beni culturali Rutelli. Immediate le reazioni su Internet: molti blogger parlano di un progetto poco interattivo, con contenuti obsoleti e con evidenti errori di programmazione. Sul blog Scandalo Italiano (scandaloitaliano. wordpress.com), nato per l’occasione, ci sono gustosi resoconti di chi ha intrapreso un viaggio in Italia attraverso le pagine del portalone, pieno di errori, di traduzioni sommarie e con alcune stranezze (fra i personaggi toscani sono citati sullo stesso livello Dante Alighieri e il campione di scherma Aldo Montano…). E per il prossimo 31 marzo è stato organizzato un evento pubblico presso l’Università Bicocca di Milano (www.ritalia.eu) dove chiunque (programmatori, project manager, grafici, creativi etc) potrà intervenire per proporre migliorie al sito.

Ma Italia.it, in nome dello spreco digitale, ha pure un fratello gemello. Anzi, tanti fratellini. Infatti mentre nelle stanze del Ministero dell’Innovazione si preparava il sito turistico nazionale, nove regioni – poi diventate 12 – si mettevano d’accordo per realizzare, con le sovvenzioni dello Stato (legge 135/2001 “per il co-finanziamento di progetti dei sistemi turistici locali interregionali e sovraregionali”), un portale interregionale di promozione turistica. Capofila la Liguria, partecipanti: Basilicata, Calabria, Campania, Friuli, Lombardia, Piemonte, Puglia, Sicilia, Toscana, Valle d’Aosta e Veneto. La domanda delle regioni venne accolta nella Dgr n.3304 del 21 novembre 2003 che stanzia i primi 200 mila euro. Praticamente un doppione di Italia.it, realizzato inoltre con un approccio quindi esattamente contrario a quello del sito ministeriale che prevedeva un sistema di prenotazione gestito a livello centrale. Il progetto per il portale interregionale è stato preso molto sul serio dalle regioni coinvolte, che hanno investito milioni di euro nella realizzazione di quei siti regionali che dovevano essere veicolati dal portale sovraregionale. Così, per esempio, la Puglia a novembre 2006 ha presentato solo agli operatori del settore (ma si può vedere all’indirizzo http://138.66.34.243/turismo/) il suo portale, finanziato con 3.273.719 euro, come si evince dal documento di programmazione per il turismo della regione che destina per l’anno 2007 ulteriori 900 mila euro. Anche la Campania nel frattempo ha fatto il suo sito (www.turismoregionecampania.it) per un costo di 3,719 milioni (più altri 3,5 milioni di euro per un portale “di supporto all’Internazionalizzazione nel bacino mediterraneo”, finora non realizzato).

“Portali come Italia.it”, spiega Marco Calvo, amministratore di E-Text, azienda che realizza siti Internet, “possono essere messi a punto al massimo con un milione di euro. Il problema sta nelle gare per l’assegnazione del progetto che richiedono fatturati minimi (dell’ordine dei 100 milioni di euro) sempre più alti da parte dei proponenti. Possono partecipare quindi sempre aziende molto grandi che fanno pagare anche il loro marchio. Ma la storia dell’informatica dimostra che i prodotti migliori arrivano da aziende molto piccole: Google, Skype, Kazaa e altri software che hanno rivoluzionato Internet sono nati dalla testa di un paio di persone”.

Se il turismo genera sprechi pubblici in Rete, anche la cultura non scherza. Il caso di Internet Culturale (www.internetculturale.it) ne è un esempio. Nella scorsa legislatura per il sito vennero stanziati 37,3 milioni di euro (7,1 dal comitato dei ministri per la Società dell’informazione e 30,2 dal ministero dei Beni culturali) per un progetto di un motore di ricerca (che quindi rimanda ad altri siti) per versioni digitali di opere di pubblico dominio (libri, musica e così via). Un intento lodevole se non che la Rete è piena di iniziative pubbliche e private che già assolvono questo ruolo. Forse era sufficiente un semplice accordo con una di queste realtà per risparmiare un bel po’ di denaro. A realizzare la piattaforma del portale è stata la cordata formata da Ibm (azienda di cui era top manager Lucio Stanca prima di diventare ministro, e presente anche in Italia.it), Finsiel (società che dalla fine del 2005 ospita nel suo Cda Paolo Vigevano, ex capo della Segreteria Tecnica e consigliere politico di Stanca) e Società Servizi Bancari.

Mentre lo Stato spendeva 37 milioni, la Campania si faceva il suo sito culturale ad hoc (www.culturacampania.rai.it) costato altri tre milioni di euro. Peccato sia solo in italiano e per la promozione del patrimonio culturale campano non pare una scelta lungimirante.

Altrettanto antieconomico è il modo in cui sono stati realizzati i 657 siti Web che fanno riferimento ai 25 ministeri e alla Presidenza del Consiglio. Se infatti 300 appartengono al ministero degli Esteri con le sue ambasciate, gli altri 357 hanno i compiti più disparati e sono realizzati ciascuno con una grafica diversa e con tecnologie diverse: se si fosse usato un solo modello per tutti si sarebbero potuti risparmiare milioni di euro. Peraltro i siti non sono neanche costruiti nel modo migliore. Usando lo strumento di valutazione del W3C (il consorzio internazionale che fra l’altro detta le linee guida per realizzare siti Web accessibili anche ai disabili) ‘L’espresso’ ha per esempio osservato che 15 siti (14 ministeri più quello del governo) non rispondono a tutti i requisiti del W3C: fra questi ci sono quello del ministero degli Esteri, della Giustizia, della Difesa, della Salute, delle Politiche comunitarie e dell’Ambiente. Ci sono poi tutti gli strafalcioni e le sviste sui contenuti. Una per tutte: il sito del ministero delle Infrastrutture ha le informazioni sulla viabilità stradale, ferroviaria, aerea e marittima ferme al settembre 2006.

E pensare che nel 2002 il ministero per l’Innovazione e le Tecnologie aveva introdotto dieci obiettivi sui quali orientare le attività negli anni successivi. A distanza di cinque anni solo uno è stato raggiunto (firma digitale); cinque hanno superato il 60 per cento di realizzazione (servizi on line prioritari, trasparenza, mandato di pagamento, uso dell’e mail e alfabetizzazione informatica), due hanno superato il 30 per cento (Carta di identità elettronica e Carta Nazionale dei servizi e servizi dotati di un sistema di soddisfazione dell’utente); dell’obiettivo di svolgere un terzo dell’attività di formazione via Internet (e learning) non c’è traccia e dell’e procurement (acquisto-vendita di beni) il Cnipa (Centro nazionale per l’informatica nella Pubblica amministrazione) consiglia una revisione in toto del progetto.

Se poi dai siti passiamo alle stanze dei ministeri, si va di in male in peggio. Secondo il Cnipa per l’acquisto di beni e servizi informatici nel 2005 lo Stato ha speso 1.676 milioni di euro. La spesa si concentra sulle grandi amministrazioni: sei (Economia e Finanze, Tesoro, Giustizia, Interno, Difesa, Inps e Inail) hanno impegnato il 66,5 per cento della dotazione informatica. Guardando poi il numero di computer per dipendente ‘da ufficio’ (cioè con una scrivania e a cui un pc può dare una mano) si scopre che in quasi tutti i ministeri ci sono più terminali che lavoratori, con picchi degni di una azienda che sviluppa software. Al ministero delle Politiche agricole ci sono per esempio 2,4 pc per dipendente, agli Esteri 1,6, al Lavoro 1,4 e alla Salute 1,4. E, come se non bastasse, molti di questi computer vengono usati solo come macchine da scrivere: solo il 48,3 per cento delle postazioni della Pubblica amministrazione centrale è collegato a Internet. Ma anche se fossero connessi, quanti sarebbero stati in grado di usarli? Pochi, molto pochi. Fra tutte le amministrazioni centrali solo tre (Agenzia delle Entrate, Carabinieri e Presidenza del Consiglio) hanno più del 50 per cento dei dipendenti a bassa formazione informatica.

La spesa informatica per postazione è in media, fra le amministrazioni centrali, di quasi 4.500 euro, anche qui con dei picchi interessanti: l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura ha speso (nel 2005) 199 mila per postazione, un cifra da sommare ai 123 mila euro del 2004; alle Politiche fiscali hanno speso (nel 2005) 21mila euro, al Tesoro 11 mila e all’Istruzione 9 mila.

Non contento, lo Stato regala soldi a deputati e senatori per dotarsi di strumenti informatici: i primi hanno la possibilità di spendere fino a 3 mila euro in una legislatura, i secondi 4 mila. Denari pubblici con cui gli onorevoli si fanno un paio di ottimi pc portatile, presumibilmente, visto che in Parlamento hanno tutte le postazioni fisse che vogliono. Gli acquisti informatici della Pa vengono effettuati con trattativa privata per il 32 per cento del volume di spesa, con gara nel 30 per cento, e intorno al 28 per cento con affidamento ‘in house’, cioè tramite società di proprietà pubblica con cui le amministrazioni hanno un accordo (per esempio Sogei e Aci Informatica) e in convenzione solo per circa il 10 per cento della spesa. Per favorire la razionalizzazione della spesa il Consip, una società per azioni del ministero dell’Economia, è stato incaricato di stipulare delle convenzioni con fornitori scelti da esperti dell’ente sulla base del rapporto qualità-prezzo oppure attraverso un mercato virtuale (www.acquistiinretepa.it) dove i fornitori, una volta registrati, possono pubblicare i loro listini. Molto attivi su beni e servizi tradizionali, gli esperti del Consip non si sono però ancora misurati a pieno con il reparto informatico. Poche le convenzioni stipulate, ma anche sfogliando queste poche si può capire come il sistema di acquisto in convenzione, se solo fosse sfruttato a pieno, si tradurrebbe in un risparmio. Un pc da tavolo di ultima generazione con schermo piatto, per esempio, non costa più di 550 euro, stesso prezzo che si paga per un portatile. Il pacchetto Office di Windows, l’unico fornitore di software per ora considerato, costa intorno ai 300 euro. Ma senza convenzione, come vengono fatti la maggior parte degli acquisti, i prezzi schizzano. E, per esempio, per un pacchetto Office più antivirus si possono spendere quasi 800 euro.

Da queste cifre è facile intuire che i costi informatici potrebbero essere abbattuti. E di molto. Soprattutto guardando il software. Un’associazione di Caserta , la Hacklab, ha lanciato in merito una petizione on line (http://81100.eu.org/petizione/) che ha già raccolto quasi 5 mila firme per chiedere al governo di puntare più sul software open source (gratis e replicabile per tutte le amministrazioni a costo praticamente nullo) per abbattere gran parte dei costi degli applicativi che nel 2005 hanno toccato quota 474 milioni di euro. “Guardando le spese informatiche nella pubblica amministrazione”, dice Giorgio Sebastiano di Adiconsum, “viene da chiedersi: perché non c’è un unico software per tutti i comuni che per esempio gestisca l’operatività standard? Perché ogni comune ha fatto una gara per comprare un programma che sarebbe potuto essere acquistato a livello centrale consentendo risparmi notevoli?”. Un esempio sono i cosiddetti software Gis (Geographic Information System) utili per la navigazione. Ogni amministrazione, centrale o locale, ne acquista uno a un prezzo variabile, nella maggior parte dei casi, da circa 10 mila a 20 mila euro. Senza contare che ne esistono di gratis in Rete, lo Stato ne potrebbe acquistare uno da girare a tutte le amministrazioni. E invece ogni regione, provincia o comune conduce una trattativa separata.

Intanto le amministrazioni locali producono nuovi portali a suon di milioni. In Lombardia, per esempio, il sito della Regione (www. regione.lombardia.it) è costato 1.291.513 euro (790 mila finanziati dallo Stato). L’Italia è poi il paese delle piccole comunità ed ecco allora i progetti delle reti civiche. In Sicilia queste iniziative sono 46 per un totale di 33 milioni di euro di finanziamenti. Il valore unitario è variabile: da poco più di 160 mila euro del progetto per la rete civica di Alcantara presentato dal Comune di Roccella Valdemone al piano del Comune di Castrofilippo che, insieme ad altri 13 municipi della provincia di Agrigento, ha dato vita al progetto Mercurio per una sovvenzione di un milione. Oppure c’è il progetto Eureka del Comune di Siracusa, valutato 1,2 milioni di euro e oggetto di gara a gennaio 2006 aggiudicata per una cifra superiore agli 800 mila euro. Ma del sito, per ora, non ci sono tracce.

Not in my name

I cieli sopra Codroipo possono sorprendere. Sono unici in Italia: guardate in alto, e vedrete strisce di nuvole che si intersecano come scacchiere, degli “8” perfettamente disegnati, dei fiori di vapore colorati di verde, bianco e rosso.
Nel vicino paese di Rivolto ha infatti sede la Pattuglia Acrobatica Nazionale, ovvero le Frecce Tricolori, formata da dieci aerei che ogni giorno o quasi si alzano in volo per provare le figure e fare un po’ di esercizio. Su questa mappa, potrete apprezzare il fatto che la Pattuglia faccia le prove-colore anche quando è parcheggiata.La storia dell’Aeronautica Militare italiana è strettamente intrecciata al Friuli, per via delle solite vicende storiche: durante la prima guerra mondiale, dove credete volasse Francesco Baracca, con quegli aeroplanini di legno e fildiferro, a tirar giù con la mitragliatrice i nemici? Qui furono creati i primi aeroporti e scuole di pilotaggio d’Italia (Aviano, 1910; proprio qui infatti c’è la base aerea americana), qui arrivarono da tutta Italia ingegneri a loro modo geniali che esploravano le possibilità tecnologiche offerte dalle nuove macchine volanti, da Ronchi di Monfalcone (da quel momento in poi, Ronchi “dei Legionari”) nel 1919 decollò D’Annunzio con i suoi seguaci per compiere l’Impresa di Fiume, qui a Udine dagli anni ’30 l’Istituto Tecnico Industriale “Malignani” prepara gli studenti ad essere motoristi aeronautici ed avieri, diventando in seguito sede di un indirizzo scolastico specifico in aeronautica e forgiando con riconosciuta ottima qualità i quadri tecnici e dirigenziali, civili e militari, delle industrie italiane del settore.
Come dire, tutte queste iniziative hanno certamente contribuito alla nascita di una mitologia locale, la quale a quanto pare renderebbe il popolo friulano particolarmente ed orgogliosamente attaccato a queste suggestioni culturali, a questa poetica futurista della conquista meccanica del cielo, e a maggior ragione alle Frecce Tricolori che di tutto questo calderone di sentimenti ne assumono rappresentativamente il valore simbolico, catalizzando in sé il vanto patriottico e l’onore di ospitare sul territorio l’avanguardia tecnologica nonché l’eccellenza militare.

Poi arriva Lidia Menapace.
Un’ottantenne pacifista e antimilitarista (il vero cognome è Brisca), ex-partigiana, insegnante e scrittrice di saggi, femminista, senatrice, deliziosamente rompiballe. Comunista da almeno quarant’anni.
All’inizio del governo Prodi volevano farla Presidente della Commissione Difesa al Senato, e sarebbe stato bello, ma non se ne fece nulla perché nominare un’antimilitarista in quella posizione sarebbe stato un esplicito affronto alle Forze Armate, come giustamente sottolinea la Wikipedia, ed il coraggio non è certo tra le virtù di questo governo.

Già un anno fa la Menapace in occasione di una visita qui in Friuli per il 25 aprile aveva chiaramente espresso la sua contrarietà alle Frecce Tricolori: sporcano e fanno un casino pazzesco (vero), consumano e costano (verissimo: sono migliaia di euro di kerosene al giorno, per fare i giretti), non rappresentano certo l’avanguardia tecnologica italiana nel mondo (gli aerei sono della metà anni settanta, la tecnologia è quella della mia Vespa), sono espressione di aggressività militare (sono pur sempre dei caccia modificati), ed insomma da un punto di vista etico non rappresentano certo il miglior biglietto da visita che l’Italia può offrire, se proprio bisogna parlare di un marketing dell’immagine nazionale. Anzi, disse la senatrice, bisognerebbe proprio abolirle, le Frecce.
Finimondo. Insulti bipartisan. “Nessuno tocchi le Frecce, emblema ed orgoglio dell’identità friulana e italiana etcetc”. “Donna stolta, incapace di comprendere il significato culturale etcetc”.

Qualche giorno fa la scenetta polemica si ripete. Nuova visita in Friuli, nuove esternazioni contrarie alla Pattuglia della Menapace, nuova alzata di scudi contro l’eretica.
Da una sua lettere di oggi al Messaggero Veneto, leggo le testuali parole: “Lo confermo: credo che a uno Stato non si addicano le acrobazie ed il patriottismo espresso dalle Frecce, così di immagine e di propaganda”, e nel seguito della lettera aperta giustamente la senatrice prende in esame l’intolleranza con cui la sua proposta viene accolta; su questo argomento non sembra infatti possibile esprimere un’idea contraria.

A quanto pare, circondata da autorità con la visione culturale di un bambino delle elementari, durante l’esibizione aerea questi ultimi le chiedevano di continuo se non trovasse “belle” le Frecce, se ne fosse orgogliosa e se si fosse commossa. E qui si arriva all’apoteosi: nella sua lettera al giornale, la Menapace esprime il desiderio di veder sviluppato un gusto del bello meno legato al potere e alla sua magnificazione, meno legato alle cose che fanno rumore, occupano spazio, esprimono prepotenza. Si chiede se la questione è solo estetica o anche etica, ma evidentemente sa bene che “nulla ethica sine aesthetica”. Quanto all’orgoglio patriottico, dichiara che è inutile essere orgogliosi di qualcosa che non abbiamo scelto come ad esempio il luogo di nascita, e che sarebbe piuttosto orgogliosa che l’Italia primeggiasse nella “ricerca scientifica, nella frequenza scolastica, nei servizi sociali, nella lotta alle varie mafie”, piuttosto che sostenere un’ideologia guerresca, dove la Finmeccanica (testuali parole della senatrice, riportate per come ascoltate in Commissione al Senato) considera la Difesa un ottimo strumento per vendere armi nel mondo.

Non mancano nemmeno le considerazioni finali sul ruolo dei mezzi di informazione: denunciando le campagne di stampa strumentali di cui è stata oggetto, la Menapace è stata “investita da una serie di lettere, talora anonime, talaltra no, di insulti (da puttana in là), invio di mie foto deturpate, minacce anche di morte che rivelano quanto un’informazione tendente all’esagerazione e al sensazionalismo, invece che al ragionamento, produca un deterioramento culturale del quale certo non abbiamo bisogno”.

Quindi: politici bipartisan, se una vegliarda parlamentare gentile e lucida esprime delle posizioni, evitate di berciare ed insultare la persona, ma se potete opponete civilmente un vostro ragionamento, argomentando nel merito dei contenuti espressi.

Personalmente, posso capire che questi aerei che emettono fumo colorato possano riempire gli occhioni dei bambini di tutte le età che li stanno a guardare, ma decisamente non mi piace che siano il fiore all’occhiello delle Forze Armate, ed in quanto tali mi rappresentino in giro per il Mondo. Not in my name.
Innanzitutto smilitarizziamo la Pattiglia Acrobatica, e poi ragioniamo seriamente se mantenere in vita questo anacronistico e volgare biglietto da visita.

Melanconico englishman

Ieri sera sono andato al NoFun/LaCantina.
Suonava la Luzzi, e volevo salutarla e avendo la videocamera girarle anche un video di una sua esibizione live e poi spedirglielo. Pensavo che siccome era lunedì ci sarebbe stata poca gente, e quindi potevo inquadrare il palco stando un po’ più lontano, e migliorando di conseguenza l’audio.
Sapevo che avrebbero suonato lei e Ant, e mi immaginavo quest’ultimo personaggio a supporto della gentile front-woman. Erano le sette di sera, credevo di avere tempo davanti a me.Ho dormito sul divano fino alle 23.00.
Comunque determinato a videare, ho tenuto fede ai miei propositi e sono andato al NoFun.
Per scoprire che FRLuzzi con Marco alla fisarmonica aveva già cantato, e sul palco ci stava questo lungagnone english con chitarrina acustica e atteggiamento intimista; la musica mi piaceva, tutto sommato, le emozioni arrivavano, e Gaetano ha fatto bene a quietare l’eccessivo brusìo del pubblico, perché le canzoni richiedevano un’atmosfera adeguata. Lo spilungone inglese si chiama Antony Harding, in arte Ant, per l’appunto, quello che io pensavo fosse il supporter. Dopo il concerto l’ho trovato al banco, abbiam bevuto una birra, lui mi ha raccontato che vive in Svezia con la sua tipa, io gli ho chesto dove ha suonato in Italia. Abbiam parlato di Bologna, gli ho descritto il clima cultural-musicale della città rossa a fine anni settanta, e siamo arrivati via Clash a brindare in memoria di Joe Strummer.

Melanconico, pacato, occhi trasparenti e vivaci: si è rivelato una bella persona, Ant.
Ovviamente un pezzo di video l’avevo girato, mentre cantava; tornato a casa, cosa potevo fare alle tre di mattino se non un po’ di montaggio? L’ho pubblicato su YouTube (con il consenso dell’artista), lo metto anche qui.

CitizenCamp

Se riesco sabato vado fino a Casalecchio, e lì giunto mi metto comodo e ascolto gli interventi del CitizenCamp dedicato alla Cittadinanza non solo digitale. Magari mi porto la videocamera. Ovviamente, cercherò di partecipare, trattandosi di un BarCamp: farò delle domande, aiuterò a spostare delle sedie, qualsiasi cosa.

Perché il tema è terribilmente importante: come più volte ho cercato di sottolineare, le tecnologie – le TIC in particolare – sono vuote se non vengono concepite a dimensione territoriale e legate ad una collettività che è in grado di viverle normalmente, come il bancomat e l’automobile.
Se la tecnologia abita il territorio, gli Umana abitano la tecnologia. Tutto qui.

Dopo aver provato ad organizzare l’ActionCamp qui a Udine mi si sono moltiplicati i contatti con persone simpatiche, e conseguentemente anche le idee hanno beneficiato di un bel colpo d’ala. A Casalecchio spero proprio di divertirmi.

BarCamp / CitizenCamp

La scuola italiana è vecchia (e non solo l’edificio)

Da un articolo di Repubblica



La scuola sempre più ‘vecchia’ Over 50 la maggioranza dei prof – Scuola Giovani – Repubblica.it

Il “sorpasso” per la prima volta negli ultimi vent’anni

Irrilevante la percentuale di docenti giovani: un caso raro in Europa



La scuola sempre più ‘vecchia’ Over 50 la maggioranza dei prof

di SALVO INTRAVAIA



Insegnanti italiani sempre più ‘maturi’. Per la prima volta negli ultimi vent’anni gli ultracinquantenni rappresentano la maggioranza e anche gli over 60 ancora alle prese con registro, interrogazioni e compiti in classe crescono.

Sempre irrilevante in Italia la percentuale di maestre e prof giovani: nelle aule italiane rappresentano una assoluta minoranza. E anche i supplenti, che dovrebbero rappresentare il serbatoio per la scuola del futuro, invecchiano rapidamente mentre resta prevalente la presenza femminile.



La radiografia del cosiddetto corpo docente impegnato quest’anno è stata appena completata dai tecnici di viale Trastevere. Nell’anno scolastico in corso (il 2006/2007) il numero complessivo di docenti si avvicina alle 900 mila unità con precari in aumento e titolari in calo.



L’età degli insegnanti. Quest’anno, l’età media degli insegnanti di ruolo è di 50 anni (49,9, per la precisione) con un ulteriore incremento rispetto a 12 mesi fa di oltre mezzo anno. Tra le cause del rapido invecchiamento del corpo docente il risicato turn over imposto dal precedente governo e l’innalzamento dell’età pensionabile. E se qualcuno pensa che per ringiovanire la scuola italiana basti attingere dalle graduatorie dei supplenti è destinato a rimanere deluso. L’età media dei precari ha ormai superato i 40 anni e oggi, girando per i corridoi delle scuole, incontrare supplenti con i capelli bianchi e tutt’altro che una sorpresa.



I numeri. Per comprendere un fenomeno che ci allontana sempre più dai partner europei bastano pochi dati. Per la prima volta nel corso degli ultimi venti anni la classe docente a tempo indeterminato del nostro Paese è over 50. La percentuale degli ultracinquantenni con cancellino e gesso in mano è passata dal 49 per cento del 2006 al 52 del 2007. E gli oltre 40 mila insegnanti con più di 60 primavere sulle spalle (pari al 6 per cento del totale) la dicono lunga sul distacco esistente in classe fra giovani sempre più tecnologici e insegnanti che hanno studiato con penna e calamaio. I meno di 5 mila insegnanti under 30 (4.792, appena lo 0,6 per cento) costituiscono una sparuta presenza abbondantemente compensata da un numero simile (4.445 in totale) di docenti over 65.



Il confronto. Basta andare indietro di un decennio per comprendere come si è evoluto il fenomeno. Nell’anno scolastico ’97/’98 gli insegnanti con meno di 30 anni erano il 2 per cento e quelli con meno di 40 addirittura 23 su cento: quasi il doppio di oggi. Per converso, gli over 50 erano il 27 per cento, quasi la metà di quelli in cattedra quest’anno, e gli ultrasessantenni il 2,7 per cento. In pochissimi anni, da un rapporto quasi paritario fra gli over 50 e gli under 40 (1,2 per l’esattezza) si è passati a 4. Cioè, oggi, gli ultracinquantenni in cattedra sono il quadruplo di coloro che non hanno ancora spento 40 candeline.



La presenza femminile. A scuola sono decisamente le donne a farla da padrona che con la loro presenza surclassano i colleghi maschi. Sono infatti 8 su 10 le cattedra occupate quest’anno dal gentil sesso. Segno che per decenni l’insegnamento è stato uno dei lavori preferiti dalle donne, forse perché ritenuto non troppo impegnativo e perché consentiva di conciliare gli impegni familiari con quelli del lavoro.



Gli insegnanti europei. Il confronto con gli altri paesi (europei e non) è destinato ad impressionare. Secondo l’ultimo rapporto dell’Osce sui sistemi di istruzione e formazione in Francia, Corea, Irlanda, Inghilterra, Stati Uniti e Giappone il tasso di insegnanti non ancora trentenni supera abbondantemente il 10 per cento, con punte del 20 per cento in alcuni gradi di istruzione. L’Italia ne può contare un numero quasi venti volte più piccolo. (28 febbraio 2007)

La mia vita violenta

Una striscia di Manara, lunga migliaia di anni.

human_timeline.jpg (Immagine JPEG, 15941×261 pixel)

Update: su segnalazione di Maateo, mi accorgo che quei furboni di olandesi han cambiato l’indirizzo dell’immagine, il quale ora in effetti punta su una sanguisuga (che sarei io, perché mi hotlinko ad una loro immagine). Cretini. Cosa dovrei fare, scaricarla e caricarla su un mio server senza dir niente a nessuno, spacciandola per mia idea? O vorrebbero farsi dei soldi… e allora perché non mettono un banner e confidano nei cliccatori annoiati? Mah. Quasi quasi gliela prendo l’immagine, toh. Cliccate qui.

Kiss me, stubed

Tirar giù un video tempo fa eran bestemmie.

Trovarli sul P2P, scaricare. Oppure usare applicativi per fare uno streaming capture tortuoso.

Poi arrivò Youtube, e quelli tra noi ancora legati al possesso del bene, oltre ad aver capito l’importanza della fruizione del servizio, han cercato di avere comunque “fisicamente” il video sul proprio discofisso.

Allora vennero i siti web per scaricare i video di Youtube, poi ancora vennero le estensioni per Firefox.

Oggi è arrivato questo: KissYouTube.

Vuoi scaricare un video? Semplicemente premetti la parola “kiss” nell’indirizzo web del video che desideri, proprio prima di youtube.

Quindi, http://www.youtube.com/watch?v=aKSy5I3zsAA diventa http://www.kissyoutube.com/watch?v=aKSy5I3zsAA, e vi scaricate “Love Potion #9” dei Clovers, rifatta dai Searchers verso il 1963. Un pezzo amabile, da baciare subito.



La canzone parla infatti di uno che non trova una tipa dal 1956 (poco prima, al tempo della composizione), e allora porta i suoi problemi da Madame Ruth, una zingara con un dente d’oro, la quale gli dà la fatidica pozione magica, un filtro d’amore dagli effetti talmente potenti che il protagonista si ritrova a baciare il poliziotto all’angolo della strada. Sempre questione di baci, appunto.



KissYouTube – Download Youtube Video. Just add ‘Kiss’! Keep It Super Simple.

Vedo e prevedo, non so se stravedo

Senza tema di smentita, qui comincia un altro pezzo del nostro futuro.

Già la codifica video Mpeg4 lo prevedeva, già da qualche anno si parla di ipertestualità e audiovideo.

Sì, cliccare dentro il video, di questo sto parlando. Video hyperlink.

Ora metto la fotina, metto il link alla pagina Microsoft che con solito cattivo gusto mostra un primo utilizzo di questa tecnologia in chiave commerciale, e torno a concentrarmi sul mio futuro professionale: falegname o vivaista?







Microsoft adCenter Labs Demonstration



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Il sesso sbagliato dentro una guerra

Copioincollo semplicemente un post dal blog di Antonella Beccaria.
Serve a capire bene, con i numeri, cosa c’è di sbagliato in questo mondo, quali strade vanno intraprese subito, la pochezza culturale di molti uomini.

from Antonella Beccaria’s blog

Il sesso sbagliatoLa pubblicità pensa di aver rotto chissà quale tabù. In rete se ne è parlato senza mezzi termini. In tivvù l’argomento è inserito nella profonda seconda serata del sabato, ma è inserito. E oggi ricevo da Lorenzo Battisti – e ripropongo qui sotto – il suo scritto Il sesso sbagliato. Dal paragrafo “L’Italia – Viviana”:

Nel 2006, in Italia, ci sono stati 74.000 stupri. 14 milioni di donne italiane, da 16 a 70 anni, hanno subito violenze fisiche o psicologiche nel corso della vita. 6 milioni 743 mila sono state vittime di violenza fisica o sessuale (5 milioni hanno subito violenze sessuali, le altre hanno subito violenze fisiche o tentati stupri). 2 milioni 77 mila donne hanno subito persecuzioni. 7 milioni 134 mila donne hanno subito violenze psicologiche. 1 milione 400 mila donne sono state violentate prima dei 16 anni. Moltissime hanno subito sevizie da bambine e dallo stesso padre che le ha spesso vendute ad altri per altre sevizie. Oltre il 90% delle violenze subite non viene denunciato.

I giornali si occupano solo di stupri fatti da extracomunitari che costituiscono una minoranza, ignorando volutamente quelli commessi da italiani, che sono la maggioranza. La Chiesa finge anch’essa di ignorarli, come finge di ignorare gli atti di pedofilia commessi dai suoi sacerdoti ai danni di bambini, per cui negli USA un enorme scandalo ha travolto la Chiesa di Roma, con migliaia di denunce di abusi, compiuti anche da vescovi e cardinali, e milioni di dollari di risarcimenti. Malgrado questi incredibili misfatti, la Chiesa continua a non proteggere i bambini, così come continua a demonizzare e a emarginare le donne.

In Italia soltanto nel 2006 ci sono stati 203 stupri al giorno! Le donne sono dentro una guerra e non la stanno vincendo. Il 69,7% degli stupri è opera dei fidanzati e mariti! Queste violenze sono tali che in molti casi le donne hanno temuto di non uscirne vive e hanno subito ferite gravissime. Enormi le conseguenze psicologiche: senso di colpa, autodistruzione, atti masochisti, depressioni ricorrenti, perdita di fiducia e di autostima, senso di impotenza, difficoltà a gestire lavita quotidiana, idee di suicidio, autolesionismo. Le conseguenze sono più gravi quando l’azione criminale proviene da persone di cui si ci si fida e che abusano di questa fiducia.

La maggior parte dei violentatori appartiene a fasce sociali medio-alte e gli stupri vengono compiuti tutti i giorni. Mentre si punta il dito sullo “straniero”, vengono contemporaneamente perpetrati almeno altri 200 stupri da parte di italiani, ma nessuno ne parla, come se il maschilismo fosse, per incanto o per magia, scomparso dalla cultura occidentale. Nessun grido di allarme o di indignazione per i delitti quotidiani.

674 mila donne hanno subito violenze ripetute da parte del partner e, nella maggior parte dei casi, i figli hanno assistito ad uno o più episodi di violenza. La violenza psicologica viene spesso esercitata dai partner anche contemporaneamente a quella fisica e a quella sessuale. Si esplicita in forme di isolamento, forme di controllo, forti limitazioni economiche, umiliazioni, offese, denigrazioni, intimidazioni, ricatti, minacce. Si lede, così, la libertà e la dignità delle donne. Con la separazione non si risolve nulla anzi le violenze diventano più gravi perché subentra la vendetta del marito estromesso dall’ambito familiare.

È la civile Emilia Romagna la Regione più violenta contro le donne, seguita da Piemonte, Valle d’Aosta e Lombardia. Ma potrebbe essere solo che a Nord le donne hanno il coraggio di fare una denuncia e a Sud no. Teniamo conto anche che la legge punisce con processi durissimi le vittime, chi avrebbe il coraggio di affrontare una denuncia e un processo, sapendo che la sua durata in media sarà di sei anni e che in tutto questo tempo il persecutore sarà lasciato libero di vendicarsi? E che poi il delinquente non sarà nemmeno incarcerato? E magari il padre violentatore delle figlie sarà condannato agli arresti domiciliari?

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