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Un muro. Foto presa da Corriere.it

Non è un Voi, è un Loro.

Non è un Voi, è un Loro.

Questa foto è un muro, e come tale va figurativamente interpretata.
Poi vengono le parole.

Le parole utilizzate dai capi di Stato, molti di loro già smascherati come ipocriti per l’incoerenza tra le loro azioni passate e la loro presenza a Parigi, sono specchi per parlare di sé, ombelicali, emblema di chiusura: Hollande parla di “Parigi capitale del mondo”, ponendo un Noi ineluttabile; Renzi parla dei “nostri” valori”; Netanyahu pone esplicitamente “il nemico”; Cazeneuve parla subito di frontiere da controllare, includendo internet quale luogo dove far rimuovere da parte di società web contenuti illegali, dichiarazione apologetiche, incitamenti all’odio.

Non dimentichiamoci che alcune scelte sono state fatte subito, stabilendo chi invitare e chi lasciare fuori, a esempio movimenti politici francesi certo scomodi per la linea che si voleva dare alla rappresentazione teatrale di ieri, senza considerare che proprio questo fare contraddiceva le parole che si intendevano pronunciare.

Sul piano discorsivo, appunto, l’intera retorica della manifestazione trasuda chiusura, pone un NOI fittizio, artatamente costruito e messo in scena come omogeneo, che come conseguenza nell’alveo del discorso istituisce non un VOI — sarebbe un attore legittimo del Dialogo, interlocutore ratificato — ma un LORO, estraneo, intoccabile, ignoto e incomprensibile, minaccioso.

Una mancanza di apertura, un ritorno al noto e al medesimo, una denegazione dell’Alterità, in un discorso nettamente politico, il quale non tiene in considerazione le conseguenze del proprio dire, essendo tutto ripiegato su sé stesso, muro contro muro.

Non so se la miccia sia accesa, ma so che gettare benzina è stupido.

Turismo locale, storytelling - Giorgio Jannis

Format di turismo locale, e narrazioni social territoriali

Format di turismo, social media, user-experience, dimensioni affettive, web marketing, narrazioni territoriali: tutto si tiene.

Incollo qui una cosa rapida che ho scritto ieri su Facebook. Per un motivo semplice: tutti gli approcci di marketing moderni ci dicono che quello che in realtà si vende è l’esperienza del servizio o del prodotto per l’utente, quindi tutto l’aspetto connotativo della fruizione di quel bene materiale o immateriale, il piacere, l’emozione, la qualità di quella nicchia di tempo e spazio dove chi compra valuta meritevole insediarsi, per ritagliarsi un momento per sé.

Conseguentemente, da parecchio tempo il mantra del marketing moderno è diventato “bisogna progettare delle esperienze”, meglio ancora se nel caso di social web marketing vengono concepite da subito, nativamente, delle progettazioni riguardo l’esperienza di una intera community, la quale poi, essendo intessuta di passioni e abitando attivamente una qualsiasi piattaforma, se ben coinvolta – senza raccontare fuffa, con originalità e autenticità – saprà dare gambe alla value proposition, che appunto sempre meno riguarda il singolo prodotto o servizio, ma piuttosto l’esperienza “di vita” che quel prodotto o servizio mi promette e mi garantisce.

Se devo promuovere un prodotto enogastronomico, a esempio, quindi direttamente legato a uno specifico territorio in modo non altrove replicabile, non posso non concepire il marketing in ottica di promozione turistico-territoriale. Il compratore vorrà affezionarsi al processo di coltivazione o di produzione, vorrà conoscere il vignaiolo e parlarci, vorrà soggiornare in loco e non in anonimi alberghi ma in luoghi caratteristici, vorrà in qualche modo partecipare alla realizzazione di quella bottiglia di vino o di quel prosciutto, per appunto far parte di un’esperienza unica: in tal modo maturerà un sentimento di appartenenza a quel territorio, dimensioni psicologiche affettivamente connotate che donano identità e senso al fruitore di un bene che è ben più ampio del comprare vino online.

Conseguentemente, tutta la narrazione sul prodotto va reimpostata sull’esperienza-utente; la conversazione sui social media va improntata sul feedback del cliente – la sua narrazione diventa la conversazione, smettiamola di parlare del prodotto; il social web marketing dovrà comprendere la necessità di inseguire i clienti attuali fidelizzandoli con approcci rispettosi della persona e dei suoi sentimenti, piuttosto che dilapidare patrimoni nella ricerca di nuovi like e fan e follower sperando in una lead generation che porti al semplice acquisto del prodotto, per poi abbandonare l’utente. Ma questo è un altro discorso, lo affronterò più avanti.

Qui sotto, il post su Facebook.

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Ma guardate qui. E faccia un ragionamento chi progetta esperienze turistiche e relativo storytelling in FVG.
Metti cento russi su un aereo, li fai atterrare a Ronchi dei Legionari, poi li porti a dormire in bed&breakfast con agriturismo, in qualche magnifico borgo rurale lì al centro della mappa tipo Clauiano o da qualche parte lungo il Torre. Poi nel raggio di VENTI CHILOMETRI gli organizzi le escursioni: Aquileia per cose romane e romaniche, Cividale per i Longobardi ottavo secolo, Palmanova e Gradisca come fortezze rinascimentali e secentesche, Torviscosa come esempio urbanistico pregevole di città di fondazione novecentesca. Se vogliono, si allunga fino a Udine, fino a Grado, fino a Marano, fino a Villa Manin, fino a San Daniele, fino a Trieste. Li porti a mangiare ovunque, li porti sul Collio o sui Colli Orientali a bere vino sopraffino, li fai passeggiare nelle vigne e nei castelli. Tutti in furgoncino, e via andare, felici e contenti. Oppure comitive di russi in Vespa.

jannis

A cosa servono i social

“La nostra esperienza non è costituita da un insieme di elementi puntiformi che si associano, ma da percezioni strutturate di oggetti e/o reti di relazioni, e che solo in questo campo di relazioni trovano il loro significato” leggete di Kurt Lewin su wikipedia, leggete di Teoria del campo, se volete. E poi pensate ai social, proprio come ambienti sociali, pensate ai significati condivisi che fanno emergere, attestandoli, facendoli diventare testo, patteggiato e negoziato, quando prima erano soltanto brandelli sfilacciati di melodie di pensiero sparse nelle teste, negli oggetti, nei luoghi del mondo. E per mantenere l’accento sulle relazioni, pensate ovviamente alla sintassi che lega e dona senso alle persone, alle loro posizioni esistenziali, a valore alle loro parole gettate.

C’era questo gioco di gruppo, molto eloquente e interessante per gli psicologi dell’età evolutiva, che qualche volta, molti anni fa, ho provato a condurre nelle classi scolastiche delle scuole primarie. Si tratta di una metodologia per rendere visibile la sintassi delle relazioni presenti all’interno di quel peculiare gruppo sociale costituito dal gruppo-classe, indagando in particolare due dimensioni: la leadership attribuita secondo la rilevanza dell’essere bravi a fare i compiti e quella relativa all’essere quelli preferiti per andare a giocare assieme. Sfera professionale e sfera ludica, rese visibili dal Luminol delle forze che agiscono nel campo.

A ogni bambino della classe, chiedete di scrivere su un foglietto il nome del compagno con cui vorrebbero fare i compiti o studiare insieme, e quello con cui preferirebbero andare a giocare. Poi radunate tutti i foglietti, e sulla lavagna cominciate a disegnare il grafo delle relazioni – può essere fatto anche in forma anonima, senza svelare chi vota chi, ma solo segnando le preferenze raccolte da ciascuno. Alla fine l’educatore vedrà emergere appunto i due leader della classe, quello “bravo” e quello “simpatico”, e potrà impostare un lavoro sul gruppo sapendo dove orientare i suoi sforzi per ottenere una maggiore leva al cambiamento dei comportamenti.

A questo, diciamocelo, potrebbero servire i social network. A far emergere i leader. Ok, lo hanno sempre fatto, anche prima dell’elettricità, e lo continuano a fare dentro Facebook e Twitter… però in modo per così dire “informale”. Ci sarà sempre qualcuno che esprime buoni contenuti e/o adotta uno stile adeguato a bucare lo schermo, verrà likato e amicato e followato da molti, ed emerge.

Io vorrei proprio invece una votazione collettiva. Una presa di coscienza. Prendiamo ogni nostro amico su Facebook, e per ciascuno che riteniamo papabile esprimiamo da uno a dieci un voto secondo quella  che riteniamo sia la sua capacità di leadership professionale (“lavora bene? sa gestire la complessità e l’emergenza? sa far fruttare i soldi? ha spirito imprenditoriale? sa governare tre o trenta milioni di persone? ha metodo? ha competenze? ha visione e comprensione del bene comune?) nonché con un altro voto valutiamo la sua attitudine a far star bene gli altri, quindi premiando la dimensione dello spirito, della comicità, dell’ironia, dell’empatia, del gioco, della compassione, dell’affettività. Votiamo chi ha testa e chi ha cuore. Così, secco, milioni di voti raccolti nel corso del 2015, e poi vengano mostrati i risultati.

A quel punto abbiamo i nominativi per rappresentare la testa e il cuore dell’Italia.

Foley - Jannis

Foley, ISIS, e la retorica dell’effetto-realtà.

La diffusione del video da parte dell’ISIS della decapitazione di Foley è un caso mediatico.

Perché, come subito in parecchi hanno notato, il video è montato, costruito, progettato. Contiene artefatti accortamente introdotti sul piano discorsivo e narrativo, sia sul lato dell’espressione sia su quello del contenuto, che in quanto stilemi facilmente decodificabili (secondo quale stilistica e codici? vedremo) cercano di affermare la veridicità, però non secondo una ricerca di trasparenza – anch’essa in ogni caso sempre “messa in scena” nell’effetto realtà. Nell’orizzonte delle attese del lettore, che siamo noi occidentali – non so bene cosa significhi, in questo contesto – qualcosa rimane insoddisfatto. Proprio perché la proiezione delle nostre aspettative su ciò che stiamo guardando non si incastra con il modo in cui la narrazione della decapitazione viene resa.

Qualcuno in Rete parlava di Brian De Palma, per citare un regista che esplicitamente come linea poetica (e Antonioni, e altri, certo) cercava di interrogarsi sugli effetti di realtà tramite l’opposizione vero/falso e falso/vero. Perché comunque siamo all’interno di un universo di discorso, che pone sé stesso in quanto rappresentazione e dissemina degli indizi per la propria comprensione, per la leggibilità del testo. E l’obiezione immediata è che nel nostro orizzonte di attese sopracitato quel video avrebbe dovuto essere piuttosto crudo, senza tagli e montaggi, un piano sequenza – l’elemento grammaticale della “presa diretta” sulla realtà, appunto, senza mediazioni. E invece questo video è montato. E qual straniamento, Verfremdungseffekt, ci viene da questa organizzazione del discorso.

Forse il “regista” pensava di essere più realistico in questo modo? Secondo quali codici espressivi, quale “poetica”? Ovvero, quale era la sua idea di “lettore modello”, per confezionare in tal guisa il suo messaggio? Oppure, come DePalma o altri ormai banali (trent’anni di massmedia scavano in noi) espedienti cinematografici, sta tessendo una narrazione disseminando sgambetti e inciampi alla nostra interpretazione? Oppure il fatto che, come l’incappucciato inquadrato, l’autore fosse forse inglese british e quindi fosse presumibilmente imbevuto in profondità di cultura occidentale gli ha fatto progettare (consapevolmente o no? qui il nocciolo per provare a decodificare l’intenzionalità autoriale, ovvero attribuire appunto una poetica) la realizzazione del video in quel modo, prima ancora di girarlo? Forse era semplicemente un appassionato di Premiere o Vegas o altri software di videoediting, e si è sbizzarrito come chi a livello amatoriale montando il video di un matrimonio eccede in dissolvenze incrociate e improbabili tendine? Perché? Perché?

Oppure, come dicevo sopra, il problema siamo noi. Inventio, dispositio, elocutio, in ogni aspetto ci sono domande. Decenni di retorica mediatica, o dovrei dire grammatiche per schivare la connotazione ormai decisamente negativa del termine, hanno costruito in noi delle attese, anticipazioni rispetto a ciò che il messaggio mediatico sta per narrarmi. Il messaggio è “ben formato” in sé, però cozza con le nostre aspettative riguardo la coerenza e congruenza con il contesto enunciazionale. Non è adeguato.  Non avrebbero dovuto farlo così. E anche qui mi chiedo perché, perché secondo i nostri codici non è adeguato. Perché se siamo catturati nella costruzione di un frame linguistico e mediatico dall’ISIS progettato e quindi imposto, la nostra reazione avrebbe dovuto essere automaticamente di sdegno e orrore e condanna, e così è, ma in modo nuovo, mediato, entrando e uscendo dalla fiction e dalla presa diretta. Eppure non si fa così, c’erano modi migliori per farlo, pensiamo noi. Perché? Perché?

Non riesco a venirne a capo, nessun cui prodest mi aiuta, nessuna possibile strategia narrativa praticabile da ancorare ai ruoli, in questa situazione del far sapere.

Sospendo il giudizio. Il regista è uno che si diletta di videoediting, questo posso dire.

yo - www.jannis.it

YO! Furbetto e lungimirante

Con Yo ci sei, e inneschi scintille, e ingaggi

Credo di essere stato velocissimo a installare Yo sul telefonino, forse maggio scorso, perché il concetto mi è piaciuto da subito. Yo è un single-tap zero character communication tool. Non potete scrivere niente a nessuno, semplicemente fare Yo, o pokare come si faceva una volta su Facebook.

Ma questo significa aver trovato una nicchia laterale, sempre esistita eppur forse quasi mai percepita e valorizzata, nell’ecosistema della comunicazione interpersonale mediata, ovvero tralasciare il contenuto del messaggio per concentrarsi sulla funzione fàtica del linguaggio (verificare il canale), a cui si aggiungono necessariamente piccole dosi di funzioni conative (interpellazione del destinatario, con richiesta di reazione) e referenziali (come deissi, un riferimento al contesto enunciativo). Vedi wiki per ricordarti di Jakobson.

Come molti già sottolineano – Federico Guerrini su La Stampa, Fabio Lalli che sottolinea gli aspetti economici dietrogiacenti, TechCrunch – quella che pareva una app interpretata all’inzio frettolosamente come stupidina si sta rivelando una macchina capace di amplificare notevolmente la nostra presenza in Rete, per il nostro stesso fatto di esserci e dire di esserci, facendo Yo. E la presenza su Web, tracciabile, già significa molto. Basti pensare all’interpretazione che diamo al “pallino” verde o rosso che rappresenta il nostro esserci e la nostra disponibilità, da ICQ a Skype a Hangout.

Detta ancora più filosoficamente, un “Io dico” è sempre un “Io sono io dico”, perché la voce ha un’origine, e ci situa nel mondo, in una circostanza di enunciazione, e quel dire veicola un’identità. Ora sul web quel semplice “Io sono”, quel “ci sono” fa già scoccare scintille sulle reti interpersonali mediate, la semplice presenza ingaggia software e persone a interagire con noi, messaggi estroversi che mandiamo e messaggi che possono raggiungerci, tramite i meccanismi automatici della Rete.

Ora Yo, che appunto non è un giocattolino come sembrava all’inizio, ha aggiunto dei servizi, rafforzando al contempo la nostra identità. Servizi per restare sintonizzati con quanto accade nel mondo, segnalazioni eventi e nuovi articoli su varie testate giornalistiche, uscite discografiche, annunci di Obama, oppure per dare dei comandi domotici e dire alle luci di spegnersi a casa nostra. Ma soprattutto Yo ora si interfaccia con IFTTT, e questo significa potersi programmare migliaia di azioni che possiamo compiere verso noi stessi, verso gli altri e verso gli spazi di pubblicazione, cliccando solo una volta. Qui è il valore, nella propagazione attraverso il sistema nervoso, prima ancora di una elaborazione cosciente dei contenuti.

Giorgio Jannis - www.jannis.it

Urban Center come cervelletto per i flussi di narrazione territoriale

Quasi un anno fa, tempus fugit, ho tenuto un workshop a questo bel convegno presso la Facoltà di Economia di Udine dedicato a Media e Cittadinanza digitale, promosso da Media Educazione Comunità www.edumediacom.it.

Il titolo del mio intervento era Smart City come Smart Community: reti di luoghi, flussi di narrazioni territoriali. Strategie identitarie per comunità ed Enti Locali e qui ora provo a lasciare una traccia del filo del ragionamento che intendevo dipanare, ma siamo ancora all’arcolaio e alla matassa, vediamo se ne faccio almeno un gomitolo riutilizzabile. Avevo anche una presentazione, ma è fatta di quattro parole e spunti, non la linko nemmeno. Vediamo.

Cultura TecnoTerritoriale, grammatiche di narrazione

L’esordio come mio solito contempla la necessità di provvedere nozioni di Cultura Tecnologica nel settore dell’educazione, nella consapevolezza di quanto poi il tutto si trasformi in Cultura Tecnoterritoriale, capacità e abilità di leggere il territorio e il paesaggio in quanto Oggetto tecnologico progettato e plasmato dalla specie umana, nel dialogo millenario tra la produzione e la distribuzione di risorse e la collettività che su quel territorio risiede.

Si tratta di fornire grammatiche della narrazione dei Luoghi, dove questi ultimi rappresentano appunto le parole o le parti del discorso millenario summenzionato, che quindi possono essere analizzate e comprese secondo una morfologia propria, una semantica, una sintassi. Pubbliche Amministrazioni, le imprese, le banche, gli enti territoriali, gli spazi naturali o naturalizzati, le città, tutti gli attori sociali sono nodi di una rete, e con strumenti di grammatica territoriale adeguati possiamo indagare sia i singoli nodi sia la sintassi delle loro relazioni storiche e attuali, funzionali e simboliche. Per gioco, provate a guardare la scheda madre di un computer come fosse una mappa geografica satellitare: trovate degli elementi che corrispondono alle stesse funzioni – luoghi di memoria (dischi fissi ovvero biblioteche e archivi pubblici), luoghi di elaborazione dell’informazione, luoghi di alimentazione energetica, pipelines di vario tipo. State interpretando ruoli e funzioni con una grammatica che vi permette di dare un nome alle parti e alle loro relazioni.

Certo, possedere grammatiche per leggere significa auspicabilmente poter disporre di strumenti per “scrivere” il territorio, per progettare un domani gli interventi che come collettività decidiamo di attuare, dando vita a un elettrodotto o a una facoltà universitaria o a un progetto di politiche giovanili.

Empowerment della collettività

Tutto parte dalla percezione del Luogo dove poggiamo i piedi e il suo orizzonte antropologico, da cui ricaviamo identità. Uno spazio di conoscenza, la cui frequentazione determina i noti meccanismi di partecipazione, da cui il nostro sentimento di appartenenza. Cose di secoli che ci avvolgono, storie di persone e eventi e topografie scritte e narrate dal nostro abitare. Eppure innanzitutto il territorio va misurato come paesaggio costruito, come risultato del nostro agire in esso, secondo dimensioni analizzabili tecnosocialmente.

Ho il Territorio e ho i gruppi che lo abitano, flussi nella collettività, tracce di espressione, forme di coinvolgimento. E tutto il nostro Abitare sul territorio da secoli determina una forma di empowerment della collettività, la quale vedendosi specchiata nel paesaggio e nell’economia e nelle infrastrutture e in tutte le rappresentazioni culturali che emergono dalla quotidianità prende consapevolezza di sé, del proprio stile dell’abitare, unico e originale per ciascuno collettività di questo pianeta.

Come due lati di una stessa medaglia, come hardware e software: in realtà non esiste una smart city senza una smart community, e forse riportare l’attenzione sulle dinamiche e sui comportamenti delle collettività umane può tornare utile per calibrare meglio il cambiamento che i luoghi dell’Abitare stanno vivendo, sotto la spinta delle innovazioni tecnologiche. Certo, Internet delle Cose e wifi cittadino, fibra ottica e sensoristica diffusa rendono la dimensione iperlocale eloquente; ma una vera e nuova Cittadinanza, su cui riflettere e a cui educare le giovani generazioni, non può non passare per una consapevolezza di una nostra identità personale costruita e negoziata nelle prassi quotidiane di comunicazione mediata e sociale, tanto quanto le collettività possono ora veder emergere narrazioni territoriali spontanee in grado di far meglio comprendere lo stile concreto del nostro abitare sul pianeta.

Ovviamente, tutta questa rappresentazione di noi stessi a noi stessi, che fino a ieri veniva messa in scena nelle arti e nei massmedia dell’informazione, trova nella Rete uno strumento potentissimo, ove avviene la messa in scena della nostra identità, dinamica e cangiante. La percezione della città, ora da concepire come Smart city, ne viene radicalmente modificata. Ora abbiamo sensoristica, local awareness, luoghi eloquenti.

Dashboard cittadine, cruscotti dell’Abitare, flussi e sensoristica

Per farvi ispirare, ecco un link al sito Art is Open Source (Iaconesi e Persico) che mostra in tempo reale come si può tracciare l’ecosistema culturale della città di Roma, oppure buttate un occhio alle varie dashboard (bacheca/display di visualizzazione, cercherei/inventerei un’altra parola ma per ora teniamoci “cruscotto”) delle città come Londra, Oberlin in Ohio, Amsterdam.

A questo punto possiamo intrecciare un’altra considerazione, ragionando sugli Urban Center, strutture, pubbliche o pubblico-private, che da alcuni anni operano anche in Italia nell’ambito delle politiche urbane, con funzioni documentali, partecipative ed analitiche, di solito per accompagnare i nuovi piani urbanistici, strategici e strutturali. Gli Urban Center sono fortemente caratterizzati da una mission civica, ovvero dall’obiettivo di migliorare l’efficacia delle politiche pubbliche e, nello specifico, di quelle urbane (mobilità, edilizia pubblica, infrastrutture, progetti privati, etc.). Questo si traduce nel tentativo di stimolare il dibattito con mostre, convegni e pubblicazioni e nella volontà di dotare la cittadinanza di strumenti e competenze per incidere nel processo delle trasformazioni urbane. Si tratta insomma di luoghi di orchestrazione e confronto degli interessi dei gruppi sociali cittadini/territoriali, accesso della società civile ai processi decisionali che producono le politiche d’intervento.

Ebbene, come dicevo, intersechiamo questi ragionamenti. Abbiamo delle nuove modalità di rappresentazione delle strutture e dei flussi territoriali di energia materia e informazione, possiamo tracciare in tempo reale la distribuzione e il movimento di persone e merci, la visibilità di questi specchi elettronici ci permette di vederci e prendere coscienza di noi stessi come compagine sociale in modo nuovo. Abbiamo dei luoghi territoriali deputati a incanalare e organizzare e ridiffondere i flussi informativi prodotti dalla collettività residente su una determinata estensione geografica, quegli Urban Center (i quali dovrebbero essere palestre di Cittadinanza digitale, dove molti ragazzi dei varii Progetti Giovani o Agenzie giovani tipicamente promosse dai Comuni potrebbero passare un po’ di tempo, familiarizzandosi e professionalizzandosi con la narrazione multimediale del territorio, una Civic Curation dei flussi cittadini) che funzionano un po’ come dei grossi gangli del sistema nervoso cittadino, dove l’informazione degli organi di senso viene organizzata e rielaborata e rispedita verso i luoghi decisionali da una parte e come feedback nuovamente verso il sistema nervoso periferico.

Anzi, di più. Non essendo lo Urban Center il centro decisionale, il cervello di questa metafora organicistica, lo possiamo equiparare al cervelletto, dove tutti i segnali nervosi, le connessioni convergono per prime sistematizzazioni, restando sotto la soglia della coscienza. Ma una volta pubblicati i flussi informativi cittadini, sulle dashboard, tutti ne diventano consapevoli, tutti gli attori sociali. Pubbliche Amministrazioni possono progettare meglio la città e i suoi servizi, e ne traggono vantaggio anche le aziende, le associazioni, i cittadini.

Gli obiettivi sono quelli soliti, ma risulterebbero potenziati dall’adozione di questi specchi elettronici in cui vediamo chi siamo mentre viviamo:

  • possiamo incrementare la governance urbana, attivando un processo di co-decisione e co-pianificazione tra i gestori e gli attori della trasformazione urbana
  • possiamo produrre un quadro conoscitivo e interpretativo delle risorse patrimoniali, umane e culturali della città, capaci di attivare processi di rigenerazione e promozione
  • possiamo produrre un quadro valutativo delle trasformazioni in atto e dei progetti di riqualificazione e sviluppo urbano
  • possiamo ridefinire metodologie e strumenti per il coordinamento e l’integrazione dei progetti di riqualificazione urbana e per la progettazione di scenari di sviluppo
  • possiamo sperimentare e mettere in atto pratiche di pianificazione, politiche urbane e progetti di rigenerazione

“Perché nasca un significato condiviso, l’informazione deve essere interpretata dai singoli attori e l’interpretazione data da ciascuno di essi deve essere socialmente negoziata”.

La Grande Bellezza | www.jannis.it Udine

“La Grande Bellezza” è un’impronta

La grande bellezza

“La grande bellezza” è blablabla.
“La grande bellezza” non è la Grande Bellezza. È chiacchiera che ottunde e confonde. In quanto rappresentazione è sintomo: in particolare è impronta, indica ciò che non appare e non c’è, segno d’assenza.

Tutto quello di cui il film parla non può essere narrato, se non in quelle configurazioni discorsive di superficie affettivamente connotate dei primi piani, o suggerito negli scorci architettonici codificati di Roma, oppure delineato dai richiami estetici espliciti sapendo che la luce e il colore sono il primo attore di qualsiasi rappresentazione, oppure ancora schivato come la rabbia di una bambina che mette in scena la propria rabbia.

Come il protagonista vuol essere re della mondanità per avere il potere di far fallire le feste, così il film allestisce al massimo grado la scena della costruzione della bellezza, per poter da sé sabotare non la bellezza, ma il discorso della Bellezza, inattingibile questo quanto quella ineffabile.

Consapevole di essere trucco, metalinguaggio, messinscena di una rappresentazione senza cui non vi può essere narrazione, “La grande bellezza” è umile.

Sapendo di dover puntare sulla seduzione della Bellezza, sul mistero, fa leva sul nostro voler-sapere schivando scientemente il pericolo di un dover-sapere, ovvero di una provocazione come modalità di manipolazione del lettore. Altrimenti fallirebbe, negherebbe il proprio negarsi al mostrare.

Il film resta guitto e allude, altro non può fare per chiamarci a giocare con lui.
Fermandosi sulla soglia della promessa, dell’apertura al mondo, nella notte illuminata ritmicamente da un faro di assoluto essere qui e ora.

La narrazione filmica come la socialità mondana verbalizzata dai protagonisti tiene compagnia e bonariamente ci prende un po’ in giro, e qui non mi interessano i richiami sociologici all’extratestuale della decadenza. Quel che mi piace è che il film sappia di non essere Bellezza e provi italianamente a illuderci.

La Bellezza è altrove, come forse ciò che non può essere detto e deve restar silente, e il film è il dito che indica la Luna. Non di lui devo parlare, non mi ha stupito, non mi ha educato, non mi ha divertito, non mi serve, ma in fondo l’arte non serve nessuno e nessuna cosa. L’arte è futile. E in questo “La grande bellezza” riesce a essere animato di leggerezza.

(Originariamente scritto su Facebook, qualche mese fa)

Aggiornare la (propria idea di) collettività, per giornalisti

Ero a Cortina per partecipare alle giornate di aggiornamento professionale per giornalisti, da quest’anno (!) obbligatorie, chiamato dall’Ordine dei Giornalisti del Veneto tramite Carlo Felice Dalla Pasqua. Io e Sergio Maistrello, io per parlare di qualcosa vicino al civic journalism, lui di fact-checking.

Beh, a me interessava sottolineare quanto la percezione stessa che un giornalista ha del suo lavoro, del suo metodo, della sua ricaduta sulla collettività dipenda proprio dalla percezione che della collettività questo giornalista possiede. Una rappresentazione mentale, un Lettore (collettivo) Modello, a cui pensa e si rivolge mentre progetta e costruisce e distribuisce il suo pezzetto di informazione, magari fornendo approfondimenti e collegamenti.

Perché, vecchia tiritera, il messaggio assume senso nel momento in cui cade in un contesto preciso, qui e ora. Una circostanza di enunciazione, sissignori. E di quel testo si può analizzare il cotesto – pensiamo all’impaginazione a flusso di moderne forme di cronaca – comprendendo quanto la giustapposizione o la vicinanza di un articolo a un altro di tutt’altra specie determini l’interpretazione che ne daremo. Pensate a Twitter, pensate alla bacheca di Facebook.

Ma c’è di mezzo l’idea di collettività, appunto. Iperlocale o su scala nazionale, la dimensione e le dinamiche abitano nella testa del giornalista. Che magari pensa ai suoi lettori come audience, o come gentiluomini ottocenteschi che sfogliano il giornale mentre sorseggiano una bibita in giardino, quando invece è ben chiaro quanto la fruizione delle news sia radicalmente cambiata, nei ritmi, nei luoghi dove essa avviene, nei dispositivi su cui viaggia, per non parlare del fatto che proprio uscendo dall’idea di audience sia necessario provare a concepire i lettori come partecipativi, prosumer, commentanti e distribuenti, e altre cose così. Ovvio, cambia tutto. E civic journalism, lo dicono quelli bravi, significa in prima battuta proprio questo, modificare la percezione della collettività da cui un giornalista trae e verso cui rimanda l’informazione più o meno elaborata, riposizionando la propria professionalità in direzione di una responsabilità nei confronti della comunità. Fornendo strumenti per capire meglio le cose che avvengono, promuovendo il pubblico dibattito, affiancando i cittadini nelle scelte riguardanti la vita pubblica.

The art and form of storytelling

The Future is Now: 5 Things pushing the art and form of storytelling

See on Scoop.itNarrazioni di ogni genere

giorgiojannis‘s insight:

Ho bisogno di un eroe. Di un lupo, di un drago, di una babayaga, di una sanzione, di una manipolazione patemica, di un valore. E allora parleremo bene di narrazione, che non sia soltanto uno spammare un po’ articolato e multimediale.

See on www.sundance.org

Critica della democrazia digitale, con Fabio Chiusi

reblogLa democrazia è una tecnologia. Un artefatto concettuale, che poi diventa metodo e prassi. Strumento di civiltà che la collettività sceglie da sé, per sé stessa. Qualcosa che abbiamo inventato progettato e cerchiamo di applicare, su cui possiamo intervenire per migliorarla. Un modo storico per garantire una maggiore qualità dell’Abitare, seguendo certi valori che riteniamo prioritari. Nel tempo, cambiano i valori, cambiano i modi. Oggi si parla di democrazia digitale. E forse la narrazione di queste nuove forme di partecipazione e rappresentatività e decisionalità merita uno sguardo capace di discernere, una critica.

Per Vicino/lontano e Friuli Future Forum domani alle 18.00 alla Libreria Tarantola a Udine chiedo a Fabio Chiusi di raccontare ombre e luci di una innovazione tecnosociale che riguarda tutti noi.

vicinolontano.it/eventi/critica-della-democrazia-digitale/

Ibridazioni narrative

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Narrazioni prevedibili. È sempre accaduto, siamo lì e ci annoiamo. Ma la fiducia è sempre ben riposta, per questa spinta che possediamo a nominare le cose e a raccontarle. Il poeta è proprio lì come avanguardia della specie, e mica trova solo cose nuove da dire, trova parole nuove per dire cose vecchie, o parole nuove per dire cose nuove che in lui son nate per una sensibilità a rilevare in modo nuovo cose vecchie, e nascono nuovi contenuti che magari lui riuscirà a mettere in forma. Ma a me questo interessa, la narrazione delle forme narrative. La nascita dei generi, a esempio, e lì i protopoeti di cui sopra sempre quelle strade praticano, per spezzare i linguaggi: quel contenitore di storie che può essere un sonetto, una canzone, un panegirico, un’ode, un’invettiva, una tragedia, una commedia, una farsa, un cinque atti, un intermezzo musicale, un videoclip, un format televisivo qualsiasi, viene stiracchiato spezzato specularizzato serializzato estraniato nelle sue componenti figurative o attoriali, e da questa crosta di linguaggio sedimentario fuoriesce magma nuovo che sempre ribolle sotto, nuove urgenze espressive, parole nuove che con facilità permetteranno ai poeti e poi a noi tutti di individuare nuovi modi per raccontare le cose, e auspicabilmente anche cose nuove da raccontare, perché i sentimenti umani e gli atti cognitivi trovano nuovi stampi dove riversarsi e prendere forma. Dove prima c’era il silente che non poteva essere detto, ora c’è l’espressione vagamente intuita, uno spiraglio della porta che permette di sbirciare al di là, un possibile che diventa essere, un Es che diventa Io.
E se i ritmi dei media classici sono lenti, le parodie o i camuffamenti letterari o comunque le nascite di nuove forme prendono il tempo dei decenni, o dei secoli. Passano tre o quattro secoli dal romanzo cavalleresco a Ariosto o a Don Chisciotte di Cervantes impazzito dalle troppe letture, e la sensibilità dei tempi fa compiere ai poeti giganteschi mashup e vulcaniche rotture di paradigma narrativo, portando alla luce riflessioni che mai avrebbero potuto prima emergere, proprio perché da quelle ormai classiche nutrite.
Ma la TV ci ha messo poco tempo per inventare le parodie o per far nascere Blob, ancor meno ci metterà il web a stufarsi dei format attuali, che nelle forme dei social in 140 caratteri o del grande stabilimento d’umanità privato e commerciale – Facebook – sono ancora pesantemente novecenteschi. Già s’intravedono le prime incrinature, zigzaganti crepe interrompono la superficie dei luoghi di narrazione contemporanei, incapaci di incanalare forze espressive sotterranee che faticano a trovar contenitori adeguati. Twitter è vecchio, prevedibile, prevedibili sono le sue narrazioni e i suoi schemi d’interazione, i commentarii esplodono dando vita a nuovi generi letterari come accadde per i manoscritti chiosati medievali, nascono ibridazioni come già accadde per serial o sitcom televisive dove da un episodio nasce uno spin-off autonomo, le generazioni vivono ciascuna un Eterno Settembre e giudicheranno male i nuovi arrivati niubbi e menefreghisti rispetto alle regole di una grammatica che i fondatori ritengono sacrosanta e invece come tutte le grammatiche di una lingua viva non può far altro che evolversi, magari nascerà un ornitorinco con le zampe e il becco d’anatra che fa le uova e poi allatta i cuccioli, ci sono social network (tipo in Cina, toh) che mischiano pesantemente skype e twitter e facebook e soprattutto ospitano nativamente profili e narrazioni e interazioni commerciali, e di sicuro il mainstream delle forme narrative della contemporaneità supererà rapidamente questa segmentazione a comparti stagni e ad account proprietari, perché con il cellulare always on io voglio essere dappertutto sempre e non saltare di qua e di là in luoghi senza più confini, dove i confini dentro una Rete non hanno più decisamente senso.

Aporia e metodo

aporia

Squisitamente gangherologico il ragionamento, dall’aporia al metodo. Quel meraviglioso darsi di una porta laddove non pensavo ce ne fossero, laddove non ve n’era alcuna, almeno nel “lessico aspro”.

José Ortega y Gasset, “Idee per una storia della filosofia” – Sansoni 1983

Salutami Solstizio

La riflessione poi è questa: stiamo fabbricando ricordi con modalità nuove. Stratigrafie, e sovvengono visioni di ere geologiche, il depositarsi di sabbie e miriadi di gusci di vita che creano roccia, sotto la pressione, nel tempo.

Però ci sono i ricordi legati allo sguardo, al gesto, poi alla parola emotivamente significante, poi quelli dei testi scritti e lasciati lì a decantare mondi.
Poi ancora, negli ultimi quindici anni, ci sono i ricordi delle cose che ho letto in Rete, le discussioni a cui ho partecipato, e questi a loro volta come le parole e i libri hanno un modo tutto loro di depositarsi nella memoria e costruire strati orientati, si collegano tra loro e con le altre tracce in modo del tutto nuovo, reticoli, intrusioni, affioramenti, mescolamenti.

Senonché, credo anni fa di aver usato un servizio web che prometteva di mandarmi una mail tra un certo numero di anni. Cioè, credo essermi mandato una mail nel futuro. Idea che mi affascina.
Mi viene in mente quando leggo il giornale, e cerco di guardare l’ora in un angolo della pagina, come fosse uno schermo. Parlavo con una persona, e stasera le dicevo “vedrai che tra dieci anni taldeitali verrà a dirti questa cosa qui che ti ho appena detto” e mi è venuto subito in mente che avrei voluto mandarle una mail a questa amica, in quel momento, con data di consegna 1° settembre 2023, che dicesse paro paro quanto le avevo appena raccontato.
Perché c’è poco da fare, a me piace pensare al futuro, anche quando la vita mi costringe a.

Brancolare, bricolare

Una volta scrivevo di getto qui, caro blog, ora c’è Facebook, come saprai.
L’argomento è sempre quello di molti anni fa, le politiche e le pratiche dell’introduzione delle TIC in classe, in seguito al fatto che l’attuale Ministra ha deciso di rinviare sine die l’introduzione dei testi scolastici elettronici a scuola, ed è chiara a tutti la pressione esercitata dagli editori tradizionali, ed è chiara a tutti la miopia della Ministra.
Qui tutta la discussione, questo il mio commento vagabondo alla tematica della sperimentazione in classe.

Abbiamo attraversato questa discussione così tante volte, su bacheche su forum sui commenti di un blog qua o là su piattaforme e-learning sui social forse in mondi 3D, abbiamo spesso avuto posizioni discordanti, che ormai è chiaro a tutti che siamo qui tutti al di là del contenuto. Parliamo come vecchi amici al bar, io sono il più giovane dal basso dei miei quarantasei anni, capirai, siamo incorreggibili. Non cambieremo idea. Quindi posso continuare. Sperimentare è fare per fare, sì. Non è approccio scientifico, non formulo ipotesi da falsificare, gioco piuttosto con le cose, bricolare. Se il bambino sta fermo non mescolerà mai giallo e blu, il verde non nascerà come attività manipolatoria. Aggiungo brancolare al bricolare, guarda, per indicare proprio quell’esplorare (non è cieco: ci vede benissimo, ma è buio) della nella materia, degli incastri, delle procedure. Noi abbiamo imparato il computer (non so cosa vuol dire) sperimentando, senza manuali d’istruzione. I bambini uguale. La scuola vuole il manuale. Non vuol farsi carico di una quota di autoapprendimento, tentativi ed errori, avere il coraggio di sbagliare così la prossima volta sbaglia meglio, imparando. E parlo della scuola, eh, dell’organizzazione lavorativa con la sua storia, perché il problema qui va risolto a livello di bosco, non di alberi. Io non formo insegnanti, io formo cittadini. Poi quei professionisti della formazione sapranno con la loro intelligenza e visione piegare gli strumenti e i punti di vista che io offro loro. E a sua volta la scuola è un albero in un bosco chiamato società, attore sociale ratificato incaricato come un Eroe di portare a termine la sua missione di inculturazione, a fornir cittadini armoniosi alla maggior età, che io vorrei peraltro critici e consapevoli, potenti e autonomi. Questo anche per uscire dalla visione strumentale delle TIC, che ogni tanto fa capolino in noi. Perché tutta la scuola vive in un mondo profondamente mutato, tutte le pratiche scolastiche vivono dentro una scuola chiamata come organizzazione PA a mutare, le pratiche didattiche a loro volta non possono non tenere in considerazione i nuovi modi di abitare il pianeta, dal punto di vista del reperimento informazioni e narrazioni alle nuove grammatiche dell’espressione di sé permesse dalle TIC. Con la carenza di digitale di cui parli tu forse riesci ancora a fare bene alcune cose didattiche, ma non fai buona scuola. Il digitale non è l’Aiutante della Storia di quell’Eroe qui sopra, è contesto e circostanza dell’enunciazione, è linguaggio dentro cui i personaggi vivono, abitano. Introdurre dispositivi a scuola non è sperimentazione didattica, attenzione, è semplicemente allestire una scena naturalisticamente ispirata alla realtà, dove come sappiamo il docente deve essere semplicemente un regista dei flussi narrativi in entrata e in uscita nel gruppo classe, accorto e lungimirante, indipendentemente dalla fonte di provenienza dei flussi, esseri umani o depositi di conoscenza su ogni tipo di supporto disponibile. E i supporti oggi non sono più soltanto i libri, per tornare a noi. Sperimentazione avviene nel provare a piegare gli strumenti, senza sapere bene come. Come una maestra che usa Powerpoint per fare un cartone animato, piegando lo strumento a qualcosa per cui non era stato progettato, magari senza rendersene conto. Ai bambini non insegni powerpoint, insegni a fare un reportage sulla centrale idroelettrica. E *mentre* fanno il reportage, imparano powerpoint. * Mentre* la maestra progetta la didattica di scienze umane, utilizza gli strumenti. *Mentre* la scuola organizza la propria vita, impara le tecnologie disponibili per migliorare la propria efficienza come macchina organizzativa, e la propria efficacia nel provvedere a insegnanti e discenti il miglior AMBIENTE orientato all’apprendimento, e questo ambiente in tutti i secoli credo si sia pensato potesse essere migliore quanto più nutrito di dispositivi per supporto memoria, esplorazione del mondo, espressione di sé, pratiche d’insegnamento coinvolgenti e stimolanti. Le TIC vanno messe lì, come vedi, per mille motivi. Ma soprattutto perché vanno abitate, per poter dire di abitare il mondo. Messe subito nelle classi e negli uffici, forse brancolando, così la scuola asssomiglia al mondo vero.

Scolpire gli eventi

Come insegnano i film, i giornalisti americani ovvero da decenni tutti i giornalisti del mondo hanno ben presente lo schema delle 5W, con cui descrivere subito all’inizio del pezzo attori contesto e circostanze dell’evento da narrare (che quindi diventa notizia, avendo superato il vaglio della notiziabilità), in quella che viene detta piramide inversa, dal punto di vista dell’esposizione dei contenuti.


WHO, WHAT, WHEN, WHERE, WHY.


Ma trovo su Wikipedia indicazioni secondo cui la retorica classica aveva già organizzato in modo simile i luoghi narrativi essenziali al racconto di un evento: 
i filosofi e retori dell’antichità hanno indagato approfonditamente la possibilità di esplorare un tema di discussione attraverso una griglia di domande fisse e standardizzate. Il retore Ermagora di Temno, secondo quanto riferisce lo pseudo-Agostino nel De Rhetorica [1], definì sette «circostanze» quali tòpoi di un tema: 

Quis, quid, quando, ubi, cur, quem ad modum, quibus adminiculis

Poi Cicerone, Quintiliano, Vittorino, Giulio Vittore, Boezio che “applicò le sette circostanze all’oratoria e ne fece elementi fondamentali per l’arte dell’accusa e della difesa”: Quis, quid, cur, quomodo, ubi, quando, quibus auxiliis. Sempre di loci argumentorum stiamo parlando. Quelli poi ripresi anche dalla Chiesa nell’approntare direi il protocollo dell’indagine confessionale, in un Concilio del 1215, quella formula che poi sarebbe rimasta immutata per secoli Quis, quid, ubi, quibus auxiliis, cur, quomodo, quando.

Da Tommaso d’Aquino ci viene uno schema perfetto anche per il giornalismo odierno nella costruzione di una corretta informazione, nella suddivisione in otto elementi fondamentali che sono però ora capaci anche di individuare le circostanze dell’evento da narrare, oltre a soggetto e oggetto. Si giunge quindi a formulazioni in grado di connotare gli eventi, determinandone il senso univoco come cronaca.

Latino Italiano 5 W
1. QUIS «Chi» “Who”
2. QUID «Cosa» “What”
3. QUANDO «Quando» “When”
4. UBI «Dove» “Where”
5. CUR «Perché» “Why”
6. QUANTUM «Quanto» assente
7. QUOMODO «In che modo» assente
8. QUIBUS AUXILIIS «Con quali mezzi» assente

Un abitare dislocato ovvero quanta grammatica

Dentro la casella mail i messaggi li metto unread, affibbio etichette, li segno importanti, metto una stellina, li organizzo per categorie. Quanta grammatica. Articolare sistemi di significazione, per meglio organizzare i processi di comunicazione.
Potrebbero anche stare un po’ fermi con le manine, eh, quelli di Google.
Hanno tolto Reader, rifatto le mappe, Google+ spamma, la mail è rivoluzionata. E noi dietro.
Ma non è cosa che puoi progettare in un gruppo di dieci venti cento persone. Assomiglia a quella cosa dell’automobile che puoi avere in tutti i colori che vuoi, purché nero. Mentre oggi potremmo adattarlo alle persone, il design e i criteri di usabilità, perché posso innanzitutto misurare molte cose prima di progettare l’interfaccia, e a me piacerebbe molto sapere come miliardi di persone gestiscono la mail, ritmo organizzazione funzionalità e cosette. E poi perché posso fare seriamente crowdsourcing, crowdhearing, altre cosette per realizzare prodotti che mi calzano come un guanto.
Ovvero, la stessa cosa: sono sempre in mezzo alla gente, abito nelle conversazioni, tutta la filiera dell’RFID (toh, un hardware) va dall’ideazione alla progettazione allo sviluppo alla promozione early alla diffusione e feedback costante, quindi.
Però se passo a ragionare macro, non posso trascurare l’ecologia della Internes. Nicchie, certo. Perché a un certo punto accade che il prodotto che ha avuto successo aggiunge una feature, e quello delle foto fa i videi, e quel sito diventa social, e si insegue lo share più del like perché noi siamo per l’engagement, mentre a me piace andare in giro per baretti diversi e diverse piazze o cittadine, girando in Vespa, e dedicare ciascun a cosa a una funzione, a un oggetto culturale da produrre e distribuire, a una comunità rete di persone. Nel digitale non ho bisogno di sottostare alla dura legge degli atomi e della incompenetrabilità dei corpi che mi costringe a fondere telefono e macchina fotografica perché mi scoccia avere in tasca due cose anziché una. Nel web ce n’è di spazio “anatomico” – senza atomi e attento alla forma e struttura, posso fare un negozio tutto per collari di cani asiatici e un altro dedicato agli antiparassitari antipulci, che mica devono stare insieme perché entrambi parlano di cani.
Se voglio geotaggarmi, scelgo tra i molti software/app/ambienti quello che mi piace di più, che rispecchia il mio stile, che posso personalizzare secondo il mio stile dell’abitare, che si rivolge a una certa community su cui coltivo un certo mio tono. Poi chiacchiero da un’altra parte o molte altre, traggo informazioni da molti aggregatori o curation tool, guardo foto qua e là, il video è ovunque, posso embeddare ovunque quando spammo, strumenti che mi facilitano la scelta di percorsi multipli (questa cosa la metto qua, questa la metto là) senza ricorrere al facile stratagemma di costringermi a vivere in un posto solo. Sempre Novecento.Anzi, ancor prima, assomiglia ancora all’artigiano preindustriale che doveva avere tutti i suoi arnesi sgorbia pinza e provetta sul tavolo di lavoro (sì, il desktop dei sistemi operativi), e poi alla fabbrica che tira a sé i binari del treno, il traliccio dell’energia, i percorsi di distribuzione e smaltimento, tutto centralizzato. Ebbasta. Pensate dislocato.

Siamo dentro una Rete, sapete? Una roba sempre esistita, ma oggi elettronica. La via più breve non è quella dritta, la vostra mail passa per Parigi prima di arrivare in Comune, è un sistema stupidissimo e efficientissimo, dentro un’altra logica di funzionamento della distribuzione dell’informazione, roba immateriale.
E qui dentro le città hanno infinite piazze e negozi sempre aperti, e fa proprio bene alla salute fare delle passeggiate, ogni giorno.