Archivi autore: Giorgio Jannis

25 ottobre, sbattezziamoci

Da quando esiste questo blog, anni, vedete sulla destra un chicklet che rimanda al sito della UAAR, per sbattezzarsi. Sì, Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti. Sì, le istruzioni su come procedere per scrollare via dalla propria identità l’etichetta di cattolico.
Se non andate a messa né mai pregate e magari ritenete anche che la chiesa romana ne ha fatte e ne sta facendo di cotte e di crude, impicciandosi, sbattezzatevi. La vostra spiritualità (eventuale) potete coltivarla in molte altre maniere, eticamente migliori, magari sempre cristiane, ma più come dire protestanti. E sto parlando sempre di religione, mica son contro per principio: rispetto le scelte personali degli altri, ma l’azione pesantemente politica della chiesa cattolica, a Roma come nei paesini, sta limitando la mia libertà, e non mi piace.Almeno si battezzassero persone consapevoli, dubbiose ma maggiorenni, se non trentenni come Gesù che scelgono di intraprendere un percorso di ricerca. Ma qui battezzano i neonati (mica era sempre così), e si vantano che il 90% della popolazione italiana è cattolica, quando forse il 15% va a messa. Poi magari chiedono soldi allo stato, per il fatto che sono la religione principale (fino solo a ventanni fa, la religione di stato, appunto), quando è già curioso sapere cosa ne fanno dell’ottopermille.
Fate pure, ma non ricorrete a trucchetti.

Per coloro che vogliono liberarsi dal giogo di questa appartenenza imposta ad una certa ideologia, il 25 ottobre significherà Giornata dello Sbattezzo.

‘Sbattezzo’ significa cancellazione degli effetti civili del battesimo, ossia l’elementare diritto, stabilito da un provvedimento del Garante per la privacy, di non essere più considerati dallo Stato come “sudditi” della Chiesa, “obbedienti” e “sottomessi” alle gerarchie ecclesiastiche.

Qui trovate altre informazioni.

Da molti mesi tengo i fogli per sbattezzarmi qui sulla scrivania. Prima ancora avevo trovato chiuso (non ridete) presso la parrocchia dove son stato battezzato, dove non celebrano più. Ora potrebbe essere la volta buona.

Occasione perduta

Dai sistemi ai processi, dalle strutture ai flussi, siam sempre lì a combattere la grande battaglia dei cambiamenti culturali, quelli di larga portata epistemica, provando a porre attenzione alle relazioni piuttosto che ai nodi per riorientarci quando tutto traballa.

E sto parlando del trapassare futuro prossimo della Cultura gutemberghiana nella Cultura digitale, uno di quei ribaltamenti di paradigma che càpitano ogni centinaia d’anni, ma che in futuro avverranno sempre più spesso… se è vero che già il Novecento è durato settant’anni dalla primaguerramondiale alla cadutadelmuro e www, il Ventunesimo secolo vedrà statisticamente cambiamenti epocali succedersi in modo molto più rapido, visto che tutto il calderone è riscaldato dalla accresciuta fiamma dei media, ora digitali e internettari.

E la tecnologia galoppa, lo sapete, in tanti campi del sapere; le conseguenze dell’introduzione di manufatti come il computer e la Rete nelle pratiche umane possono essere mostrate con il grafico delle scoperte e delle innovazioni scientifiche e tecnologiche di questi ultimi trent’anni, dove il repentino incremento della curva è indice della progressiva diffusione di strumenti digitali nella ricerca.

Ma tutta la società è molto cambiata, guardate la differenza tra un telefilm anni ’70 e uno anche solo degli anni ’80. Tra il 1977 e il 1983 c’è un fiume di modernità che irrompe, e mi vengono in mente le radio e le tv libere, il vhs, e il personal computer, guarda un po’. E proprio le tecnologie dell’informazione e della comunicazione sono diventate centrali nella vita di ognuno, web e cellulare ora insieme, e guardando il flusso di relazioni mediato che pian piano ci è cresciuto intorno ci accorgiamo di essere persone che praticano forme di socialità sconosciute alle generazioni precedenti, tutto qui.

Forme mediate, che ora esondano dagli schermi.

Abbiamo nostri valori etici “generazionali”, per giudicare cosa è meglio e cosa è peggio. Ad esempio, meglio la rete orizzontale che la gerarchia verticale per affrontare tempi di rapido rimescolamento sociale, avvalendosi di molte opinioni. Meglio la varietà e le sperimentazioni sociali, che scommettere tutto su un’unica interpretazione del cambiamento, visto che per banali limiti umani non possiamo conoscere le pieghe del futuro. Meglio agevolare la libera diffusione delle conoscenze, anziché ragionare per steccati. Da una cultura dello scambio conversazionale in rete, dagli anni litigosi o amorosi di bacheche e forum e chat e blog abbiamo appreso alcune regole del comportarsi dignitosamente nel dialogo con gli altri, nell’ascolto e nel rispetto, che vorremmo vedere anche nel rapportarci ad esempio con attori istituzionali come le Pubbliche Amministrazioni. Siamo cambiati noi, ma molte cose della società sono rimaste lente.

Eppure è chiaro, meteorite o era glaciale che fosse, che i dinosauri han lasciato il mondo a dei piccoli mammiferi dal sangue caldo, agili e comunitari. Questo per dire che non ho nessuna fiducia in piani di formazione per la generazione sopra la mia, per far comprendere le novità sociali e l’impellenza di adottare nuove procedure per gestire la socialità stessa nelle sue componenti economiche abitative produttive culturali ed ecologiche, ad esempio ispirate a quella trasparenza comunicativa e alla partecipazione corale della collettività che le tecnologie oggi renderebbero sufficientemente praticabili.

Se non c’è la volontà, non passa niente. Prima ancora: se non c’è una curiosità, un briciolo di meraviglia, un coinvolgimento in qualche modo affettivo, le novità non vengono nemmeno percepite, altroché ponderate.
Speriamo che i cinquantacinquenni che sono ora arrivati ai posti di comando senza aver mai spedito una mail siano abbastanza svegli da capire che il mondo sta cambiando in direzioni che non possono capire, e si circondino e dìano fiducia ai trentenni e ai quarantenni.
Ecco: anziché come al solito stabilire che i sessantenni dicono COSA fare, i cinquantenni COME fare le cose, e poi tutti gli altri dietro sono semplici esecutori, facciamo che per stavolta, in un riconosciuto momento storico di cambiamento, siano le generazioni attive più basse a indicare la direzione da prendere, e i più anziani mettano la loro esperienza nell’ottimizzare le strutture sociali esistenti in vista del risultato. Anche se si trattasse di ristabilire il significato di città, territorio, diritti, qualità della vita, delle relazioni e dell’ambiente.

Perché il “tappo” costituito da una persona incompetente sui fondamenti della Cultura digitale messa a presiedere, nel pubblico ma anche nel privato, uno snodo importante della socialità, causa oggi ritardi notevolissimi, in questi anni veloci.In fondo, è un esperimento sociale. Prendiamo ad esempio il Friuli, cambiamo un po’ di cose e vediamo cosa succede. Se funziona, magari si può esportare, con gran beneficio degli altri. Se non funziona, capiamo perché, con gran beneficio nostro e degli altri. A patto che tutte queste informazioni circolino, e che tutto non diventi un’altra occasione perduta.

Vado a raccontar qualcosa, in un convegno che si chiama proprio “Occasione perduta? La società dell’informazione e della conoscenza in un Paese anormale“, che avrà luogo vicino a Pisa sabato prossimo. Qui trovate il programma.
Spero di imparare qualcosa, poi ve lo racconto.

 

Finanziamenti EU

Chi beneficia dei finanziamenti europei qui a Udine? Con quali finalità?
Ecco una tabella. Per le finalità, nell’effettuare la ricerca per CAP richiedete anche la visualizzazione del progetto (programme) di riferimento.

Tutto ciò grazie alla trasparenza del sistema di finanziamento europeo, che trovate qui.

Udine 2.0

Il Comune di Udine ha messo i feedrss sul proprio sito istituzionale. C’è anche un feed per i propri video su YouTube, in quanto utente dal nome “youcomunediudine” (immagino la riunione di brainstorming).
Dài che qualcosa si muove.

Vi segnalo anche la sezione “Oggetti smarriti”, dove oltre a chiavi, biciclette, occhiali, borse, telefonini, portafogli e oggetti preziosi trovate l’impagabile categoria “Altro“, piena di sorrisi.

Una doppietta di calci in culo

Leggo da DeBiase (che riprende Diavoloinme) che l’attuale maggioranza di governo intende far votare una legge sulla caccia a dir poco nefasta.
Voi direte: con quello che stanno legiferando ultimamente, la questione della caccia è marginale. E invece no. Sono tutti sintomi della stessa stupida miopia, della mancanza di cultura, del dover tener buone le lobby nazionali, in questo caso quella dei cacciatori. Il fucile è di destra, ok, ma la macchina fotografica è di sinistra? Potrei concedere, al limite, anche archi e fionde, ché di andare per i campi con la Vespa e sentire d’un tratto sparare nelle vicinanze sono stufo.

Si comincerà a sparare ad agosto, quando ancora il periodo della riproduzione non si è concluso, e si finirà a fine febbraio, colpendo i migratori protetti dall’Europa. Nel mirino finiranno peppole, fringuelli, corvi e cormorani, tutte specie tutelate dalla direttiva 409 di Bruxelles. E i cacciatori non saranno più vincolati al territorio di residenza, come è previsto dalla legge attuale per evitare una pressione squilibrata sul territorio e sulla fauna, ma per 15 – 30 giorni all’anno potranno concentrarsi a loro piacimento, magari nella zona di passaggio dei migratori. E’ questo il profilo della nuova legge sulla caccia proposta dal pdl: una controriforma organica che spazza via la legge quadro del 1992 (la 157) che per 16 anni ha garantito la mediazione tra la situazione precedente (una caccia ad alto impatto ambientale) e le richieste di un fronte abolizionista che molti sondaggi danno per maggioritario. Il testo, che nascerà dalla fusione di due disegni di legge convergenti (uno a firma del senatore Domenico Benedetti Valentini, l’altro dei senatori Valerio Carrara, Laura Bianconi e Franco Asciutti) sarà discusso nei prossimi giorni in Parlamento.

Friul-IN

Sabato sera per l’aperitivo sono andato in centro, si trattava di de-virtualizzare i componenti del gruppo Friul-In, professionisti della zona che sono iscritti a LinkedIn.
Ci siamo incontrati al Contarena, storico caffè liberty di Udine di cui ho già avuto occasione di parlare male, proprio mentre sul locale convergeva la solita massa di wannabe calciatori&veline in ansia da prestazione nell’apparire vincenti e lampadati.

Ovviamente, ad un certo punto è partito il dj zarro e parlare seduti dentro intorno al tavolo è diventato impossibile, e allora siamo usciti per strada col bicchiere in mano, scoprendo che nella galleria d’arte a fianco del locale era in corso una inaugurazione, c’era Federico che suonava il sax su basi elettroniche di altri musicisti, e ad un banchetto servivano gratis del buon bianco friulano del Collio, altro che 23 (ventitre) euri per cinque aperitivi (ha pagato Francesco? a buon rendere, anyway).

Vediamo chi c’era, del centinaio dei Friul-ini iscritti al gruppo: Andrea Bertolozzi, Francesco Zorgno, Luca De Michiel, Elena Zadro, Simone Favaro, Davide Nonino con Alessandra, e Fabio Trevisani (ho messo i link lunghi della funzione “cerca”; se mi date il link con l’url breve al vostro profilo, linko meglio).

Per il resto, tutto bene.
Spero che vi sia una ulteriore occasione di incontro, dove sia possibile chiacchierare liberamente con tutti, per approfondire le reciproche competenze e far nascere idee di futura collaborazione.

Easy money

Terra e cielo, dell’essere e del fare accogliente semplicità e creativa facilità, simboli.

Uno poi può anche tentare di fare il guru, tipo con il GTalk badge, ma servirebbe un pagamento semplice e facile per pagare, poco e spesso, una consulenza professionale che vive negli interstizi della rete, tra le nicchie. Qui è tutto fatto a nicchie, ci saran degli interstizi, non posso credere che il Tutto sia disposto a celle d’ape, esagonali. Se invece ci sono ampie distanze tra le nicchie, sicuramente un giorno salteranno fuori le internicchie di internet, e allora il linguaggio avrà una volta ancora raggiunto il suo scopo supremo, farci ridere di come nomina le cose.

Quindi si dovrebbe puntare su dei sistemi di pagamento aggiornati.
Intanto vorrei poter essere pagato come il Telethon, con versamenti di 2 euro per ogni sms che mi mandano al numero che dico io, anzi allestirei cinque numeri diversi con quote diverse di pagamento. O un sms con la parola “pago” e due euro salgono sul mio conto, tolte le spese eh. Tutto tracciato, emetto fattura.

Anche poter commutare una normale telefonata in consulenza professionale, con compenso immediato, sarebbe simpa. I due interlocutori ad un certo punto digitano un numeroverde e qualche codice, che identifica l’IBAN del committente e del cliente e poi spedisce ai due, direttamente alla loro banca, una mail quale segno dell’avvenuta transazione. A quel punto ciascuna delle due parti, a telefonata conclusa, riceve un sms dalla propria banca con la richiesta di autorizzazione al bonifico, si autorizza e festa finita. Un servizio delle banche, dovrebbe essere, e gratuito, visto che è automatizzabile.

E a questo punto sarebbe simpatico anche una specie di carrello della spesa giornaliero, così mentre naviga la gente cliccando compra un libro o una consulenza di dieci minuti, e alla sera controlla su una pagina della propria banca online le richieste di pagamento disseminate sul web, e autorizza effettivamente per ciascuna l’esborso.

Leenti.

L’ economia ai tempi del web

L’ economia ai tempi del web
di GIORGIO RUFFOLO
Repubblica — 07 agosto 2008

L’ impatto delle tecnologie cosiddette digitali sulle relazioni sociali e in particolare lo sviluppo prodigioso del fenomeno Internet sono oggetto ormai da tempo di una intensa attenzione. Non altrettanto e stranamente, almeno nel grande dibattito pubblico, il loro carattere specificamente economico, che riguarda in particolare le implicazioni della «economia digitale» sul mercato, cioè sul sistema economico largamente dominante nelle economie capitalistiche del nostro tempo.

Si da in genere per scontato che il vendere e il comprare su Internet, non solo sia in accordo con la natura e le regole del mercato, ma ne rappresenti una esaltazione. Questa è almeno l’ opinione espressa dalla corrente di economisti americani cosiddetta «californiana», secondo cui la rete costituisce l’ istituzione che incarna concretamene l’ altrimenti astratta teoria della concorrenza perfetta che sta alla base del credo liberista, escludendo lo Stato da ogni possibile interferenza nel suo funzionamento.
Ora, una analisi non fortemente intrisa da motivazioni apologetiche dovrebbe portare a conclusioni opposte: che sono infatti sostenute da altri economisti (per esempio, quelli del Centro Hypermedia dell’ Università di Westminster, che fa capo a Richard Barbrook). Si fa notare che l’ esplosione della rete, nonché esaltare la logica del mercato, ne mina alcuni presupposti essenziali e per converso apre nuove prospettive a una economia della reciprocità, libera dai vincoli sia del mercato che dello Stato.

Nel caso di Internet si verifica una condizione ben nota agli economisti, di produzione di beni non esclusivi che possono essere utilizzati simultaneamente da più utenti: un classico bene pubblico.

Inoltre, il bene prodotto (l’ informazione) a differenza di un bene fisico, non si separa dal produttore (come si dice: se ci scambiamo un dollaro, restiamo con un dollaro; se ci scambiamo un’ idea restiamo con due idee). In tali condizioni, è assai difficile esigere un prezzo.
Il problema è stato risolto in questi casi con i canoni di abbonamento. Il produttore fornisce un servizio e riceve un canone standard, indifferenziato.

Ma che succede se l’ utente del servizio diventa a sua volta fornitore «scaricando» l’ informazione dalla rete e vendendola o regalandola in concorrenza col produttore? Nel caso Internet proprio questo succede. Ciò provoca danni ingenti ai fornitori del servizio, contraendo le entrate pubblicitarie. Per evitarli, essi non possono far altro che ricorrere alla legge: alla polizia e alla magistratura, il che rende manifesta la dipendenza del mercato dallo Stato, la falsità della sua pretesa «autoregolazione».

Ma poiché è molto difficile accertare le violazioni da parte dei «free riders» (dei parassiti di Internet) emerge la proposta di istituire un sistema di spionaggio permanente detto Panopticon (in memoria della famosa proposta di Jeremy Bentham) che permetta di controllare permanentemente tutte le operazioni degli utenti. Ecco un divertente esempio di regolazione staliniana del mercato autoregolato.

Esiste, fanno notare gli economisti di Hypermedia, un’ alternativa. Lo Stato assume il compito di fornire l’ infrastruttura della rete Internet che non è più finanziata dalla pubblicità (col beneficio di una diminuzione dell’ inquinamento dovuto alla contrazione dei consumi «indotti» da quella); ma dalle tasse, che la collettività decide democraticamente di pagare per massimizzare il bene pubblico dell’ informazione. In tal caso non esiste più un problema di free riders. La libera circolazione dell’ informazione fornita dalla rete, anziché costituire un danno per i fornitori privati, soddisfa pienamente lo scopo del fornitore pubblico.
Si apre un nuovo spazio dove allo scambio valorizzato (informazione contro pubblicità) subentrano prestazioni reciproche gratuite. Economia del dono? No, non c’ è nessun dono. C’ è la decisione della comunità di trasformare il valore di scambio dell’ informazione in valore d’ uso, affidandolo alla libera gestione della comunità stessa: né allo Stato, che si limita a fornire l’ infrastruttura, né al mercato.

Il lato più interessante di questa riforma non sta solo nel rendere possibile la libera fruizione dell’ informazione contenuta nella rete, ma di promuovere l’ aspetto più innovativo di Internet: la partecipazione attiva dell’ utente allo sviluppo dell’ informazione. Contribuendo alla creazione di nuova informazione, egli non è più un consumatore passivo, ma un produttore attivo di idee: un prosumatore (prosumer), come con geniale anticipazione lo definiva Alvin Toffler.

Internet sta producendo una vera e propria rivoluzione nel mondo del lavoro e della produzione generando una nuova classe di lavoratori-imprenditori che non esalta il momento dello scambio valorizzato ma quello della libera creatività.

E’ bene che queste idee circolino liberamente senza essere protette da copyright. Le prestazioni effettuate sulla rete non sarebbero soggette ad alcun vincolo di proprietà riservata (copyright). I soli limiti riguarderebbero la sicurezza e la moralità. Ma in quei casi si tratta di perseguire casi concreti e manifesti, e non capacità potenziali e diffuse di violazione delle regole.
Come Richard Barbrook osserva, non si tratta affatto di sostituire il mercato e lo Stato con una economia caratterizzata dal principio della reciprocità, ma di integrare economia di mercato, economia amministrativa ed economia digitale in un sistema più ampio e articolato. Lo Stato fornirebbe l’ infrastruttura, il mercato promuoverebbe le innovazioni tecnologiche, per esempio sviluppando la griglia delle fibre ottiche, la rete promuoverebbe la diffusione e lo sviluppo dell’ informazione attraverso un immenso dialogo sociale.
Dunque, Internet rappresenta, non, come sostiene l’ ideologia californiana, la suprema esaltazione dell’ economia di mercato ma una macroscopica premessa del suo superamento, nel campo dei beni sociali.
Quanto ai beni autenticamente privati il mercato è insostituibile, come rivelatore delle preferenze individuali (ricordiamo la lezione di von Hayek). In tal senso esso costituisce uno strumento prezioso del benessere sociale. Uno strumento, però, non uno scopo. Uno strumento che affianchi l’ altrettanto insostituibile presenza dello Stato e quella delle nuove istituzioni associative e volontarie, delle quali Internet è un felice esempio. –

Photografo

Ieri sera alla tv guardavo Matrix Reloaded, e ad un certo punto Neo deve andare a trovare l’oracolo, ma prima in anticamera incontra un tipo orientale e si mettono a combattere. Sembrerebbe una situazione narrativa tipo “trappola”, ovvero il tipo parrebbe un nemico, e invece dopo un paio di minuti di balletti kungfu l’orientale (sì, il firewall intorno a Oracolo) blocca tutto e svela di aver voluto sottoporre Neo a una prova, per conoscerlo meglio. Il dialogo dice più o meno “per conoscere veramente una persona devi combatterci contro”, che immagino come variante speculare di quella “per conoscere veramente qualcuno devi farci l’amore”.
Eh, ma quanti tipi di conoscenza ci sono?
Anche l’abitudine nei gesti è una forma di conoscenza, innervata e diventata automatismo, per liberare risorse in RAM. Molto economica, efficiente, purtroppo poco riflessiva.
Immaginatevi quando vi lavate le mani: ripetete da anni gli stessi identici gesti, il movimento delle dita e dei polsi segue pattern collaudati, è come un balletto automatico. Ma questo non dà garanzia di pulizia: alcune zone delle mani rimangono più sporche di altre.
Tant’è che i chirughi nei telefilm si lavano le mani con accuratezza, ponendo viva attenzione ai gesti, guardando le loro stesse mani come se non le conoscessero, proprio per evitare che l’abitudine e i suoi meccanismi ci agiscano a nostra insaputa.

Tant’è che quando leggiamo un giornale il pensiero corre veloce sui concetti, ma se ci imbattiamo in un refuso rapidamente riattiviamo alla coscienza dei livelli di competenza grammaticale che solitamente agiscono in background.

Anche fare arte, intesa come fare concreto artigianale, è una forma di conoscenza, e nel manipolare la sostanza dell’espressione, si tratti di lettere suoni o colori o materia, una persona curiosa nel rendere eloquenti le cose prova a straniare le abitudini percettive, prova a guardare un foglio di carta come se fosse di metallo, prova a scolpire la musica come se fosse marmo, si chiede cosa possa significare portare oggetti d’uso quotidiano in altro contesto o indagare lo spazio dentro e fuori la cornice del quadro o il rapporto tra il colore e la forma.
A me piace essere curioso: è un lavoro affaticante, ma fare lo sgambetto alle abitudini, metterle alla prova e saggiarne la portata conoscitiva, straniare la percezione e la destinazione d’uso degli oggetti che incontro mi fa scoprire cose di me che non sapevo, o che sapevo senza sapere di saperle.

Le grammatiche espressive vanno praticate: le mani gli occhi gli orecchi sanno fare cose che il pensiero non sa, e per meglio giudicare è meglio conoscere.
Ho lavorato in un teatro e costruivo scenografie inchiodando assicelle e tessuti, ogni tanto faccio ancora musica per il piacere di lavorare sugli oscillatori di un synth o di stiracchiare campioni, mi scopro onomaturgo paroliberista quando parlo in pubblico proprio per evitare di ricorrere a frasi fatte (anzi: a locuzioni ormai solidamente sedimentate etc.), ho provato a fare fotografia per cercare di capire qualcosa della luce, della visione e dell’inquadratura, e soprattutto qualcosa di quella pratica alchemica che è sviluppare le foto in bianconero dentro una camera oscura, con gli acidi e le bacinelle e le mollette per appendere le foto.

Questa cosa della fotografia l’ho imparata una dozzina di anni fa grazie a Jacopo De Marco, che è un fotografo vero di quelli che guardano il mondo come i chirurghi suddetti si guardano le mani, come aspettando che le cose stesse, se osservate dal giusto rispettoso punto di vista e senza volerle far parlare a tutti i costi proiettando noi i significati, diventino di per sé eloquenti nel raccontare il senso del loro essere al mondo, gli strati di significato che veicolano semplicemente per il loro essere parte di una circostanza poi enunciata nell’inquadratura di una foto, per le tracce antropiche presenti nelle loro connotazioni.
Sabato scorso sono andato ad una sua mostra, qui a Udine. Mi piacciono, le foto di Jacopo: pur mancando facce e persone, sono come reportage di ambienti relazionali, luoghi di archeologia industriale o di socialità assente, dove però uno sguardo militante e l’attenzione agli aspetti materici dell’espressione – il dettaglio del colore, la fisicità, la grana stessa delle foto – riescono a trasmettere emozioni senza ricorrere a trucchi eye-catching. Raccontano storie di umanità, costruiscono un contesto, fan capire senza urlare, eppure ti arrivano addosso.

Conosco Jacopo: dietro c’è una riflessione, una scelta poetica, uno stile. Da dieci anni vive a Berlino: gli auguro mille momenti di rapimenti creativi con l’occhio incollato al mirino, e di ottenere meritoria visibilità per le sue opere (trovate qualcosa qui, le foto di questo post le ho fatte col cellulare e ovviamente non rendono l’idea).



Giorgio Bettinelli

E’ morto, il tipo che vedete in questa foto con gli occhi attenti di chi guarda come vivono le persone in giro per il pianeta, e con i capelli dritti per il milione di kilometri fatti in Vespa. Un buon narratore, Giorgio Bettinelli, a cui auguro veramente buon viaggio.

Se vi piacciono le narrazioni schiette e curiose di posti esotici, comprate uno dei suoi libri, non rimarrete delusi. Se poi siete vespisti (o comunque dueruotisti, via) *dovete* leggere qualcosa di questo folle con la chitarra che senza saper nemmeno cambiare la corda della frizione del suo PX200 è andato da Roma a Saigon, dall’Alaska alla Terra del Fuoco, da Melbourne a Città del Capo, in giro per tutta la Cina.
Quando vado in giro con la mia Sprint150 del ’67, per Friulandia e qualche volta Slovenia e Austria, già mi sembra di essere un esploratore ottocentesco, e torno a casa distrutto dopo 150 kilometri di asfalto. Lui nel frattempo attraversava deserti e giungle, salutava sfrizionando bambini indios in Perù o s’innamorava di donne cinesi.
Adesso vado a fare un giretto in Vespa, gli dedico il primo colpo di pedivella e il rombo di quel motore, i pensieri che quel vagabondare fa venire in mente.

Dal gangherologo, con affetto

Sebbene innumerevoli esseri siano stati condotti al Nirvana nessun essere è stato condotto al Nirvana

Prima che si passi la porta
si può anche non essere consci che c’è una porta
Si può pensare che c’è una porta da attraversare
e cercarla a lungo
senza trovarla
La si può trovare e
può darsi che non si apra
Se si apre si può attraversarla
Nell’attraversarla
si vede che la porta che si è attraversata
era l’io che l’ha attraversata
nessuno ha attraversato la porta
non c’era porta da attraversare
nessuno ha mai trovato una porta
nessuno ha mai compreso che mai c’è stata porta

R.D.Laing, Nodi

Tecnologia, identità e narrazione: che cosa succede a scuola?

La Scuola, in questo momento storico, è incompetente: le manca un saper-fare, per poter-fare.

Già da molti anni le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione sono veicolo del nostro abitare il mondo, e la nostra partecipazione civica – fino a ieri passiva in quanto fruitori di massmedia tradizionali, oggi attiva in quanto produttori e distributori di contenuti nel web – alla Società (ecosistema) della Conoscenza passa attraverso la comprensione dei risvolti antropologici delle TIC, del loro essere ambiente sociale e non solo strumento di produzione documentale, del loro essere Luogo dialogico di crescita relazionale e non solo fonte informativa.

Ma la Scuola non riesce a concepire gli strumenti come ambienti formativi. Se mancasse la lavagna o il libro, il fare scuola avrebbe altre fisionomie. Senza il PC e il web la Scuola non può educare alla modernità intessuta di Cultura digitale le giovani generazioni permanentemente connesse, le quali trarranno il senso della propria identità anche dalla ricchezza degli scambi interpersonali e dalla consapevolezza critica con cui abiteranno i Luoghi online.

Il problema è che la Scuola difficilmente riuscirà a essere competente, e quindi a perseguire i propri obiettivi formativi, se prima non modifica la percezione che ha di sé e del proprio ruolo sociale, in relazione ai cambiamenti epocali veicolati dalla diffusione del web.

Tutto questo lo dico in modo ancor più farraginoso, involuto e prolisso su Apogeonline, che ringrazio per la pazienza con cui aspettano che io impari a scrivere. L’articolo lo metto anche qui sotto, ma cliccate e leggetelo di là, per dare a voi stessi l’opportunità di imbattervi in molte altre cose interessanti.

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Tecnologia, identità e narrazione: che cosa succede a scuola?
di Giorgio Jannis

Secondo i programmi ministeriali, un quattordicenne dovrebbe essere in grado di usare le nuove tecnologie, padroneggiare i linguaggi multimediali, dominare la ricerca di informazioni. Nella pratica, accade di rado. Una storia di Re, Eroi, Draghi e Streghe per raccontare un pezzo di Paese alle prese con un mondo che cambia.

Ecco lo schema classico di una storia: un Re promette metà del regno a chi gli riporterà la figlia rapita da un Drago. L’Eroe parte, e probabilmente subirà una prima sconfitta; ritiratosi depresso nel bosco, incontrerà una Strega che inizialmente sembrerà nemica, ma una volta rotto un qualche incantesimo l’Eroe riceverà da quest’ultima putacaso tre pietre magiche che lo aiuteranno a superare la prova decisiva dello scontro con il Drago, e quindi diventerà Principe, con tanto di nozze regali e happy ending.

Ognuno di noi è un Eroe: onorando un contratto con la Società, uccidendo il drago dell’anarchia e dell’anomia, diventando cittadini con diritti&doveri, riceviamo in cambio uno status sociale riconosciuto, l’accesso legittimo a fonti economiche in cambio di prestazioni lavorative, la sicurezza di poter vivere e crescere dei figli in un ambiente ripulito da passatori e tagliagole. Ma come Cittadini, dobbiam venir educati a vivere in società, dobbiam superare dei riti di passaggio capaci di sancire la nostra competenza.

Gli stati nazionali, da Napoleone in poi, hanno compreso l’importanza dell’Educazione formale laica e hanno deputato la Scuola a essere il Luogo ufficiale dell’acculturazione dell’individuo, al fine di costruire funzionalisticamente un Cittadino adeguato: bisogna conseguentemente qui intendere la Scuola come l’Aiutante della nostra storia, colei che viene socialmente incaricata di fornire competenze (cognitive e performative, saper-fare e poter-fare) all’Eroe.

Ma nel particolare, qual è il programma narrativo della Scuola? Leggendo a sua volta l’Aiutante come un Eroe, vediamo come anch’essa abbia bisogno di acquisire competenze specifiche per portare a termine il proprio compito educativo, abbia la necessità per esempio di sorreggere le proprie scelte metodologiche e contenutistiche sulla base di teorie pedagogiche aggiornate, nonché di trovarsi nelle condizioni materiali (edifici scolastici adeguati, editoria specializzata, sussidi didattici, organizzazione del tempo, risorse umane) per poter svolgere la propria attività formativa in modo ottimale, al fine di ri-consegnare alla Società un quattordicenne dalla personalità armonica, in grado di comprendere sé stesso e di relazionarsi agli altri in modo eticamente responsabile, di rappresentare i fenomeni e capire i processi del mondo naturale e costruito in cui vive, capace di operare scelte autonome nel progettare il proprio futuro (obiettivi tratti dai testi ministeriali di una qualsiasi riforma scolastica degli ultimi quindici anni).

A sua volta (questa storia è piena di streghe), la Tecnologia in classe rappresenta uno degli Aiutanti di cui la Scuola si avvale per rendere più efficace l’acculturazione degli alunni, sostenendo l’apprendimento con sussidi didattici tecnologici quali innanzitutto la scrittura, e quindi i libri e le lavagne peraltro oggetti ora interattivi e connessi, le mappe geografiche oggidì satellitari, i videoregistratori e infine il computer connesso, quale strumento che racchiude in sé quasi tutte le potenzialità del produrre e distribuire informazione in modo multimediale.

L’introduzione innovativa di strumenti tecnologici in classe non è un atteggiamento tipico solo di questi ultimi anni: a partire dalla fine dell’Ottocento la pedagogia comprende infatti l’importanza (senza dubbio su impulso di necessità legate al mondo del lavoro) di provvedere ai discenti una formazione basata su attività manipolatorie concrete da svolgere dentro aule/laboratori allestiti come officine meccaniche oppure come atelier di tessitura, quale maggior garanzia per un apprendimento significativo (learning by doing) di competenze professionali; particolarmente interessante per i ragionamenti sulle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione risulta la posizione di Célestin Freinet, il quale nella prima metà del Novecento introduce le macchine tipografiche a scuola, insieme a precise indicazioni su come moltiplicare gli scambi a distanza con altre realtà scolastiche, in una concezione comunitaria e collaborativa degli ambienti formativi.

Grammatica dei media e strumenti critici
Tuttavia, anche se la Scuola ha portato in classe le novità tecnologiche che il Novecento ha via via sviluppato nel campo dei mass media, quali la stampa e la radio, il cinema e la televisione e infine il computer e Internet, in realtà non ha mai saputo seriamente sollevare a dignità educativa una riflessione sulle implicazioni psicologiche e sociologiche di questi strumenti di comunicazione, ponendo quindi una seria Media Education al centro delle proprie attività didattiche.

La consapevolezza che molti valori esistenziali, molti atteggiamenti cognitivi affettivi ed etici, la gran parte delle informazioni e delle opinioni pubbliche sul senso della realtà sociale vengano oggi percepiti e vissuti in modo mediato (il gioco di parole è notoriamente calzante), e che la nostra stessa identità personale e pubblica sia in qualche modo continuamente negoziata e narrata nello scambio relazionale che intratteniamo con gli altri, con gli oggetti culturali e con gli strumenti grazie a cui questi oggetti giungono a noi, risulta ormai diffusa seppur in modo “ingenuo” presso la maggior parte della popolazione; eppure la Scuola nulla fa per fornire grammatiche di lettura e strumenti critici in grado di mostrare la non-trasparenza dei media, il loro essere narrazioni potenzialmente manipolatorie, la falsità del loro pretendersi semplice “finestra sul mondo”.

La Tecnologia è un valore antropologico, e i valori vivono e si maneggiano da sempre attraverso le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione: da tutti questi ragionamenti sul carattere formativo degli strumenti di comunicazione di massa dovrebbero “naturalmente” discendere dei percorsi di innovazione didattica in grado di coinvolgere tanto il curricolo (quindi una riflessione sul ruolo odierno delle discipline tradizionali alla luce delle potenzialità trasversali offerte dalle TIC, nonché sulle nuove aree di sapere che costituiscono le “discipline di scopo”, dall’ecologia alle trasformazioni sociali, dall’intercultura alla cittadinanza anche digitale, dalla Cultura Tecnologica alla salute pubblica), quanto soprattutto la formazione dei docenti.

Se insegnante fa rima con abitante
Questi ultimi andrebbero rapidamente aggiornati dal punto di vista professionale innanzitutto secondo una considerazione attuale della Società della Conoscenza nel paradigma dell’Abitanza digitale e della Scuola Connessa; poi edotti sulle dimensioni comunicative e relazionali degli ambienti di apprendimento sia in presenza sia a distanza, visto che la sinonimia tra classe e aula comincia a perdere validità; e infine resi consapevoli dei meccanismi psicologici di sintesi tra esperienza del mondo e formazione dei concetti e delle idee, acquisendo stabilmente nella didattica – proprio per ottimizzare l’insegnamento – l’utilizzo di competenze e conoscenze apprese dagli allievi in ambiti extrascolastici, ponendo l’accento sulla transdisciplinarietà, comprendendo l’apprendimento significativo come massimamente garantito dalla narrazione (osservazione, analisi, manipolazione, problematizzazione, riprogettazione, allestimento discorsivo multimediale) che l’allievo compie a sé stesso e agli altri delle nozioni apprese, nel ri-giocare la realtà, ad esempio attraverso un uso intelligente dei blog scolastici.

Purché il blog di classe sia visto come pratica espressiva formativa relazionale e quindi identitaria, Luogo dell’Abitare della scuola sul web, e non solo come un sussidio didattico. Purché le TIC tutte e il web stesso siano percepiti e vissuti come ambienti formativi, e non solo come strumento informatico. L’utilizzo stesso della parola informatica, a meno che non si tratti effettivamente di scrivere codice in linguaggi di programmazione come negli istituti tecnici, pone l’oggetto computer e il web a scuola dentro una cornice interpretativa fuorviante. Nominare le attività con il computer come informatica ha portato per lunghi anni, e tuttora accade, a concepire l’informatica stessa come disciplina curricolare, cosicché oggi nelle scuole medie dopo l’ora di italiano c’è l’ora di “informatica”, che poi consiste nell’andare in laboratorio multimediale e usare programmi di videoscrittura o di presentazioni (quasi sempreprogrammi commerciali, nonostante precise indicazioni ministeriali per approcci open source nelle pubbliche amministrazioni) oppure navigare un po’ a caso sulla Rete, disattendendo completamente la funzione trasversale delle tecnologie TIC rispetto ai curricoli scolastici, nonché ignorando le tematiche etiche soggiacenti a una ormai impellente Educazione alla Cittadinanza digitale.

La Scuola sulla carta
Cosa dicono attualmente le indicazioni del Ministero dell’Istruzione riguardo le competenze sulle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione che gli allievi dovrebbero possedere al termine della scuola di base? Secondo i programmi d’aula, un quattordicenne «è in grado di usare le nuove tecnologie e i linguaggi multimediali per sviluppare il proprio lavoro in più discipline, per presentarne i risultati e anche per potenziare le proprie capacità comunicative. Utilizza strumenti informatici e di comunicazione in situazioni significative di gioco e di relazione con gli altri. È in grado di usare le nuove tecnologie e i linguaggi multimediali per supportare il proprio lavoro, avanzare ipotesi e validarle, per autovalutarsi e per presentare i risultati del lavoro. Ricerca informazioni e è in grado di selezionarle e di sintetizzarle, sviluppa le proprie idee utilizzando le TIC e è in grado di condividerle con gli altri. Conosce l’utilizzo della rete sia per la ricerca che per lo scambio delle informazioni». Come si può vedere, nel contratto che la collettività mediante le indicazioni ministeriali propone alla Scuola per educare le nuove generazioni, esistono chiari e condivisibili riferimenti a degli obiettivi di qualità e di modernità; la scuola però risulta inadeguata a portare a termine il proprio compito.

Vi è forse una mancanza di competenza performativa nella scuola, nel suo poter-fare? In Friuli Venezia Giulia, secondo statistiche disponibili sul sito dell’Ufficio Scolastico Regionale, escluse le Scuole dell’Infanzia (dove i ragionamenti sul computer in classe trovano altro significato) il 90% delle scuole è provvisto di un laboratorio multimediale, e il 40% delle Primarie sono connesse in ADSL, il 60% delle scuole medie, l’85% delle scuole superiori. Dal punto di vista della connettività, la situazione non è rosea, e probabilmente in altre regioni italiane le statistiche sono ancor meno confortanti, nonostante siano ormai passati dieci anni dai primi seri piani nazionali di informatizzazione scolastica, sia dal punto di vista della dotazione tecnologica sia da quello dell’aggiornamento professionale dei docenti.

Vi è forse una mancanza nel saper-fare? C’è forse in questa storia un problema di competenze, qualche incantesimo o qualche antagonista che impedisce all’Eroe-Scuola di comprendere la tecnologia TIC come Aiutante nel portare a compimento la propria missione formativa? Se l’obiettivo è preparare i giovani ad essere consapevolmente e responsabilmente Cittadini di un mondo tecnologico e mediatico, perché la Scuola si avvale poco delle tecnologie TIC per il proprio insegnamento, né pone riflessivamente attenzione a una lettura critica di quelle stesse tecnologie (educazione ai media, non solo educazione con i media) grazie a cui entriamo in contatto con il mondo, così determinanti nel forgiare la nostra identità?

L’autonomia in una società che cambia
L’ostacolo principale potrebbe essere costituito dalla stessa mentalità con cui storicamente la Scuola pensa sé stessa, dal proprio de-finirsi e voler trarre identità dall’essere autonoma, per non dire avulsa e anacronistica, rispetto alle novità della società attuale e alla modernità costituita dal sistema mediatico, sia dal punto di vista dei contenuti didattici e delle metodologie d’insegnamento, sia da quello della propria organizzazione interna in quanto “meccanismo” sociale deputato formalmente all’Educazione anche in termini di Cittadinanza delle nuove generazioni “digitali”.

Tutto questo riguarda senza dubbio il cambiamento che la società tutta sta intraprendendo, per tentativi ed errori, nell’adeguare le proprie strutture all’Epoca della Cultura Digitale, e sappiamo come il cambiamento tanto negli individui tanto nelle organizzazioni lavorative, percepito come minaccia, provochi ansia e conseguenti resistenze e difese, come irrigidimento delle “posture esistenziali” e delle identità storicamente consolidate.

Certo, sono le persone ad animare le istituzioni, e senza tema di smentita le innovazioni tecnologiche oggi a Scuola sono quasi ovunque promosse da singoli individui, “missionari” ed “evangelisti” (neanche le TIC fossero cosa spirituale o metafisica, e non concreto ambiente di crescita e di relazione interumana) che spesso lottano contro l’incomprensione e la sottovalutazione del loro lavoro da parte dei colleghi e dell’istituzione scolastica. Ma se il senso del discorso e della narrazione dell’attore Scuola rimane imprigionato dentro una falsa coscienza di sé e del proprio ruolo sociale, se le rivoluzioni tecnologiche come la nascita della rete Internet non vengono recepite e metabolizzate dalla Scuola con il giusto rilievo antropologico rispetto alla portata del cambiamento sociale di cui sono foriere, gli insegnanti e i dirigenti scolastici non troveranno certo fuori di sé le spinte al cambiamento, né troveranno dentro di sé motivazioni valide per innescare ammodernamenti nel fare scuola.

Come il posizionamento dentro l’adeguata cornice interpretativa – ambiente di apprendimento, nonsolo strumento didattico – conferisce senso formativo all’utilizzo di un laboratorio multimediale scolastico o al singolo computer nella pratiche di insegnamento, a sua volta una concezione ampia e innovativa della Scuola come Luogo educativo osmoticamente attraversato da flussi concreti di persone e idee provenienti dalla società “esterna” e dal territorio potrà donarle quelle competenze che le sono necessarie per onorare il contratto con la collettività, conferendole al contempo in tal modo un sentimento identitario rinnovato e commisurato al contesto della sua azione in quanto legittimo Attore sociale. Perché l’identità è sempre somma olistica dell’Io e della circostanza che lo contiene, e il mondo è cambiato.

Ecosistema della conoscenza

Un mio commento ad un post sul bel blog di Gino Tocchetti. Mi piace perché una volta tanto è sintetico.

Vero Giorgio che man mano che l’uomo moderno abita anche gli spazi ridefiniti dalla tecnologia, li trasforma in propri, vale a dire in spazi delle idee, e cosi’ va oltre l’abitare, in un certo senso e’ un riconquistare, come licheni sulla roccia vulcanica?

La tecnologia è tutta umana, e l’uomo non è se non “homo technologicus” (titolo di un libro di Giuseppe O. Longo, consigliatissimo).
E non solo da MacLuhan in qua, ma anche con filosofi molto più anzianotti, sappiamo che la pensabilità stessa del mondo, la sua “leggibilità”, passa attraverso tecnologie dell’intelligenza (Pierre Levy), come già tecnologia è osservare il paesaggio individuandone potenzialità e possibili modificazioni per la sopravvivienza, la scrittura, ogni fare umano.
Noi umani, come specie, abitiamo da sempre Luoghi tecnologici. Anzi, anche da prima: non furono dei Sapiens a scheggiare le prime selci, a gestire il fuoco, a seppellire ritualmente i morti.

Quindi girerei il problema: non è l’uomo che va ad abitare gli spazi resi praticabili dalla tecnologia, è piuttosto la tecnologia, non solo quindi strumento ma “ambiente” mentale, che stabilisce la pensabilità del mondo come Luogo antropico. Ovviamente, con queste premesse, che si tratti di mondo fisico oppure digitale non fa nessuna differenza.

Alla base c’è appunto il concetto di Abitanza, quale dinamica di partecipazione (culturale, affettiva, storica) e sentimento di appartenenza ai luoghi della frequentazione, con in più – rispetto al semplice essere Cittadini dinanzi allo Stato – un risvolto autopoietico (Maturana) derivante dall’aver cura dei territori, nel rispetto ad esempio dell’impronta ecologica e della sostenibilità ambientale.

E ora quale blog verrà chiuso?

In Italia, chi si occupa con poteri legislativi o comunque decisionali di Internet, non capisce Internet.

E ora quale blog verrà chiuso?
Di Massimo Mantellini
Fonte: Punto Informatico

Nei giorni scorsi sono state infine rese pubbliche le motivazioni della sentenza di condanna che il giudice di Modica Patricia Di Marco ha inflitto allo storico siciliano Carlo Ruta nello scorso mese di maggio. Il sito web di Ruta, Accadeinsicilia.net, nel quale venivano raccolte testimonianze, appunti e articoli sulla storia recente dell’isola, è stato prima oscurato dalla Polizia Postale di Catania e poi definitivamente chiuso, per il reato di “stampa clandestina”. Senza entrare negli aspetti tecnici del dispositivo, commentati nei giorni scorsi da Guido Scorza su queste stesse pagine, vorrei dire che questa sentenza racconta in maniera chiara e puntuale la deriva ideale di questo paese.Se il giudice di Modica avesse avuto una idea seppur vaga di come Internet abbia in questi ultimi anni mutato lo scenario della comunicazione in tutto il pianeta, forse il suo punto di vista sarebbe stato differente. Perché oggi, secondo la legge alla quale si è fatto riferimento nella sentenza, gran parte della comunicazione in rete potrebbe essere considerata “stampa clandestina”. Tutto può a questo punto essere definito in qualche misura clandestino nella rete italiana, qualsiasi manifestazione del pensiero non correttamente bollinata lo è, qualsiasi appunto redatto su un blog, qualsiasi cosa che abiti anche solo pochi secondi dentro la grande rete.

La legge sulla stampa è nata quando ovviamente il mondo era assai differente da quello attuale, ma oggi? Oggi, dopo le “opportune” modifiche del 2001, secondo quella legge quasi ogni cosa sul web è clandestina, per lo meno se scrutata dall’osservatorio minuscolo degli ex padroni della notizia.

Ormai deserte (o quasi) le tipografie, impolverati i ciclostili, annullata dalla presenza di Internet molta della necessaria diffusione fisica delle pagine, il reato di “stampa clandestina” diviene due cose assieme: il patetico déjà-vu dei treni a vapore e la invece concreta e contemporanea minaccia per la libertà di espressione del pensiero da parte di un potere abitato dai soliti figuranti. Politici, giornalisti, grandi editori, grandi aziende in genere, gli unici soggetti che continuano a potersi concedere il lusso di leggi che tutelino i propri privilegi a dispetto di ogni sopravvenuta evidenza.

Alcuni anni fa, quando gran parte del Parlamento votò la modifica alla legge sull’editoria che ha consentito la condanna dello storico siciliano, fummo facili profeti nel sostenere che una simile definizione di “prodotto editoriale” applicata al web era una seria minaccia per la libertà di espressione in rete. Lo scrivevamo nel 2001, non oggi. Ne eravamo talmente convinti che questo quotidiano indisse allora una petizione che raccolse oltre 50mila firme. I firmatari chiedevano che un singolo demenziale articolo di legge venisse modificato, ma nessuno nelle stanze del potere ritenne di prestare attenzione a quel grido di allarme.

Così oggi sinceramente non so bene come commentare il fatto che Giuseppe Giulietti, parlamentare esperto di informazione, ex diessino attualmente all’Italia dei Valori di Antonio di Pietro, abbia presentato una interrogazione parlamentare sul caso di Carlo Ruta parlando di sentenza preoccupante dagli “effetti devastanti in spregio ad ogni regola della democrazia”.

Giulietti forse soffre di una qualche grave forma di amnesia, visto che fu proprio lui il relatore della legge che ha portato alla condanna di Ruta. Furono lui e Vannino Chiti – purtroppo lo ricordiamo molto bene – che con qualche fastidio si preoccuparono allora di tranquillizzare le migliaia di persone che in Italia chiedevano a gran voce che una norma nata per finanziare l’editoria sul web non comprendesse all’interno della definizione di “prodotto editoriale” praticamente qualsiasi pagina web.

Oggi Giulietti invece di fare pubblica ammenda e ritirarsi in silenzio in un eremo sperduto, si cala con disinvoltura nei panni di paladino della libertà di espressione, chiedendo al Ministro della Giustizia se non sia vero che “secondo la logica prevalsa, la quasi totalità dei siti web italiani, per il solo fatto di esistere, potrebbero essere considerati fuorilegge, in quanto appunto “stampa clandestina”, e ciò – secondo l’interrogante – in spregio a ogni regola della democrazia”

Noi purtroppo abbiamo buona memoria e ricordiamo che ad identica domanda postagli da Punto Informatico nell’aprile del 2001 in quanto relatore di quel contestato progetto di legge che oggi ha portato alla condanna di Carlo Ruta, Giulietti rispose in un piccato comunicato stampa nei seguenti termini:

“La legge sull’editoria non ha mai avuto tra i suoi obiettivi quello di imbrigliare le attività editoriali sulla rete. Sono quindi falsi gli allarmi e le preoccupazioni diffusi in tal senso.”

Internet in Italia è clandestina e lo è anche per colpa di questi signori capaci di confezionare norme che nessun paese civilizzato si sogna, per poi pacificamente dimenticarsene. Ma lo è nell’ottica del potere i cui strumenti di controllo ormai hanno esclusiva valenza intimidatoria o dimostrativa. In nessun paese meno che borbonico ci si domanda se un sito web sia aggiornato più o meno regolarmente per determinarne la natura editoriale. In nessuna sperduta landa un giudice monocratico di provincia deve impiegare il proprio tempo per argomentare le differenze fra un quotidiano web e un blog. E non meraviglia che ciò che poi ne esce sia una sentenza dalle motivazioni assurde, ancorché tecnicamente plausibili, grazie, o per colpa, della vaghezza dolosa del legislatore.

Il risultato è comunque sotto i nostri occhi ed apre la strada ad altre prossime iniziative simili: questo paese ha una legge dello Stato capace di chiudere la bocca a chiunque voglia esprimere sul web punti di vista non preventivamente autorizzati. Lo dicevamo sette anni fa, lo ripetiamo oggi.

Internet in Italia è oggi tecnicamente clandestina. Lo sarà fino a quando non scompariranno dalla scena i vari Bonaiuti, Giulietti, Chiti, fino a quando Gabriella Carlucci e Luca Barbareschi non torneranno alle loro rispettabili professioni, fino al momento in cui non cambierà radicalmente la comprensione dello scenario della nuova informazione mediata da Internet, che in troppi vogliono adattare a forza ad un mondo vecchio che sta scomparendo. Si tratta di sforzi inutili ma ci vorrà altro tempo per capirlo.

Consideriamo benevolmente tutti questi signori come gli attori sul palco di una stagione di mezzo, che prima o poi terminerà. Non vediamo l’ora. Quel giorno tutti noi saremo definitivamente clandestini e così, come per magia, nessuno lo sarà più. Solo allora forse sarà possibile smetterla di vergognarci di abitare in un paese dove per poter liberamente e civilmente esprimere il proprio parere ci sia bisogno dell’avvallo di un professionista iscritto all’albo. Un po’ come se per iniziare il mio prossimo respiro dovessi attendere la firma di un pneumologo.

Massimo Mantellini
Manteblog

Open access per i progetti europei

Una interessante segnalazione di Marco Scialdone (qui il suo blog) su Occasioneperduta.ning: parlando di adozione delle licenze Creative Commons per i risultati delle ricerche e delle documentazioni prodotte nelle Pubbliche Amministrazioni (in fondo, sono cose realizzate con soldi pubblici, e liberi e condivisi dovrebbero essere i risultati di queste ricerche, nella società della Conoscenza… poi penso che le Università si avviano ad essere brevettifici, e mi dolgo), viene indicata una recente delibera della Commissione Europea, riguardante proprio il lancio di un progetto pilota, all’interno del Seventh Framework Programme (FP7), per rendere liberamente disponibili in modalità open access i risultati dei progetti finanziati dalla UE.

Sette are sono interessate dal progetto: energia, ambiente, salute, tecnologie informatiche e di comunicazione, infrastrutture, scienze nella società, scienze sociali e umane.
I ricercatori dovranni condividere i risultati delle proprie ricerche e i relativi dati collegati attraverso un repository online. Inoltre devono assicurare l’accesso anche nel periodo successivo alla pubblicazione.
L’obiettivo del progetto è valutare se l’open access è il mezzo giusto per assicurare un accesso veloce e attendibile ai risultati delle ricerche, al fine di incoraggire l’innovazione, la scoperta scientifica e un’economia basata sulla conoscenza.
Si pensa inizialmente di coprire circa il 20% dei progetti finanziati all’interno del settimo programma quadro.
Link alla pagina originale: Open access pilot in FP7

Che dire. Magari. Magari un giorno qualcuno capirà.

E-government, la strada è ancora lunga

Fonte: il Sole 24ore

E-government, la strada è ancora lunga
di Giuseppe Caravita

L’internet di massa ha ormai più di dieci anni. Connette più di un europeo su tre, con punte, nei paesi Scandinavi, che superano il 70%. Centinaia di milioni di persone, e di organizzazioni abitualmente la usano per comunicare, informarsi, vendere e comprare, condividere e divertirsi.
Ma meno, molto meno, per superare ostacoli burocratici, per i cosiddetti servizi pubblici online o di e-government.

Nel 1999 l’e-gov era di gran moda. Tutti i governi d’Europa, Usa e Asia lanciavano progetti: l’obbiettivo sembrava a portata di mano, una pubblica amministrazione meno costosa, servizi più accessibili, tempo e denaro risparmiato dai cittadini. Non è andata così: l’e-gov, un po’ ovunque nel mondo, ha deluso tutti. Certo, con qualche eccezione (anche europea), ma questo filone di internet è rimasto il fanalino di coda della rete, agli ultimi posti nelle statistiche d’uso. Perché?
I ricercatori informatici convenuti in questi giorni a Torino alla Dexa 2008 questo problema, tra le righe, se lo stanno ponendo. Per esempio Jorg Becker e Bjorn Niehaves che, per conto del Governo tedesco, hanno sviluppato un’indagine sull’effettivo uso dei servizi pubblici in rete. Risultato: pur nella grande Germania, perno d’Europa, con il 45% di popolazione stabilmente connessa alla rete, l’uso dei servizi di e-government non supera il 20%, di cui l’11% per semplici informazioni e solo il 9% per servizi transattivi completi. Per contro, in Italia, le cifre, rilevate da Accenture, appaiono dimezzate: 30% di italiani online, di questi solo l’8% utenti abituali dei servizi pubblici informativi e solo il 3% dei pochi transattivi completi.
A confronto il 60% degli utenti internet tedeschi usa abitualmente le pagine di Wikipedia, il 30% fa e-commerce, e una percentuale analoga condivide files (legalmente o meno) sui circuiti peer-to-peer.

E’ un gap che si riduce solo nei paesi scandinavi, in Olanda (dover un servizio di autenticazione nazionale, base dell’e-gov, è attivo e ampiamente usato) in Austria e in Estonia, campione europeo grazie a un’agenzia pubblica dedicata e a un massiccio programma di marketing dei servizi.
Per il resto regna la delusione. Le nuove carte digitali vengono usate, nel caso spagnolo, tedesco e anche austriaco, prevalentemente come sostituti plastificati dei vecchi documenti cartacei. E solo in piccoli numeri come sistemi di autenticazione sul Web. La firma digitale stenta a decollare, un po’ ovunque.

Che fare? I punti chiave che emergono dalla quattro giorni di Dexa 2008 paiono tre: organizzazione, incentivi, apertura.
Laddove hanno potuto operare agenzie pubbliche realmente motivate e focalizzate sullo sviluppo dei servizi i risultati si sono visti. Non solo in Estonia, ma anche in Austria, Olanda e persino in Italia. Qui per esempio vale il caso del più antico operatore di servizi pubblici online italiano, il Csi Piemonte, che, unico nel Paese, è riuscito a diffondere a centinaia di piccoli comuni della regione i suoi servizi, grazie anche a finanziamenti centrali che hanno reso l’operazione a costo zero. In pratica il Csi Piemonte funziona da centro servizi anche per la Liguria e la Val d’Aosta. E dispone, già rodato da anni, di un sistema di autenticazione (cruciale per l’e-gov evoluto) che potrebbe essere rapidamente diffuso a livello nazionale.

Secondo: incentivi. Quando i piccoli comuni piemontesi si sono accorti che, con i nuovi piani governativi, l’adozione dei servizi telematici sarebbe stata di fatto gratuita li hanno adottati. E in Italia la dichiarazione dei redditi online (forse l’unica vera bandiera dell’e-government italiano) viene usata da centinaia di migliaia di commercialisti, patronati e altri intermediari per ridurre sostanzialmente i propri costi operativi.

Terzo: apertura. La comunità europea da tempo (anche qui tra le righe) si è resa conto del fallimento sostanziale dell’e-government. Servizi complicati, portali astrusi e ricalcati sulle precedenti procedure burocratiche, mai verificati con gli utenti, costruiti più per salvaguardare le amministrazioni che per risolvere i problemi della gente. Un esempio. La ricerca tedesca mostra tre gruppi di esclusi dalla rete: anziani, piccoli paesi rurali, disoccupati. I primi lamentano la complicazione della burocrazia online, i secondi la scarsità di collegamenti a larga banda, e i terzi sembrano refrattari a ogni forma di internet. Però, quando si tratta di accedere ai servizi informativi federali sui posti di lavoro disponibili, ecco che la media d’uso di questi “disconnessi” balza al 110% sulla media nazionale. Sintomo di un fenomeno già notato sulla rete: quando un servizio colpisce realmente un problema civico reale, e vitale, non c’è digital divide che tenga. «Vanno negli uffici federali a consultare internet per le offerte di lavoro – osserva Niehaves».

E così per siti civici pubblici creati spontaneamente negli ultimi mesi, come CrimeChicago (una comunità che si scambia informazione sui posti più o meno sicuri della città) oppure “Rate Your Doctor”, sito australiano (e inglese) che indica, a suon di esperienze reali, i medici e gli ospedali migliori, o da evitare.
Il cosiddetto Web 2.0 (ovvero l’internet partecipata dei Blog, dei Wiki e dei web scritti a più mani) sta rapidamente approdando ai problemi civici vitali e di ogni giorno (cosa diversa dai servizi pubblici) e una ricercatore italiano, David Osimo, ne ha recentemente censiti un centinaio, per le nuove strategie di ricerca della Commissione Ue.
E poi il connubio pubblico-privato. «Negli Usa stanno nascendo startup come la Nic che offrono gratuitamente alle Amministrazioni servizi di e-government -spiega Enrico Ferro del Politecnico di Torino- salvo riservarsi piccole fees su alcuni servizi più complessi. E solo con queste si ripagano le attività e fanno profitti».

Modelli di business di questo tipo se ne possono inventare diversi. Forse con l’annunciato federalismo fiscale anche le Amministrazioni locali italiane potrebbero porsi il problema di far rendere realmente l’e-government, sia in termini di minori costi interni che di ricavi aggiuntivi. Mettendo in moto un circolo virtuoso di investimenti. Aprendosi, magari tramite reali e provati specialisti, alla cooperazione con nuovi intermediari e, soprattutto, con gli utenti. Di quelli che hanno bisogno di un cambio di residenza veloce, di sapere se c’è lavoro, di una cura di qualità per una malattia grave di un familiare.

Vorrei sapere

A Udine hanno intercettato delle telefonate, e si è scoperto che un imprenditore, un avvocato e un albergatore (i nomi, personaggi noti, sono in cronaca sul giornale locale) organizzavano i giretti di troiette per “un noto esponente di Forza Italia”, in occasione delle visite di quest’ultimo qui in Friuli nel corso dell’ultima campagna elettorale. Fin qua, tutto rego, raga.
Però il politico, giustamente non indagato, rimane sconosciuto. O almeno, il suo nome non compare sulla stampa.
E invece io vorrei proprio sapere come si chiama, vorrei sapere se si tratta di un parlamentare, giusto per valutare la sua coerenza nel caso in cui si debba votare in Parlamento qualcosa tipo la legalizzazione della prostituzione.
Che poi il politico continui a fare quello che gli pare della sua libertà (senza intralciare la mia), ma se si dovesse comportare come il classico ipocrita sepolcro imbiancato, ecco, vorrei saperlo. O almeno credo vorrebbero saperlo i suoi elettori (sempre ottimista, io).