Archivi autore: Giorgio Jannis

Morte dal vivo

E’ morto un tipo, suicidandosi in diretta durante una videochat pubblica, e non è neanche il primo, e non sarà neanche l’ultimo.
Oltre a nausearmi l’esempio di basso giornalismo pettegolo e sensazionalistico del tgcom rispetto a wired, mi chiedo se poter finalmente suicidarsi in pubblico ma senza nessuno che cerchi di impedirtelo aggiunga sapore all’esperienza.
Anzi, ci vorrebbe una setta religiosa che pone l’attimo del rientrare nel Tutto, sia esso volontario o involontario, quale supremo sacramento da mettere in scena nelle Chiese digitali, altrimenti qui ognuno si leva la vita davanti soltanto ai suoi amici o in eventi pubblici gratuiti, ma se c’è del pubblico pagante io voglio anche un officiante rivestito di ruolo ufficiale nonché sanzionatore dell’avvenuto decesso.
Anche il medico col camice bianco che certifica la morte in diretta di qualcuno sulle webtv potrebbe diventare un personaggio consueto, così come le location classiche tipo rupe a picco sul mare oppure camere d’albergo.
Chiunque interviene sulla scena del crimine per primo sappia di essere probabilmente in diretta, verrà anch’egli archiviato nella memoria collettiva, forse non è il caso di comportarsi indegnamente.
Interessante anche notare la dose di cinismo bastardissimo lasciato nelle chat dei suicidi online da quelli che assistevano all’evento, come riportato da Wired.
Ma in fondo, se qualcuno mi dicesse “adesso mi suicido” davanti a me o dentro uno schermo, gli direi di fermarsi, di affittare un auditorium e metter su di lì a un mese un grande evento mediatico, dove amici parenti e pubblico generico possano partecipare sia in presenza sia a distanza, altrimenti è inutile che me lo dica a me così di colpo e tanto varrebbe facesse una cerimonia di commiato più privata, dentro ambienti di videoconferenza su invito personale.

Blogger morti

E son tutti lì a parlare dei blog, quelli dei blog.
Perché prima dei blog magari c’erano delle webstarz, immaginate quelli bravi e smart dentro i newsgroup e nei forum, i magici affabulatori nei canali su IRC, e poi il tale che intendeva costruire la propria identità in Rete metteva su un sito e pubblicava qualcosa. Ma il feedback era privato, la gente gli spediva mail per dirgli sei bravo o sei bufo o non capisci una mazza. Fin da qui, posso ancora scorgere le macerie annerite e fumanti di pacifici guestbook devastati da guerre di insulti, poi nella ricerca di interazione sui siti abbiam messo delle chatbox, eppoi finalmente sono arrivati i blog, che riescono a essere per noi casa riconosciuta con indirizzo, luogo di espressione, luogo di interazione pubblico via commenti e relative litigate, ma nel frattempo avevamo imparato la grammatica delle litigate online. D’un tratto le personalità emergenti del web avevano strumenti per un buon allestimento scenico di sé e del proprio dire, non restava che sperimentare argomenti e forme di narrazione, e creare sottoreti selezionate, anche con un filtro connotante tipo il blogroll.
Questo ha fatto in modo che noi italiani venissimo a conoscenza dell’esistenza di centinaia di persone simpatiche, tuttora tra le più lette in italia, capaci con stile originale e talvolta veramente splendide doti letterarie di raccontare vita quotidiana, posizioni etiche o politiche, tecnologie e antropologie, amori e passioni.
Molti di questi erano già passati nella palestra delle altre forme di pubblicazione, quelle più vecchie che dicevo sopra, erano blogger anche prima dei blog, avevano già scelto o trovavano naturale esprimersi in rete. Altri si sono buttati un po’ alla cieca e si sono scoperti apprezzati nel loro modo di scrivere o di fotografare, e ora stanno valutando se aggiungere “blogger” al proprio biglietto da visita o sul curriculum.

E i blog diventavano sempre più casetta, le colonne si arricchivano di dettagli di vita del bloggante, foto e articoli e indirizzi di amici… ho visto architetture barocche, grafica ricercata, luminarie e riccioli decorativi, ma poi è arrivato il duepuntozero. Quindi molte cose a questo punto era meglio (più semplice, più efficace) farle fuori dal blog, tipo le foto su flickr e i video su youtube che poi sono anche posti per chiacchierare, e poi ecco qua fiorire delle comunità sociali online e poi ancora i servizi attuali di lifestreaming.
Ovvero, il blog per suo stesso format (ci sono ovviamente blog che mi contraddicono, ma infatti sono gioiose invenzioni di usi alternativi) e per come viene percepito cioè interpretato nel contesto ormai storico della sua fruizione collettiva in quanto “luogo editoriale”, si presta ad ospitare (ci si attende di trovare) articoli di una certa lunghezza, porzioni di contenuto capaci di ospitare in sé un minimo di articolazione e sviluppo narrativo, ad esempio secondo i generi letterari di un panegirico o una perorazione o di una lagnanza o di un annuncio o di racconto breve di ingegno letterario.
Certo, esistono i blog aforismatici e anche di successo, ma oggi esistono luoghi web dove la scrittura breve è maggiormente a suo agio, come twit o come status dentro i messenger e dentro i socialnetork, oppure nelle tracce georeferenziate che lasciamo marcando la nostra mobilità fisica con i cellulari e i servizi di presenza e prossimità digitale permessi da questi ultimi.

E quindi il blog come casa identitaria ha potuto nuovamente alleggerirsi, brani del nostro fare abitavano in altri luoghi web che a loro volta permettono relazioni interumane, quindi noi stessi abitiamo in molti luoghi, e proprio recentemente hanno preso piede degli ambienti capaci di radunare il nostro fare digitale, fatto di commenti e di foto pubblicate e di libri messi sullo scaffale e di video embeddati sui microblog e parole scritte su html più o meno dinamico in un unico flusso che vorrei chiamare vitale, ma in italiano non va bene, e allora propongo solo per la durata di questa frase di chiamarlo flusso vitico o viviflusso o digivita perché in qualche modo il concetto di lifestreaming ci serve.

Qui Mantellini dinanzi alle considerazioni di Squonk riguardo al blog come biblioteca o emeroteca, dove in un clima meno chiassoso di una piazza sia possibile trovare archivi stabili e sedimentazione nel tempo dell’espressione e dell’identità di chi scrive, trova interessante che “venga individuato una sorta di baluardo immaginario che separa il lifeastreaming da contenuti maggiormente organizzati”, ma la distinzione non mi convince, perché è la stessa differenza che c’è tra il mio salotto pubblico e la piazza dove vado a chiacchierare. Anche le cose che dico in salotto finiscono in piazza, ma hanno una provenienza, non sono dette lì: quando un blogger progetta un suo scritto su un blog consapevolmente o meno pone un determinato Lettore Modello quale suo immaginario interlocutore, e l’orizzonte delle attese autoriali relativo a “scrivere sul blog” suscita inventio, disposistio ed elocutio completamente diverse rispetto a mandare un twit (come al solito, svolgete voi l’esempio contraltare relativo alle attese del lettore reale, secondo sociologia della ricezione).

Quindi: il futuro sicuramente ci offrirà sempre più luoghi di espressione personale, luoghi sempre più raffinati per pubblicare contenuto di qualsiasi forma e ampiezza e per distribuirlo con facilità, sempre più raffinati nel riuscire a connotare l’identità dell’autore e lo stile del suo abitare la Rete, e arriveremo chessò al punto di cambiare automaticamente la grafica, calda o fredda, delle nostre case digitali, secondo le nostre variazioni di umore misurate e trasmesse in realtime dal cellulare che ci sta ascoltando il cuore e l’attività neuronale.

Ciascuno di noi a seconda della sua competenza digitale sceglierà quale strumento usare a seconda del tipo di contenuto che deve mostrare e della necessità o meno di sviluppare la narrazione, prevedendo o meno l’intervento costruttivo di altri. Ciascuno di noi – qui è dove poi interviene il discorso educativo – avrà poi per abitudine data da frequentazione o per alfabetizzazione secondaria (è una battuta: in questo momento le scuole sono ancora a ragionar di scanner e dischi fissi, figuriamoci se pensano a organizzarsi per fornire offerte formative in grado di provvedere ai cittadini delle competenze per abitare la Rete, come aspetto di un diritto civico) la capacità di decodificare i contenuti di conoscenza offerta in Rete a seconda dell’ambiente che li ospita o del tipo di prodotto “editoriale” che essi rappresentano, adattando via via diverse categorie di giudizio pertinenti al testo in esame.

Facciamo finta di entrare dal dentista, e di trovare sul tavolino d’angolo una vecchia copia di DonnaModerna: al semplice vederla, al semplice pensare di leggerla si sono già attivate in noi decine di reti enciclopediche, e DonnaModerna non è più un insieme di fogli di carta stampata a inchiostro multicolore sul tavolino. Prima ancora di aprire quella rivista so già molte cose, di cosa potrebbe dirmi e del modo in cui me lo dice e di cosa significa essere visti mentre si legge DonnaModerna in una sala d’aspetto.
Abbiamo un mucchio di competenze che non sappiamo di avere, rispetto a tutto il mondo editoriale degli ultimi quattrocento anni, e siamo diventati talmente raffinati da giocare con i libri e le biblioteche come con le parole, e magari ci immergiamo nella decodifica del Vangelo come fosse un giallo.
O meglio ancora, se parliamo di entrare e uscire da un mondo all’altro, mi viene in mente quando Don Chisciotte nel secondo libro incontra uno che ha letto il primo libro, e si complimenta con lui. Beh, siamo nel 1615, i giochi artistici e letterari erano pieni di inganni, pieghe, attorcigliamenti barocchi e straniamenti, e i mondi della letteratura e della realtà si rinfocolavano a vicenda, in modo (meta)linguisticamente moderno.

Se Mantellini dice che tutto è un calderone dove tutto è confuso con tutto, forse tale è agli occhi di chi non sa distinguere. Prendete Mozart e mettetelo davanti al tavolino del dentista: non saprà distinguere una rivista dall’altra (la loro identità editoriale) a colpo d’occhio, come facciamo noi oggi senza pensarci. Non ha grammatiche, non maneggia codici. Credo che un millennial sveglio, o una persona con sufficiente esperienza di abitanza digitale, siano perfettamente in grado di desumere corrette informazioni dal contesto della pubblicazione di qualsiasi proteiforme opera su web e conseguentemente organizzare i propri strumenti interpretativi, cosicché seguire i lifestreaming degli amici o degli opinion leader nella piazze e poi risalire i feed come i salmoni fino ai blog tematici autoriali per poi andare a esplorare youtube e tornare in qualche social utility a render conto delle cose scoperte in giro o per commentare e ri-giocare la realtà con altri diventa una operazione fluida, connaturata al nostro essere animali sociali costantemente alle prese con l’esplorazione dell’ambiente di vita e la nominazione delle cose in cui ci imbattiamo.

Tutto questo per dire: non vedo il problema.
Nell’ecologia dei Luoghi espressivi online sono nate delle cose più veloci o più social dei blog, abitano meglio in certe nicchie. Il blog che è stato per un po’ di tempo una cittadella che conteneva tutto (biblioteca, bottega, pinacoteca, piazza, indirizzi) ora appalta spesso felicemente certe attività a servizi esterni, e sebbene ridimesionato viene comunque a essere il miglior strumento per determinati tipi di letteratura, e del resto tra le cose nuove che sono nate ci sono quelle fatte apposta per tener traccia di tutto e quindi niente si perde e anzi il flusso sociale diventa visibile.

Per arredare di sé gli ambienti digitali in cui abita, oggi uno dispone di molte diverse possibilità, e ciascun autore può trovare gli strumenti più confacenti al suo dire. Il lato produzione non presenta problemi. Piuttosto il problema è nell’organizzazione dei flussi di memi generati da una specifica pubblicazione di Tizio o Caio, perché se fino a ieri la massa di idee suscitata dall’opera letteraria nei lettori trovava luogo conchiuso di visibilità nei thread di un forum o nei commenti di un blog, oggi è possibile che gli apporti dei lettori vedano la luce in ambienti diversi da quello dove è alloggiato “fisicamente” il post originale. Quindi ecco cosa ci serve: tecnologia tracciante migliore dell’attuale.

Scelte intelligenti

Uno segnala sottolinea dimostra promuove racconta illustra proclama suggerisce e perfino implementa software OpenSource nella Pubblica Amministrazione, poi accade che il ministro Brunetta e giusto per restare in loco il Governatore del Friuli Venezia Giulia Renzo Tondo (qui e qui i link per la notizia dello scorso agosto) continuino a fare affari con i colossi dell’informatica commerciale, e allora cascano le braccia.

Ma perché contravvenire a precise indicazioni di buone prassi già promosse dal ministro per l’innovazione Stanca anni fa riguardo l’uso di software libero? Perché non seguire le mosse di altre grosse realtà amministrative italiane o europee, che hanno definitivamente optato per soluzioni informatiche OpenSource su considerazioni sia etiche sia relative alla funzionalità del prodotto? Perché contrapporsi a scelte palesemente intelligenti?

Meno male che se lo chiede anche l’Associazione per il software libero, e prova ad ottenere delle risposte dal ministro Brunetta con una lettera aperta:

L’Associazione per il Software Libero cerca da 3 mesi di prendere visione dei protocolli d’intesa sottoscritti dal Ministro Brunetta con Microsoft senza successo.
Forse dei fannulloni si annidano nel Ministero per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione ?
Pubblichiamo la lettera aperta indirizzata al Ministro con la quale richiamiamo la sua attenzione riguardo i vantaggi del software libero.

Lettera aperta all’On.le Ministro Renato Brunetta

Protocolli d’intesa sottoscritti in data 05.08.08 con Microsoft Italia S.r.l.

On.le Ministro Renato Brunetta,
il 16.08.08 Le abbiamo spedito una lettera (ricevuta il 03.09.08) con la quale domandavamo di avere accesso a due protocolli d’intesa da Lei sottoscritti con Microsoft Italia S.r.l.: quello “per lo sviluppo di soluzioni d’eccellenza tecnologiche e organizzative, in particolare nel settore della scuola” (http://www.microsoft.com/italy/stampa/Speciali/protocollo/intesa.mspx), e quello (sottoscritto anche dal Presidente della Regione Friuli Venezia Giulia) “per la realizzazione di un progetto pilota di ammodernamento e dematerializzazione della gestione documentale degli uffici” (http://www.microsoft.com/italy/stampa/Speciali/protocollo/documentale.ms…).
La notizia di quegli accordi ha destato in noi viva preoccupazione: in primo luogo perché la P.A. spende ogni anno molti milioni di euro in licenze software (274 nel solo 2003), in secondo luogo perché l’azienda Microsoft è stata condannata in sede europea per abuso di posizione dominante e in terzo luogo perché in qualità di Ministro della Repubblica Lei non può ignorare che il software libero offre una valida alternativa e che la legge (art. 68 D.Lgs. 82/05) impone di realizzare una valutazione comparativa prima d’acquisire il software da utilizzare.
Abbiamo pensato che Lei, Signor Ministro, fosse stato mal consigliato e che fosse nostro dovere aiutarLa.
Ci siamo precipitati a scriverLe nel week end di ferragosto, ma, ad oggi, siamo ancora in attesa di risposta. L’inerzia del Suo Ministero ci ha infine costretti a ricorrere alla Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi.
Quanto dovremo ancora attendere per esercitare il nostro diritto di verificare che quei protocolli d’intesa non ostacolino l’impiego del software libero nella P.A., non rechino ingiusto pregiudizio agli interessi delle aziende europee che commercializzano servizi basati su software libero ed agli interessi dei cittadini ?
Per ora possiamo solo sospettare che, per esempio, l’accordo per il progetto pilota sulla dematerializzazione documentale sia del tutto inutile: in Piemonte si sta già realizzando, con soldi pubblici, un sistema di gestione documentale in software libero (doqui – http://www.doqui.it/), che anche altre regioni stanno considerando di adottare.
Infatti, il software libero può essere riutilizzato senza costi di licenza da tutta la P.A..
Ritardare l’uso del software libero da parte della P.A. danneggia la nostra economia, rende il mercato meno libero e favorisce un gruppo minoritario di aziende che privano il nostro paese di cospicui introiti fiscali. Sa che, per fare un esempio, Microsoft (ma analogo discorso vale per molti dei principali produttori di software proprietario) fattura le licenze vendute in Italia esclusivamente dalla filiale Irlandese (per un totale di 750 Milioni di Euro nel 2003) e che quindi comprando licenze di software proprietario si incide negativamente sulla bilancia dei pagamenti ?
Nel 2000 più di 2.000 cittadini italiani firmarono una lettera aperta intitolata “soggezione informatica dello stato italiano a Microsoft”: da allora le cose non sono migliorate se oggi si finanziano le iniziative di quell’azienda, che non ha certo bisogno di aiuti pubblici.
Non ci riferiamo ovviamente ai protocolli d’intesa da Lei sottoscritti (che non abbiamo letto e quindi non possiamo giudicare).
Ci riferiamo invece ad altre esperienze che la nostra associazione ha avuto modo di valutare negli ultimi anni.
Come il Centro di Ricerca di Povo (Trento), inaugurato nel 2005. Un centro in cui per ogni euro investito dal socio privato (Microsoft), ne sono stati erogati quattro a fondo perduto dai soci pubblici (Provincia di Trento, Università di Trento, Università di Catanzaro e FIRB-MIUR), cioè da tutti noi cittadini. Un centro nel quale gli investimenti sono largamente pubblici: saranno pubblici anche i risultati della ricerca ?
Dopo questo “affare”, anche il Governo di centro-sinistra si è affrettato a stipulare accordi per la costituzione di tre nuovi “Centri di Ricerca su tecnologie Microsoft”: non è certo una scelta sensata, in un paese che si riconosce nei valori del libero mercato e della concorrenza, destinare soldi pubblici a favore di una impresa che detiene il 95 % del mercato dei sistemi operativi.
Qualcuno potrebbe dire che non abbiamo ricevuto risposta per l’inerzia dei Suoi uffici, per una pratica dimenticata sulla scrivania di qualche dipendente fannullone perennemente in malattia o per qualche dirigente ignavo o menefreghista.
Certo che, se queste cose succedono proprio nel Suo dicastero, proprio nel periodo in cui, a quanto sembra, la “crociata contro i fannulloni” sta dando il massimo risultato, c’è ancora molto da fare.
Nella speranza di riuscire a penetrare la fitta trama di ostacoli che Le impedisce di dare la dovuta attenzione alle istanze del software libero, restiamo in attesa di una Sua gradita risposta.
Con ogni osservanza,
per l’Associazione per il software libero
Marco Ciurcina

Netstrike sul MIUR

Esatto. La protesta contro la riforma gelmina continua, mi segnala Gabriella Giudici che linkerei volentieri se avessi un link, e la modernità impone l’adeguamento dei mezzi di lotta.

Quindi, domani alle 14.00 andate tutti sul sito del Ministero dell’Istruzione, giusto per fare un giretto in due clic e vedere cosa non succede.

“Tecnicamente [il netstrike] si può definire come un attacco informatico non invasivo che consiste nel moltiplicare le connessioni contemporanee al sito-target al fine di rallentarne o impedirne le attività”, dice Wikipedia, e sia quest’ultima sia PuntoInformatico nell’articolo dedicato all’evento ci ricordano l’origine italiana di questa strategia agit-prop, nata nel 1995 grazie a Tommaso Tozzi.

La tecnologia secondo Obama

Stavo per tradurre personalmente le parti del programma di Obama riguardanti la tecnologia e la necessità di una moderna abitanza digitale.

Connettere i cittadini, trasparenza governativa, consultazione e decisionalità “dal basso”, proteggere la neutralità di Internet, incoraggiare il pluralismo nei media, sostenibilità energetica, banda larga per tutti, favorire la scuola e la ricerca in campo scientifico e tecnologico, parole che in Italia non sentiamo pronunciare da nessuno.

Poi Apogeonline ha pensato bene di farlo per conto suo, e mettere quelle pagine a disposizione di tutti, in italiano, qui.

La foto in alto è presa dal Flickr di Barack Obama. Il vostro sindaco ha uno spazio pubblico per le sue foto, un suo blog, partecipa a discussioni in Rete?

OpenStreetMap: per una cartografia pubblica e open

Problema: in Italia le mappe satellitari non sono pubbliche e gratuite.

E’ una questione di diritti di copyright: non possiamo usare le mappe di GoogleMaps a nostro piacimento, e inoltre le informazioni che immettiamo su queste mappe (immagini e segnalibri, testo esplicativo) non ci appartengono più, potrebbero legittimamente scomparire se putacaso sparisse Google.

In verità, il vero problema è che in Italia le cose fatte con soldi pubblici non sono pubbliche, che si tratti di brevetti universitari o di cartografie del territorio.

Il Friuli Venezia Giulia non si può lamentare, perché oltre ai dati GPS e al Catalogo regionale dei dati ambientali e territoriali da qualche giorno è possibile accedere in modo gratuito alla cartografia digitale del FVG. Ma in ogni caso non si tratta di mappe su cui gli Abitanti possono scrivere, come quelle di Google, “nutrendo” di informazioni le mappe stesse con indicazioni di pubblica utilità, o di carattere storico culturale o turistico, o luoghi della memoria, in un movimento di connotazione dinamica e collettiva delle identità, originali e uniche, di un territorio.

Ecco quindi (traggo informazioni da questo articolo sulla Stampa di Valentina Avon) che in qualche Comune italiano si vede diffondersi la pratica di “creare e fornire dati cartografici, qualsiasi mappa di strade, liberi e gratuiti a chiunque ne abbia bisogno” secondo le indicazioni del progetto OpenStreetMap, dove ciascuno di noi può appunto liberamente fruire delle mappe e soprattutto partecipare alla loro precisione, ad esempio geotaggando con le coordinate GPS i luoghi significativi affinché tutti ne traggano vantaggio.

Il Comune di Schio ha recentemente abbracciato, in quanto Piazza Telematica, il progetto OpenStreetMap: potete raccogliere qualche ulteriore informazione sulla necessità odierna di Cultura Open guardando la presentazione qui sotto illustrata da Luisanna Fiorini, in occasione del Linux Day appunto a Schio del 25 ottobre scorso.

Le guerre della Transizione

Il Grande Passaggio Epocale, l’inizio delle battaglie senza quartiere né fisico né digitale.

Oppure l’equivalente internettaro di creare un casus belli, dare la colpa al popolo eversivo, provvedere misure restrittive.

Ma è troppo stiloso per essere un autogol o un camuffo. Se qualcuno del Potere provasse a mettere su una pagina di sfacciamento di un proprio sito, probabilmente ricorrerebbe ad un’iconografia differente, più html all’arrembaggio, più povero-militante. Come se i terroristi digitali prediligessero tuttora un’estetica dal volantino ciclostilato delle BrigateRosse, che i tempi hanno poi mashuppato con la grafica hacker.
Cioè, se Tremonti avesse chiesto a qualcuno di sfacciargli il sito per finta (per poi poter gridare allupo allupo) probabilmente avrebbe approvato un prototipo con almeno una scritta “M0rt3 a||o St@t0”, giusto per compiacersi dei TG che parlano di pirati informatici che s’intromettono etcetc.

Questa era la schermata del sito di Giulio Tremonti, a pranzo di oggi.

MittelMedia

Domani c’è un bel convegno a Trieste, si chiama MittelMedia. Pubblicità giornalismo e comunicazione nel futuro dei nostri confini, e mi piacerebbe tanto riuscire ad esserci anche se è di mattina, e avrei da fare due cosette. Me lo segnalano Enrico Marchetto, e Enrico Milic su Bora.la, dove trovate anche il programma.
Servono idee per sopravvivere, avrebbe detto Pelù vent’anni fa, e credo che la possibilità concreta di scambiarsi idee con i vicini dell’Euroregione (magari con il supporto di un buon magazine digitale transfrontaliero, con ancoraggi locali e con una mirata distribuzione su carta) sia un’ottima occasione per trovare risposte “laterali” ai soliti stantii problemi della promozione territoriale e delle collettività.

Banda larga per tutti

Connettere tutte le case italiane in fibra ottica, un obiettivo coraggioso ma di estrema civiltà. L’idea è nota come Fiber To The Home FTTH, ovvero “fibra fino a casa”, e permetterebbe ad ognuno di noi di beneficiare di connessioni a Internet centinaia di volte più veloci dell’ADSL attuale.
Diciamo che potrebbe essere un’opera paragonabile alla costruzione dell’Autostrada del Sole, nei primi anni Sessanta, e foriera di altrettanti cambiamenti sociali in quanto infrastruttura cruciale (i trasporti allora come le comunicazioni oggi) per l’ammodernamento del Paese.Quintarelli sostiene che una rete FTTH nazionale costerebbe come un’autostrada lunga mille chilometri, circa 25 miliardi di Euro, ma ci darebbe una certa tranquillità nell’affrontare l’esplosione delle reti telematiche dei prossimi decenni, e la crescente richiesta di banda.

Del futuro delle scelte, anche tecnologiche, riguardanti il “diritto di banda” degli Abitanti digitali parla Alessandro Longo su Apogeonline, in occasione della pubblicazione del rapporto dell’Agcom sulla situazione della Rete italiana al giugno 2008, che potete trovare qui.
Chiaramente, l’Italia è in ritardo rispetto a molti paesi europei, dalla dotazione tecnologica all’alfabetizzazione informatica alle statistiche di utilizzo dei servizi web. Servirebbero proprio finanziamenti, che però non ci sono.

ps: cercando informazioni sulla storia delle autostrade italiane, mi sono imbattuto in questa voce di enciclopedia Encarta, dove con piglio narrativo viene ripercorsa la progettazione e la realizzazione dell’Autostrada del Sole. Interessante la parte dove indica gli errori compiuti nella progettazione del tratto strategico Bologna-Firenze, dovuti a fretta e mancata supervisione dell’opera in corso. Ragionamenti che possono tornare utili oggi, nell’affrontare il problema di trasferire efficacemente informazioni su reti adeguate, dopo le strade per le persone e le cose, e permettere di praticare dignitosamente le proprie attività di Abitante normalmente biodigitale.

Segway e apprendimento

Amo il Segway.
E’ un bell’oggetto, vederne circolare molti in centro sarebbe splendido.
Una cosa civile, sarebbe.

A proposito di apprendimento – video via Elena – ecco qui uno scimpanzè che impara ad andarci in quattro minuti, e secondo me se non gli venisse facile per istinto buttarsi giù dal mezzo starebbe anche meno. Cioè, come noi.

Vi posso garantire per aver provato: è un bellissimo esempio di interfaccia trasparente, dopo tre minuti si dimentica il manubrio e lo si guida con il pensiero.

Cogliere l’essenziale della Cultura Tecnologica

Gilbert Simondon, “Du mode d’ existence des objets techniques”, 1958.

L’opposizione posta tra la cultura e la tecnica, tra l’uomo e la macchina, è falsa e senza fondamento; non copre altro che ignoranza o risentimento. Maschera dietro un facile umanismo una realtà ricca in sforzi umani e forze naturali che costituisce il mondo degli oggetti tecnici, mediatori tra la natura e l’uomo.
La cultura si rapporta all’oggetto tecnico come l’uomo allo straniero, quando si fa guidare dalla xenofobia primitiva. Il misoneismo orientato contro le macchine non è tanto odio del nuovo quanto rifiuto di una realtà estranea.
Ora, questo straniero è ancora umano, e il complesso della cultura è ciò che ci permette di riconoscere lo straniero come umano.
Allo stesso modo, la macchina è la straniera in cui si è concreto l’umano, disconosciuto, materializzato, asservito pur restando comunque umano.
La causa principale di alienazione nel mondo contemporaneo sta nel misconoscimento della macchina, che non è alienazione causata dalla macchina, ma dal non riconoscimento della sua natura e della sua essenza, dalla sua assenza dal mondo delle significazioni e dalla sua omissione dalla tavola dei valori e dei concetti che fan parte della cultura.

In qualche modo, misurare le competenze per una cittadinanza digitale?

Da un bell’articolo su Apogeonline, dove Eleonora Pantò intervista Antonio Calvani, vengo a sapere di progetti anche piuttosto avanzati per la misurazione delle competenze digitali, dove queste ultime hanno poco a che vedere con lo smanettamento del pc e riguardano piuttosto il

saper esplorare e affrontare in modo flessibile situazioni tecnologiche nuove, saper analizzare selezionare e valutare criticamente dati e informazioni, sapersi avvalere del potenziale delle tecnologie per la rappresentazione e soluzione di problemi e per la costruzione condivisa e collaborativa della conoscenza, mantenendo la consapevolezza della responsabilità personali, del confine tra sé e gli altri e del rispetto dei diritti/doveri reciproci.

Chiaramente, l’argomento tratta di Cittadinanza digitale. Anzi, poiché lo Stato qui c’entra poco, parlo come al solito di Abitanza digitale, richiamando il Ben-Stare sul territorio indifferentemente biodigitale e la tessitura di relazioni interpersonali stabili nei nuovi Luoghi dell’Abitare, dove le nuove distinzioni di privato e pubblico, di diritti e doveri, di proprietà intellettuale e licenze di distribuzione, di organizzazione del tempo in modo decisamente non-lineare, postindustriale, ci mettono seriamente in crisi nel pensare cosa possa significare essere moderni.
Anzi, lo Stato potrebbe entrarci molto, se mosso da afflato illuministico intendesse seriamente prendere in considerazione una realtà scolastica in grado di formare Abitanti consapevoli della loro responsabilità e delle loro potenzialità dinanzi alla maggiore o minore qualità del vivere su un dato territorio.

Dunque: lo Stato si premura di stabilire quali siano le competenze digitali per una buona cittadinanza digitale, senza troppo incagliarsi su problemi tecnologici relativi alle TIC (eppur recependo fin dalla parola “digitale” la rivoluzione in atto), propone un gruppo di ricerca sulla Digital Competence Assessment nell’ambito del progetto PRIN del Ministero “Internet e scuola: problematiche di accessibilità, politica delle uguaglianze e gestione dell’informazione”, e chiaramente si trova nella necessità di elaborare un sistema di valutazione delle competenze digitali.
Conosciamo i rischi: lettera morta, burocratizzazione, inadeguatezza dei parametri valutativi, le odiose “patenti”. Si tratta di misurare cose sfuggenti, ancor oggi difficilmente percepibili per chi vive poco la rete. La frequentazione, la partecipazione, le reti amicali, la consapevolezza critica sull’uso degli strumenti TIC, la facilità alla collaborazione con altri in remoto, la capacità di reperire e produrre e distribuire informazioni.

Telefoniamoci

Da mesi sono soddisfatto possessore di un Nokia E71. Va tutto bene, se vi piace prendetelo. A me piace la tastiera estesa qwerty, la buona qualità di foto e video, il fatto che il telefono si connetta wifi. Così passo le giornate in giro a scrivere, a fotografare, e appena trovo una rete aperta carico tutto sui blog, su friendfeed, su flickr o dove mi serve.
All’acquisto, già sapevo che per chattare interfacciandomi con le reti GTalk e Skype avrei dovuto usare Fring, a detta di tutti. E infatti va che è una meraviglia. E da qualche settimana stando dentro un wifi telefono agli amici anch’essi sotto copertura, e chiacchieriamo con buona qualità audio senza pagare nulla, perché il telefono utilizza le tecnologie Voice-over-IP appunto di Google o di Skype.

Mi viene in mente ad esempio che nelle Pubbliche Amministrazioni dovrebbero usare VoIP per le comunicazioni interne, e certamente usare il proprio telefono per chiamare il dirigente in altra sede mette molti meno ostacoli psicologici e tecnici alla fruizione del servizio, rispetto al doversi sedere al pc con cuffie e microfono.

Poi oggi la notizia che Fring e Mobilkom Austria hanno raggiunto un accordo, “… This is the first time a leading mobile network operator has integrated an open mobile VoIP communication and mobile internet community into their business, and represents a sea change in traditional mobile carriers and companies such as fring working together”, e si capisce che Golia Mobilkom ha deciso di allearsi con Davide Fring, non potendo combattere contro chi facilmente permette agli utenti di telefonarsi senza spendere soldi.

Ma in italia (e quasi solamente qui) abbiamo il decreto pisanu, che non permette reti wifi aperte. Una cosa sciocca del 2005, che poi il governo prodi ha prorogato fino al 31 dicembre 2008, benché alleggerendone i vincoli. Certo, è un altro segno di spunta da mettere nell’elenco delle cose che non vanno in italia, e si tratta di qualcosa di una certa importanza, visto che entrare nella Società della Conoscenza senza avere libertà di comunicazione è come partecipare alle corse con i piedi legati.
Intanto in giro per l’Europa parlano e si spediscono file in modo gratuito, stringono le maglie delle reti sociali online, lavorano meglio, sviluppano percorsi di partecipazione a iniziative ad esempio legate all’e-democracy, grazie ai cellulari connessi e alle reti wifi libere. Mah.

La Sardegna diventa capitale dell’Open source e dell’e-democracy

La Sardegna diventa capitale dell’Open source e dell’e-democracy

La regione, che ha appena dato il via al passaggio dalla Tv analogica al Digitale terrestre, diventa apripista anche nell’adozione del software libero

La Sardegna diventa epicentro dell’innovazione Open source in Italia. La regione, dopo aver dato il via al passaggio dalla Tv analogica al Digitale terrestre, diventa apripista anche nell’adozione del software libero: “La principale novita’ (del Ddl, n.d.r.) – spiega l’assessore agli Affari Generali Massimo Dadea e’ rappresentata dall’inserimento nell’ordinamento regionale del software libero, considerato lo strumento piu’ idoneo per uno sviluppo della societa’ dell’informazione ispirato ai principi di contenimento della spesa pubblica e di tutela della concorrenza. Con questo Ddl la Sardegna si pone all’avanguardia anche nel settore della societa’ dell’informazione”.

La Giunta regionale sarda ha approvato il disegno di legge (Ddl) sulle “Iniziative volte alla promozione e allo sviluppo della societa’ dell’informazione e della conoscenza in Sardegna”. Il Ddl si suddivide in due parti, la prima sulle politiche e i principi che l’amministrazione regionale intende mettere in atto per lo sviluppo della societa’ dell’informazione e della conoscenza, mentre la seconda promuove la concreta attuazione, attraverso specifici strumenti a tali politiche.

Tra gli aspetti piu’ innovativi contenuti nel Ddl vi sono il diritto all’uso delle tecnologie, la partecipazione democratica, l’alfabetizzazione informatica, la ricerca per lo sviluppo delle imprese nel territorio.

Il software libero è stato scelto per il sorgente aperto, per la licenza Gnu, e per indubbi vantaggi quali il risparmio sui costi, l’indipendenza da uno specifico fornitore e le opportunità per l’industria informatica locale.

Il Ddl, che verrà presentato nei prossimi giorni in un convegno a Pisa, e’ stato realizzato con la collaborazione di Flavia Marzano, docente di Scenari e innovazioni dell’IT all’Universita’ di Bologna. Il testo del Ddl rappresenta uno dei documenti alla base di un Disegno di legge che sara’ presentato dal Pd in Parlamento.

fonte www.vnunet.it

25 ottobre, sbattezziamoci

Da quando esiste questo blog, anni, vedete sulla destra un chicklet che rimanda al sito della UAAR, per sbattezzarsi. Sì, Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti. Sì, le istruzioni su come procedere per scrollare via dalla propria identità l’etichetta di cattolico.
Se non andate a messa né mai pregate e magari ritenete anche che la chiesa romana ne ha fatte e ne sta facendo di cotte e di crude, impicciandosi, sbattezzatevi. La vostra spiritualità (eventuale) potete coltivarla in molte altre maniere, eticamente migliori, magari sempre cristiane, ma più come dire protestanti. E sto parlando sempre di religione, mica son contro per principio: rispetto le scelte personali degli altri, ma l’azione pesantemente politica della chiesa cattolica, a Roma come nei paesini, sta limitando la mia libertà, e non mi piace.Almeno si battezzassero persone consapevoli, dubbiose ma maggiorenni, se non trentenni come Gesù che scelgono di intraprendere un percorso di ricerca. Ma qui battezzano i neonati (mica era sempre così), e si vantano che il 90% della popolazione italiana è cattolica, quando forse il 15% va a messa. Poi magari chiedono soldi allo stato, per il fatto che sono la religione principale (fino solo a ventanni fa, la religione di stato, appunto), quando è già curioso sapere cosa ne fanno dell’ottopermille.
Fate pure, ma non ricorrete a trucchetti.

Per coloro che vogliono liberarsi dal giogo di questa appartenenza imposta ad una certa ideologia, il 25 ottobre significherà Giornata dello Sbattezzo.

‘Sbattezzo’ significa cancellazione degli effetti civili del battesimo, ossia l’elementare diritto, stabilito da un provvedimento del Garante per la privacy, di non essere più considerati dallo Stato come “sudditi” della Chiesa, “obbedienti” e “sottomessi” alle gerarchie ecclesiastiche.

Qui trovate altre informazioni.

Da molti mesi tengo i fogli per sbattezzarmi qui sulla scrivania. Prima ancora avevo trovato chiuso (non ridete) presso la parrocchia dove son stato battezzato, dove non celebrano più. Ora potrebbe essere la volta buona.

Occasione perduta

Dai sistemi ai processi, dalle strutture ai flussi, siam sempre lì a combattere la grande battaglia dei cambiamenti culturali, quelli di larga portata epistemica, provando a porre attenzione alle relazioni piuttosto che ai nodi per riorientarci quando tutto traballa.

E sto parlando del trapassare futuro prossimo della Cultura gutemberghiana nella Cultura digitale, uno di quei ribaltamenti di paradigma che càpitano ogni centinaia d’anni, ma che in futuro avverranno sempre più spesso… se è vero che già il Novecento è durato settant’anni dalla primaguerramondiale alla cadutadelmuro e www, il Ventunesimo secolo vedrà statisticamente cambiamenti epocali succedersi in modo molto più rapido, visto che tutto il calderone è riscaldato dalla accresciuta fiamma dei media, ora digitali e internettari.

E la tecnologia galoppa, lo sapete, in tanti campi del sapere; le conseguenze dell’introduzione di manufatti come il computer e la Rete nelle pratiche umane possono essere mostrate con il grafico delle scoperte e delle innovazioni scientifiche e tecnologiche di questi ultimi trent’anni, dove il repentino incremento della curva è indice della progressiva diffusione di strumenti digitali nella ricerca.

Ma tutta la società è molto cambiata, guardate la differenza tra un telefilm anni ’70 e uno anche solo degli anni ’80. Tra il 1977 e il 1983 c’è un fiume di modernità che irrompe, e mi vengono in mente le radio e le tv libere, il vhs, e il personal computer, guarda un po’. E proprio le tecnologie dell’informazione e della comunicazione sono diventate centrali nella vita di ognuno, web e cellulare ora insieme, e guardando il flusso di relazioni mediato che pian piano ci è cresciuto intorno ci accorgiamo di essere persone che praticano forme di socialità sconosciute alle generazioni precedenti, tutto qui.

Forme mediate, che ora esondano dagli schermi.

Abbiamo nostri valori etici “generazionali”, per giudicare cosa è meglio e cosa è peggio. Ad esempio, meglio la rete orizzontale che la gerarchia verticale per affrontare tempi di rapido rimescolamento sociale, avvalendosi di molte opinioni. Meglio la varietà e le sperimentazioni sociali, che scommettere tutto su un’unica interpretazione del cambiamento, visto che per banali limiti umani non possiamo conoscere le pieghe del futuro. Meglio agevolare la libera diffusione delle conoscenze, anziché ragionare per steccati. Da una cultura dello scambio conversazionale in rete, dagli anni litigosi o amorosi di bacheche e forum e chat e blog abbiamo appreso alcune regole del comportarsi dignitosamente nel dialogo con gli altri, nell’ascolto e nel rispetto, che vorremmo vedere anche nel rapportarci ad esempio con attori istituzionali come le Pubbliche Amministrazioni. Siamo cambiati noi, ma molte cose della società sono rimaste lente.

Eppure è chiaro, meteorite o era glaciale che fosse, che i dinosauri han lasciato il mondo a dei piccoli mammiferi dal sangue caldo, agili e comunitari. Questo per dire che non ho nessuna fiducia in piani di formazione per la generazione sopra la mia, per far comprendere le novità sociali e l’impellenza di adottare nuove procedure per gestire la socialità stessa nelle sue componenti economiche abitative produttive culturali ed ecologiche, ad esempio ispirate a quella trasparenza comunicativa e alla partecipazione corale della collettività che le tecnologie oggi renderebbero sufficientemente praticabili.

Se non c’è la volontà, non passa niente. Prima ancora: se non c’è una curiosità, un briciolo di meraviglia, un coinvolgimento in qualche modo affettivo, le novità non vengono nemmeno percepite, altroché ponderate.
Speriamo che i cinquantacinquenni che sono ora arrivati ai posti di comando senza aver mai spedito una mail siano abbastanza svegli da capire che il mondo sta cambiando in direzioni che non possono capire, e si circondino e dìano fiducia ai trentenni e ai quarantenni.
Ecco: anziché come al solito stabilire che i sessantenni dicono COSA fare, i cinquantenni COME fare le cose, e poi tutti gli altri dietro sono semplici esecutori, facciamo che per stavolta, in un riconosciuto momento storico di cambiamento, siano le generazioni attive più basse a indicare la direzione da prendere, e i più anziani mettano la loro esperienza nell’ottimizzare le strutture sociali esistenti in vista del risultato. Anche se si trattasse di ristabilire il significato di città, territorio, diritti, qualità della vita, delle relazioni e dell’ambiente.

Perché il “tappo” costituito da una persona incompetente sui fondamenti della Cultura digitale messa a presiedere, nel pubblico ma anche nel privato, uno snodo importante della socialità, causa oggi ritardi notevolissimi, in questi anni veloci.In fondo, è un esperimento sociale. Prendiamo ad esempio il Friuli, cambiamo un po’ di cose e vediamo cosa succede. Se funziona, magari si può esportare, con gran beneficio degli altri. Se non funziona, capiamo perché, con gran beneficio nostro e degli altri. A patto che tutte queste informazioni circolino, e che tutto non diventi un’altra occasione perduta.

Vado a raccontar qualcosa, in un convegno che si chiama proprio “Occasione perduta? La società dell’informazione e della conoscenza in un Paese anormale“, che avrà luogo vicino a Pisa sabato prossimo. Qui trovate il programma.
Spero di imparare qualcosa, poi ve lo racconto.

 

Finanziamenti EU

Chi beneficia dei finanziamenti europei qui a Udine? Con quali finalità?
Ecco una tabella. Per le finalità, nell’effettuare la ricerca per CAP richiedete anche la visualizzazione del progetto (programme) di riferimento.

Tutto ciò grazie alla trasparenza del sistema di finanziamento europeo, che trovate qui.