Archivi autore: Giorgio Jannis

Barcamp efficaci

I BarCamp sono una cosa che i blogger sentono un po’ loro.

Nel senso (e procedo vagamente per inclusioni logiche) che fin dalle iniziali Un-conference o FooCamp i BarCamp sono storicamente la forma di convegno ideata e promossa da persone alquanto coinvolte nei settori sociali dell’educazione formale (università, o comunque laureati) oppure da lavoratori dell’IT,  spesso quindi di formazione scientifica, i quali a loro volta ovviamente sono stati tra i primi blogger esistiti e tuttora molti blog autorevoli (anche se magari non parlano più di tecnica, ma di cultura tecnologica o anche di comportamenti sociali legati ai nuovi mass-media) sono editati da professionisti informatici, gente che a colazione si pappa linguaggi di programmazione e TCP/IP come io caffè lungo di caraffa con una imitazione del buondìmotta ripieno di marmellata, che è più buona dell’originale.

Il BarCamp “appartiene” ai blogger, perché in Italia lo hanno fatto i blogger, viene tamtamizzato tramite blog e webpassaparola, presenta e si costruisce sugli stessi valori di comunicazione orizzontale, partecipazione dal basso, libertà di pensiero e di opinione, di fiducia nell’economia del dono quale garanzia dell’accrescimento e della condivisione dei saperi, di galateo online pragmatico che i blogger capaci di autocritica e metalinguaggio da tempo espongono quale propria assiologia di riferimento.

Al BarCamp ci vanno solo dei blogger, cioè gente cha ha un blog? Ecco una domanda da scriversi sul prossimo questionario in entrata al prossimo BarCamp: questo perché oltre a far aggiungere un link al proprio blog sul barcampwiki di riferimento, io farei proprio compilare un form essenziale ai partecipanti – e intendo tutti quelli che andranno lì quel giorno – giusto per cominciare a popolare dei database che fra tre anni sarà gustoso compulsare.

Al Barcamp si parla di contenitori web, di contenuti web dentro i contenitori web, di contenuti mondo dentro contenitori web, di contenuti mondo? Forse è ancora possibile fare dei BarCamp “puri”, appartenenti cioè esclusivamente ad una di queste categorie, ma in capo a qualche anno per molti la distinzione mondo/web perderà significato, e si parlerà in generale di “realtà” come infosfera soggettivamente e collettivamente vissuta. I BarCamp parleranno di mondo, e che il mondo sia un luogo cognitivo e affettivo fatto anche di web non stupirà nessuno.
Allo stesso modo forse non per molto ancora si potrà dire “barcamp ovvero il convegno dei bloggers”, perché i bloggers cominciano ad essere ormai di numero sufficiente a far esplodere qualsiasi peculiarità dell’etichettamento basato sul piccolo gruppo, dalle caratteristiche facilmente identificabili in quanto rilevanti (nel senso sfondo-figura) rispetto ad una socialità più ampia: nel senso che un barcamp diventerà un convegno, normale convegno, se un domani i blogger in Italia saranno cinque milioni.

I BarCamp sono in sé degli eventi sociali: vi convergono persone fisiche, si formano reti amicali e professionali, agiscono i soliti meccanismi di partecipazione ed sentimento di appartenenza che  scavano percorsi preferenziali nell’allestimento di categorie valoriali e schemi affettivi relazionali, esistono ormai rituali e cerimoniali (il cibo, il wifi, il reportage collettivo), uno sfondo mitologico, i primi semieroi, un’emozione condivisa, un centro di attenzione comune; più volte si è provato a riflettere sul modello del BarCamp, più volte si sono analizzati pro e contro, più volte si è provato ad indicare alcune migliorìe. Su IBlog e su Senzavolto trovo due recenti validi ragionamenti, qui ne parlai tempo fa, qui a Padova sono stato chiamato a raccontare qualcosa, e quindi sto saccheggiando il web per avere spunti di ragionamento.

Però volevo sottolineare che forse qualcosa si sta muovendo in direzione di una maggiore interattività dell’evento, oltre a chat spontanee a commento sincronico su skype o a dirette in videostreaming con supporto chat: questo applicativo TwitterCamp indicato da Giovanni Calia in pratica dispone su uno schermo tutti i twit ricevuti da un utente, cosicché durante un BarCamp potrebbe essere facile stabilire dialoghi polivocali, multi-loghi, e provare a sperimentare realmente nuove modalità di costruzione collaborativa della conoscenza. Non amo molto Twitter, ma vedrò cosa succede.
Quando cominceranno a diffondersi veramente modalità collettive di partecipazioni ad eventi  contemporaneamente fisici e mediatici, all’inizio ci sarà inevitabilmente confusione, mancando in noi le competenze per poter padroneggiare tale esplosione di flussi informativi contemporanei e paralleli, non possedendo i codici comunicativi su cui impostare comportamenti adeguati alla nuova situazione.
Ma ho fiducia nelle capacità adattive degli Umana, soprattutto riferendomi alla plasticità hardware e software del cervello: in fondo, anche il telefono (parlare con qualcuno non presente) credo abbia suscitato al suo apparire delle crisi esistenziali in molte persone.

Sempre mantenendo ferma l’idea che presenza fisica e presenza mediata degli interlocutori sono due àmbiti diversi, che in un caso la comunicazione assume caratteristiche che nell’altro non sono praticabili, e viceversa. Ma le tecnologie si integrano e si sommano, lo sappiamo.

Daniel Dura » TwitterCamp

Conosci te stesso

Ecco un video per l’educazione sessuale degli adolescenti (ma potrebbe aprire nuovi orizzonti a molte persone di ogni età).

Se presentato da una brava psicologa, potrebbe essere mostrato a scuola e commentato insieme alle ragazze della seconda classe delle superiori.

Per i maschietti, bisognerebbe prima creare il giusto clima, altrimenti con facilità si scade in gazzarra. Ci vuole più ehm tatto, e qualche strategia.



Ma si tratta di argomenti che vanno affrontati, con serietà e determinazione, insieme a giuste indicazioni sulla nostra conformazione anatomica e alla promozione della consapevolezza dell’affettività umana.



Il video, di taglio documentaristico, tratta del puntoG ed è molto esplicito: se ritenete che simili cose non vadano mostrate, se pensate che in tal modo si perda la magìa e la sacralità dei gesti d’amore, se non siete d’accordo che certe cose si debbano fare a scuola, se per voi la scoperta dei piaceri del sesso per i giovanissimi deve continuare ad avvenire nell’ignoranza e nel silenzio morboso della famiglia e delle agenzie formative istituzionali, non cliccate.


Inner, El Pendejo Trenológico: Video sobre como encontrar y estimular el Punto G en la mujer



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http://semioblog.tumblr.com/

E’ come quando qualcuno ti mostra all’improvviso le sue foto di una festa di quindici anni fa, dove c’eri ma non ti ricordi al momento nemmeno la festa e quindi figuriamoci che faccia avevi.

Frammenti di passato che ti saltano perturbantemente addosso.



Con Tumblr, io faccio così: intanto che navigo e vedo cose, clicco sul bottonetto [Share on Tumblr] che mi sono messo sulla barra dei segnalibri, e butto là.

Poi dopo qualche giorno vado fisicamente sul semioblog-in-pillole, e scopro chi son stato, attraverso le scelte che ho fatto mentre stavo facendo qualcos’altro.

Ecco Lennon parafrasato: “Tumblr è quello che ti accade mentre sei impegnato a bloggare”.

Perché bloggare è l’opera di un Io consapevole, che mette in bella forma (ehm) i pensieri, un Io che sa di star vivendo e lo dice con parole sue; mentre tumblerare accade, parla di te con parole di altri, ti scontorna e ti croppa, emergi in levare, svela il tuo essere narrando il tuo fare.

Poi lo guardo e mi sorprendo di chi sono stato, come le foto di quella festa dimenticata. S’aprono le porte dell’abisso: prendo paura.


[ semioblog ]





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Pandora e l’aquila (bicefala?)

Era simpatico, Pandora. Forse una delle prime applicazioni web che ci hanno fatto annusare il profumo fragrante del duepuntozero.

Sembra che io ne abbia parlato l’11 dicembre del 2005, ma il post devo averlo cancellato. Vabbè.

Fatto sta che adesso Pandora è costretta, sia per motivi giuridici sia economici, a riservare il proprio servizio ai residenti negli States, dove vengono versate le royalties per le licenze d’utilizzo.

Questo l’inizio della mail che ho ricevuto:

Dear Pandora listener, 

Today we have some extremely disappointing news to share with you. Due to international licensing constraints, we are deeply, deeply sorry to say that we must begin proactively preventing access to Pandora’s streaming service for most countries outside of the U.S.

Prima, a quanto pare, non tracciavano gli IP; adesso sì, e quindi negano il servizio alla maggior parte del pianeta. Vabbè.

Aspetteremo che si risolva la questione delle licenze, e poi continueremo a scoprire con Pandora i gruppi e i cantanti che assomigliano “geneticamente” a quelli che ci piacciono. Oppure arriverà qualcun altro, a svolgere lo stesso servizio.

No, non faccio battute sul vaso di Pandora. Però la speranza rimane, e l’astuzia c’entra alquanto. Anche il dono della conoscenza, ora che noto. Dell’aquila americana ho già parlato nel titolo, rimane solo da nominare quell’Hermes a cui sacrifico parole, come scritto qui a destra, in fondo.

Aggiornamento, 4 maggio, 22.24: usate un proxy, ovvio.

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09 F9 11 02 9D 74 E3 5B D8 41 56 C5 63 56 88 C0

Riprendo stavolta un post di Gaspar, dedicato al craccaggio (?) della crittografia dei DVD-HD.

La storia è tanto semplice quanto istruttiva. La crittografia del DVD-HD è stata craccata in no time e viene resa pubblica la chiave di crittazione di tutti gli ultimi film rilasciati in quel formato (09 F9 11 02 9D 74 E3 5B D8 41 56 C5 63 56 88 C0). E fin qui, ordinaria amministrazione.

La storia compare su digg. Gli amministratori ricevono una DMCA Takedown Notice dalle Major di Hollywood e tolgono la storia. Decine di utenti scontenti ripubblicano e vengono tolti. Migliaia di utenti inferociti ripubblicano, e Digg cede.

Il fondatore di Digg dichiara sul blog:

“But now, after seeing hundreds of stories and reading thousands of comments, you’ve made it clear. You’d rather see Digg go down fighting than bow down to a bigger company. We hear you, and effective immediately we won’t delete stories or comments containing the code and will deal with whatever the consequences might be.

If we lose, then what the hell, at least we died trying.”

Applausi, sipario.

Ora, Digg non è l’ultimo blog di periferia. Gestendo milioni di contatti, credo abbiano fatto un pensierino sulle implicazioni e sugli effetti comunicativi della propria politica di pubblicazione.

Inizialmente, per evitare grane dopo l’ingiunzione delle major, hanno rimosso quelle poche decine di segnalazioni “spread the code” di quelli che potevano essere considerati furbetti o smanettoni oppure provocatori; poi le segnalazioni sono state migliaia, per diffondere il codice di crack ormai pubblico.

A quel punto Digg, e il cambiamento di atteggiamento diventa comunicazione politica, ha abbracciato la causa, assumendosene le conseguenze, e forte del sostegno popolare ha indossato i panni di RobinHood/Zorro/Paperinik per lottare contro le potenti corporazioni hollywoodiane, sciocche entità economiche che costruite sopra un pensiero molto unopuntozero pensano di poter bloccare i mille rivoli della comunicazione su web con lo strumento della censura.

Interessante anche la posizione “eroica” esplicitamente assunta da Digg, ammantata patemicamente di orgoglio e temerarietà, espressa sul piano discorsivo dal ricorso al luogo narrativo classico del “se perdiamo, che diavolo, almeno moriremo provandoci”.

Aggiornamento, ore 18.38: se volete, ora c’è anche la canzone “Oh nine, Eff Nine” (però potevano metterci almeno delle immagini statiche sotto, no?)

Gaspar Torriero gone verbose

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Come una piccola etichetta cambierà la forma dello scibile

Riprendo un post di Federico Fasce. Sottoscrivo.

Quello che la folksonomy aggiunge alla descrizione del campo semantico di un termine è proprio lo zeitgeist, la fotografia del significato di una parola in un dato momento della storia dell’uomo. E mi pare un significato non di poco conto. Forse bisognerebbe iniziare a registrare il timestamp dell’inserimento di una tag (e alcuni lo fanno, vedi flickr) per avere una migliore idea dell’evoluzione di un significato nel tempo.

Kurai

Paesaggi antropici sonori

Nova24 Ora!: Cacciatori di rumori perduti

Cacciatori di rumori perduti

Sul numero di Nòva oggi in edicola un articolo di Michele Fabbri ci racconta una nuova moda nata sul web: internet sta diventanto un archivio dove conservare la memoria del suono. Stanno nascendo molti siti che archiviano voci quotidiane che provengono dal paesaggio.

Cliccando qui potrete per esempio ascoltare il suono emesso da un ciabattino ottuagenario che vive in un paesino delle Dolomiti (ritratto nella foto a sinistra), uno dei tanti casi raccolti dal progetto Acoustic environment in change

 Continuando a leggere questo post, invece, troverete i link per raggiungere i migliori siti che si occupano di preservare l’esistenza dei suoni in via di estinzione.

Ascoltare la voce di lavandaie in Vietnam, stazioni ferroviarie o rumori del porto di Vancouver. Ma anche comizi per strada, musica popolare. E ancora, squillo di vecchi telefonini e voci di motori. Ecco tre link da non perdere:

www.quietamerican.org
www.radiantslab.com/musiek/phonography
http://freesound.iua.upf.edu

Quest’ultimo ha una sezione molto interessante: cliccando qui – infatti – potrete ascoltare i suoni e scoprire la posizione geografica di provenienza grazie all’integrazione con Google Hearth.

Stili

da Oltre l’e-learning by Gianni Marconato
Predichiamo costruttivismo e razzoliamo istruzionismo

Brent G. Wilson nel suo eccellente libro del 1996, “Constructivist Learning Environments”, un libro che ha influenzato non poco il mio pensiero (spero non tanto “debole”), proprio in apertura (pag. 4) offre una illuminante ed autorevole rappresentazione di come diverse visioni della conoscenza influenzino le nostre visioni dell’istruzione (instruction).

Wilson afferma che:

  • Se pensi che la conoscenza sia una quantità oppure un pacchetto di contenuti che aspettano solo di essere trasmessi, allora, il tuo orientamento sarà quello di pensare all’istruzione come un prodotto da essere distribuito attraverso un veicolo
  • Se pensi che la conoscenza sia uno stato cognitivo come viene riflesso negli schemi e nelle abilità procedurali di una persona, allora, il tuo orientamento sarà quello di pensare all’istruzione come ad un insieme di strategie didattiche finalizzate a modificare lo schema di quel individuo
  • Se pensi che la conoscenza sia un significato personale costruito nell’interazione con il proprio ambiente, allora, il tuo orientamento sarà quello di pensare all’istruzione come ad una persona che lavora con strumenti e risorse all’interno di un ambiente ricco
  • Se pensi che la conoscenza sia un processo di acculturazione o di adozione di modi di vedere e di agire di gruppo, allora, il tuo orientamento sarà quello di pensare all’istruzione come ad una partecipazione alle attività di tutti i giorni di una comunità;

Con questo post chiudo la serie sulla coerenza tra tra pensiero dichiarato ed azione, sulla molteplicità delle visioni e delle pratiche e sulla necessità di rendere esplicite e consapevoli le nostre “teorie implicite”.

La legge sulle intercettazioni


Qui trovate le impressioni di Filippo Facci sulla nuova legge di Mastella sulle intercettazioni e sulla cronaca giudiziaria.Qui trovate le impressioni di Marco Travaglio sulla nuova legge di Mastella sulle intercettazioni e sulla cronaca giudiziaria.

Per par condicio, linko le opinioni di due tipi che dicono?, sembrano?, essere di destra, ma sostengono due visioni contrapposte. Quale occasione migliore di capire meglio le cose?

Su Mastella taccio, ho già scritto il suo nome tre volte in questo post.

 

Della moglie di Frankenstein ovvero la tecnologia umanizzata

Prendo spunto da un post di Bookcafè, il quale a sua volta richiama un articolo di Repubblica.

“Gardner sostiene che il 21simo secolo appartiene alle persone che sono in grado di pensare in un certo modo e che chi non è in grado di sviluppare queste capacità è destinato a soccombere – professionalmente e socialmente – in un mondo sovrabbondante di informazioni, dove per fare la scelta giusta occorre farsi guidare da capacità di sintesi o da intuito ben allenato.”Gardner ha certo un’idea di quale sia quel “certo modo”, ma comunicarlo a quanto pare è difficile per tutti. Senso della sintesi o intuito, visione olistica e sincretica di chi vede gli alberi e il bosco nello stesso momento, di chi segue una scia olfattiva con la stessa sicurezza con cui di solito con gli occhi seguiamo la segnaletica stradale. Passerà ancora del tempo prima che nasca una epistemologia esplicita per “navigare nel mare di Internet”, e una teoria filosofica capace di comprenderne appieno il senso antropologico. Tra l’altro, avete notato?, questa metafora del web come mare è già vecchia: non si tratta più di un luogo dove andare e da cui poi tornare a casa sulla terraferma, come marinai con una rete piena di informazioni… si tratta come oramai sappiamo di un luogo in cui ci si diverte e si lavora, si chiacchiera, si costruiscono cose che riguardano persone e comportamenti, un ambiente di vita dove si abita permanentemente, ciascuno con il suo stile nomadico o stanziale, oppure una mescolanza delle due cose.

Ecco, metafore. Queste sì oggi ne servirebbero, capaci di far comprendere, in modo decisamente olistico, la radicale differenza di un mondo planetariamente connesso, capaci di far comprendere a molti, in termini professionali, la rivoluzione epocale che la specie umana sta affrontando, dove queste nostre generazioni per prime abitano i nuovi territori online. Per chi pratica ad esempio formazione sulle TIC – in azienda, a scuola, negli Enti locali – questa competenza va resa disponibile, va raccontata e mostrata e suscitata negli altri.
Quali metafore narrative usare per causare un simile cambiamento di comportamento percettivo, per innescare un nuovo abito comportamentale?

Per illustrare il nostro essere Nuovi Abitanti ho visto Gaspar Torriero a CitizenCamp proporre la metafora del pesce del Devoniano, ovvero la prima creatura un po’ evoluta che abbia provato ad avventurarsi sulla terraferma, e la similitudine regge, almeno per la sua capacità di sottolineare la radicale diversità dei nuovi ambienti di vita.
Per quanto riguarda invece il funzionamento del meccanismo, l’idea della “conversazione” sembra suggestiva, ultimamente. L’argomento qui riguarda l’idea-meme della “conversazione” quale modo migliore di intendere i sistemi complessi, si tratti del mercato o di internet, dei territori, della collettività in presenza o online.

Tratteggiare le dinamiche online comunicative e comportamentali come conversazioni vuol anche dire renderle più normali alla percezione, farli rientrare in un mondo manipolatorio dove le regole per agire sono da me ben conosciute in quanto parlante.
Diciamo che si tratta di una ri-naturalizzazione, tenendo però ben ferma l’idea che la “naturalità” è artificio, ars e techne che nascondono le tracce del loro passaggio.

La manovra retorica scelta, quindi, ci fa scegliere uno stile nei percorsi formativi, dove cerchiamo di avvicinare l’alieno oggetto/competenza da suscutare/trasmettere ai destinatari, vestendolo di conosciuto.

Tutto ciò può andar bene per suggerire dei modelli di funzionamento dei comportamenti umani complessi, ma ho dei dubbi sulla bontà di questa manovra retorica quando riferita alle tecnologie e alle tecnologie TIC in particolare.. Soprattutto se questa strategia mira esplicitamente a rinaturalizzare l’oggetto in un contesto percepito come naturale.

Il nostro non è un mondo naturale, è un mondo tecnologico, da millenni. Il nostro pensiero sostiene le proprie impalcature utilizzando tecnologie dell’intelligenza.
Perché seguitare a voler vedere le cose come aliene, per poi dover ri-camuffarle da naturali per renderle fruibili?
Preferirei alquanto, per rigor di logica e per bellezza estetica del fare, che fosse piuttosto pronta da subito, fin dalle scuole elementari, una competenza nelle persone, che le abitui a vedere e a riflettere sul carattere costruito degli ambienti di vita, sulle loro peculiarità di trasformazione e distribuzione/connessione di energia materia ed informazione.

Questo andrebbe raccontato: noi viviamo in un mondo tutto tecnologico, tutto intorno a noi è frutto di secoli o di giorni di continuo lavoro umano sull’ambiente, sugli oggetti e sulle persone. I manufatti, l’ambiente antropico, il linguaggio della tecnologia, la cultura tecnologica tutta reca una propria epistemologia, dove il mondo è tecnologico, io sono innanzitutto Homo Technologicus, ed il pensiero che pensa questa modernità fatta di ubiquità (oggi in almeno tre posti: quello fisico, quello creato dal cellulare che mi rende raggiungibile sul pianeta, quello del web dove allestisco identità e partecipo a conversazioni) è naturale, è connaturato al mio pensiero.
I fossi dei campi e i libri, le filiere produttive ed il cibo, gli alberi che vedo dalla finestra e lo schermo che ho davanti agli occhi sono tutti oggetti tecnologici. E la mia mente usa “tecnologie” per nominare e gestire la realtà. Io sono un artefatto.

Pensare invece di vivere in un mondo naturale, dove qua e là spuntano oggetti da cui proprio non è possibile levare la patina di “marchingegno tecnologico”, porta a camuffare questi ultimi, con una mossa che chiamo “la moglie di Frankenstein”, con vaghe caratteristiche emozionali o cognitive di tipo conosciuto, perché si tratta di umanizzare il mostro. L’alieno, per meglio dire.
Voler vedere la tecnologia come Altro da me, proprio la tecnologia che è ciò che fonda il mio essere umano, per poter poi avvicinarla nominandola malamente.

Nel campo della formazione al significato delle TIC tutto questo mascheramento della tecnologia costringe la sceneggiatura del formatore a considerare una prima parte destruens, volta a smantellare panico e pregiudizi, per poi costruire il clima friendly: un giro dell’oca. “Non preoccupatevi di conoscere l’html, sui blog è proprio come scrivere, al massimo fate copiaincolla da Word”.
Procedure per riposizionare l’oggetto nella mente dei discenti, degli interlocutori, camuffandolo e mentendo per renderlo digeribile. Quanta fatica, e quale errore pedagogico, nell’allontanare la comprensione dei fondamenti epistemologici della Cultura Tecnologica.

La tecnologia è la cosa più umana che c’è.
A volerla umanizzare ci si complica la vita.
Meglio lavorare sul contesto che sul messaggio.
Finché la scuola e gli insegnanti continueranno a pensare YouTube come informatica, non ne verranno a capo, tra l’altro: vedete a cosa porta una falsa coscienza?

Grillo ed economia del racconto

Beppe Grillo: [dopo un’impietosa carrellata sui santoni anzianissimi dei quotidiani italiani] “L’informazione con i vermi non è un bello spettacolo. Puzza a tal punto che devono darla gratis, nessuno la compra più. Ma a pagarla siamo sempre noi con le nostre tasse. E’ ora di dire basta alla informazione assistita dallo Stato, ma a libro paga di politici e finanzieri. Chi vuole presentare una proposta di legge per abolire il finanziamento pubblico ai giornali si faccia vivo. Il blog è in ascolto.”

Da che mi ricordo, mi sembra la prima volta che Grillo usa esplicitamente e in modo “preventivo” il serbatoio dei suoi lettori come massa critica, come coro greco capace di sanzione etica sulle azioni del protagonista cioè sulle azioni del politico coraggioso.
Grillo non è l’eroe della storia – la storia del cambiamento sociale italiano di questi anni – piuttosto rappresenta nel racconto la figura dell’opponente, ovvero quell’aiutante magico provvidenziale che spesso si palesa inizialmente nelle storie come contrapposto all’eroe (sulla superficie del testo si tratta infatti di un giullare); in seguito ad una piccola prova di acquisizione di competenza (un sapere, in questo caso) da parte del protagonista, gli regala tre pietre magiche capaci di renderlo, che so, invulnerabile alle fiamme del drago.

Grillo non ha intenzione, nelle sue stesse parole, di essere e fare il politico, l’eroe: sua intenzione è aprire gli occhi ai cittadini sulla stupidità degli uomini, sulle possibilità della tecnologia, sullo sperpero e sulle furberie dei potenti. Con questa mossa de “il blog è in ascolto” chiama però a sé nell’economia narrativa un ruolo ancora diverso, quello appunto di “portavoce del sanzionatore” raffigurato da una collettività ampia. Non solo ti diciamo dove stai sbagliando, o politico, ma valuteremo il tuo voler-fare quello che Noi riteniamo giusto.
Vedremo.

Internet, la città, la rete sociale

di Sergio Maistrello

Da Apogeo, giugno 2006

Che cosa resta della retorica dell’innovazione alla fine della tormentata primavera elettorale? Poco coraggio e molta dispersione di risorse, soprattutto. E se all’amministrazione pubblica applicassimo le stesse intuizioni che stanno alla base di Internet? Il territorio come rete, il cittadino che dialoga, il municipio come social network: un’ipotesi tra Simcity e Monopoli.

Col referendum confermativo sulla riforma costituzionale, si chiude un lungo e a dir poco sofferto periodo elettorale. Qui, su Apogeonline, si era aperto con una riflessione di Andrea Granelli sulla retorica dell’innovazione, così presente e al tempo stesso così assente dai programmi elettorali dei partiti politici alla ricerca di un voto. Il bilancio, tre mesi e tante parole dopo, non è confortante. L’impressione, per farla semplice, è che la via all’innovazione suggerita nei programmi politici della collezione primavera-estate 2006 sia ancora saldamente ancorata alla retorica di inizio 2000: le autostrade dell’informazione, il divario digitale, i corsi di informatica per i cittadini. È chic e impegna poco, ma soprattutto non serve.

E dunque, visto che si avvia alla conclusione questa stitica stagione di realpolitik e si può ricominciare finalmente a progettare un mondo migliore, proviamo a tracciare uno stato dell’arte per il governo della complessità attraverso tecnologie nuove ma a misura d’uomo. Immaginiamo, per esempio, di essere il sindaco di un comune italiano di medie dimensioni che si pone il problema di come tradurre in pratica questa benedetta innovazione. Abbiamo due scelte a disposizione: possiamo inseguire faticosamente le buone pratiche altrui, disperdendo a pioggia un budget che per definizione è contenuto; oppure possiamo immaginare di prendere tutti i soldi a disposizione e investirli in un progetto complessivo in grado di anticipare (per una volta) l’innovazione e dare vita spontaneamente a buone pratiche. Visto che questo è l’equivalente di Simcity e i soldi sono come quelli del Monopoli, prendere la seconda strada richiede soltanto un po’ di immaginazione.

La prima considerazione è che abbiamo un bene scarso, la connettività, e un bene talmente abbondante da andare sprecato, l’informazione. Affrontare il primo ci mette nelle condizioni di dominare il secondo e mettere in circolo esperienze e competenze altrimenti disperse. Si tratta, in altre parole, di trasferire la complessità di un territorio in un ambiente in cui la gestione sia più agevole: per fare questo è necessario – ricorrendo a una locuzione che piace molto alle amministrazioni locali – fare rete. Questa volta però non è una metafora: si tratta proprio di posare un po’ di cavi, montare punti di accesso senza fili (e quel Naaw di cui si parlava in questo spazio nei giorni scorsi casca a fagiolo), distribuire l’accesso a Internet quanto più possibile e quanto più liberamente concede oggi la legge – considerandolo, come presto potrebbe essere davvero, un diritto insito nell’idea stessa di cittadinanza. Un investimento di questo tipo è costoso e non dà risultati immediati, ma è il volano imprescindibile.

Se la città è una rete sociale, dotare ciascun nodo di una connessione (dunque della cittadinanza digitale) significa proiettare su Internet una mappa della realtà locale, con tutti i vantaggi che si ottengono in fatto di velocità, bidirezionalità e uniformità di scambio delle informazioni. La città in Rete sarebbe un classico esempio di applicazione basata su rete sociale, un social network in cui una volta tanto lo scopo non sarebbe soltanto quello di incontrare amici (MySpace, Orkut, Friendster), pubblicare fotografie e video (Flickr, YouTube) o cercare lavoro (LinkedIn), ma di diventare protagonisti di un territorio e rappresentarne la complessità. Le reti sociali ci stanno educando all’idea di emergenza: partendo da regole semplici si ottengono schemi complessi che la semplice somma delle parti non avrebbe lasciato immaginare. Le formiche e il formicaio, i neuroni e il cervello, l’uomo e la civiltà: la dimensione collettiva è l’evoluzione del sistema. Più il sistema è efficiente ed esalta l’azione del singolo, più il sistema cresce: in questo senso, lo strumento Internet – con tutta la dotazione di pratiche con cui ottenere il miglior ordine possibile dal caos – fornisce l’opportunità di fare un salto epocale d’efficienza.

Metti progressivamente tutti i tuoi cittadini su un social network cittadino, lasciali esprimere, stimolali a costruire punti di presenza personali, promuovi la creazione di reti di identità e di comunità di interesse, invitali a spendere il loro capitale sociale nelle cause che stanno loro a cuore: avrai uno strumento inaudito di interpretazione del territorio. Tutto ciò richiede evidentemente una profonda rivisitazione dei ruoli: l’amministrazione, in una logica reticolare, non è più il centro ma uno dei nodi della rete senza ragno, un hub di hub, il primo tra i pari. Se la città è l’insieme di tante visioni del mondo quanti sono i suoi cittadini, chi la governa è il nodo deputato alla sintesi di questo flusso di comunicazione che prorompe dal basso. La rappresentanza non è più soltanto un voto quinquennale, ma l’interpretazione costante del racconto della realtà di ciascun nodo, corrisponda esso a un cittadino, a un’associazione, a un’istituzione o a una realtà produttiva. Chi interpreta meglio, governa meglio.

A cascata vengono tutte le sfide complesse che già ci si pone urgentemente, pur senza avere un supporto tecnologico adeguato: il superamento delle barriere d’accesso, le difficoltà di dialogo sociale, le opportunità imprenditoriali. Il circolo virtuoso nasce con l’infrastruttura di comunicazione e con le tecnologie per la condivisione sempre più diffuse, facili da usare ed economiche: gli strumenti più maturi di Internet stanno abilitando le persone a esserci, a partecipare, a organizzarsi spontaneamente tra di loro, a contribuire con le proprie idee, a supportarsi a vicenda in caso di bisogno. Un patrimonio di conoscenza (più o meno locale) distribuita e facilmente accessibile – in grado di dare risposte al giovane e all’anziano, all’imprenditore e al disoccupato, all’immigrato extracomunitario e al turista, all’associazione e all’istituzione – è un motore formidabile per la crescita di un territorio. Se dai alle persone un motivo per esserci, e non solo generiche istruzioni per accendere un aggeggio e lanciare programmi, è molto probabile che ci saranno.

Fantascienza? Sì, se si dovesse immaginare un progetto del genere imposto dall’alto, da un giorno all’altro. Tuttavia i fronti più evoluti di Internet ci parlano di un pubblico sempre più attivo, che non ragiona più come massa ma è informato e soddisfa facilmente bisogni individuali che in precedenza dipendevano da catene di mediazioni di tipo culturale, politico, informativo o economico. Non chiede più di essere ascoltato, lo pretende. Dove non trova orecchie disponibili, si organizza da sé aggregando spontaneamente competenze per risolvere esigenze nuove in modo nuovo. La scelta, già oggi, è tra il presidio sempre più costoso e conflittuale degli accentramenti di potere e l’accoglienza progressiva di quest’onda lunga, che promette di ridefinire la società almeno quanto a suo tempo fece la scrittura. Le prime scelte, a cominciare da quella di mettersi in ascolto, devono essere fatte già oggi. L’alternativa è la solita: accumulare ritardo e perdere competitività.

Sarà il primo sit-in della mia vita

Credevo di aver già parlato di questo argomento, ma non ho trovato nessun post, chissà dov’è finito. Perché la notizia, almeno come dichiarazione d’intenti, ha già qualche anno. Poi recentemente sono stati finanziati e presentati degli studi di fattibilità tecnica, poi sono avvenute delle stipule di protocolli di intesa tra Stato e Regioni, poi dei patti tra Veneto e Friuli Venezia Giulia, poi delle presentazioni del progetto alle popolazioni interessate dalla Grande Opera, da parte di politici che all’ultimo hanno disertato i convegni illustrativi.

Vogliono costruire un’autostrada tra il Cadore e la Carnia, ecco la questione. Spendendo 3 miliardi di Euro. Ottantacinque kilometri di percorso di cui almeno quaranta in galleria, nell’ultimo lembo di Alpi forse rimasto intatto, sfregiando due Parchi Naturali e passando sopra la testa letteralmente ai residenti, per nulla interpellati.
I Comitati dei Sindaci del Cadore e di questa parte della Carnia hanno già espresso pareri negativi, consapevoli che in questo modo viene loro tolta l’ultima risorsa disponibile, quella del turismo ambientale, visto che in Carnia di insediamenti produttivi ce n’è ben pochi e in Cadore le imprese di occhialai hanno da tempo traslocato in Cina.

Sarebbe sufficiente una bella strada al posto di quella fatiscente attuale, o anche un bel treno, o secondo me anche niente, anzi farei un bel parco selvaggio gigantesco dove le linci gli orsi e le aquile già presenti in Friuli possano tirare un po’ il fiato.

Insomma, una miopia progettuale vergognosa, un puro interesse dei costruttori di autostrade e di quegli industriali che finanziando gli studi di fattibilità sperano di portare più rapidamente la merce in Austria e nei paesi dell’Est europeo. Inizialmente pare l’infrastruttura avrebbe dovuto congiungersi con il Brennero, così i tedeschi venedo verso Sud avrebbero auspicabilmente girato a sinistra prima di Bolzano, si sarebbero potuti godere a 150 all’ora i paesaggi delle Dolomiti, per poi arrivare in Friuli e continuare tranquilli verso la Croazia, perché da anni i biondi con quelle Opel Kadett giallo pannocchia con la pelliccia sul volante non si fermano sulle spiagge di Bibione o Lignano o Grado, figuratevi quelli con una BMW ultrafiammante.

Ovviamente, la Provincia di Bolzano e l’Austria hanno negato ogni lavoro. Il Veneto di Galan insiste, il Friuli di Illy non si nega. Mi sa tanto che si avvicina il momento in cui per la prima volta in vita mia (dopo le occupazioni studentesche del ’90, ok) mi siederò per terra davanti alle autorità e alle ruspe, e vediamo cosa succede. Non sarò solo, i comitati si preannunciano risoluti: se ne è accorto anche Grillo, nel suo ultimo show qui a Udine.

Alcuni link che ho rapidamente trovato in giro:

http://www.politicaonline.net/forum/showthread.php?t=328609
http://www.comitatidellacarnia.splinder.com/
http://www.peraltrestrade.it/index.htm

Qui trovate il progetto dell’opera (.jpg pesante), qui trovate un articolo del giornale
“NuovoFriuli”.

Rivoluzione digitale

Nessun altro fatto storico, salvo la rivoluzione neolitica e quella industriale, è stato così profondamente, così drammaticamente, così inequivocabilmente rivoluzionario come la rivoluzione digitale. La rivoluzione digitale ha creato una irrevocabile discontinuità nel processo storico. Dopo la rivoluzione digitale il mondo non è stato più e non potrà più essere quello di prima. E il cambiamento è avvenuto nel giro di poche generazioni. L’origine dei nostri affanni, della nostra insicurezza, della nostra angoscia, è tutta qui.

Istituzioni, abitudini, gusti, strutture, idee, modi di essere e di pensare, modi di amare e di odiare, consocenze e sentimenti che servirono l’uomo e le sue società per secoli e millenni, sono di colpo divenuti inutile retaggio, gravoso bagaglio archeologico, peggio ancora ostacolo alla vita della società, nata dalla rivoluzione digitale. I termini del problema umano sono tutti drammaticamente mutati in ogni aspetto e ad ogni livello della vita: nell’arte come nella politica, in economia come in medicina, per l’individuo come per la società, nei rapporti tra uomo e natura, a livello biologico. Nulla e nessuno è stato risparmiato. E il tutto è avvenuto e continua ad avvenire con una rapidità tale per cui il nostro adeguamento sia fisico sia psicologico è arduo e penoso. La vecchia casa va in frantumi travolta da poderose anonime forze innovatrici che però non ci danno il tempo di riflettere e di pensare con chiarezza e con raziocinio a come costruire la casa nuova e renderla abitabile preservando la nostra condizione di uomini.

Gli è che la rivoluzione digitale, emersa da uno sviluppo filosofico ed economico, si attuò essenzialmente come e traverso un progresso tecnologico. Ed il progresso tecnologico, per sua natura cumulativo, impone ora tempi e dimensioni che sono al di là della misura dell’uomo – almeno dell’uomo quale ancora è oggi, frutto di secoli e millenni di civiltà preindustriale. D’altra parte tecnologia e ricchezza di per sé non determinano il proprio uso. Possono venire usate per costruire. E possono venire usate per distruggere. Mai l’uomo ha potuto produrre come oggi. E mai ha potuto distruggere e uccidere come oggi. La tragica antinomia insita nel suo essere mai assunse, nei secoli dei secoli, valori così tragicamente disparati. E’ questo l’altro aspetto del fenomeno che aumenta la nostra angoscia, alimenta i nostri dubbi, accresce la nostra insicurezza in mezzo alla nostra crescente, frastornante ricchezza. Per capire quel che siamo, quel che godiamo e quel che soffriamo, i problemi che ci assillano e le ricchezze che ci circordano dobbiamo far capo alla rivoluzione digitale. Chi vanta i grandiosi risultati raggiunti e chi si preoccupa dei grossi problemi da risolvere, chi fa del passato la ragione del proprio ottimismo e chi fa del futuro fonte del proprio pessimismo, chi vede rosa e chi vede nero, tutti devon far riferimento alla rivoluzione digitale per spiegare la ragione dei successi o degli interrogativi, dell’ottimismo o del pessimismo, dell’orgoglio o della paura. E bisogna fare il punto lì, alla rivoluzione digitale e penetrarne l’intima essenza e la logica interna anche quando si vuol cercare di affrontare razionalmente il domani immediato così pieno di luci e di ombre, di grandiose promesse e di incognite spaventose.

C.M. Cipolla, introduzione a P. Deane, La prima rivoluzione industriale, Bologna, 1971

Ok, ho fatto il solito giochino: ho sostituito a questa famosa prefazione di questo famoso libro la parola “industriale” con “digitale”.