Archivi autore: Giorgio Jannis

Obsolescenza tecnologica dei supporti

Dopo la tavoletta d’argilla, la pergamena di pelle, poi la carta di canapa di lino e di papiro, poi Fabriano e quindi la stampa, libri e quotidiani, e il discorso si complica. Ma in futuro molto testo prodotto digitalmente rimarrà digitale, e scivolerà eventualmente su e-book moderni e carta elettronica tipo Iliad, oppure apparirà sugli schermi dei nostri cellulari, oramai diventati protesi tuttofare del nostro vedere e parlare, interfacce della socialità biodigitale.

Nessuna paura, è fisiologico. Solo abbiate cura dei vostri ricordi.

Nel frattempo, anche la pellicola fotografica è quasi oggetto da museo.

Udine e bilancio partecipativo

Dal blog di Marina Galluzzo, comunicatore pubblico per il Comune di Udine.

La città di Udine ha concluso in questi giorni la sua prima esperienza di bilancio partecipativo: un progetto sperimentale sviluppatosi, nell’arco di pochi mesi, attraverso assemblee pubbliche di quartiere e che ha visto l’Amministrazione Comunale interessata da un punto di vista squisitamente tecnico e di accompagnamento al processo.
Quella udinese non è la prima esperienza di Bilancio Partecipativo in Italia: i processi di partecipazione popolare, partiti già da qualche tempo, stanno ora assumendo anche in Italia dimensioni interessanti.
Il fatto che tali esperienze si sviluppino in un sistema di governo basato sulla democrazia rappresentativa induce a chiederci se e in che termini l’ampia formula di democrazia diretta possa convivere in questo sistema.
In questa prospettiva è bene chiarire come fin dall’origine del costituzionalismo moderno, l’esercizio “diretto” della sovranità si risolveva “nel deliberare, in regime di compresenza fisica dei consociati – sulla piazza pubblica”, senza la partecipazione di intermediari che si potessero frapporre fra il decisore e la decisione.
Al contempo tra la democrazia e il regime rappresentativo, si è da sempre tracciata una nettissima linea di demarcazione, diretta a chiarire la radicale differenza che le separa.
Ma, se il concetto di democrazia diretta, è ancora oggi quello dei classici, (cioè quello del “popolo adunato”), è pur vero che nelle società complesse, ogni tecnica decisionale comporta, pur sempre (oggi più che mai) una mediazione. Nelle società pluralistiche diviene infatti inevitabile una interposizione fra il popolo e la decisione politica, anche quando quella decisione viene imputata allo stesso popolo e ad una sua “diretta” manifestazione di volontà. La realtà dei fatti dimostra come l’opinione pubblica si forma pur sempre e anzitutto attraverso la mediazione dell’attività di partiti e gruppi, e, sopratutto, attraverso i mezzi di informazione che, spesse volte, prevaricano l’ideologia degli stessi gruppi e partiti politici (più deboli).
Per tutto ciò, allorchè si discuta di processi di Bilancio Partecipativo, si dovrebbe più correttamente utilizzare il termine di democrazia partecipativa, pur consapevoli che il Bilancio partecipativo presenta connotati propri e specifici che vanno ben oltre il significato della partecipazione degli istituti costituzionali del referendum abrogativo e di partecipazione popolare.

Non vi è dubbio peraltro che simili processi partecipativi siano nati dall’esigenza di affrontare criticità proprie della democrazia rappresentativa che, ai nostri fini, si possono riassumere in una duplicità di fattori:

1) – l’ampliarsi del principio di sussidiaretà.
Una sorta di invito allo Stato a non intervenire ogni qualvolta i cittadini e loro aggregazioni sociali (famiglia, associazioni ed altri “corpi intermedi”, incluse le istituzioni locali) possono ‘fare da soli’. Il principio di sussidiarietà ha in sostanza innescato una catena di de-responsabilizzazioni progressive, con caratteristiche fortemente asimmetriche: infatti nell’epoca caratterizzata dal fenomeno della globalizzazione dei problemi viviamo una sempre più incisiva “localizzazione” delle soluzioni, che caricano le amministrazioni locali della responsabilità delle scelte (ma a cui, peraltro, non seguono adeguati trasferimenti di risorse, indispensabili per farvi fronte).
Questa crescita del decisionismo istituzionale locale, avviato con l’era dell’elezione diretta dei sindaci e della dimunizione di potere dei consigli comunali, è andata sempre più coniugando una creazione di spazi di partecipazione diretta dei cittadini alle decisioni pubbliche.
Il coinvolgimento degli abitanti nelle scelte pubbliche diviene così quasi indispensabile sopratutto per ricostruire una fiducia dei cittadini nella politica, che possa darle ‘sostenibilità’ davanti alle continue crisi di legittimazione che ha attraversato nell’ultimo trentennio.
La riforma poi del Titolo V della Costituzione (2001) – con tutte le sue molteplici contraddizioni – si inserisce in questo percorso di sussidiarietà, diretto a valorizzare l’autonomia degli enti locali e degli istituti di partecipazione popolare. Il nuovo testo dell’art. 118 prevde così nuovi modelli organizzativi e di relazione tra amministrazione e cittadini, fondati sulla comunicazione e sulla co-decisione.
Con ciò rafforzando quel concetto di partecipazione evidenziato fin dai primi articoli della Costituzione, in cui appare chiara la convergenza tra sovranità popolare, partecipazione effettiva, uguaglianza sostanziale e pluralismo.

2) – la crisi del sistema dei partiti politici.
Già Carlo Esposito, giurista e filosofo del secolo scorso, aveva avuto modo di affermare che se un partito invece di rappresentare una ideologia e tendere al bene comune rappresentasse le esigenze di un gruppo di pressione economico, sarebbe di fatto un gruppo di pressione mascherato, e sarebbe per questo da combattere, da espellere dal Parlamento, da denunciare come scandaloso”
Il maestro filoso e giurista del secolo scorso precisa, tra l’altro, che l’azione dei partiti sui Ministri e sul Governo è lecita, ma “da condannare quando sia determinata da privati interessi” : la proiezione pubblica del partito, in quanto strumento di raccordo tra Stato e società civile con l’esclusiva funzione pubblica di trasmettere la volontà sovrana del popolo, non è compatibile, per Esposito, con l’inquinamento della politica da parte degli interessi personali ed economici.

In questa prospettiva non vi è chi non veda come l’inquinamento della politica con interessi personali ed economici di parte abbia avviato ad una crisi del sistema che, fin dagli anni 90, ha amplificato il senso di diffidenza e di sfiducia del popolo sovrano che ha finito col riversarsi sulle istituzioni, nucleo e fondamento della democrazia rappresentativa.
Se quindi i partiti sono chiamati a assolvere a una “funzione basilare nella vita della nostra democrazia rappresentativa”, ecco che, la crisi che oggi essi vivono si traduce e confonde nella crisi stessa della democrazia rappresentativa: con la naturale conseguenza della necessità di ricerca di nuove soluzioni.

È negli anni ’60 che il tema della partecipazione entra con forza nel dibattito politico italiano; sono gli anni dei consigli di fabbrica, consigli scolastici ed esperienze di urbanistica partecipata che avviano, nel decennio successivo, un percorso di elaborazioni normative.
La crisi degli anni ’90 ha portato poi alla differenziazione degli statuti comunali, soprattutto dopo la nuova legge elettorale del 1993 istitutiva dell’elezione diretta dei sindaci; mentre il Testo Unico degli Enti Locali del 2000, ha rafforzato il ruolo delle istituzioni più vicine al cittadino. Da allora hanno iniziato a costituirsi strumenti specifici e adatti ai diversi contesti socioculturali locali, con l’obiettivo di trasformare la partecipazione da risorsa simbolica in risorsa strumentale.
In Italia, la conoscenza del tema del Bilancio Partecipativo è avvenuta nel 1998, grazie ad alcuni studi universitari e alla neonata rivista ‘Carta’.
Se è vero che l’approccio al Bilancio Partecipativo è risultato fin da subito estremamente politicizzato , è pur altrettanto vero che oggi l’approccio al Bilancio Partecipativo appare più maturo, in quanto pensato e voluto quale strumento di relazione trilaterale tra amministrazioni, cittadinanza e apparato burocratico e, in ultima analisi, di miglioramento della gestione urbana.
Il Bilancio Partecipativo costituisce un percorso importante all’interno di queste sperimentazioni. In Italia, il dibattito sui ‘bilanci’ si è sviluppato in parallelo a quello dei Bilanci Sociali (strumenti diretti a misurare gli effetti in termini sociali delle politiche pubbliche) e ha trovato un terreno fertile alla comprensione del suo ruolo di strumento di rinnovamento politico/pedagogico centrale per l’arricchimento dell’autoconsapevolezza e del senso civico di cittadino.

L’esperienza di Udine, favorita e anticipata, dalla partecipazione alla Rete 9^ del Progetto europeo UR-BAL e successivamente dalla decisione consiliare di associarsi alla Rete del Nuovo Municipio è centrata in particolare sull’idea di portare avanti un’autoeducazione alla democrazia della cittadinanza, attraverso forme di co-decisione tra abitanti ed istituzioni relativamente ai nuovi investimenti strategici per il territorio. In tal senso Udine ha promosso e realizzato un progetto – ancorché sperimentale – di vero e proprio Bilancio Partecipativo, da non confondere con il Bilancio partecipato, il cui approccio sostanziale è ben diverso e certamente più riduttivo e limitante.
Si tratta di un percorso di coinvolgimento che presenta tutte le caratteristiche per tradursi in un percorso duraturo e strutturato dove i cittadini svolgono un ruolo attivo nella costruzione delle decisioni, e non certo di una partecipazione quasi ‘passiva’.

In tale prospettiva, Udine assume il ruolo e la funzione di “apripista” nell’ambito dell’intero territorio regionale, dove il Bilancio partecipativo, assieme al Bilancio Sociale, sono ancora al di là da venire.

I veneziani, cittadini digitali

Molte volte su questo blog si è parlato di cittadinanza digitale, non solo come nostro abitare in Rete ma come esplicito “diritto di banda” che ogni Stato civile dovrebbe garantire alla nascita ad ogni suo cittadino.

Perché diritto di banda significa garantire libero accesso a fonti informative, permette la libera espressione di sé, incoraggia la partecipazione collettiva ai meccanismi consultivi e di qui a poco decisionali, rintracciabili su blog privati o su reti civiche pubbliche, nella promozione di una vera e-democracy.
Avere una Pubblica Amministrazione che agevola la comunicazione del/dal/sul/nel/con il territorio, quel segnalare discutere proporre criticare di noi tutti che riguarda il territorio stesso e le scelte della sua pianificazione in quanto Paesaggio tecnosociale, predispondendo da parte sua buone forme di e-government nonché al contempo capace di mettersi in gioco con gli Abitanti nel dialogo e nell’ascolto di ciò che emerge dai Luoghi conversazionali formali ed informali, rappresenta sicuramente un’ottima garanzia affinché molte voci diverse e molte idee possano contribuire collaborativamente alla progettazione sociale da attuare in futuro sul territorio di riferimento.

Bene, Venezia ha capito che il territorio non è solo quello fisico, e che i cittadini abitano la Rete, che anche la Pubblica Amministrazione deve adeguatamente (ovvero, in modo conversazionale) abitare in Rete, e che far sì che tutti possano connettersi è un arricchimento culturale importantissimo, per i singoli individui e per la collettività, e non è cosa che possa esser procrastinata ulteriormente.
Quindi essere veneziani da oggi significa avere una identità digitale riconosciuta e diritto di accesso gratuito.

Trovate la notizia sul sito del Comune di Venezia; interessante anche la pagina dedicata al web2.0, dove vengono illustrati innovativi sistemi di cartografia digitale, monitoraggio del territorio e strumenti di partecipazione civica.

Venezia si candida come capitale del diritto universale alla Rete Diritto universale all’accesso alla Rete e vera cittadinanza digitale.
Venezia si candida come prima città al mondo a fornire, per i nati nel Comune, contemporaneamente al rilascio anagrafico dell’atto di nascita anche userid e password per accedere gratuitamente a Internet e quindi, di fatto, a certificare l’identità digitale.
E’ questo l’annuncio dato oggi dal vice sindaco di Venezia e assessore all’Automazione, Michele Vianello, presentando l’iniziativa che vede la città lagunare all’avanguardia – per dirla con le parole di Vianello – “sulla nuova frontiera del diritto alla conoscenza”.
Il nuovo tassello del progetto //Venice>connected, che vedrà il completamento della rete a larga banda nell’intero territorio comunale entro la metà del prossimo anno (74 chilometri di cavo con una capacità di 144 fibre), passa ora attraverso la localizzazione di oltre 600 hot spot che consentiranno di collegarsi ad internet in modalità WiFi attraverso computer, palmari e telefonini di ultima generazione.
“Avremmo potuto decidere da soli – ha spiegato il vice sindaco – ma abbiamo invece preferito chiedere ai giovani dove preferiscono localizzare gli hot spot che forniranno l’accesso alla Rete, proprio per dare una connotazione reale alla democrazia indotta dalla Rete”. A tal proposito, Vianello ha fatto sapere che a giorni sarà spedita una lettera a ognuno dei 24.981 giovani dai 14 ai 25 anni residenti nel comune, nella quale sarà chiesto di collegarsi via internet all’indirizzo www.comune.venezia.it/cittadinanzadigitale per esprimere, in un’apposita cartografia comunale, la loro preferenza sulla collocazione dell’hot spot.
Tra quanti parteciperanno, saranno sorteggiati 10 giovani che riceveranno da Venis, la società comunale per l’informatica, uno dei premi messi in palio (1 computer subnotebook e 9 telefonini WiFi di ultima generazione).
“E’ uno sforzo organizzativo e finanziario non indifferente – ha concluso il vice sindaco – ma ritengo che sia necessario coinvolgere il mondo dei giovani in questa operazione che consentirà il libero accesso alla Rete, garantendo finalmente questa estensione di stato sociale fin dalla nascita”.

Buttarsi in politica? Aprire un blog

Il blog personale del governatore regionale diventa un vero Luogo di comunicazione politica, e questo significa che il prossimo governatore dovrebbe avere già oggi un blog, o comunque abitare la rete con atteggiamento partecipativo alla Grande Conversazione e con una identità delineata. Magari, e rendiamogliene atto, un blog come questo di Tondo, da sempre scritto in modo colloquiale e a volte conviviale, capace di raccontare semplicemente le azioni pubbliche e le riflessioni spicciole della persona renzotondo, ma proprio grazie a questa impostazione stilistica un blog da cui ricaviamo scintille di passione, posture esistenziali, il famoso “lato umano”, che da altre parti non può emergere, soffocato da linguaggio burocratese o politichese o da freddi comunicati stampa.

Orbene, potrebbe succedere un putiferio.

Tondo ha pubblicato una “lettera natalizia” da parte di gente che l’ha votato, e che però ora ha capito che i politici sono tutti delinquenti e quelli del PdL in particolare e quindi lo affanculano, però la lettera è firmata però le firme sono inintelleggibili tranne forse qualcuna che in fondo chi mi dice che non sia falsa e quindi perché ‘sta gente non si palesa sul blog e vuole provare a riproporre le domande lì in pubblico e così vediamo cosa risponde il governatore?

Ecco, avete capito.

Agorà politica, vera. Con nomi e cognomi, prese di posizione, discussioni, possibili risse e giustificazioni e “non intendevo dire questo”, però lo hai detto in un luogo web che ormai è defacto Luogo ufficiale di comunicazione politica, anche se l’impostazione è colloquiale e personale. Vedremo.
Come pure vedremo quali personaggi locali, oltre a Tondo e Tesini e a pochi altri che già da qualche tempo abitano in Rete in maniera dignitosa (conversazionale), sapranno esprimersi pubblicamente, in un dialogo continuo con sostenitori e critici, e perla mordi dio non con dei blog fasulli aperti giusto per farsi belli nell’ultima occasione elettorale pubblicando proclami e impegni e poi polverosamente abbandonati.

Tra qualche anno avremo nell’aggregatore tutti i blog dei politici locali, e quando si tratterà di andare a votare richiamare alla memoria il tal personaggio o talaltro, le sue azioni il suo stile i suoi atteggiamenti, avverrà con la forza di migliaia di righe di testo autografe, possibilmente decine di video e fotografie, ed il tutto contribuisce a rendere esponenzialmente più netta ed informata la percezione che ognuno di noi possiede dei personaggi pubblici della politica.

En passant, sono favorevole al fatto che per le prossime elezioni sia possibile, senza incorrere in reati tipo assembramento o riunione non autorizzata, salire su una cassetta della frutta in una piazzetta qualsiasi e perorare la propria causa, che è il modo migliore di bloggare politicamente quando ci serve poter bloggare anche nel mondo atomico, non solo in quello bittico.

Perché Google ha avuto successo?

Google ha compreso prima di tutti le peculiarità degli ambienti digitali, ha inventato nuove forme di marketing, è semplicemente stata capace di “pensare” in un modo nuovo, veramente post-industriale, l’ecosistema costituito dalla rete Internet e le sue dinamiche abitative.
Da questa presentazione, in inglese, si possono ricavare alcune interessanti considerazioni; ad esempio, perché YouTube non è un portale? Perché Microsoft teme Google? Perché Google vuole decisamente muoversi verso il mondo dei cellulari? Perché Google non rende a pagamento i suoi servizi online, come fa a guadagnare? Quando la vera merce di un mondo immateriale diventa l’informazione, come i nostri profili di community e le nostre identità digitali, cosa significa che bisogna imparare a gestire consapevolmente il nostro essere Abitanti digitali?

Internet e territorio

Tra i NuoviAbitanti, spesso accade di parlare di rappresentazioni del territorio, vuoi perché l’utilizzo di mappe e documenti iconografici costituisce una imprescindibile risorsa nelle attività formative dellAssociazione nelle scuole sui temi della Cultura TecnoTerritoriale, vuoi perché le possibilità stesse offerte da strumenti web come le mappe di Google dànno luogo a riflessioni più teoriche, dove vengono presi in esame ad esempio i nuovi concetti di identità delle collettività territoriali, oppure le problematiche relative putacaso alla privacy, se nel caso particolare si sta trattando delle segnalazioni che i fruitori possono apporre sulle mappe satellitari.

In che modo potrebbero essere proficuamente utilizzate le mappe satellitari, magari realizzate secondo filosofia OpenCulture, per la rappresentazione sociodemografica del territorio? In che modo gli Abitanti potrebbero contribuire a quella colossale opera di “arredamento” delle cartografie regionali ufficiali (e almeno in FVG, pubbliche)?
Luca ad esempio sta indagando la possibilità di portare sulle mappe, grazie agli apporti dei singoli fruitori, le indicazioni di tipo linguistico o culturale come “luoghi della memoria collettiva”, oppure le aree di diffusione geografiche delle lingue regionali, mentre a me personalmente interesserebbe molto inventare dei modi nuovi per coinvolgere le istituzioni scolastiche nella produzione di materiale originale, testuale o fotografico o audiovideo, in grado di narrare i Luoghi e i manufatti.
Si potrebbero realizzare dei percorsi culturali sul territorio, volendo a finalità anche turistica, grazie alle segnalazioni dei songoli Abitanti, si potrebbe dare visibilità alle filiere della Produzione e della Distribuzione di beni e servizi, si potrebbero progettare e promuovere sul territorio dei concorsi fotografici, per produrre materiale documentale da mettere a disposizione di tutti, affinche tutti possano partecipare alla costruzione della rappresentazione identitaria di una determinata collettività (e del suo territorio fisico di appartenenza) nei flussi digitali dei nuovi territori digitali.

C’è qualcuno a conoscenza di progetti innovativi che prevedano l’utilizzo interattivo di mappe satellitari? Qua sotto c’è il bottone “Commenti” :)

Socializzare

Fonte: blogeko

Autostop controllato e a pagamento, la Provincia di Trento “sposa” Jungo

Ricordate Jungo, l’autostop a pagamento con la tessera di identità? Ebbene, di strada ne ha fatta dai primi esperimenti a Trento. Giusto oggi entra in vigore una convenzione con la Provincia Autonoma di Trento che, seppur senza stanziare un centesimo, garantisce aiuto a Jungo affinchè si diffonda come strumento di mobilità alternativa.

Cos’è Jungo? Eccolo spiegato.
Tutto parte dalla constatazione che il più delle volte tante auto vanno nello stesso luogo e alla stessa ora con a bordo solo il guidatore. E che nello stesso tempo il car pooling – autista e passeggeri che si danno appuntamento – stenta a decollare.
Rigido, farraginoso, da programmare in anticipo. E cosa succede se per un imprevisto uno dei due è in ritardo?

Jungo è una forma di autostop organizzato e nello stesso tempo estemporaneo: niente appuntamenti preventivi.
Però in nome della sicurezza i passaggi vengono scambiati solo fra autisti e passeggeri muniti di tessera di riconoscimento rilasciata dall’associazione. Che viene rilasciata dietro presentazione del certificato penale. Inoltre, a differenza che nell’autostop classico, i passaggi si pagano. Venti centesimi di “diritto fisso” più altri 10 al chilometro.
Il vantaggio per l’ambiente è evidente: in strada meno auto. Mano consumo di carburante e meno inquinamento atmosferico. Gli esperimenti finora effettuati a Trento hanno dimostrato che il “modello Jungo” funziona. Tanti autisti si fermano, coloro che cercano un passaggio lo ottengono in pochi minuti di attesa.

Con la convenzione, la Provincia di Trento, oltre a fornire supporto e informazione, si impegna a richiedere essa stessa, al posto del singolo o dell’associazione, il certificato penale per tutti coloro che vorranno scambiarsi passaggi tramite Jungo. Si impegna inoltre a gestire un call center al quale ricevere segnalazioni a proposito di passeggeri o guidatori che tengono comportamenti non corretti, affinchè possano essere estromessi dall’associazione.

La determina con cui la Provincia di Trento si convenziona con Jungo per l’autostop controllato e a pagamento

Morte dal vivo

E’ morto un tipo, suicidandosi in diretta durante una videochat pubblica, e non è neanche il primo, e non sarà neanche l’ultimo.
Oltre a nausearmi l’esempio di basso giornalismo pettegolo e sensazionalistico del tgcom rispetto a wired, mi chiedo se poter finalmente suicidarsi in pubblico ma senza nessuno che cerchi di impedirtelo aggiunga sapore all’esperienza.
Anzi, ci vorrebbe una setta religiosa che pone l’attimo del rientrare nel Tutto, sia esso volontario o involontario, quale supremo sacramento da mettere in scena nelle Chiese digitali, altrimenti qui ognuno si leva la vita davanti soltanto ai suoi amici o in eventi pubblici gratuiti, ma se c’è del pubblico pagante io voglio anche un officiante rivestito di ruolo ufficiale nonché sanzionatore dell’avvenuto decesso.
Anche il medico col camice bianco che certifica la morte in diretta di qualcuno sulle webtv potrebbe diventare un personaggio consueto, così come le location classiche tipo rupe a picco sul mare oppure camere d’albergo.
Chiunque interviene sulla scena del crimine per primo sappia di essere probabilmente in diretta, verrà anch’egli archiviato nella memoria collettiva, forse non è il caso di comportarsi indegnamente.
Interessante anche notare la dose di cinismo bastardissimo lasciato nelle chat dei suicidi online da quelli che assistevano all’evento, come riportato da Wired.
Ma in fondo, se qualcuno mi dicesse “adesso mi suicido” davanti a me o dentro uno schermo, gli direi di fermarsi, di affittare un auditorium e metter su di lì a un mese un grande evento mediatico, dove amici parenti e pubblico generico possano partecipare sia in presenza sia a distanza, altrimenti è inutile che me lo dica a me così di colpo e tanto varrebbe facesse una cerimonia di commiato più privata, dentro ambienti di videoconferenza su invito personale.

Blogger morti

E son tutti lì a parlare dei blog, quelli dei blog.
Perché prima dei blog magari c’erano delle webstarz, immaginate quelli bravi e smart dentro i newsgroup e nei forum, i magici affabulatori nei canali su IRC, e poi il tale che intendeva costruire la propria identità in Rete metteva su un sito e pubblicava qualcosa. Ma il feedback era privato, la gente gli spediva mail per dirgli sei bravo o sei bufo o non capisci una mazza. Fin da qui, posso ancora scorgere le macerie annerite e fumanti di pacifici guestbook devastati da guerre di insulti, poi nella ricerca di interazione sui siti abbiam messo delle chatbox, eppoi finalmente sono arrivati i blog, che riescono a essere per noi casa riconosciuta con indirizzo, luogo di espressione, luogo di interazione pubblico via commenti e relative litigate, ma nel frattempo avevamo imparato la grammatica delle litigate online. D’un tratto le personalità emergenti del web avevano strumenti per un buon allestimento scenico di sé e del proprio dire, non restava che sperimentare argomenti e forme di narrazione, e creare sottoreti selezionate, anche con un filtro connotante tipo il blogroll.
Questo ha fatto in modo che noi italiani venissimo a conoscenza dell’esistenza di centinaia di persone simpatiche, tuttora tra le più lette in italia, capaci con stile originale e talvolta veramente splendide doti letterarie di raccontare vita quotidiana, posizioni etiche o politiche, tecnologie e antropologie, amori e passioni.
Molti di questi erano già passati nella palestra delle altre forme di pubblicazione, quelle più vecchie che dicevo sopra, erano blogger anche prima dei blog, avevano già scelto o trovavano naturale esprimersi in rete. Altri si sono buttati un po’ alla cieca e si sono scoperti apprezzati nel loro modo di scrivere o di fotografare, e ora stanno valutando se aggiungere “blogger” al proprio biglietto da visita o sul curriculum.

E i blog diventavano sempre più casetta, le colonne si arricchivano di dettagli di vita del bloggante, foto e articoli e indirizzi di amici… ho visto architetture barocche, grafica ricercata, luminarie e riccioli decorativi, ma poi è arrivato il duepuntozero. Quindi molte cose a questo punto era meglio (più semplice, più efficace) farle fuori dal blog, tipo le foto su flickr e i video su youtube che poi sono anche posti per chiacchierare, e poi ecco qua fiorire delle comunità sociali online e poi ancora i servizi attuali di lifestreaming.
Ovvero, il blog per suo stesso format (ci sono ovviamente blog che mi contraddicono, ma infatti sono gioiose invenzioni di usi alternativi) e per come viene percepito cioè interpretato nel contesto ormai storico della sua fruizione collettiva in quanto “luogo editoriale”, si presta ad ospitare (ci si attende di trovare) articoli di una certa lunghezza, porzioni di contenuto capaci di ospitare in sé un minimo di articolazione e sviluppo narrativo, ad esempio secondo i generi letterari di un panegirico o una perorazione o di una lagnanza o di un annuncio o di racconto breve di ingegno letterario.
Certo, esistono i blog aforismatici e anche di successo, ma oggi esistono luoghi web dove la scrittura breve è maggiormente a suo agio, come twit o come status dentro i messenger e dentro i socialnetork, oppure nelle tracce georeferenziate che lasciamo marcando la nostra mobilità fisica con i cellulari e i servizi di presenza e prossimità digitale permessi da questi ultimi.

E quindi il blog come casa identitaria ha potuto nuovamente alleggerirsi, brani del nostro fare abitavano in altri luoghi web che a loro volta permettono relazioni interumane, quindi noi stessi abitiamo in molti luoghi, e proprio recentemente hanno preso piede degli ambienti capaci di radunare il nostro fare digitale, fatto di commenti e di foto pubblicate e di libri messi sullo scaffale e di video embeddati sui microblog e parole scritte su html più o meno dinamico in un unico flusso che vorrei chiamare vitale, ma in italiano non va bene, e allora propongo solo per la durata di questa frase di chiamarlo flusso vitico o viviflusso o digivita perché in qualche modo il concetto di lifestreaming ci serve.

Qui Mantellini dinanzi alle considerazioni di Squonk riguardo al blog come biblioteca o emeroteca, dove in un clima meno chiassoso di una piazza sia possibile trovare archivi stabili e sedimentazione nel tempo dell’espressione e dell’identità di chi scrive, trova interessante che “venga individuato una sorta di baluardo immaginario che separa il lifeastreaming da contenuti maggiormente organizzati”, ma la distinzione non mi convince, perché è la stessa differenza che c’è tra il mio salotto pubblico e la piazza dove vado a chiacchierare. Anche le cose che dico in salotto finiscono in piazza, ma hanno una provenienza, non sono dette lì: quando un blogger progetta un suo scritto su un blog consapevolmente o meno pone un determinato Lettore Modello quale suo immaginario interlocutore, e l’orizzonte delle attese autoriali relativo a “scrivere sul blog” suscita inventio, disposistio ed elocutio completamente diverse rispetto a mandare un twit (come al solito, svolgete voi l’esempio contraltare relativo alle attese del lettore reale, secondo sociologia della ricezione).

Quindi: il futuro sicuramente ci offrirà sempre più luoghi di espressione personale, luoghi sempre più raffinati per pubblicare contenuto di qualsiasi forma e ampiezza e per distribuirlo con facilità, sempre più raffinati nel riuscire a connotare l’identità dell’autore e lo stile del suo abitare la Rete, e arriveremo chessò al punto di cambiare automaticamente la grafica, calda o fredda, delle nostre case digitali, secondo le nostre variazioni di umore misurate e trasmesse in realtime dal cellulare che ci sta ascoltando il cuore e l’attività neuronale.

Ciascuno di noi a seconda della sua competenza digitale sceglierà quale strumento usare a seconda del tipo di contenuto che deve mostrare e della necessità o meno di sviluppare la narrazione, prevedendo o meno l’intervento costruttivo di altri. Ciascuno di noi – qui è dove poi interviene il discorso educativo – avrà poi per abitudine data da frequentazione o per alfabetizzazione secondaria (è una battuta: in questo momento le scuole sono ancora a ragionar di scanner e dischi fissi, figuriamoci se pensano a organizzarsi per fornire offerte formative in grado di provvedere ai cittadini delle competenze per abitare la Rete, come aspetto di un diritto civico) la capacità di decodificare i contenuti di conoscenza offerta in Rete a seconda dell’ambiente che li ospita o del tipo di prodotto “editoriale” che essi rappresentano, adattando via via diverse categorie di giudizio pertinenti al testo in esame.

Facciamo finta di entrare dal dentista, e di trovare sul tavolino d’angolo una vecchia copia di DonnaModerna: al semplice vederla, al semplice pensare di leggerla si sono già attivate in noi decine di reti enciclopediche, e DonnaModerna non è più un insieme di fogli di carta stampata a inchiostro multicolore sul tavolino. Prima ancora di aprire quella rivista so già molte cose, di cosa potrebbe dirmi e del modo in cui me lo dice e di cosa significa essere visti mentre si legge DonnaModerna in una sala d’aspetto.
Abbiamo un mucchio di competenze che non sappiamo di avere, rispetto a tutto il mondo editoriale degli ultimi quattrocento anni, e siamo diventati talmente raffinati da giocare con i libri e le biblioteche come con le parole, e magari ci immergiamo nella decodifica del Vangelo come fosse un giallo.
O meglio ancora, se parliamo di entrare e uscire da un mondo all’altro, mi viene in mente quando Don Chisciotte nel secondo libro incontra uno che ha letto il primo libro, e si complimenta con lui. Beh, siamo nel 1615, i giochi artistici e letterari erano pieni di inganni, pieghe, attorcigliamenti barocchi e straniamenti, e i mondi della letteratura e della realtà si rinfocolavano a vicenda, in modo (meta)linguisticamente moderno.

Se Mantellini dice che tutto è un calderone dove tutto è confuso con tutto, forse tale è agli occhi di chi non sa distinguere. Prendete Mozart e mettetelo davanti al tavolino del dentista: non saprà distinguere una rivista dall’altra (la loro identità editoriale) a colpo d’occhio, come facciamo noi oggi senza pensarci. Non ha grammatiche, non maneggia codici. Credo che un millennial sveglio, o una persona con sufficiente esperienza di abitanza digitale, siano perfettamente in grado di desumere corrette informazioni dal contesto della pubblicazione di qualsiasi proteiforme opera su web e conseguentemente organizzare i propri strumenti interpretativi, cosicché seguire i lifestreaming degli amici o degli opinion leader nella piazze e poi risalire i feed come i salmoni fino ai blog tematici autoriali per poi andare a esplorare youtube e tornare in qualche social utility a render conto delle cose scoperte in giro o per commentare e ri-giocare la realtà con altri diventa una operazione fluida, connaturata al nostro essere animali sociali costantemente alle prese con l’esplorazione dell’ambiente di vita e la nominazione delle cose in cui ci imbattiamo.

Tutto questo per dire: non vedo il problema.
Nell’ecologia dei Luoghi espressivi online sono nate delle cose più veloci o più social dei blog, abitano meglio in certe nicchie. Il blog che è stato per un po’ di tempo una cittadella che conteneva tutto (biblioteca, bottega, pinacoteca, piazza, indirizzi) ora appalta spesso felicemente certe attività a servizi esterni, e sebbene ridimesionato viene comunque a essere il miglior strumento per determinati tipi di letteratura, e del resto tra le cose nuove che sono nate ci sono quelle fatte apposta per tener traccia di tutto e quindi niente si perde e anzi il flusso sociale diventa visibile.

Per arredare di sé gli ambienti digitali in cui abita, oggi uno dispone di molte diverse possibilità, e ciascun autore può trovare gli strumenti più confacenti al suo dire. Il lato produzione non presenta problemi. Piuttosto il problema è nell’organizzazione dei flussi di memi generati da una specifica pubblicazione di Tizio o Caio, perché se fino a ieri la massa di idee suscitata dall’opera letteraria nei lettori trovava luogo conchiuso di visibilità nei thread di un forum o nei commenti di un blog, oggi è possibile che gli apporti dei lettori vedano la luce in ambienti diversi da quello dove è alloggiato “fisicamente” il post originale. Quindi ecco cosa ci serve: tecnologia tracciante migliore dell’attuale.

Scelte intelligenti

Uno segnala sottolinea dimostra promuove racconta illustra proclama suggerisce e perfino implementa software OpenSource nella Pubblica Amministrazione, poi accade che il ministro Brunetta e giusto per restare in loco il Governatore del Friuli Venezia Giulia Renzo Tondo (qui e qui i link per la notizia dello scorso agosto) continuino a fare affari con i colossi dell’informatica commerciale, e allora cascano le braccia.

Ma perché contravvenire a precise indicazioni di buone prassi già promosse dal ministro per l’innovazione Stanca anni fa riguardo l’uso di software libero? Perché non seguire le mosse di altre grosse realtà amministrative italiane o europee, che hanno definitivamente optato per soluzioni informatiche OpenSource su considerazioni sia etiche sia relative alla funzionalità del prodotto? Perché contrapporsi a scelte palesemente intelligenti?

Meno male che se lo chiede anche l’Associazione per il software libero, e prova ad ottenere delle risposte dal ministro Brunetta con una lettera aperta:

L’Associazione per il Software Libero cerca da 3 mesi di prendere visione dei protocolli d’intesa sottoscritti dal Ministro Brunetta con Microsoft senza successo.
Forse dei fannulloni si annidano nel Ministero per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione ?
Pubblichiamo la lettera aperta indirizzata al Ministro con la quale richiamiamo la sua attenzione riguardo i vantaggi del software libero.

Lettera aperta all’On.le Ministro Renato Brunetta

Protocolli d’intesa sottoscritti in data 05.08.08 con Microsoft Italia S.r.l.

On.le Ministro Renato Brunetta,
il 16.08.08 Le abbiamo spedito una lettera (ricevuta il 03.09.08) con la quale domandavamo di avere accesso a due protocolli d’intesa da Lei sottoscritti con Microsoft Italia S.r.l.: quello “per lo sviluppo di soluzioni d’eccellenza tecnologiche e organizzative, in particolare nel settore della scuola” (http://www.microsoft.com/italy/stampa/Speciali/protocollo/intesa.mspx), e quello (sottoscritto anche dal Presidente della Regione Friuli Venezia Giulia) “per la realizzazione di un progetto pilota di ammodernamento e dematerializzazione della gestione documentale degli uffici” (http://www.microsoft.com/italy/stampa/Speciali/protocollo/documentale.ms…).
La notizia di quegli accordi ha destato in noi viva preoccupazione: in primo luogo perché la P.A. spende ogni anno molti milioni di euro in licenze software (274 nel solo 2003), in secondo luogo perché l’azienda Microsoft è stata condannata in sede europea per abuso di posizione dominante e in terzo luogo perché in qualità di Ministro della Repubblica Lei non può ignorare che il software libero offre una valida alternativa e che la legge (art. 68 D.Lgs. 82/05) impone di realizzare una valutazione comparativa prima d’acquisire il software da utilizzare.
Abbiamo pensato che Lei, Signor Ministro, fosse stato mal consigliato e che fosse nostro dovere aiutarLa.
Ci siamo precipitati a scriverLe nel week end di ferragosto, ma, ad oggi, siamo ancora in attesa di risposta. L’inerzia del Suo Ministero ci ha infine costretti a ricorrere alla Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi.
Quanto dovremo ancora attendere per esercitare il nostro diritto di verificare che quei protocolli d’intesa non ostacolino l’impiego del software libero nella P.A., non rechino ingiusto pregiudizio agli interessi delle aziende europee che commercializzano servizi basati su software libero ed agli interessi dei cittadini ?
Per ora possiamo solo sospettare che, per esempio, l’accordo per il progetto pilota sulla dematerializzazione documentale sia del tutto inutile: in Piemonte si sta già realizzando, con soldi pubblici, un sistema di gestione documentale in software libero (doqui – http://www.doqui.it/), che anche altre regioni stanno considerando di adottare.
Infatti, il software libero può essere riutilizzato senza costi di licenza da tutta la P.A..
Ritardare l’uso del software libero da parte della P.A. danneggia la nostra economia, rende il mercato meno libero e favorisce un gruppo minoritario di aziende che privano il nostro paese di cospicui introiti fiscali. Sa che, per fare un esempio, Microsoft (ma analogo discorso vale per molti dei principali produttori di software proprietario) fattura le licenze vendute in Italia esclusivamente dalla filiale Irlandese (per un totale di 750 Milioni di Euro nel 2003) e che quindi comprando licenze di software proprietario si incide negativamente sulla bilancia dei pagamenti ?
Nel 2000 più di 2.000 cittadini italiani firmarono una lettera aperta intitolata “soggezione informatica dello stato italiano a Microsoft”: da allora le cose non sono migliorate se oggi si finanziano le iniziative di quell’azienda, che non ha certo bisogno di aiuti pubblici.
Non ci riferiamo ovviamente ai protocolli d’intesa da Lei sottoscritti (che non abbiamo letto e quindi non possiamo giudicare).
Ci riferiamo invece ad altre esperienze che la nostra associazione ha avuto modo di valutare negli ultimi anni.
Come il Centro di Ricerca di Povo (Trento), inaugurato nel 2005. Un centro in cui per ogni euro investito dal socio privato (Microsoft), ne sono stati erogati quattro a fondo perduto dai soci pubblici (Provincia di Trento, Università di Trento, Università di Catanzaro e FIRB-MIUR), cioè da tutti noi cittadini. Un centro nel quale gli investimenti sono largamente pubblici: saranno pubblici anche i risultati della ricerca ?
Dopo questo “affare”, anche il Governo di centro-sinistra si è affrettato a stipulare accordi per la costituzione di tre nuovi “Centri di Ricerca su tecnologie Microsoft”: non è certo una scelta sensata, in un paese che si riconosce nei valori del libero mercato e della concorrenza, destinare soldi pubblici a favore di una impresa che detiene il 95 % del mercato dei sistemi operativi.
Qualcuno potrebbe dire che non abbiamo ricevuto risposta per l’inerzia dei Suoi uffici, per una pratica dimenticata sulla scrivania di qualche dipendente fannullone perennemente in malattia o per qualche dirigente ignavo o menefreghista.
Certo che, se queste cose succedono proprio nel Suo dicastero, proprio nel periodo in cui, a quanto sembra, la “crociata contro i fannulloni” sta dando il massimo risultato, c’è ancora molto da fare.
Nella speranza di riuscire a penetrare la fitta trama di ostacoli che Le impedisce di dare la dovuta attenzione alle istanze del software libero, restiamo in attesa di una Sua gradita risposta.
Con ogni osservanza,
per l’Associazione per il software libero
Marco Ciurcina

Netstrike sul MIUR

Esatto. La protesta contro la riforma gelmina continua, mi segnala Gabriella Giudici che linkerei volentieri se avessi un link, e la modernità impone l’adeguamento dei mezzi di lotta.

Quindi, domani alle 14.00 andate tutti sul sito del Ministero dell’Istruzione, giusto per fare un giretto in due clic e vedere cosa non succede.

“Tecnicamente [il netstrike] si può definire come un attacco informatico non invasivo che consiste nel moltiplicare le connessioni contemporanee al sito-target al fine di rallentarne o impedirne le attività”, dice Wikipedia, e sia quest’ultima sia PuntoInformatico nell’articolo dedicato all’evento ci ricordano l’origine italiana di questa strategia agit-prop, nata nel 1995 grazie a Tommaso Tozzi.

La tecnologia secondo Obama

Stavo per tradurre personalmente le parti del programma di Obama riguardanti la tecnologia e la necessità di una moderna abitanza digitale.

Connettere i cittadini, trasparenza governativa, consultazione e decisionalità “dal basso”, proteggere la neutralità di Internet, incoraggiare il pluralismo nei media, sostenibilità energetica, banda larga per tutti, favorire la scuola e la ricerca in campo scientifico e tecnologico, parole che in Italia non sentiamo pronunciare da nessuno.

Poi Apogeonline ha pensato bene di farlo per conto suo, e mettere quelle pagine a disposizione di tutti, in italiano, qui.

La foto in alto è presa dal Flickr di Barack Obama. Il vostro sindaco ha uno spazio pubblico per le sue foto, un suo blog, partecipa a discussioni in Rete?

OpenStreetMap: per una cartografia pubblica e open

Problema: in Italia le mappe satellitari non sono pubbliche e gratuite.

E’ una questione di diritti di copyright: non possiamo usare le mappe di GoogleMaps a nostro piacimento, e inoltre le informazioni che immettiamo su queste mappe (immagini e segnalibri, testo esplicativo) non ci appartengono più, potrebbero legittimamente scomparire se putacaso sparisse Google.

In verità, il vero problema è che in Italia le cose fatte con soldi pubblici non sono pubbliche, che si tratti di brevetti universitari o di cartografie del territorio.

Il Friuli Venezia Giulia non si può lamentare, perché oltre ai dati GPS e al Catalogo regionale dei dati ambientali e territoriali da qualche giorno è possibile accedere in modo gratuito alla cartografia digitale del FVG. Ma in ogni caso non si tratta di mappe su cui gli Abitanti possono scrivere, come quelle di Google, “nutrendo” di informazioni le mappe stesse con indicazioni di pubblica utilità, o di carattere storico culturale o turistico, o luoghi della memoria, in un movimento di connotazione dinamica e collettiva delle identità, originali e uniche, di un territorio.

Ecco quindi (traggo informazioni da questo articolo sulla Stampa di Valentina Avon) che in qualche Comune italiano si vede diffondersi la pratica di “creare e fornire dati cartografici, qualsiasi mappa di strade, liberi e gratuiti a chiunque ne abbia bisogno” secondo le indicazioni del progetto OpenStreetMap, dove ciascuno di noi può appunto liberamente fruire delle mappe e soprattutto partecipare alla loro precisione, ad esempio geotaggando con le coordinate GPS i luoghi significativi affinché tutti ne traggano vantaggio.

Il Comune di Schio ha recentemente abbracciato, in quanto Piazza Telematica, il progetto OpenStreetMap: potete raccogliere qualche ulteriore informazione sulla necessità odierna di Cultura Open guardando la presentazione qui sotto illustrata da Luisanna Fiorini, in occasione del Linux Day appunto a Schio del 25 ottobre scorso.

Le guerre della Transizione

Il Grande Passaggio Epocale, l’inizio delle battaglie senza quartiere né fisico né digitale.

Oppure l’equivalente internettaro di creare un casus belli, dare la colpa al popolo eversivo, provvedere misure restrittive.

Ma è troppo stiloso per essere un autogol o un camuffo. Se qualcuno del Potere provasse a mettere su una pagina di sfacciamento di un proprio sito, probabilmente ricorrerebbe ad un’iconografia differente, più html all’arrembaggio, più povero-militante. Come se i terroristi digitali prediligessero tuttora un’estetica dal volantino ciclostilato delle BrigateRosse, che i tempi hanno poi mashuppato con la grafica hacker.
Cioè, se Tremonti avesse chiesto a qualcuno di sfacciargli il sito per finta (per poi poter gridare allupo allupo) probabilmente avrebbe approvato un prototipo con almeno una scritta “M0rt3 a||o St@t0”, giusto per compiacersi dei TG che parlano di pirati informatici che s’intromettono etcetc.

Questa era la schermata del sito di Giulio Tremonti, a pranzo di oggi.

MittelMedia

Domani c’è un bel convegno a Trieste, si chiama MittelMedia. Pubblicità giornalismo e comunicazione nel futuro dei nostri confini, e mi piacerebbe tanto riuscire ad esserci anche se è di mattina, e avrei da fare due cosette. Me lo segnalano Enrico Marchetto, e Enrico Milic su Bora.la, dove trovate anche il programma.
Servono idee per sopravvivere, avrebbe detto Pelù vent’anni fa, e credo che la possibilità concreta di scambiarsi idee con i vicini dell’Euroregione (magari con il supporto di un buon magazine digitale transfrontaliero, con ancoraggi locali e con una mirata distribuzione su carta) sia un’ottima occasione per trovare risposte “laterali” ai soliti stantii problemi della promozione territoriale e delle collettività.

Banda larga per tutti

Connettere tutte le case italiane in fibra ottica, un obiettivo coraggioso ma di estrema civiltà. L’idea è nota come Fiber To The Home FTTH, ovvero “fibra fino a casa”, e permetterebbe ad ognuno di noi di beneficiare di connessioni a Internet centinaia di volte più veloci dell’ADSL attuale.
Diciamo che potrebbe essere un’opera paragonabile alla costruzione dell’Autostrada del Sole, nei primi anni Sessanta, e foriera di altrettanti cambiamenti sociali in quanto infrastruttura cruciale (i trasporti allora come le comunicazioni oggi) per l’ammodernamento del Paese.Quintarelli sostiene che una rete FTTH nazionale costerebbe come un’autostrada lunga mille chilometri, circa 25 miliardi di Euro, ma ci darebbe una certa tranquillità nell’affrontare l’esplosione delle reti telematiche dei prossimi decenni, e la crescente richiesta di banda.

Del futuro delle scelte, anche tecnologiche, riguardanti il “diritto di banda” degli Abitanti digitali parla Alessandro Longo su Apogeonline, in occasione della pubblicazione del rapporto dell’Agcom sulla situazione della Rete italiana al giugno 2008, che potete trovare qui.
Chiaramente, l’Italia è in ritardo rispetto a molti paesi europei, dalla dotazione tecnologica all’alfabetizzazione informatica alle statistiche di utilizzo dei servizi web. Servirebbero proprio finanziamenti, che però non ci sono.

ps: cercando informazioni sulla storia delle autostrade italiane, mi sono imbattuto in questa voce di enciclopedia Encarta, dove con piglio narrativo viene ripercorsa la progettazione e la realizzazione dell’Autostrada del Sole. Interessante la parte dove indica gli errori compiuti nella progettazione del tratto strategico Bologna-Firenze, dovuti a fretta e mancata supervisione dell’opera in corso. Ragionamenti che possono tornare utili oggi, nell’affrontare il problema di trasferire efficacemente informazioni su reti adeguate, dopo le strade per le persone e le cose, e permettere di praticare dignitosamente le proprie attività di Abitante normalmente biodigitale.

Segway e apprendimento

Amo il Segway.
E’ un bell’oggetto, vederne circolare molti in centro sarebbe splendido.
Una cosa civile, sarebbe.

A proposito di apprendimento – video via Elena – ecco qui uno scimpanzè che impara ad andarci in quattro minuti, e secondo me se non gli venisse facile per istinto buttarsi giù dal mezzo starebbe anche meno. Cioè, come noi.

Vi posso garantire per aver provato: è un bellissimo esempio di interfaccia trasparente, dopo tre minuti si dimentica il manubrio e lo si guida con il pensiero.