Archivi autore: Giorgio Jannis

Le parole nello scanner

Fare didattica oggi a scuola (geografia, scienze, antropologia, educazione alla tecnologia, educazione alla cittadinanza) senza le mappe satellitari tipo googlemaps è perder tempo.
E come più volte si è detto in questo blog, non si tratta di una carta geografica (anche perché la parola “carta” non va più bene) da portare in classe e guardarla per un po’ e fare le fotocopie e magari tracciarci sopra delle righe a matita e tracciare aree con gli evidenziatori.

Per comprendere appieno una didattica capace di integrare armonicamente gli strumenti delle TIC nel flusso situazionale e conversazionale delle situazioni formative, nella mente dell’insegnante deve essere ben viva una rappresentazione dei Luoghi di apprendimento come indifferentemente fisici (l’aula scolastica, il territorio) e digitali (come le mappe online).
Questo perché la didattica poi trova visibilità e interazione nella pubblicazione social web di elementi originali frutto delle attività scolastiche su quella stessa mappa, sotto forma ad esempio di segnalibri con dentro video immagini e testo e collegamenti ipertestuali, e questo si chiama abitare la mappa, arricchendola di vissuto e risvolti antropologici socioterritoriali e connotandola come luogo identitario, che parla di me e del mio fare. La mappa è un ambiente, non uno strumento.

La mappa di Google è un ambiente digitale che però mette in scena l’ambiente fisico e relazionale, e questo cortocircuito ci confonde un po’ le idee. Qui raccontavo di come forse sia meglio oggi dire “il territorio è la mappa”.
Però credo anche che i siti dei Comuni e delle Regioni potrebbero tranquillamente usare una mappa digitale online come homepage, su cui appuntare spazi informativi e di navigazione: quale miglior modo di mostrarmi chi sei se non mostrandomi il tuo territorio, le sue peculiarità insediative, le collettività che lo abitano osservate nelle loro reti relazionali e conversazionali, nella loro unica e originale produzione mediatica?

Quello che vale per le mappe online, vale anche per l’aggregatore di classe (da cui distillare quotidianamente spunti per le attività scolastiche, restando sintonizzati sul mondo) e per il blog di classe (dove contrappuntare i flussi degli apprendimenti con commenti personali da parte degli stessi allievi, perché ri-raccontare agli altri ciò che si è appreso fa imparare meglio) e per molti altri Luoghi che già popolano la nostra vita di oggi, strumenti e ambienti di interazione sociale che per quelle piccole persone di nove anni costituiranno una presenza costante per tutta la loro vita.

Già integrare queste cose nel flusso situazionale dell’aula scolastica, si diceva sopra, significa svolgere concretamente Educazione alla Cittadinanza nel rendere consapevoli i minori dei propri diritti di accesso all’informazione e di espressione di sé; inoltre l’uso critico di questi stessi strumenti favorisce un corretto approccio di Media Education, rispetto alle retoriche della manipolazione mediatica; e ancora si promuoverebbe la corretta postura culturale (da cui pedagogica) dell’utilizzo del web sociale, dove le interfacce si “trasparentizzano” e si riesce finalmente a mettere a fuoco una delle vere mission delle generazioni umane che abitano e abiteranno il Ventunesimo secolo, ovvero riuscire a costruire “intelligenza collettiva”, Luoghi di socialità aperti e condivisi e partecipativi, Società planetaria della Conoscenza, nella certezza che l’incremento della circolazione di informazioni idee e opinioni possa contribuire in maniera determinante al miglioramento delle condizioni di qualità del nostro abitare, al ben-stare glocale su questo pianetino.

Ecco, guardare i computer e non vedere il web è purtroppo uno dei paraocchi che indossa chi oggi dovrebbe ragionare di fare scuola in modo moderno, come i ministri o molti dirigenti scolastici o molti insegnanti, ma di modernità non capisce nulla.
In tal modo, quando guardo il computer penso “informatica”, rendendo ancora più solide quelle interfacce che invece vorrei vedere trasparentizzarsi. Guardo il computer, e penso ancora “calcolatore”, non “socialità”; penso fogli di calcolo, non blog o community. A scuola creo i famigerati laboratori informatici, anziché provvedere connettività nelle classi. Mi invento i curricoli di informatica, e poi se va bene faccio un po’ di multimedialità, e non adotto nessuna metodologia didattica specifica in grado di migliorare l’apprendimento in ambienti ormai stabilmente abitati da Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione.
E io che sono qui a lagnarmi di scelte strategiche sbagliate, esito di scarsa Cultura Digitale, nello stabilire cosa vada valorizzato o meno nei ragionamenti sugli utilizzi delle TIC in classe, vengo come immagino molti insegnanti italiani raggelato dalle dichiarazioni di una FAQ del Ministero, dove si afferma che il laboratorio di informatica “non costituisce, soprattutto nella scuola primaria, un insegnamento prioritario”. Ne parla repubblica.it.

E’ chiaro che se alle scuole primarie diminuiscono le compresenze degli insegnanti, e alle scuole medie diminuiscono le ore di Educazione Tecnica, i bambini andranno sempre meno nell’aula informatica. Lì si può tagliare.
Che poi è assurdo che sia il prof di Educazione Tecnica che deve “fare computer”.
Che poi è assurdo che le ore di Educazione Tecnica diminuiscano, in un mondo tecnologico.
Che poi è assurdo che esistano le aule di informatica, e dei curricoli che prevedono informatica dentro le aule informatiche, alle scuole di base.

Lì potrebbe essere la chiave, nella frase sopra riportata. Nelle parole leggiamo l’approccio culturale di chi le ha scritte, e traspare una visione del mondo vecchia due volte. Non solo quel funzionario o quel ministro non sa cogliere il significato social delle tecnologie TIC nei settori della formazione, secondo precise indicazioni europee; non viene nemmeno più garantito l’uso dello strumento computer, indipendentemente dal fatto che sia connesso o meno. Questo perché i giovani quando entrano a scuola in realtà entrano in una capsula del tempo, e ritornano agli anni Ottanta quando non c’erano né il web né i cellulari. Meno divertente però il fatto che uscendo da scuola per lavorare e diventare cittadini si trovino a dover abitare un mondo decisamente tecnologico, su cui la scuola non ha saputo promuovere nessuna competenza o consapevolezza specifica.

L’errore non è che “non sia prioritario”, l’errore è considerare ancora il pc e il web come oggetto di insegnamento curricolare.

UPDATE: via Roberto Sconocchini, apprendo che quelli del Ministero hanno rimosso la frase incriminata dalle FAQ.

Formazione post-industriale

Evoluzione della Formazione al modificarsi dei modelli economici e organizzativi dell’industria. La riflessione è ripresa da Domenico Lipari e paragona la Formazione in tre grandi momenti storici:

  1. nell’era Fordista la logica d’azione della Formazione era l’istruzione; trasferire nozioni operative che permettano all’operatore l’utilizzo di macchinari e tecniche produttive.
  2. nell’era del Taylorismo la logica diventa l’interazione tra individuo ed organizzazione. La Formazione è organizzata nell’analisi dei bisogni, nella progettazione, la gestione didattica (aula) e la valutazione finale.
  3. Oggi, nell’era Post Industriale, la logica della formazione diventa la capacità di lavorare sulle esperienze capitalizzando la conoscenza (tacita e non formalizzata) che viene creata. La conoscenza è qualcosa cha va generata e l’apprendimento è il processo cui questo viene garantito.

Oggi, per realizzare una formazione qualitativamente elevata è necessario uscire dall’aula ed entrare nei processi informali di apprendimento.

Oggi l’apprendimento è molto più frequente quando avviene in modalità non strutturate e senza una pianificazione o una intenzione della committenza.

E’ iniziata l’era delle Community.

via Luigi Mengato

Distretti di Economia Solidale

Incollo qui dei ragionamenti trovati su Utopieonlus, utili per la progettazione locale di Distretti di Economia solidale.

Rete di Economia Solidale

Il progetto “RES” (Rete di Economia Solidale) è un esperimento in corso per la costruzione di una economia “altra”, a partire dalle mille esperienze di economia solidale. Questa progetto in costruzione, come sta avvenendo in diversi altri luoghi in giro per il mondo, segue la “strategia delle reti” come pista di lavoro. Intende cioè rafforzare e sviluppare le realtà di economia solidale attraverso la creazione di circuiti economici, in cui le diverse realtà si sostengono a vicenda creando insieme spazi di mercato finalizzato al benessere di tutti.

(…) Una rete è costituita dalle cellule, sue unità costitutive, dalle loro interconnessioni relazionali e dai i flussi che le alimentano. Questi flussi possono essere di tre tipi: flussi d’ informazione e tecnologia, flussi di beni e prodotti e flussi di valori, sia economici che etici, di gran lunga i più importanti. Ogni volta che due gruppi, due organizzazioni si integrano in un processo di scambio con altri gruppi, in cui uno alimenta l’ altro in un intercambio di diversità ed arricchimento reciproco allora abbiamo una rete. Tutti i tipi di organizzazioni (movimenti delle donne, reti di diritti umani, reti di produttori agricoli) che si organizzano e che s’integrano in un flusso di informazioni e consumo fanno poi parte di questa rete. Le dinamiche relazionali fra cellule avvengono senza gerarchie verticali prestabilite. La nozione di rete permette di lavorare con la diversità, e fare della diversità la forza del cambiamento. Le reti si autoalimentano tramite la diversità: tanto maggiore è la diversità, tanto più forte è la rete. La sua forza è nella tessitura, nell’ inclusività e nella qualità dei legami tra i suoi componenti. È la stessa idea dell’ecologia, ma qui si tratta di una diversità con principi etici; non tutte le diversità sono buone, alcune annullano le libertà dell’ individuo, ma quelle «buone» ne garantiscono le libertà. Le reti sono importanti, e rivoluzionarie, perché per la prima volta esiste una forma di organizzazione politica che integra i vari gruppi di produzione, cultura, educazione. Ognuno lavorando in sua autonomia, e cercando di garantire alla comunità le condizioni basilari all’ esercizio della libertà prima ricordate. Il concetto cruciale è quello del “bem-vivir”, del ben-vivere, contrapposto a quel ben-avere che, nella mentalità oggi dominante, coincide con il benessere.

In Italia questo percorso è stato avviato il 19 ottobre 2002 a Verona nel corso di un seminario sulle “Strategie di rete per l’economia solidale”, in cui le numerose realtà convenute hanno deciso di affrontare questo viaggio collettivo. Un primo passo è stata la definizione della “Carta per la Rete Italiana di Economia Solidale”, presentata al salone Civitas di Padova il 4 maggio 2003. Ora il percorso prevede la attivazione di reti locali di economia solidale, denominati “distretti”, come passaggio fondamentale per la costruzione di una futura rete italiana di economia solidale. Questo progetto è sostenuto da un gruppo di lavoro su base volontaria a cui partecipano diversi soggetti dell’economia solidale italiana. Gli incontri del gruppo di lavoro sono aperti alle persone interessate. E’ attivo il portale internet www.retecosol.org

In vari paesi del mondo (Brasile, Argentina, Spagna, Francia) esistono già reti di economia solidale, nate negli ultimi anni. In Italia la Rete di Lilliput e diversi soggetti di economia alternativa (Botteghe del Mondo-commercio equo solidale, Gruppi di Aquisto Solidali, organizzazioni della Finanza Etica e del Turismo Responsabile, cooperative sociali) stanno promuovendo un processo analogo, per collegare e rafforzare queste pratiche di economia basate su principi opposti a quelli del neoliberismo; punto di partenza di questo processo è la costituzione di Distretti locali di Economia Solidale.

I principi su cui si basano le reti di economia solidale

* Nuove relazioni tra i soggetti economici, fondate su principi di cooperazione e reciprocità.
* Giustizia e rispetto delle persone (condizioni di lavoro, salute, formazione, inclusione sociale, garanzia di beni e servizi essenziali).
* Partecipazione democratica
* Disponibilità a entrare in rapporto con il territorio (partecipazione a progetti locali).
* Disponibilità a entrare in relazione con le altre realtà dell’economia solidale condividendo un percorso comune.
* Investimento degli utili per scopi di utilità sociale.

Distretti di economia solidale

I distretti di economia solidale sono “laboratori pilota” locali in cui si sperimentano forme di collaborazione e di sinergia per un modello economico che pratica modalità opposte a quello dominante e presentato come unico possibile sulla base di:
* Economia equa e socialmente sostenibile: i soggetti che appartengono ai Distretti si impegnano ad agire: in base a regole di giustizia e rispetto delle persone (condizioni di lavoro, salute, formazione, inclusione sociale, garanzia di beni e servizi essenziali); in modo equo nella distribuzione dei proventi delle attività economiche (investimento degli utili per scopi sociali con lavoratori locali e del Sud del mondo); con criteri trasparenti nella definizione dei prezzi da attribuire a merci e servizi.
* Sostenibilità ecologica: i soggetti aderenti ai Distretti si impegnano a praticare un’economia rispettosa dell’ambiente (sia nell’uso di energia e materie prime, sia nella produzione di rifiuti) e il più possibile contenuta nell’impatto ambientale
* Valorizzazione della dimensione locale, il che significa dare la priorità alla produzione e al consumo delle risorse del territorio, sia in termini di materie prime ed energia, che di conoscenze, saperi, pratiche tradizionali, relazioni e partecipazione a progetti locali.
* Partecipazione attiva e democratica: i soggetti che fanno parte dei Distretti, nel definire concretamente come gestire i processi economici e le relazioni al proprio interno e con gli altri soggetti del proprio territorio, faranno riferimento a metodi partecipati.

Possono far parte dei distretti
* le imprese dell’economia solidale e le loro reti/associazioni
* i consumatori dei prodotti e servizi dell’economia solidale e le loro reti/associazioni
* i risparmiatori-finanziatori delle imprese e delle iniziative dell’economia solidale e le loro reti/associazioni o imprese
* i lavoratori dell’economia solidale
* gli enti locali che intendono favorire sul proprio territorio la nascita e lo sviluppo di esperienze di economia solidale
* le associazioni o i Centri di Ricerca che si occupano del te ma.

Gli obiettivi principali proposti ai vari soggetti che faranno parte dei Distretti sono:
* utilizzare prioritariamente beni e servizi forniti da altri membri del Distretto stesso
* investire preferibilmente gli utili nelle imprese che fanno parte del Distretto
* promuovere e diffondere in modo sinergico la cultura dell’economia solidale, degli stili di vita sobria e del consumo critico.

Questo non esclude ovviamente la possibilità di collegarsi, a livello nazionale o internazionale, con altre realtà che svolgono attività analoghe (altri distretti, reti di commercio equo, di finanza etica, di turismo responsabile e così via).

Quando governano i premoderni

Giampiero D’Alia “Il 5 febbraio 2009, durante la seduta n. 143 del Senato della Repubblica, promuove e ottiene l’inserimento di un emendamento (Art. 50-bis) nel ddl da presentare alla Camera, nel quale si sancisce la Repressione di attività di apologia o istigazione a delinquere compiuta a mezzo internet”.

Trovate la notizia e le riflessioni critiche qui sulla Stampa, su PuntoInformatico, su Apogeonline.
Prendendo le mosse dalla presenza in Rete (su Facebook, su YouTube) di pagine inneggianti alla mafia o al nazismo, il senatore arricchisce il “pacchetto sicurezza” del governo con un emendamento contro i reati di opinione commessi appunto attraverso internet, dove i fornitori di connettività provider vengono chiamati a segnalare le apologie di reato, e con molta confusione si chiede ai fornitori di servizi web (come YouTube) di rimuovere pagine o contenuti con la minaccia di oscurare la visibilità web per i navigatori italiani.
Ma il senatore non conosce le cose di cui parla, letteralmente sproloquia, sia dal punto di vista della comprensione “tecnica” del funzionamento del web, sia da quello della portata del suo dire rispetto alla libertà di espressione di ciascuno di noi.

Gilioli dell’Espresso intervista infatti D’Alia, e Elvira Berlingieri su Apogeonline mette nero su bianco tutte le imprecisioni tecniche e giuridiche del senatore, riportando tutto pragmaticamente alle precise parole del provvedimento, segnalando spesso contraddizioni e sottolineando la futilità di una nuova legiferazione per reati già previsti nel Codice italiano.

Leggete anche Granieri, che coglie la dinamica complessiva del nuovo modo di fare informazione distribuita.

Perché scrivo di questa notizia?
Perché stiamo parlando di libertà di opinione e di espressione, che troppi vorrebbero limitare. E perché lo stesso Gilioli, scrivendo a proposito del senatore D’Alia

Il problema è che lui e quelli come lui non si rendono neppure lontanamente conto delle enormità che dicono (e che fanno), della loro drammatica appartenenza culturale a un altro secolo e a reticoli concettuali premoderni

mi ha fatto pensare ai NuoviAbitanti, che provano a vivere in questo ventunesimosecolo e comprendono i reticoli concettuali moderni, o per lo meno s’interrogano su questo stesso blog.

Ma come mi tratti?

Immaginatevi una Anagrafe digitale pubblica, gestita da Pubbliche Amministrazioni. Qualche server beneducato a non dimenticare nulla, dei database per ogni cittadino, e se per cominciare rendiamo disponibile dieci megabyte per ciascun italiano, alla fine ce l’asciughiamo con 600 terabyte, tutte robe tecnicamente fattibilissime.
Le tabelle cominciano a popolarsi nel momento in cui nasciamo, anzi prima ancora dal momento della visita in ginecologia in cui viene sancita dal medico la presenza su questo pianeta di una nuova vita. Ovviamente, il momento dell’apertura del nuovo file nell’Anagrafe Pubblica è esattamente il momento di passaggio, e facilmente i prossimi riti tecnosociali prevederanno cerimoniali specifici su come svolgere al meglio questo iniziale gesto di attribuzione di identità al nuovo nato.

Cominciamo a riempire il database. I genitori hanno obblighi specifici, scelgono il nome del pàrgolo, sottoscrivono il proprio impegno nel provvedere alla sua inculturazione, riporteranno via via gli episodi salienti della vita del figlio. Ma un mucchio di altra gente potrà scrivere ufficialmente (tracciando gli autori) su quel database, ad esempio il medico che diagnostica malattie infantili allega le cartelle (digitali) cliniche, poi le cure dentarie, poi gli insegnanti che annotano i percorsi di apprendimento intrapresi, la maestra di ballo e la psicologa certificheranno questo e quello, e di tutti questi dati bisognerà stabilire quali sono pubblici, e quali invece possono essere compulsati solo dopo consenso del titolare, oppure su ordine della magistratura.

Al compimento del diciottesimo anno di vita, al nostro ragazzo del 2027 verrebbe ufficialmente consegnata dal Sindaco la password per l’accesso al proprio database, di cui diventa unico responsabile dinanzi alla collettività. Ci son degli obblighi di legge, bisogna aver cura del profilo identitario e scriverci delle cose sopra, documentare sé stessi e prendere posizione rispetto ad alcune scelte etiche che la società ci chiede di intraprendere.
Ad esempio, a diciotto anni ciascuno di noi dovrebbe cominciare a redigere e aggiungere alla propria identità tecnosociale un documento in grado di esprimere esplicitamente la nostra personale visione del mondo rispetto al Senso della Vita e della Morte, e quindi in grado di orientare poi i comportamenti da tenere nei miei confronti in modo che nulla possa avvenire contro la mia volontà, anche me assente o impossibilitato. Un testamento biologico.

Del mio corpo, della mia mente decido io, e sorreggo l’affermazione con la stessa responsabilità civica di cui mi faccio carico dinanzi alla collettività riguardo le conseguenze delle mie azioni.

Ahimè, chissà quando vedremo realizzato e operante quel database identitario pubblico. Nel frattempo utilizzo questo semioblog, mio luogo di espressione con nome e cognome.

Udine, 8 febbraio 2009

Io sottoscritto Giorgio Jannis, nato a Udine il 21 giugno 1967, nella pienezza delle mie facoltà fisiche e mentali, dispongo quanto segue.

Qualora fossi affetto:
da una malattia allo stadio terminale,
da una malattia o una lesione traumatica cerebrale invalidante e irreversibile,
da una malattia implicante l’uso permanente di macchine o altri sistemi artificiali e tale da impedirmi una normale vita di relazione,
non voglio più essere sottoposto ad alcun trattamento terapeutico.

Nelle predette ipotesi:
qualora io soffra gravemente dispongo che si provveda ad opportuno trattamento analgesico pur consapevole che possa affrettare la fine della mia esistenza;
qualora non fossi più in grado di assumere cibo o bevande, rifiuto di essere sottoposto a idratazione o alimentazione artificiale;
qualora fossi anche affetto da malattie intercorrenti (come infezioni respiratorie e urinarie, emorragie, disturbi cardiaci e renali) che potrebbero abbreviare la mia vita, rifiuto qualsiasi trattamento terapeutico attivo, in particolare antibiotici, trasfusioni, rianimazione cardiopolmonare, emodialisi.

Sempre nelle predette ipotesi:
Rifiuto qualsiasi forma di continuazione dell’esistenza dipendente da macchine.

Detto inoltre le seguenti disposizioni:
non richiedo alcuna assistenza religiosa;
il mio corpo può essere donato per trapianti;
il mio corpo può essere utilizzato per scopi scientifici e didattici.

Lo scopo principale di questo mio documento è di salvaguardare la dignità della mia persona, riaffermando il mio diritto di scegliere fra le diverse possibilità di cura disponibili ed eventualmente anche rifiutarle tutte, diritto che deve essere garantito anche quando avessi perduto la mia possibilità di esprimermi in merito.
E questo al fine di evitare l’applicazione di terapie che non avessero altro scopo di prolungare la mia esistenza in uno stato vegetativo o incosciente e di ritardare il sopravvenire della morte.

Horse Latitude

Come già l’altr’anno, oggi sono andato a Pordenone nel liceo dove insegna Pier e lui assente (saluto i prof che erano presenti, Alessandro e Enrico) ho tenuto la mia lectio magistralis sul Senso della Cultura Tecnologica moderna e dell’Abitare sociodigitale, secondo approccio gangherologico. Dilagando per quasi tutte le due ore, e studenti e studentesse che eravate presenti commentate pure questo post, o qualunque altro, per farmi domande relative o no.
Sono andato anche a mangiare pastalpesto e due fritole a casa di Sergio, quindi non sono nemmeno uscito dalla modalità “digital world” che avevo settato mentalmente per fare lezione nella mattinata e ho continuato per due ore a chiacchierare amabilmente in gergo da webaddicted.

In realtà, questo post era per prendere appunti.
Qui Gigi Cogo racconta delle dinamiche del web 2.0 a supporto dei servizi di eGovernment, e riesce a illustrare il farsi strada dei nuovi approcci comunicativi, delle nuove necessarie posture conversazionali nella cultura di gruppo delle Pubbliche Amministrazioni.

Carlo Infante su PerformingMedia espone e suggestionea incastrando bene le pratiche di Rete, di multimedialità e di territorio dentro i nuovi scenari che geoblogging e media locativi rendono visibili e vivibili – “scrivere storie nelle geografie”. Carlo andrebbe con la forza costretto a produrre idee relative a possibili applicazioni ev’ryday-life delle tecnologie georeferenziali, a inventarsi situazioni e messe in scena di comportamenti umani interfacciati.

Sergio Maistrello mette giù un sacco di idee sulle nuove dinamiche del giornalismo più o meno web e sul problema della disintermediazione della comunicazione istituzionale, partendo dalla riorganizzazione profonda dei modi di interpellazione dell’interlocutore e dei contenuti espressi dai siti governativi americani in seguito all’elezione di Obama.

Poi avevo messo da parte una serie di link su argomenti tipo “tracciabilità”, ovvero indicazioni su argomenti che riuscissero a mostrare qualcosa di robe come mappature di comunità (indifferentemente su terra, web o supporti mobili), borghi digitali, webcittadinanza, utilizzo di cellulari come sensori (ne parlavo qui), anzi i cittadini stessi sono i sensori, ma si può mettere dei rilevatori anche sui piccioni e farli comunicare in tempo reale su wifi cittadino le condizioni ambientali (quota di anidride carbonica, per esempio) dei quartieri. Trovate tutto qui, da Vodaphone.

La Nokia non sta ferma, figuriamoci, e come sappiamo dopo Nokia Sensors per rilevamenti ambientali (cerchiamo di fornire contesto al nostro dire, mettiamo dentro il messaggio il più possibile della situazione enunciativa) lancia MyMobile, che però è un webserver da mettere dentro il nostro telefonino, così possiamo arrivarci dentro via web, navigando. Ma siccome sul telefono è possibile mantenere ad esempio gallerie fotografiche pubbliche di foto nostre originali, oppure fare un blog (sì, dentro il cellulare) o condividere un calendario, ecco che abbiamo per le mani un modo nuovo di “darsi” degli individui dentro la rete, innescando community (frequentazioni, partecipazioni, appartenenze) basate sulle reti cellulari.
Esistono anche le community geograficamente strettissime, ad esempio quelle basate sullo scambio bluetooth tra i cellulari, così quando entrate in discoteca o in pizzeria avete già sul visore del telefono la mappa situazionale dei personaggi presenti, con i loro profili, e strumenti di interazione. Esempio di queste tecnologie sono Mobiluck e Crowdsurfer, e anche i cellulari social sono cosa che già abita il presente, anche se al momento servono a cuccare in modo creativo.

Ancora tre link: urban-atmospheres.net locative-media.orge urban-atmospheres.net
per ragionare sempre di nuove forme di abitanza digitale, interessanti. La locuzione “media locativi” non mi sembra male, peraltro.

Chiaramente, mentre sto per chiudere il post arriva Google (ne parlano qui) con il suo nuovissimo GoogleLatitude, che appunto è un marcatore social di presenza basato su Google Maps. Scaricate il nuovo GMaps 3.0 per cellulari, lui rileva la vostra posizione sul pianeta via GPS o sui wifi o sulle reti cellulari, e la riporta sulle mappe satellitari. Poi spedite l’invito ai vostri contatti gmail, quelli che volete, e anche loro se accettano compariranno come avatar sulla mappa geografica, simboleggiando la loro posizione (la quale può essere anche mentita, impostando una posizione manualmente). La mappa poi la vedete sul cellulare o anche via web (non italia ancora), come widget dentro la iGoogle.

Se per districarvi tra tutte queste indicazioni e suggestioni vi serve una mappa mentale, traggo da qui alcune indicazioni di Buzan in persona su come impostare i nodi di primo livello.

Here are some additional tips from Buzan on the types of words that tend to make effective basic ordering ideas:

  • Divisions: chapters, lessons or themes
  • Properties: characteristics of things
  • History: a chronological sequence of events
  • Structure: how things are formed or arranged
  • Function: what things do
  • Process: how things work
  • Evaluation: how good, beneficial or worthwhile things are
  • Classification: how things are related to each other
  • Definitions: what things mean
  • Personalities: what roles or characters people have

Retrofuturo web

La personalità di un bambino comincia a formarsi da quando è ancora in pancia. Anzi, la personalità del bambino comincia a formarsi nel pensiero dei suoi genitori, dentro una relazione, prima ancora del concepimento.

Qui un servizio televisivo di un tg americano del 1981 parla del nostro web, “chissà che mondo sarà quello in cui a colazione leggeremo le nuove sullo schermo di un personal computer”.

Che poi, quand’è finita quella tonalità futuro-progresso-startrek-ottimismo con cui si dipingevano le notizie tecnologiche negli anni Settanta e anche primi Ottanta? Son passati BladeRunner e il cyberpunk e hanno steso una vernice cupa a rivestire tutto? Quale intellettuale opinionleader gatekeeper quindici o vent’anni fa ha magari ripreso in mano quell’Heidegger storto che non aveva ancora capito bene la Tecnica, per tuonare – come nei temi in terza media sulla bomba atomica – contro la tecnologia disumanizzante che ci circonda e ci pervade? Perché d’un tratto questa svolta disforica, nel clima narrativo della webStoria? E’ possibile risalire alle scintille iniziali, che hanno impresso poi connotazione negative alle vicende successive contribuendo a costruire il frame cognitivo dentro cui avremmo interpretato i cambiamenti sociali legati alla nascita di Mondo 2.0? Ci sarebbero state anche da sopportare tutte le sciocche retoriche scandalistiche e criminalizzanti riguardo il web, a fine Novanta, e sappiate che “la mafia usa la posta elettronica”, tanto per dire, è affermazione che farebbe la sua disinformativa figura anche dentro un TG qualunque di questa sera.

“Imagine, if you will, sitting down to your morning coffee, turning on your home computer to see the day’s newspaper. Well, it’s not as far-fetched as it may seem.”

via MatteoBaldan

Spicciolame

Pasteris dice che

CriticalCity ha vinto i Kublai Awards 2009
CriticalCity è una piattaforma di riqualificazione urbana ludica e partecipata. E’ un progetto innovativo per mettere al centro i cittadini e trasformarli in motore attivo della trasformazione sociale, culturale e fisica del territorio urbano. Molti cittadini non sono soddisfatti della condizione della propria città, molti la vivono a fatica, la subiscono ma non sanno da dove cominciare, non hanno a disposizione uno strumento semplice per poter agire direttamente sulla propria città e fare qualcosa – anche di piccolo – per cambiarla, per renderla più vivibile, migliore. CriticalCity risponde al bisogno di potersi impegnare per la propria città e pensa che il modo più efficace per riuscire in questo sia di trasformare questa attività in un gioco.

Mi sono iscritto come Solstizio, dalle mie parti non c’è nessuno, proverò a capire come funzia.

Poi c’è questo brano di McLuhan del 1963, pubblicato da repubblica.it e arrivatomi via ValterBinaghi. C’è tutta una critica iniziale, sulla natura depauperante delle tecnologie di connettività – il sistema nervoso extracorporeo, nato con il telegrafo. Poi distingue

“… La nuova tecnologia elettronica, però, non è un sistema chiuso. In quanto estensione del sistema nervoso centrale, essa ha a che fare proprio con la consapevolezza, con l’ interazione e con il dialogo.”

E qui McLuhan, diciamolo, è eccezionale per la lucidità con cui riesce a rendere pertinenti le peculiarità dei new media dei suoi tempi (frutto di precise innovazioni tecnologiche) rispetto alle considerazioni sul funzionamento delle collettività umane. Con una visione moderna, di sistema e di processo – anche se ci sento dentro una figuratività metaforica un po’ ottocentescamente organicista o hegeliana, mah – riesce a cogliere l’emergere della consapevolezza collettiva nei sistemi mediatici planetari, proprio come un sistema nervoso sufficientemente complicato ad un certo punto sviluppa forme di coscienza, come strumento per meglio gestire quella complicatezza che ormai si può chiamare complessità. Si giunge all’autocoscienza, anche per il fatto che le tecnologie fulcro del cambiamento sociale attuale sono proprio le tecnologie della comunicazione e dell’informazione.

“Nell’era elettronica, la stessa natura istantanea della coesistenza tra i nostri strumenti tecnologici ha dato luogo a una crisi del tutto inedita nella storia umana. Ormai le nostre facoltà e i nostri sensi estesi costituiscono un unico campo di esperienza e ciò richiede che essi divengano collettivamente coscienti, come il sistema nervoso centrale stesso.”

Sta parlando di internet, è chiaro. Considerando evolutivamente il sistema televisivo come sviluppo degli organi di senso del corpo sociale (e negli Stati Uniti dei primi sessanta c’era già un sistema rediotelevisivo paragonabile all’italia degli anni Ottanta, per varietà di voci e capillarità), ad un certo punto si arriverà alla nascita di un sistema nervoso centrale, un Luogo di elaborazione dei flussi informativi, e si tratta di un Luogo sociale. Sul problema della scrittura e dell’oralità potremmo confrontarci con letteratura più recente, ma porre l’accento sui gruppi in relazione ai media è mossa notevolissima.
“La scrittura, in quanto tecnologia visiva, ha dissolto la magia tribale ponendo l’accento sulla frammentazione e sulla specializzazione, e ha creato l’ individuo. D’ altra parte, i media elettronici sono forme di gruppo.”

“Siamo diventati come l’ uomo paleolitico più primitivo, di nuovo vagabondi globali; ma siamo ormai raccoglitori di informazioni piuttosto che di cibo. D’ ora in poi la fonte di cibo, di ricchezza e della vita stessa sarà l’ informazione.”

“Quando nuove tecnologie si impongono in società da tempo abituate a tecnologie più antiche, nascono ansie di ogni genere. Il nostro mondo elettronico necessita ormai di un campo unificato di consapevolezza globale; la coscienza privata, adatta all’uomo dell’era della stampa, può considerarsi come un cappio insopportabile rispetto alla coscienza collettiva richiesta dal flusso elettronico di informazioni. In questa impasse, l’unica risposta adeguata sembrerebbe essere la sospensione di tutti i riflessi condizionati.
Penso che, in tutti i media, gli artisti rispondano prima di ogni altro alle sfide imposte da nuove pressioni. Vorrei che ci mostrassero anche dei modi per vivere con la nuova tecnologia senza distruggere le forme e le conquiste precedenti. D’altronde, i nuovi media non sono giocattoli e non dovrebbero essere messi nelle mani di Mamma Oca o di Peter Pan. Possono essere affidati solo a nuovi artisti.”

Qui credo emerga un problema. Noi non conosciamo le potenzialità della nostra coscienza, nella sua abilità di coordinare flussi informativi, di farci restare attenti rispetto all’umwelt, come fossimo scimmie che in una foresta cercano sempre il profilo della tigre tra le foglie. Per il nostro essere animali, questa è facoltà necessaria per la sopravvivivenza (al punto che uno che legge il giornale in autobus è visto con un po’ di riprovazione, diceva Goffman, perché non può svolgere la funzione sociale di “sorvegliante” della situazione), e la coscienza come meccanismo serve anche a questo. En passant, sia chiaro che la coscienza per come ce la raccontano Hofstadter e Dennett può essere anche caratteristica di un formicaio, se non delle singole formiche, in relazione ai comportamenti adottati, quindi evitiamo di antropomorfizzare il discorso come al solito.
Ma il fatto è che se dentro un mondo virtuale in 3D, magari con visore e guanto, se mi dimezzano la forza di gravità ci metto un attimo ad adeguarmi. I bambini precocissimi non fanno fatica a interagire con flussi informativi, anche attraverso interfacce non pensate per loro (un telecomando del decoder o un software che si chiama Ufficio).
Se guardate i flash giornalistici di notte alla tv, vedrete uno schermo pieno zeppo di informazioni su molti flussi diversi (la voce dello speaker, le immagini alle sue spalle, i boxini con le quotazioni dell aborsa e il meteo in parte, nel sottopancia scorrono veloci altre news) eppure non facciamo fatica a seguire tutto. La nostra coscienza sembra essere sovradimensionata, capace di gestire anche quello per cui non è nata. Oppure semplicemente le sue facoltà non vanno pensate in termini di quantità, ma di algoritmi di funzionamento. Oppure meglio ancora, cerchiamo di capire che specie umana e tecnologie sono in simbiosi, da secoli. La pensabilità della tecnologia determina le direzioni verso cui la troviamo, spesso serendipicamente facendo lo sgambetto alla prevedibilità – d’altronde, la realtà notoriamente non ha nessun obbligo di essere verosimile, non siam mica a teatro qui – allo stesso modo in cui gli artefatti che ci circondano determinano le direzioni del nostro pensare. Perché stiamo dialogando con l’ambiente, e le tecnologie sono le parole dei nostri discorsi, dove traggo identità di me dal loro risuonare.
E guarda caso, nel mutuo reciproco evolversi degli Umana e dell’ambiente di vita, si scoprono facoltà cognitive che non si pensava esistessero (sì, sto ancora pensando al bambino di quattro anni che vi maneggia il MediaCenter in salotto con la stessa dimestichezza di un bibliotecario con un master in digital library) che si rivelano adeguate a fronteggiare le nuove forme di complessità degli ambienti mentali, fisici e digitali.
Nel parlare di coscienza privata e collettiva, McLuhan non poteva che pensare da dentro l’orizzonte della pensabilità del 1961, anche se in maniera eccezionale nella sua capacità di tratteggiare scenari futuri a partire da pochi segnali deboli. Qui forse ha tenuto ferma nel suo ragionamento una costante, la forma e le funzioni di quello che chiama coscienza, che invece è da considerarsi anch’essa una variabile, per il suo evolversi e mostrare nuove facoltà quando chiamata a fare il suo lavoro di “centro regìa” nel gestire flussi provenienti da ovunque, dentro e fuori su molti canali diversi.
Ma la coscienza e il mondo co-evolvono, non c’è bisogno di ipotizzare tragiche morti di coscienza individuale a favore di coscienze collettive. L’interazione dialogica tra sistema nervoso e oggetti è cosa sottile. Ad esempio, tutta la folksonomia è una risposta concettuale e operativa (forse addirittura non-pensabile nel 1961) che prova a fare luce su certi fenomeni socioculturali che si collocano su faglie di confine tra contesto individuale di significazione e i comportamenti degli oggetti culturali negli ecosistemi della conoscenza.

Gli artisti che scavano sotto i riflessi condizionati mi puzza ancora di romanticismo, mi sembra il solito Picasso che “dipinge quello che vede, non quello che sa”. Poi vengono gli straniamenti, poi le installazioni come indagine sul contesto di rappresentazione, i meticciamenti e le sinestesie. Questo ci porterebbe sui linguaggi della creatività, e via andare. Ma resteremmo ancora bloccati in una dialettica di contesti di pensabilità degli oggetti e dei comportamenti impostata su vecchie concezioni del mondo e della socialità e dello scambio informativo. Al momento, i migliori artigiani che conosco sono la sterminata massa anonima di sviluppatori software che di notte, nel buio dei profondi anni Ottanta o primi Novanta, hanno sviluppato il mondo digitale che ora abitiamo. Dell’arte parliamo più avanti.

E infine questa recensione di Tito Vagni ad un libro di Piero Vereni, “Identità catodiche. Rappresentazioni mediatiche di appartenenze collettive” che è un titolo di quelli giusti densissimi ma “catodiche” non mi piace, ma non credo che parli solo di tecnologia digitale, quindi figuriamoci se posso giudicare un libro dal titolo, toccherà fare un salto in libreria. La recensione è interessante, incollo anche qui alcuni concetti con la normale colla CtrlV.
… Esiste però un filo conduttore costituito dal ruolo determinante che i mezzi di comunicazione hanno assunto nella vita quotidiana e la necessità, per le scienze sociali, di guardare ai media come al luogo privilegiato dell’analisi sociale.

… ricostruzione dettagliata dei lavori di “antropologia dei media”, termine con cui individua un filone di studi derivante dalla contaminazione tra antropologia linguistica e cultural studies, che tenta di comprendere il rapporto tra sistema dei media e sistemi culturali

… “di fronte ai nuovi media siamo tutti primitivi, dato che tutti abbiamo bisogno di elaborare strategie d’uso e di significazione originali che abbiano e producano un senso dentro il sistema culturale che viviamo”

… mostra particolare attenzione al modo in cui l’introduzione di un mezzo di comunicazione ridisegni l’organizzazione dello spazio o, utilizzando le parole di Meyrowitz, riesca a proiettare l’abitare “oltre il senso del luogo”.

… la presenza della tecnologia nella vita quotidiana si è fatta talmente massiccia da rendere impertinenti alcune analisi sociali che eludono il ruolo dei media

Tutto interessante.

Piano e-Gov 2012

E’ stato presentato il piano generale dell’e-government in italia, e-Gov 2012, disponibile sui siti istituzionali del Ministero per la pubblica amministrazione e l’innovazione e della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Trovate la Presentazione, gli Obiettivi, il Management summary, la Sintesi e la Pianificazione di alcuni progetti, tutta roba in pdf che si legge velocemente.

Anche Quintarelli nel parla, e trae alcune puntuali osservazioni.

C’è una mancanza iniziale, come in ogni storia che si rispetti, rilevabile dalla bassa posizione dell’italia nelle classifiche europee di diffusione di TIC e cultura digitale; c’è un contratto da rispettare, le indicazioni di Lisbona; c’è una ammissione esplicita di incompetenza da parte della Pubblica Amministrazione, all’inizio della pagina 7 del Management Summary, nel suo ancora insufficiente apporto alla conversazione in rete, la qual cosa potrebbe in effetti essere una delle concause che inibiscono i cittadini italiani a frequentare maggiormente il web. E il Piano è il modo con cui il governo intende affrontare il percorso verso una maggior qualità della comunicazione tra Amministrazioni e Cittadini, e nel contempo cercare di risparmiare il 25% delle spese attuali grazie alle varie ottimizzazioni nei settori della Salute, Giustizia, Anagrafi, alle dematerializzazioni tipo la casella elettronica certificata per le operazioni con le PA. Il tutto per milletrecentottanta milioni di euro.
Nell’ultima pagina del Summary ci sono degli aspetti di monitoraggio e valutazione dell’applicazione del Piano, e ci sarà un portale e-gov2012 dove poter seguire gli avanzamenti. Tralascio la customer satisfaction e le faccine che smailano, però per fortuna vedo che sono previste espressamente attività di formazione (con Formez e Scuola Superiore PA) sia frontali sia online per tutti quelli dentro le PA, e gli argomenti parleranno di aspetti di processo, di project management, di comunicazione al cliente, di comunicazione interna, di gestione della trasformazione organizzativa.

Per la Scuola, si parla espressamente di diffusione di strumenti di innovazione nella didattica (lavagne digitali, pc, contenuti digitali, e‐book), nell’interazione scuola‐famiglia (pagella e registro elettronico, domande di iscrizione, accesso ai fascicoli personali degli studenti e prenotazione colloqui online) anche in modalità multicanale (tv, web, email, sms), nei servizi amministrativi e servizi allo studente (wifi nelle università), di 240 duecentoquaranta milioni di euro.


Avere tutte le scuole e magari le aule collegate veloce anche in wifi, produrre learningobject sia dal basso (gli insegnanti) sia dall’alto (case editrici) da rendere tutti disponibili su piattaforma nazionale per l’acquisto o la fruizione libera da parte delle scuole, puntare decisamente verso la comunicazione scuola-famiglia con la digitalizzazione di molti atti amministrativi e documentazione dell’allievo, creare una anagrafe nazionale per monitorare le politiche scolastiche, dotare gli studenti delle primarie di notebook personali, sponsorizzati da Intel, Telecom Italia e Microsoft.
Cose di cui si parla ormai da parecchi anni, e certamente sarebbe splendido accadessero (farei un paio di distinguo… gradirei più informazioni su filosofia dell’e-learning seguita, su risvolti commerciali della piattaforma, sugli sponsor commerciali), almeno per muovere un po’ le acque e aumentare lo stress di quei dirigenti scolastici e quegli insegnanti che non capiscono di cosa si stia parlando. In realtà, nel 2005 dicevamo sarebbero arrivate nel 2009, e invece l’italia è in ritardo. E le persone che devono agire questo cambiamento non lo comprendono: quelli bravi vedono il valore strumentale, solo qualcuno di essi magari riesce a riflettere sulle modificazioni stesse che stanno subendo gli ambienti di vita, e delle necessarie correlate innovazioni negli ambienti formativi, sia di tipo tecnologico sia metodologico. E la metodologia per essere insegnanti moderni, “registi” di situazioni di apprendimento attraversate da molti flussi informativi e conversazionali indifferentemente biodigitali, passa necessariamente attraverso una comprensione degli strumenti in quanto ambienti da abitare, foss’anche l’utilizzo di una mappa satellitare nella didattica.
Altrimenti le lavagne e i pc restano morti o mortificati, sappiamo come funziona.

Sarebbe di primaria importanza portare molte persone in Rete, a partecipare e a coinvolgersi nelle conversazioni, poi la serendipità fa il resto. Far nascere in loro, con la frequentazione, i valori di condivisione e apertura della Rete, di reputazione e civiltà dell’abitare anche digitale… poi nel pensare il sito web scolastico quella persona che magari fa di lavoro il dirigente scolastico riuscirebbe con maggior probabilità a comprendere i risvolti qualitativi della comunicazione pubblica dell’istituzione da lui diretta.
Essendo anche fruitore, saprebbe meglio giudicare e progettare la propria identità digitale come parlante istituzionale ratificato del territorio, gli spazi di conversazione.
Formare le persone, non gli insegnanti.
Ovvero fornire competenze digitali, piani di lettura della realtà moderna e luoghi di espressione di sé, che rendano le persone normali cittadini digitali.
Se ho un blog e frequento dei blog, so cosa fare di un blog scolastico.
Se mi vengono a insegnare come fare un blog e non so cosa sia, poi lo uso come bacheca e basta, ma mi sfugge il suo lato conversazionale.
Ma abitare non può essere insegnato, proprio perché è partecipazione e coinvolgimento relazionale. Soprattutto non può essere insegnato con addestramenti agli strumenti, formazione incapace di fornire orizzonti più ampi per inquadrare il cambiamento in atto, le modificazioni della quota di comunicazione che deve sostenere l’insegnante nel suo fare didattico e la scuola tutta nel suo essere soggetto attivo della comunità sociale.
Ruotare il proprio fare in direzione della pubblicazione e della conversazione imporrà grossi mutamenti alla struttura scuola. Una gestione seria anche solo della posta elettronica nelle PA, come descritta nel piano e-Gov quisopra, costringerà le vecchie procedure d’ufficio a torcersi fino a spezzarsi, a meno che qualcuno abbia il coraggio di riprendere in considerazione tutti i flussi documentali e ottimizzarli secondo nuove priorità, date dalla comprensione del nuovo habitat.
Siamo di nuovo lì: non posso spiegare l’abitare in Rete. Va vissuto, esperienzialmente. E al preside sessantenne che sproloquia di facebook senza esserci mai stato, o all’insegnante che non capisce wikipedia, servono dei “percorsi esperienziali” di cultura digitale, immersivi. Sarebbe assai utile per la civiltà dell’italia se tutti i dirigenti scolastici e gli insegnanti italiani passassero su web 15 ore alla settimana, toh, e lo facessero con passione nel seguir liberamente le loro passioni e interessi.
Altrimenti siamo sempre al dover dare la soluzione, della quale non so che farmene, se non ho la domanda.

“Vengo lì e ti formo”
“Uh. E perché?”
“Hai un problema”
“Non sapevo di avere un problema”
“QUESTO è il problema”

Non son cose che spieghi con un powerpoint, questo volevo dire.

Due schemi

Sostenuti da Cultura TecnoTerritoriale, comprendiamo il Territorio come intessuto di reti tecnologiche (i percorsi della materia, dell’energia e della informazione) dove tutto si tiene, e possiamo leggerlo come un ipertesto, esplorandone i collegamenti a partire dal singolo artefatto.

Immaginate di imbattervi in un contatore dell’elettricità, fuori da un capannone, lungo una statale. Lo guardate, lo esplorate (e qui c’è tutta la problematica del “saper osservare”, misurare modellizzare rappresentare simulare), lo scoprite come oggetto connesso, indagate i flussi in entrata e in uscita, arrivate da una parte fino al traliccio lungo la strada, dall’altra ad un tornio industriale dentro il capannone, sede di un’attività artigianale. Ora avete già una visione mentale sufficientemente ramificata per leggere il Tecnosistema formato da quell’insediamento produttivo, l’orizzonte può alzarsi a compredere i Luoghi, tutte le porzioni via via più ampie di territorio comunque legate da reti.

Se magari siete insegnanti e vorreste raccontare questo approccio culturale alle vostre classi, qui a seguire trovate uno schema di Paolo Gallici sulla esplorazione degli Artefatti, in grado di suscitare dei percorsi orientati o dei tecnoviaggi molto fruttosi.
Scegliete un artefatto nello schema polare, organizzato intorno al mondo del bambino e delle sue necessità: un oggetto tecnologico della casa, della scuola, un indumento, un alimento, spostatevi a sinistra, per indagare l’oggetto secondo le Azioni tecnologiche necessarie per produrlo. Poi potreste considerarne il “ciclo di vita” in relazione ai Luoghi, e procedere con eventuali esplorazioni del territorio fisico e/o digitale.

Chiamarsela

Leggo questa notizia del lancio del nuovo sito del Presidente della Regione Friuli Venezia Giulia, e già sorrido ascoltando le retoriche fanfare della propaganda governativa magnificare l’audace innovazione nei settori della comunicazione, il periglioso slancio di chi indica la strada del futuro.

Leggo il comunicato stampa, guardo il video su Youtube, perché era quello che ho trovato nell’aggregatore. Vi prego, guardatelo, il video. Quando mostrano la nuova Sala Giunta, notate vi prego i banconi dei governanti, una fessura si apre e escono elettricamente gli schermi piatti, che sembra di vedere una riunione della Spectra.

Allora vado sul sito, e l’indirizzo finisce con .asp. Qui le cose girano su server Microsoft, succedeva anche prima? Prelevo il feed della pagina, anch’esso termina in .asp, lo metto nell’aggregatore, non funziona. Per sicurezza provo su aggregatori pubblici tipo FeedHub, ma l’RSS della pagina non viene rilevato. Stessa cosa anche sul sito della Regione, e qui mi viene in mente che per avere un feed delle cose pubblicate mesi fa avevo proprio fatto ricorso a servizi web che offrono il feed anche di quei siti che non hanno l’RSS.
Il sito di per sé non è malissimo, quello del Presidente. Non è super-affollato in homepage, ha tutte le sue belle cosine, tralascio i giudizi sulla grafica e look&feel, schemi di interazione classici col fruitore, ha delle bacheche per rassegne stampa e una che riporta il feed Blogger del blog personale dell’attuale governatore Tondo, e si prova a spingere sulla multimedialità, con gallerie fotografiche e archivi video.
Allora vado a vedere i video, ma vengo bloccato. Qui sul sito si usa roba Windows, e io non ho MediaPlayer e non uso DirectShow. I video non li vedo, vediamo se manterranno il mirror su youtube della produzione audiovideo regionale.

Quindi: il sito istituzionale della mia Regione non ha gambe per camminare in giro, e si basa su scelte di software proprietario. Meraviglia. Nessuna meraviglia, degli accordi tra Friuli Microsoft e Brunetta ne parlai qui nel novembre scorso.

Quindi: l’attuale Presidente del FVG verrà ricordato come quello che ha promosso la comunicazione istituzionale su web (anche se Illy aveva già fatto molte cose, sito presidenziale e webtv compresa, ma i tempi erano precoci e il tutto si poteva far meglio) perché i tempi hanno reso plausibile che un politico si preoccupi di questo giocattolone per i ragazzi che è il web, e lo dica pure.
E già dicevo che forse l’understatement di Tondo, rilevato dal tono del suo blog personale, era la maniera corretta per dipingere il Governatore nell’immaginario collettivo anche un po’ come un evangelista dei nuovi modi di intendere la comunicazione pubblica e la partecipazione della collettività; il personaggio tranquillo e concreto rappresentato su quel blog trasmette una visione realista e conversazionale dell’abitare la Rete, senza fanfare. Per quanto riguarda invece i siti istituzionali regionali, si può fare di meglio. Prima di vantarsi in giro. Che uno schivo e taciturno furlano che si vanta di lavori fatti male non si è mai visto, a memoria di friulano.

[La foto in alto l’ho presa dal sito regionale, qui, l’autore è Foto ARC Montenero. Poi la foto l’ho modificata. Tutto questo dopo aver letto la notainformativa del sito, dove c’è scritto che il materiale è sotto copyright, e non può essere modificato e utilizzato per fini di lucro. Ma io qui non ho fini di lucro, su questo blog. Quindi la metto, citando fonte e autore. Poi se volete la tolgo, ma ditemi perché, così spiegherò con cognizione di causa il motivo della eventuale rimozione]

Appunti su mobizen

Abbiamo i citizen, che diventano netizen, e se mettiamo l’accento sul dispositivo che usiamo per essere always-on, ragioniamo sul telefonino mobail mobile.
Eran tutte notizie una dopo l’altra, lì sull’aggregatore, collegate tra loro sia per la contiguità del loro apparire nella mia vita sia per l’argomento comune trattato, e quindi mi son messo a seguire le briciole in giro.
Un oggetto tecnologico postindustriale può essere identificato anche grazie alla presenza di sensori e display, necessari per poter interfacciare il sistema nervoso umano con queste scintille di intelligenza sparse negli oggetti, nel dominio della teleoperatività e dell’immateriale.
Se pensate all’interfaccia di un’automobile, i pedali e il volante e il cambio non stanno per le funzioni che svolgono, sono essi stessi parti del meccanismo. Premere il pedale della frizione vuol dire azionare un sistema di leveraggio, ma siamo sempre fisicamente connessi con la frizione vera e propria. L’indicatore della benzina è fisicamente connesso al galleggiante nel serbatorio, e questo fa di lui un indice. Potrebbe non esserci nessun codice, in quanto segnale potrebbe semplicemente mostrare una correlazione tra la lancetta e uno stato del mondo (del serbatoio). Poi le macchine son diventate elettroniche, e tra i sensori e i display e la nostra interazioni si sono intromesse centraline e processori e codici, quindi oggi se guardo l’indicatore della benzina non vedo “direttamente” il comportamento il galleggiante, ma un sua rappresentazione, un segno.
Gli oggetti moderni hanno display e sensori, per maneggiare ciò che non posso né vedere né toccare.
Però ultimamente i telefonini hanno un bel display. Su cellulari di fascia media si possono vedere i film, almeno ragionando in maniera dignitosa di punti per pollice, e sempre più offrono schermi sensibili al tocco che porta la qualità dell’interazione su altre strade prima impensabili di user-experience. Migliorano le interfacce, migliora la connettività, i telefoni diventeranno una via règia per accedere ai sogni della Rete.
Ma guardiamola dal punto di vista della Nuvola, che si vede nutrita da milioni di point-of-presence, come tentacoli che brancolano nel buio, come i ragnetti che cercano TomCruise nascosto nella vasca da bagno con il ghiaccio, quegli stessi telefonetti che abbiamo in tasca, oggetti da visualizzare come sensori calati nella realtà fisica, porte di passaggio, da cui noi già comunichiamo molto, la nostra posizione in GPS o triangolata nelle celle, quindi i nostri movimenti come flusso sui territori, il nostro usare questi terminali per immettere informazioni come testo e foto, per comunicare.
E bello sarebbe se questi telefoni possedessero più sensori dell’ambiente: ad esempio potrebbero essere attrezzati per fare rilevazioni sull’inquinamento atmosferico, e potremmo avere delle mappe in tempo reale su un pagina web con tutti i dati ben visualizzati e geotaggati, e via a incrociare i dati.
I cellulari stanno agli umani come gli RFID (arfidi, o meglio àrfidi) stanno agli oggetti. Per descriverci, usano musica e fotografie e contatti relazionali, a cui oggi si aggiungono gli applicativi web installati, le reti sociali frequentate nel mondo digitale ovvero la nostra identità digitale. Sono sempre con noi, e danno informazioni su di noi (la cui portata dovremmo poter controllare) e ora diventano gli strumenti migliori per avere sensori del contesto.

In realtà, bisognerebbe che i telefonini parlassero molto, lasciassero tracce e informazioni su di sé, sul proprio uso, sul proprietario, senza rivelarne l’identità. Correlazioni statistiche a bizzeffe. Mappa dinamica dell’umore di una nazione, secondo certi aspetti e capacità.

Tutto ciò è partito da un articolo di PuttingPeopleFirst, poi ho visto Sterling che parla di telefonini qui, qui su mobileactive si studiano le “dynamics of the role of mobile phones in enhancing access to and creating information and citizen-produced media”, gli usi attuali e possibili per promuovere citizen media – c’è anche un simpatico pdf da scaricare A Mobile Voice: The Use of Mobile Phones in Citizen Media, per finire con Nokia che parla di sensori.

Scrivendo questo post, mi è venuto in mente che si potrebbe mettere su un sito una mappa mondiale capace di render conto delle suonerie che usiamo sui nostri cellulari. Ovviamente bisognerebbe che i nostri cellulari, in forma anonima, spedissero la suoneria che usiamo per le chiamate e per i messaggi ad un sito, e avremmo su uno schermo una rappresentazione del paesaggio sonoro, geotaggato. Monitorare i cambiamenti d’umore. Quanto variano nel corso dell’anno i ritmi che usiamo, che bpm abbiamo oggi di media a Udine, e quanto era lo scorso weekend conforntato con ferragosto? Qual è la colonna sonora di un centro commerciale o di una scuola?

Il futuro non è più quello di una volta

NuoviAbitanti è stata chiamata a partecipare al convegno “Il futuro non è più quello di una volta“, Milano 18 e 19 gennaio 2009 (qui il programma).
L’evento è aperto alla partecipazione di tutti, e probabilmente risulterà disponibile anche qui sul blog e su facebook, sotto forma di collegamento video in streaming. Ulteriori informazioni nei prossimi giorni.

I lavori preparatori del convegno si sono tenuti su diversi luoghi online, da cui trarre indicazioni per i contenuti da affrontare nel corso del convegno stesso: su Ibrid@menti nella rubrica Mettiamoci in rete dove si discute su quali sono le competenze richieste dalla learning society agli insegnanti per la costruzione di una consapevole, critica, creativa, collaborativa cittadinanza digitale; su cittadinanzadigitale , il wiki che si è sviluppato dopo l’incontro del luglio scorso a Dobbiaco, troverai le riflessioni di esperti, non esperti, webnauti, docenti sugli strumenti necessari per promuovere la cittadinanza digitale; su LaboratorioFormazione, organizzatore del convegno di Milano, per partecipare alla discussione intorno a: “Le competenze digitali sono ancora un bisogno formativo per gli insegnanti italiani?”.

Qui di seguito, il testo introduttivo di Mario Rotta, curatore del convegno.

Il 19 e il 20 gennaio 2009, a Milano, si parlerà del futuro, che soprattutto quando ci si riferisce alla relazione tra scuola, didattica e innovazione tecnologica, non è decisamente più quello di una volta. Ma cosa accadrà esattamente in quei giorni? Come si affronterà l’oggetto del seminario? Per una volta, vorremmo provare a evitare l’impostazione abituale di questo genere di eventi e immaginare un approccio più pragmatico e allo stesso tempo decisamente programmatico. Ci piacerebbe che tutti i presenti fossero partecipanti attivi, e soprattutto che al termine delle due giornate prendesse forma una “carta” su come rendere effettiva l’innovazione nella scuola.

Dopo l’appuntamento di Dobbiaco abbiamo cercato di lavorare in rete per capire a cosa potevamo ragionevolmente riferirci, oggi, alludendo ai nuovi scenari della cultura digitale, alla scuola del futuro e al futuro della scuola. Tra le tante istanze in gioco, hanno cominciato a delinearsi alcune “direzioni” più nitide (anche se ancora in parte da esplorare) verso cui potremmo orientarci: i social networks, la scrittura collaborativa, i blog in quanto narrazione distribuita, i mondi virtuali, gli aggregatori di informazioni e gli strumenti avanzati per la ricerca di risorse in rete, gli ambienti di apprendimento e la cultura “open”, gli ambienti di comunicazione per la partecipazione attiva e il dialogo con il territorio. Non stiamo sostenendo che questi sono gli unici scenari possibili o che questi strumenti o ambienti rappresentano di per sé fattori di innovazione per la scuola: ci sembra però che capire come utilizzare questi stessi strumenti e come collocarli in una visione della didattica rappresentino oggi un potenziale di innovazione da non trascurare, oltre che un elemento essenziale della cittadinanza digitale.

Quello che ci piacerebbe fare a Milano è lasciare che dei gruppi di insegnanti si “incamminino” in queste direzioni, con l’aiuto di un animatore, per definire una sorta di “agenda” su ciascuno degli ambiti che raccoglierà un certo numero di interessati: agenda intesa come linee guida essenziali, ad esempio le 10 cose da fare e da non fare per inserire questi strumenti o questi ambienti nella scuola in modo che rappresentino un reale fattore di innovazione. Senza dimenticare un invito a discutere sulle competenze necessarie per applicare le linee guida che a poco a poco prenderanno forma. L’obiettivo è pragmatico e programmatico: poter dire, al termine del seminario, che cosa dovremmo realmente fare per costruire insieme un nuovo paradigma educativo. Una sorta di manifesto per una riforma “attiva” della scuola, fondata non sulla ristrutturazione (eufemismo che significa tagli e riduzioni) ma sull’innovazione tecnologica in quanto veicolo di innovazione metodologica. Del resto l’idea di un manifesto per una scuola innovativa è nell’aria: l’appuntamento di Milano potrebbe quindi rientrare in questa “catena di eventi ininterrotti”, e auspicabilmente rappresentarne l’anello mancante.

Ma non basterà organizzare dei gruppi di lavoro (o meglio, dei focus) su ciascuna delle direzioni indicate, né animarli e moderarli. Sarebbe molto utile e importante che nei gruppi fossero presenti (materialmente o virtualmente) esperti e protagonisti di sperimentazioni, ricerche o applicazioni su quegli stessi ambiti. Non tanto, tuttavia, come portatori di risultati o testimonianze, quanto piuttosto, per una volta, come “ascoltatori” o “osservatori”: l’agenda a cui punteremo non sarà infatti soltanto un programma concreto di lavoro, ma anche un’opportunità per tutti gli stakeholders, un modo per capire verso cosa indirizzare studi, investimenti, azioni di sistema, riforme. Diamoci tutti appuntamento a Milano, quindi, anche informalmente o virtualmente, per capire su cosa si dovrà lavorare nei prossimi anni per immaginare una scuola che torni a essere innovativa, e per condividere una traccia per un futuro che non sia più quello di tutte le volte che abbiamo sentito parlare invano di tecnologie e didattica…

Dove si va?

FaceBook è pericoloso, perché al suo interno si fa tutto, ma poi lui non comunica con l’esterno ed è pur sempre cosa privata e commerciale. Lì dentro sì, le mie parole non mi appartengono più, un po’ perché il contesto in cui cadono le stravolge, un po’ perché non ne dispongo più, se vogliono me le portano via.
E la gente che dentro fb ci lavora, cioè lo usa come spazio professionale, di che tipo può essere? Potrebbe trattarsi di un vecchio internettaro che ha già i suoi canali professionali (lavora con GDocs, Ning, blog, lifestreamer, mailgruppi, pagine wiki proprie, ambienti Moodle, piattaforme video tipo Mogulus o UStream, ed è capace di radunare tutto il flusso in qualche luogo identitariamente connotato) il quale scopre che gli piace facebook e quindi decide di fare tutto là dentro, oppure non gli piace e quindi continua le sue attività fuori e usa la community incriminata solo come piazza di risonanza.
Se invece è uno appena arrivato in Rete, facile che trovi fb perfetto per fare tutto, così ogni cosa che deve pubblicare la pubblica là. Poi magara impara a usare meglio la Rete.

Se qualche collega decide di usare professionalmente faceBook, anche io mi trovo a frequentare maggiormente l’ambientino. E non so se vorrei.
Se voglio andare in biblioteca, mi scoccia l’atmosfera da bar. Né d’altronde mi piace andare in un bar a fare cose da biblioteca. Poi gli stessi che vedo al bar sono gli stessi della biblioteca, ma non parlo di lavoro al bar, né a riunione sono solito aprir parentesi sui film preferiti o la giusta procedura per un martini cocktail.

Posso capire che tutta questa complessità di web (e siamo agli inizi dell’Era Digitale, neh) crei confusione, e quindi molto meglio sarebbe fare tutto dentro lo stesso contenitore, ma dobbiamo per forza farlo su Facebook?
Credo che quello che le persone vogliono dire in piazza appartenga alla comunità. Quello che vogliamo mostrare, delle nostre identità digitali, deve appartenere a tutti, e da tutti essere riconosciuto nella sua origine. Devo poter esercitare controllo sui miei dati personali, devo poter controllare le mie affiliazioni o partecipazioni (quello che faccio, quelli che frequento mi connotano nella mia identità pubblica), devo poter stabilire in che modo vanno propagate informazioni su di me e sulle mie pubblicazioni professionali o ludiche. Ma appartengono a tutti, è il dono che faccio alla mia collettività di appartenenza o ai miei gruppi di frequentazione, con la partecipazione attiva; non possono appartenere a qualcuno soltanto, nessuno può essere padrone delle nostre conversazioni, della nostra socialità. Qui nascono le idee e le opinioni e le relazioni, qui si costruisce il domani.

Se verrà confermata questa spinta alla socialità, alla convivialità che questi Luoghi web fanno emergere a quanto pare come caratteristica umana (che ci sia sotto più un problema di riconoscimento sociale e quindi autostima, oppure la vedete come mossa difensiva ad una profonda angoscia di separazione? esseri umani, animali sociali), nel futuro siamo destinati ad abitare via via i prossimi social network che verranno inventati, ciascuno di essi con qualche nuova idea socialutility capace di renderlo accattivante e magari leader del settore, e ci comporteremo come nomadi che a milioni si spostano da un ambiente all’altro, magari perdendo tutto quello che lasciamo indietro sulla vecchia comunità digitale, milioni di foto e video e parole originali? Assurdo.

Certo, bisognerebbe che qualche commissione europea dicesse: “Ecco qui un people aggregator, un software opensource per fare socialweb con tutte le funzioni di fb e tutto: ciascuno Stato provveda per legge a installarlo e mantenerlo, e tutti i cittadini usino questi Luoghi pubblici per fare socialità esattamente come fanno in facebook”. Poi tutti gli opensocial su scala comprensoriale, regionale, nazionale, continentale sarebbero trasparenti gli uni agli altri, e la mia identità digitale sarebbe identica su ogni gradino della scala. Complicatuccio.
Più semplice sarebbe obbligare tutte le piattaforme social (avverranno fenomeni di ri-stratificazione, dopo lifestreamer e communityglobali: dopo questo rimescolamento-adeguamento alle nuove abitudini osserveremo un riadagiarsi delle nicchie di frequentazione nelle reti di interesse personale) a rendere esportabili i dati, tutti, che immettiamo. Sarebbe quindi da rendere tutto il web trasparente, ma questa cosa neppure mi piace. A me però interessa che siano pubbliche le piazze, e libero ciò che in esse viene detto. Perché se vado in piazza, SO che sto andando in piazza. Se mi trovo in salotto piuttosto che in piazza, sono diversamente attento alle mie parole. Per dire, la legge distinguerebbe tra frasi ingiuriose pronunciate in pubblico o in privato, perché presuppone che il parlante sia in grado di rendersi conto della differenza. Molti per esempio non si rendono conto di star parlando in pubblico, sui network. Ma stiamo parlando sempre di pubblico e privato, di come le TIC modifichino la soglia, tra uno che parla al telefonino in mezzo al bar e l’altro che pubblica foto compromettenti di sé online. L’importante sarebbe come al solito provvedere educazione sufficiente a far sì che le persone siano consapevoli del destino delle loro parole, se pronunciate in piazza oppure nel salotto di qualcuno: nel primo caso dovrei poter contare su autenticità e referenzialità della fonte (so chi ha detto cosa e quando), sul controllo intersoggettivo, su tracciabilità del flusso, su identità digitali stabili di legittimi cittadini, nel secondo caso devo essere consapevole che della mia identità e delle mie parole il padrone del salotto con la festicciola può fare ciò che vuole (e allora forse sarebbe giusto negargli la presa certa sulla mia identità, e permettere nomi fantasia o anonimato).

Perché il fatto che discussioni importanti, affermazioni etiche di sé o ping-pong intellettuale con gli altri non siano rintracciabili dai motori di ricerca e possano essere cancellate, non è tollerabile. E’ stupido, se visto nella prospettiva di una specie in evoluzione, inventare finalmente un supporto dello scibile capace di diventare memoria dell’Umanità (in modo migliore che le mnemotecniche o la carta) su scala planetaria, capace di permettere la partecipazione di tutti in Luoghi antropici relazionali, per poi chiudere la socialità in un unico luogo senza finestre, con padroni di casa di pessima reputazione.

Bene. Non immetterò contenuto originale in FaceBook, fino a quando non sarà possibile esportare tutto e mantenere il controllo sul proprio essere e sul proprio dire.

Dell’apparire

In Friuli la Questura ha proibito il gioco Texas Hold’em, il poker sportivo, che poi col poker classico c’entra ben poco. Non sono un giocatore, ho provato a capire qualcosa a casa di amici, è pure divertente. Per dire, avete visto gli spot in tv, no? Giocare online è legale, in giro lo vediamo nei circoli e nelle ludoteche, ma in Friuli no, vorrete mica che i friulani si divertano? I friulani devono lavorare, poffarbacco. Poi bevono prima di cena quei sei tagli di rosso o quella riga di americani di fuoco che in un friulano provocano al massimo uno 0,00002 di risultato al palloncino, vanno a casa e dormono. Tanto, i locali in centro li stanno chiudendo, la vita culturale gigioneggia, ci son ragazzi che inventano belle cose musicali o visual e nessuno se li fila, se proprio vuoi ti vesti bene e vai nei locali quelli fatti dentro i capannoni delle statali, col prosecco e la coca e le troie, come dappertutto. Ma che dico: prendi la macchina, fai 35km e vai in Slovenia, e allora gioco d’azzardo e troie le trovi sull’elenco telefonico, per le paste e la coca chiedere di Gianfranco, come dappertutto.
Dura la vita per un barista creativo, qui. Se vuoi fare un ambiente lapdance, ti lasciano aprire solo vicino le fabbriche di sedie, a Manzano (poi ultimamente gli operai sono musulmani, guarda un po’, e i posti falliscono perché questa è gente seria che va a casa di sera). Nightclub rarissimi. Per tutti gli anni Ottanta e Novanta nella bassafriulana, diciamo un rettangolo di 50km per 30, non c’è stato un solo cinema porno o sexy shop o locale trasgressivo, la qual cosa ha fatto sì che per decenni il nome del paese veneto di Lugugnana, millecinquecento anime appena al di là del Tagliamento, fosse pronunciato con circospezione e senso del peccato (sì, la DC controllava tutto) da almeno due generazioni di giovinastri che colà si recavano per trovare contemporaneamente sesso e rock’n’roll, perché là si potevano trovare in mezzo ai campi sia il sexyshop sia il cinema porno sia la discoteca trasgressiva. A Udine non c’è un posto serio per far suonare gente su un palco, con cinquanta persone di pubblico. Quando si trova il posto giusto, licenze e balzelli e vicinato fa chiudere tutto in poco tempo.
Che poi a Udine siamo un popolo della notte composto da poche centinaia di persone, se c’è un solo locale è chiaro che si va tutti lì e poi c’è casino. Se ce ne fossero di più, la gente sarebbe più sparsa, e quindi meno casino. La gente deve star tranquilla, suvvia. E se venite a Udine e vedete decine di ragazzi che bevono all’aperto di notte fuori dai bar con -3°, sappiate che quello non è un segno della amena vita cittadina, quella è TUTTA la vita cittadina.

Per il resto tuttapposhto, evviva il 2009.
Verso Natale Antonio Sofi mi ha intervistato via skype per Quinta di Copertina su Apogeonline, mi ascoltate di là mentre parliamo liberamente di dinamiche sociali dentro i social network, tecnologie traccianti e facebook.

Il 18 gennaio sarò a un convegno a Milano, Il futuro non è più quello di una volta. Ma ne parlo meglio nei prossimi giorni.


Qui sopra, la piana di Luni, guardando verso nord-ovest. Dietro la montagna c’è Portovenere, a destra Sarzana.

Ripeto: tecnologia tracciante

Già qui parlavo di tecnologia tracciante, perché sta diventando un problema impellente.
Anni fa seguire i blog e gli altri luoghi personali di espressione era piuttosto semplice, si partiva dai segnalibri sul browser, si leggevano i post dei propri autori preferiti, poi magari dai commenti o dal blogroll si passava ai blog che in qualche modo riprendevano la conversazione interessante, e si riusciva ad avere in questo modo una visione complessiva della tematica trattata e di tutte le risposte e le suggestioni da quest’ultima innescate. Pareva perfin di vedere il “farsi” dell’opinione pubblica, sotto i nostri occhi, nella negoziazione interpersonale dei punti di vista, nel dialogo litigate e amori compresi, nell’emergere di posizioni etiche e successivi aggiustamenti.
Sappiamo che feed e aggregatori hanno moltiplicato il flusso, hanno reso più facile seguire i blog, ma a loro modo, pur essendo solo una tecnologia aggregante, già lasciano spazio a una piccola deriva dell’interpretazione, perché sottraggono informazioni di contesto al messaggio che ci arriva, quelle grafiche e stilistiche che circondano il post (il cotesto) sul blog originale.
Già ci furono discussioni in Rete su questo leggere fuori contesto, ad esempio per il fatto che i contatori visite non potevano più segnare tutte le letture del blog, visto che molti i messaggi di quel blog li leggevano sull’aggregatore. Infatti ora teniamo in considerazione i sottoscrittori dei feed, per ragionar sul numero di lettori complessivo di un blog.

Ma il vero problema sono i commenti.
Perché oggi i commenti ad un post non sono costretti a vivere sull’indirizzo web che ospita quel blog, ma possono vedere la luce in molti diversi ambienti digitali, ad esempio sulle community o sui flussi di lifestreaming, perché tutti quelli cha hanno un blog riportano il proprio feed anche dentro questi ambienti, ed è qui che mi imbatto nei loro post, è qui che commento, non sul blog originale.
Oddio, una certa dimestichezza nelle dinamiche comunicative online ci guida, consapevolmente o meno, a scegliere dove rispondere, a seconda ad esempio della mole di contenuto che devo esprimere nel mio commento oppure per il tono che intendo utilizzare: fa parte delle grammatiche relazionali in Rete avere una certa competenza digitale, la quale via via ci suggerisce se articolare la nostra risposta come battuta di una riga, come mail privata al bloggante, come commento sul blog, come intervento sul gruppo in una community.

In un ecosistema della conoscenza, il valore di un blog è dato dalle discussioni che riusciva a far emergere nei commenti, e dai link con cui magari il post specifico veniva segnalato in Rete, su altri blog. Mille discussioni nascevano e magari camminavano altrove con le loro gambe, ma i commenti rimanevano lì sull’origine, sedimentazioni di significati e punti di vista contestualmente disponibili.

La questione si può ancora complicare, come si vede da questa discussione su FriendFeed di PseudoTecnico, perché ci si può legittimamente interrogare sul significato che possiedono i commenti effettuati “fuoriblog” ad esempio su FF stesso, ed è perfino possibile chiedersi qualcosa sulla libertà che ci si può prendere di riportare altrove dei commenti ad un articolo su un blog, e
continuare discussioni che da quel punto lì vivono in maniera relativamente autonoma dall’argomento del blog originale.
Se leggete la discussione su FF, vedrete che si giunge anche a parlare di pubblico&privato, di liceità, di confusione.

Non è argomento banale, con questa esplosione di Luoghi ne va un po’ di mezzo la possibilità di “tirare le fila del discorso”, di dare visibilità stabile ad un nodo della discussione collettiva, a meno che in maniera simile a quello che è successo con gli aggregatori non sia possibile disporre di una tecnologia in grado di tracciare tutte le risposte e tutti i commenti e tutte le segnalazioni e tutto quello che in qualche modo nel futuro sarà connesso con il post che sto scrivendo, tipo questo.

Quindi, qui sotto questa riga io dovrei ora attaccare un widget, un pezzo di codice supertrackback capace di mostrare in modo dinamico (autoaggiornandosi) tutti i riferimenti a questo post sparsi in giro nel Web, così la gente clicca e rimane sintonizzata e partecipa ovunque.