Archivi autore: Giorgio Jannis

Carlucci, Damele, Davide

Ma guardate questo articolo del Messaggero Veneto: cos’è, pensiero magico? Un esempio di post hoc ergo propter hoc? Siccome l’autista si è insospettito che il tipo non volesse scendere dall’autobus, allora gli agenti hanno accertato che era da rimpatriare?
Quale profonda visione metaforica della leggibilità del mondo può portare a raccontare così questo evento di cronaca, dove l’autobus corrisponde all’italia e il non-voler-scendere corrisponde al non-voler-essere-rimpatriati?
Ah, quando la grammatica sfugge e le parole parlano da sole – a parte il giornalista arruffone in buona o cattiva fede, intendo, che ci regala fughe interpretative decisamente poetiche.
Nel frattempo, Bora.la ha pubblicato una mia riflessione sulle famigerate “leggi di internet”, su Daniele Damele che fa copiaincolla e sull’utilizzo di inutili e anzi controproducenti filtri alla navigazione per la tutela dei minori.

Se volete, andate a leggere (e commentare) di là, l’articolo lo incollo qui tra qualche giorno.

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Daniele Damele ha il pallino del filtro

Appena la risacca delle news giornalistiche riporta ciclicamente verso riva qualche episodio recente sui rischi di internet, ecco che prontamente Daniele Damele erompe in sentitissime lamentazioni sul degrado morale e sociale del giorno d’oggi, e quale soluzione taumaturgica propone sempre quest’accrocchio tecnico del filtro a monte che protegge i minori durante la navigazione su web.

Un normalissimo filtro basato su blacklist, peraltro, dove un software confronta gli indirizzi di destinazione delle nostre ricerche su web con un elenco di siti segnalati come non appropriati ai minori, e nel caso inibisce la navigazione.

Quelli tra voi più addentro alle cose tecniche, staranno sorridendo, lo so.

Perché l’efficacia di un filtro basato su blacklist dipende appunto dalla completezza degli elenchi di confronto, i quali vengono a quanto pare aggiornati da centinaia di collaboratori volontari o dagli stessi genitori (gente che passa le giornate a guardare apposta siti pedopornografici e invocazioni al satanismo, immagino… qualcuno deve pur fare il lavoro sporco), ma di certo non può offrire nessuna fondata garanzia riguardo al fatto che sul vostro schermo non possa comparire qualche immagine sconveniente, al contrario di quanto millantato da Damele sul suo blog.

In queste settimane poi quelli della parte politica di Damele, a Roma e purtroppo al governo, stanno promuovendo squinternate proposte e disegni di legge (D’Alia, Carlucci, Barbareschi) da cui appunto si ricava come queste persone non conoscano né il funzionamento tecnico della Rete né abbiano chiarezza sulla portata dei propri effettivi poteri legislativi, ed è francamente spassoso (tristissimo, in realtà) vedere come vengano pubblicamente sbugiardati e ridicolizzati per la propria ignoranza e faciloneria anche dalla stampa internazionale e talvolta dagli stessi colleghi di corrente politica; vi rimando a Gilioli su L’Espresso per apprezzare l’ultimissima vis comica di Gabry Carlucci, mentre questo è il link dell’osservatorio giornalistico promosso da Apogeonline per tenere d’occhio gli sviluppi legislativi di queste cosiddette “leggi di internet”.

Da parte mia, sottoscrivo quanto scritto da Sergio Maistrello da Pordenone, sempre su Apogeonline: a parte l’insopportabile situazione di veder legiferare persone che non comprendono quello di cui stanno parlando né riescono a concepire le conseguenze deleterie di simili decisioni per lo sviluppo socioeconomico e culturale del Paese, la promulgazione di nuove leggi laddove sarebbero sufficienti quelle esistenti per perseguire penalmente qualsiasi tipo di reato venga compiuto a mezzo internet sembra proprio adombrare una volontà politica decisa a limitare pesantemente le nostre libertà individuali di accesso all’informazione e di libera espressione.

Ma torniamo agli accadimenti locali.

Prendendo la palla al balzo, Damele sul suo blog commenta la notizia del ddl Carlucci, dedicato peraltro all’anonimato e alla diffamazione in rete, e la utilizza come spunto narrativo per le sue personali perorazioni: innanzitutto, paladino della libertà, Damele sottolinea magnanimamente l’importanza di garantire l’accesso alla rete a tutti, poi con partecipazione tutta umana giunge al suo cavallo di battaglia, appunto il filtro alla navigazione per la tutela dei minori, da adottare da parte di famiglie e scuole.

Sulla tematica del filtro alla navigazione, non intendo dilungarmi: dal punto di vista tecnico come dicevo non offre nessuna garanzia di blocco di contenuti riprovevoli, ma soprattutto innesca alcuni comportamenti decisamente controproducenti; ad esempio, per i quindicenni aggirare le imposizioni genitoriali è uno scopo di vita, e saltare i proxy e disabilitare filtri è esattamente quello che già fanno quando devono usare i loro programmi peer-to-peer. Se imposti una battaglia con gli adolescenti a base di divieti e proibizioni, innanzitutto perdi gli scontri regolarmente, e inoltre contribuisci alla formazione di una mentalità nel minore decisamente orientata al “vaffa” e al cercare di fregare gli adulti, al segreto e alla menzogna (e han ragione i giovanissimi, sia chiaro: questione di sopravvivenza).

Per un genitore, sentirsi con la coscienza a posto perché “tanto ho installato un filtro sul pc di casa” potrebbe portare a evitare di controllare fattivamente cosa fa il figlio quando naviga, delegando a un dispositivo tecnologico alcune importanti funzioni genitoriali.

Un dirigente scolastico poi che utilizza dei denari pubblici per acquistare delle soluzioni informatiche che limitano la libertà di navigazione senza offrire alcuna sicurezza informatica come contropartita, magari facendo tutto di testa sua senza informarne il Consiglio d’Istituto, compie un atto sbagliato, in relazione al messaggio pedagogico di una scuola laica. Il singolo genitore può legittimamente dar fiducia al filtro Davide e acquistarlo, ma nel caso di istituzioni pubbliche il discorso cambia. E’ come se gli acquisti dei libri per la biblioteca di un Istituto scolastico statale avvenissero solamente da cataloghi o in negozi approvati dalla chiesa cattolica, e non è un esempio a caso.

Perché il filtro proposto da Damele, molte volte da quest’ultimo reclamizzato nel corso degli anni, è prodotto e promosso da un prete torinese che molti anni fa ha dato vita a una società commerciale di servizi internet, ovvero il provider di connettività Cometa Comunicazioni, la quale appunto vende il filtro Davide sostenendo al contempo l’eticità delle proprie iniziative tramite il sito dell’associazione onlus Davide.it, sempre presieduta dallo stesso prete. Qui trovate alcune informazioni aggiuntive, anche se non è ben chiaro se sia il provider Cometa o la onlus Davide a incassare i non pochi soldi che privati aziende scuole associazioni e biblioteche spendono per acquistare il filtro.

Il sito Davide inoltre comunica in modo piuttosto fumoso, soffermandosi parecchio su discorsoni di banale senso comune, ma senza portare delle prove concrete sull’efficacia delle proprie offerte informatiche: secondo voi la frase “la maggior parte dei filtri blocca al massimo il 65% dei siti non adatti ai minori. Davide.it ha un’efficacia fino al 95% con il più basso numero di errori” dice qualcosa di verificabile? Il 95% di cosa, di grazia?

Vi è poi un altro aspetto interessante: Damele si deve essere scocciato di ripetere sempre le stesse cose nel corso degli anni, quindi nel post in questione ritiene ormai superfluo citare la fonte delle sue affermazioni. Ma internet è simpatica, per queste cose. Così scopro che molte frasi del suo articolo sono letteralmente copiaincollate da Davide.it, ma nascondendo il furtarello. Giocate anche voi a smascherare l’inghippo, confrontando quanto espresso qui con quanto da Damele asserito sul suo blog (nel caso qualcosa cambiasse, ho gli screenshot delle pagine web in questione).

Nel caso concreto, mettiamo il caso che il figlio di Damele minorenne al parco pubblico scopra nell’erba una rivista pornografica oppure venga avvicinato da qualcuno con intenzioni losche: probabilmente avvertirà il genitore, il quale chiamerà giustamente la polizia, la quale a sua volta intraprenderà delle indagini su ordine di un magistrato e magari terrà sotto sorveglianza gli afflussi di persone, ma di certo non chiuderà l’intero parco alla cittadinanza, come si vorrebbe ora fare con le “leggi di internet” se qualcosa di simile capitasse nei territori digitali dove oggi noi abitiamo con dignità di cittadini. Tutti noterebbero l’incongruenza e lo sproposito della reazione, nel ledere il mio diritto di cittadino di usufruire del parco pubblico rispetto al perseguire penalmente chi si è macchiato di un singolo reato, che rimane grave ovunque venga commesso.

Nell’intervento sul suo blog dal titolo Ecco cosa bisogna bloccare, ma dove ohibò la censura non c’entra per niente, Damele enumera i contenuti da filtrare a monte: si tratta di “documenti appartenenti alle seguenti categorie: pedofilia e pornografia con partecipazione di minorenni, suggerimenti e inviti al suicidio, istigazione all’uso di stupefacenti, gioco d’azzardo, satanismo con sacrifici cruenti di animali o persone, materiale nocivo ai minorenni, pornografia esplicita, satanismo, violenza, istigazione all’odio e/o ad atti violenti, razzismo, turpiloquio”… tutte cose che esistono da ben prima di Internet, e per le quali esistono già precise indicazioni legislative per la loro repressione per via giudiziaria, senza alcun bisogno di nuove leggi specifiche.

Teniamo presente che Daniele Damele è giornalista, ed è perfettamente libero di credere e di promuovere quello in cui crede, foss’anche riducendo la sua professione a quella di tragicomico acritico tamburino locale delle scelte politiche targate PdL, nel momento stesso in cui vengono promulgate qui in Italia leggi liberticide promosse da personaggi di nessuna credibilità e di nessun competenza.

Però Damele è stato anche presidente del Comitato Regionale per le Comunicazioni CoReCom, sugli stessi argomenti ha collaborato a Roma con commissioni interministeriali e dentro comitati di garanzia Internet&Minori, ha ricoperto o ricopre incarichi ufficiali da dirigente presso la Provincia di Udine, è docente universitario di “Etica e comunicazione” a Udine, e spero citi le fonti bibliografiche nelle sue dispense d’aula.

Capite quindi come quella di Damele sia una voce autorevole in virtù delle cariche pubbliche da lui ricoperte, ovvero in grado di orientare le coscienze di molte persone nella considerazione di queste tematiche etiche legate alle libertà individuali di opinione e di pubblicazione, indici sicuri del livello di civiltà raggiunto da una data collettività; a maggior ragione potrete comprendere come sia molto grave, per questi stessi motivi, che dal suo alto pulpito Damele continui da anni a reclamizzare (spero per lui in modo dichiaratamente remunerato, almeno) una determinata soluzione tecnica, di per sé palliativa e censoria quindi non educativa, quale risposta adeguata alla pericolosità dell’ambiente Internet per le giovani generazioni.

Articolando

Quindi, buttiamo tutto sulla matrice, e vediamo che possono esserci abitanti stanziali connessi e non connessi, oppure abitanti nomadi, a loro volta connessi o meno.

Tenete sempre presente che parliamo di abitare Luoghi indifferentemente dentro o fuori il web, digitali o fisici. E anche su web è possibile ravvisare comportamenti stanziali o nomadi, da parte di singoli, gruppi e collettività più ampie. Ti piace cliccare sui blogroll altrui, verso l’Ignoto? O sui followers di Tizio? Nomadizzi, t’incuriosisci per un nick e segui briciole di pane o suggestive scie di profumo per mezza Internet, ti impelaghi. Perché ricordate, il web era un mare da navigare e surfare, e di qua e di là qualche isoletta offriva approdo.
Il web non è più un posto per scorrerie, qui noi oggi abitiamo. Abbiamo fatto terra-forming per dieci anni, adesso mettiamo i piedi su cose solide e di noi stabilmente identitariamente connotate, come il nostro blog che ci guarda da qualche anno o il forum che frequento da quando cercavo gli aggiornamenti per windows98 o le reti dei messenger.

Qui ora vado in direzione degli eventi che con maggiore probabilità possono innescare cambiamenti sociali: ad esempio, in collettività umane attraversate dal flusso nomadico degli zingari credo si formino credenze riguardo alla relazione con l’Altro diverse rispetto a raggruppamenti sociali stabili che conoscono pochi contatti con lo Straniero.

Quindi il tutto si riverbera nel web, dove molti di noi stanziali connessi adottiamo comportamenti che talvolta rafforzano la relazione dentro le reti conosciute, dentro l’insieme olistico dei Luoghi che frequento e quelli fino dove giungono le mie tracce di presenza, e talvolta, restando stanziali, diventiamo veri nomadi, nel muoverci su territori digitali sconosciuti.

Nel corso del tempo è cambiato il nostro propendere per “rafforzamento rete sociale conosciuta” rispetto a “esplorazione reti sconosciute”? Reti di persone, di socialità. Una volta si aggregavano di più le cose, oggi si aggregano le persone? Tutti i socialweb che articolano il concetto di follower, che lo visualizzano, che mettono in scena le reti contribuiscono a “stringere” le reti? E quanto incoraggiano il nomadismo, come apertura allo stupore dell’epifania numinosa quanto inattesa dell’Altro da me, eh?, nei percorsi serendipici?
Conservatori o progressisti? No, prima ancora. Disposti a porgere l’orecchio e l’occhio e la freccina del mouse a un link ipertestuale che vi porterà chissà dove, a leggere di argomenti o vedere foto di cose prima mai pensate, oppure a lasciar entrare nel vostro aggregatore e nella vostra coscienza flussi di alterità, questo scegliamo per noi stessi, così impostiamo i filtri del lifestreaming da e verso di noi, così costruiamo e usiamo le porte e i segni.
Cosa cerco dalla conoscenza? Conferme o sgambetti?
Nel MedioEvo, la comunicazione pubblica delle PA (i feudatari) era zero, a parte le grida in pubblica piazza e quell’albo pretorio che ha millenni di storia. Conservare il potere (basato sulle informazioni, poi) era ed è non comunicare. E’ chiaro che esporsi alla comunicazione è esporsi al cambiamento, e qualcuno giunge ad affermare che negarsi alla comunicazione è negare il cambiamento, ovvero il volersi mantenere uguali, conservare l’attuale.
Anche se vedo contradittoria una società che si vuole progressista che sbarra le porte (la Cina?).

Qui c’è Massimo Moruzzi su Dotcoma che vede bene lo stesso problema, riferendosi a come i contenitori sociali su web e i loro meccanismi pre-orientino la relazione e in-formino il nostro abitare nelle reti.

Facebook, vale la pena a questo punto sottolineare, non è più un sistema chiuso su sé stesso – o non più di quanto non lo siano il tuo feedreader o la tua webmail, perchè vi puoi importare praticamente di tutto, come e più che su un feedreader, o ricevere di tutto, come con la tua email.

Facebook ha vinto, ma senza risolvere nulla. Su Facebook, vedo foto, link, video e musica dei miei amici – ma non sarebbe molto più interessante vedere cosa apprezza chi ha gusti simili ai miei? Facebook è un passo indietro da un web di interessi condivisi a un web di amici che già conosci.

Questo accade perché proprio questa è la peculiarità del social web, lo dice la parola stessa. Permettendo l’emergere e quindi la visibilità delle reti relazionali, ha posto l’attenzione sulle persone. L’altro ieri andavo su web per cercare un documento o una risorsa, ieri per cercare delle persone, oggi cerco cosa dicono le persone che stimo e/o conosco sulle risorse e sulle novità, domani saremo tutti presi in un vortice vorticoso di cose e oggetti geotaggati e news e commenti e lifestreaming.
Il “web degli amici che già conosci” è una fase necessaria di ristrutturazione dell’economia della rete, perché permette di organizzare meglio i filtri e le reti dei flussi di informazioni e opinioni sulle informazioni, in direzione di una maggior efficacia nella propagazione delle idee, nel web degli interessi condivisi.
Si guardavano gli oggetti culturali, ora si guardano le persone, ma si tornerà a guardare gli oggetti, però incomparabilmente arricchiti dalle riflessioni di molti su di essi, da prezioso contesto, da vissuto personale.

Dopo questa costrizione che il socialweb ha imposto al nostro fare negli ultimi anni, nel farci concentrare sulla edificazione dei Luoghi sociali del nostro abitare, sull’allestimento di una identità adeguata ai nuovi ambienti che frequento, sulla definizione di una rete amicale e professionale, possiamo tornare a estrovertirci, verso cose che non conosco.

Un altro esempio: la funzione dei commenti dentro Google Reader. C’è questa funzione nuova per commentare ed inoltrare ad altri quello che ci arriva dentro l’aggregatore e reputiamo meritevole di.

C’è la condivisione “Share with note”, che rimanda la notizia ai vostri amici (chi già riceve ciò che segnalate), e il commento e la notizia possono anche essere pubblicati sulla pagina pubblica del mio aggregatore.
Ma da poco tempo anche dentro il bottone “Share”, quello per la semplice condivisione con un click, troviamo una ulteriore funzione di commento, dove però la visibilità dello stesso è rivolta “a tutti quelli che possono vedere la notizia originale condivisa”.
Che quindi potrebbero essere anche persone che non sono vostre amiche (ovvero nel vostro elenco di persone con cui condividete permanentemente il flusso di pubblicazione), ma in qualche modo la stessa notizia è presente anche nel loro aggregatore e se leggeranno la notizia dopo di voi vedranno anche il vostro eventuale commento. Immagino.

Quindi, nel primo caso ho condivisione e aumento informativo (il mio commento) verso reti conosciute, nel secondo caso compio un movimento molto più “alla cieca”, senza finalità immediate, ma potenzialmente foriero di inaspettato, cose o persone si tratti.

Dove decido di interfacciarmi? Nello scegliere attimo per attimo come utilizzare e come reinoltrare risorse, persone, memi, nel mio essere router di socialità, mi rivolgo a reti conosciute o sconosciute? Nel pensare il destino del mio dire e del mio fare in rete, mi viene più facile immaginare uno sconosciuto o un amico, nell’attimo di leggere l’ultimo post del mio blog sul suo aggregatore? E quanta fiducia ci metto, nell’inoltrare (e questo torna ad assomigliare a un messaggio nella bottiglia in un web che torna ad essere un po’ mare) e nell’ascoltare?

ps. dopo geni e memi, ci servirebbe una unità di significato delle reti sociali, dei cluster relazionali, dove il contenuto è dato dalla forma peculiare che ciascun sistema adotta.

Hai prestato attenzione?

Da Spicchidilimone, via Laura Pozzar, trovo un video che si rivolge agli insegnanti, e lo fa in modo provocatorio.
Forse la fiducia che vien posta nelle tecnologie più o meno didattiche è eccessiva; o forse tale interpretazione dell’eccessivo entusiasmo ci arriva dal fatto che abbiano scelto un montaggio piuttosto veloce, dove le argomentazioni tendono a diventare slogan.

Però molti/e insegnanti faranno un salto sulla sedia, e inorridiranno sull’onda di qualche “mala tempora currunt” e diventeranno dei laudatori delle cose com’erano un tempo, e troveranno facili argomenti per ridicolizzare il filmato e le domande che pone, riguardo la stessa capacità della classe docente attuale di rendersi culturalmente conto delle modificazioni tecnosociali in atto, e del necessario nuovo ruolo della Scuola rispetto all’educazione dei giovanissimi.
E molto di quello che si dice nel video è realtà quotidiana.

Video introduttivo, a cura Associazione Docenti Italiani, dei lavori del seminario internazionale ADi 2009 che si è svolto a Bologna il 27 e 28 Febbraio 2009 dal titolo: DA SOCRATE A GOOGLE: Come si apprende nel nuovo millennio.

Se vedi la crisi, stai già meglio

Partendo dagli interessanti commenti di Alberto Cottica, risalgo fino a First Draft inseguendo Enzo Rullani e la sua visione sull’attuale crisi economica.

Liberismo o statalismo sono vecchie ricette per pensare il problema e cercare soluzioni, dice Rullani. Anzi, questi stessi concetti come le parole che li esprimono recano con sé una visione novecentesca, ancora lineare e industriale, poco adatta a società postindustriali: si tratta di letture ed interpretazioni della realtà poco sistemiche, non in grado di cogliere in modo più ampio l’intero orizzonte del cambiamento socioeconomico attuale, incapaci di prendere appieno in considerazione le conseguenze della globalizzazione e l’attenzione per i beni comuni.

Come superare la crisi economica

Vi proponiamo di seguito un estratto dell’articolo di Enzo Rullani sulla crisi economica.

C’è in giro una vulgata della crisi che la considera quasi una disgrazia venuta dal cielo, o il frutto di una serie di esagerazioni, imbrogli ed errori, a cui, oggi, occorre rimediare.[…] Di qui la domanda ricorrente: chi è la colpa di tutto questo? E la risposta, sbagliata ma non per questo meno convinta: degli altri, naturalmente. […] La verità è che la crisi non è dovuta ad errori fatti da liberisti o statalisti in buona fede, né da sabotatori dei due modelli infiltrati nel meccanismo. Ossia ad eventi che possono essere “curati” espellendo guasti e guastatori dalla fisiologia dei due modelli ideali che ancora una volta si contendono il campo. […]
Le cause vere sono altre. Possiamo dire che oggi la situazione è particolarmente “dura” perché mette insieme, in realtà, tre crisi in una:

  • una crisi di domanda da interdipendenza non governata, che ha sfasciato i rapporti tra domanda e offerta, portando a picco i valori attribuiti dai mercati agli assets materiali e immateriali di cui disponiamo (e che non sono spariti, anche se nessuno li vuole comprare, trascinando i prezzi verso lo zero);
  • una crisi da squilibri competitivi non facilmente aggiustabili, dovuta alla perdita della distanza che isolava in precedenza paesi dotati di costi del lavoro assolutamente inconfrontabili e che oggi invece fanno parte dello stesso villaggio globale. Mettendo in moto dinamiche competitive di grande portata, tali da portare stabilmente fuori equilibrio molti capitalismi nazionali (tra cui il nostro), bisognosi di un drammatico riposizionamento;
  • una crisi da insostenibilità, in tutti quei campi – e sono molti: ambiente energia, cibo, cultura, conoscenza sociale – in cui la crescita è andata avanti dritta per la sua strada, senza curarsi di rigenerare le sue premesse.

Come uscirne?
Bisogna da questo punto di vista far leva non su inesistenti “poteri ordinatori” o regole a scala globale (che forse verranno o forse no), ma sui legami che sono giù presenti e attivi a scala più limitata (Stati nazionali, sistemi locali, filiere, comunità, famiglie). […] Sul terreno della competitività, il rimedio da proporre fin da ora è che i paesi high cost si attrezzino per usare i loro redditi (più alti) per investire nella creazione di conoscenze originali e di reti di relazione esclusive, tali da compensare i differenziali negativi di costo del lavoro, rendendo “morbido” l’inseguimento tra paesi ricchi e paesi emergenti, che oggi rischia di trasformarsi in uno scontro cruento, per la sopravvivenza. Il made in Italy è destinato a soffrire più di altri la crisi di competitività. […]
Nessuno, infine, si è dato carico degli elementi dissipativi che erano impliciti nello sviluppo, nel momento in cui consumava beni comuni, quelli che gli anglosassoni chiamano commons: ambiente, risorse naturali, cultura, conoscenza sociale. Tutti beni che, non essendo presidiati da un proprietario privato ed essendo solo in parte coperti da una tutela pubblica, sono stati quasi sempre consumati dalla produzione senza che i beneficiari si dessero carico di ricostituirli. […]
Chi deve pensare a trasformare l’uso dissipativo di beni comuni in valorizzazione riflessiva degli stessi?
Questo è un grande interrogativo e un discrimine politico vero: altro che continuare la guerra dei cento anni, tra liberisti e statalisti. Pensiamo a questa nuova frontiera della riflessione economica e della politica: la comunità reclama un uso del mercato e dello Stato che sia funzionale alla valorizzazione dei beni comuni, e chiama le intelligenze personali e le relazioni sociali a fare la loro parte, affiancando le forme tradizionali di mercato e di Stato che dovrebbero sempre più essere innervate di aspetti comunitari.

Enzo Rullani

La versione integrale dell’articolo è disponibile qui.

Quest’interfaccia non mi è nuova

Ne parlava anche Pierre Lévy, ma la suggestione arriva da più lontano. Noi siamo interfacce, parti del nostro corpo sono delle interfacce, come gli occhi e il naso e i sensi, ma anche come i polmoni, la pelle. Anche le stazioni e gli aeroporti sono interfacce, in scala socioterritoriale. Ma per restare sull’individuo, anche gli organi genitali sono interfacce. Tutte cose che trasportano traducono connettono, e in quanto in tal modo o tal altro conformate contribuiscono a dare senso alla relazione (interumana, o uomo-macchina) che veicolano, lasciano tracce di “semantica naturale” nella semiosi che poi innescano, nell’interpretazione degli eventi.
Stazioni ferroviarie architettonicamente differenti organizzano diversamente i flussi di socialità al proprio interno, e fondano esperienze-utente affettivamente e cognitivamente differenti, nella relazione con gli altri e con il mondo.
L’usabilità di un software può decretarne il successo, molto più della sua effettiva efficacia come strumento per produrre/distribuire documentazione o operatività; il merito è di chi ha disegnato l’interfaccia grafica.
La conformazione fisica dei nostri organi sessuali ha portato molte culture a fondare dicotomie assiologiche forti tra penetrazione/ricezione, attivo/passivo.

Eppoi, come dire, ciascuno di noi conosce bene la propria interfaccia gonadica, ci giochicchiamo da sempre. Vi è dimestichezza, comodità psicologica all’interazione, feedback. La mia mano conosce il mio pisello, lo ammetto. E tu donna che leggi, la tua mano conosce la tua patata, è indubbio.

Andate a vedere il video qui, da MailofDay, poi tornate.

Ecco quindi che il joystick dei videogiochi assume decisamente forma fallica, e ne replica le modalità d’interazione classica, ovvero andare su e giù con la manina.
La curva di apprendimento è un concetto obsoleto, nessuno può dire di trovare ostica l’interfaccia.
Immagino si possa realizzare anche la versione “patata”.

Cortocircuito (e scintille di futuro)

Già altre volte qui ho parlato del blog personale di Renzo Tondo, governatore del Friuli Venezia Giulia, sottolineando e analizzandone la specifica postura conversazionale e la “solidità” dei temi affrontati rispetto all’ufficialità del dire dello stesso governatore.

La domanda è: il blog del governatore è un Luogo politico? Disintermediazione, quindi.

Nella mia opinione, il proprio blog personale dovrebbe essere il primo Luogo di espressione di sé (in quanto dichiaratamente identitario, conversazionale, connotato, storico, etc… magari domani nasce un equivalente altrettanto efficace, e vedremo) da cui poi gli altri possono legittimamente trarre indicazioni per una valutazione del personaggio/i che ciascuno di noi intende mettere in scena, dal cui testo trarre poi indizi per attribuire orientamenti, credenze, schieramenti espliciti, atteggiamenti, stile a colui che in questo modo intende partecipare al pubblico dibattito.

A quanto pare, anche il Messaggero Veneto (gruppo l’Espresso/Kataweb) ha deciso di prendere sul serio il blog personale del governatore, guardate questa foto del giornale di oggi:


Quindi un mezzo di comunicazione di massa dell’epoca industriale (il quotidiano di riferimento della zona, lo Strumento della Storia locale nel suo farsi) ha esplicitamente riconosciuto la veridicità e l’autorevolezza del blog personale di Renzo Tondo, in quanto Luogo politico. Una parola là pronunciata, non è chiacchiera, è Storia anch’essa. Il Messaggero Veneto riconosce esplicitamente l’esistenza e la posizione socioconversazionale di parlante ratificato al personaggio Renzo Tondo espresso da Renzo Tondo mediante il suo blog renzotondo.blogspot, senza più aver bisogno di comunicati ufficiali e conferenze stampa, interviste con giornalisti iscritti all’albo, filtri e intermediazioni.
Il Territorio e i suoi attori parlano liberamente, e io giornale comincio a modificarmi, per riuscire a rendere conto dei dibattiti sociali e politici che ora vivono in molti altri ambienti conversazionali.

Il dire di Tondo colà costituisce posizione politica ufficiale, e proprio chi fino a questo momento era l’unico “testimone del dire” dei personaggi pubblici (e della sua veridicità, e dell’ufficialità delle dichiarazioni anche nelle loro conseguenze pragmatiche), ovvero la stampa, sancisce ora esplicitamente l’autorevolezza delle nuove forme di espressione di sé, quei blog e quei nuovi spazi di socialità e di conversazione così opperbacco spudoratamente post-industriali e digitali, ma non più effimeri e irrilevanti, a quanto pare.

Rinnovo gli auguri di happy-blogging a Tondo: in riferimento al contenuto dell’articolo pubblicato, mi piacerebbe alquanto se poi en passant provasse a spiegare un po’ meglio la sua attuale posizione personale sulla legge per il testamento biologico, apparentemente in contraddizione rispetto alle stesse onorevoli azioni da lui intraprese in relazione al caso di Eluana Englaro qui in Regione. E come ne parlerà sul suo blog, sarà ufficiale.

Parlar chiaro, gusto pulito

Chi è il responsabile della comunicazione pubblica governativa in italia? Che studi ha fatto, come parla, che cultura abita dentro la sua testa? Se pone un interrogativo professionale a sé stesso riguardo una maggior adeguatezza e efficacia della postura del parlante (il governo), oppure rispetto al tono linguistico da utilizzare (modalità d’interpellazione del destinatario, scelte lessicali e sintattiche, stile della comunicazione), quali sono i paletti che guidano il suo ragionamento, nel come dire le cose?
Perché l’ufficialità del dire governativo italiano, i discorsi i pronunciamenti le leggi le ordinanze fino ai discorsi di capodanno in tv o ai siti web delle PA, dev’essere sempre pesantemente paludata con orpelli linguistici e periodare labirintico, affogata in retoriche ottocentesche, corazzata di formule ormai vuote, armata di capziosità?

Com’è facile leggere il disprezzo dell’altrui comprensione, in questo fare comunicativo.
Anche se sei prigioniero di una retorica stantìa, mio caro comunicatore pubblico, anche se in te vive e intendi consapevolmente o meno trasmettere una ormai vecchia concezione dell’autorevolezza fondata sulla rigidità della postura (gli immutabili cerimoniali della comunicazione ufficiale, indifferenti ai nuovi paesaggi mediatici) e un’idea di serietà e di decoro che evidentemente non possono che trovare manifestazione in grammatiche oscure e contorte, non puoi non tenere in considerazione la comprensione del destinatario, e su questa basarti per organizzare le strategie del tuo dire.

Gramsci nei Quaderni scriveva “A differenza dei funzionari francesi e inglesi, che scrivono per il popolo, quelli italiani scrivono per i propri superiori”.
Italo Calvino parlava spesso della Antilingua degli uffici della Pubblica Amministrazione, di come da decenni avvocati e funzionari, ministri e amministratori, e anche giornalisti, traducano tutto in questa lingua inesistente, un gergo professionale costituito da burocratese e giuridichese e locuzioni desuete, e dal “terrore” di usare le parole comuni, per cui /fare/ si dice /effettuare/ e /convalidare/ si dice /obliterare/.
De Mauro combatte da anni per un “dovere costituzionale di farsi capire” da parte della Pubbliche Amministrazioni; Cortellazzo combatté per anni con l’antilingua, nel promuovere fin da tempi degli ammodernamenti voluti da Bassanini nei primi Novanta un “Manuale di Stile” per la semplificazione del linguaggio amministrativo. Plain language, linguaggio piano.
E rinnovo i miei incitamenti per tutti quelli che di lavoro fanno proprio i comunicatori pubblici dentro le Pubbliche Amministrazioni, a restare sintonizzati alle modernità mediatiche (non confidando in addestramenti da acquisire in corsi di aggiornamento professionale, ma coinvolgendosi in prima persona con curiosità e passione) e talvolta a osare qualcosa, a sperimentare nuovi approcci per l’ottimizzazione della comunicazione interna e esterna delle PA.

Guardiamo cosa fanno gli americani, dài.
Questa immagine qui sopra è una foto del sito governativo americano recovery.gov dedicato alle strategie per il salvataggio economico degli Stati Uniti dinanzi alla crisi attuale, dove è possibile restare informati in tempo reale sulla destinazione dei soldi dei contribuenti, che il Governo sta ridistribuendo secondo un Piano con nuove e diverse priorità.

Se sapete anche poco l’inglese, già comprendete di cosa tratta il sito. Perché il linguaggio utilizzato è linguaggio piano, perfino colloquiale.
“Tracciabilità e trasparenza. Questi sono i tuoi soldi. Hai il diritto di sapere dove stanno andando e come vengono spesi. Scopri quali passi stiamo facendo per assicurare che tu possa tracciare i nostri progressi in ogni momento”
C’è Obama in video che spiega tranquillamente questo concetto della tracciabilità pubblica degli investimenti governativi, ci sono grafici e mappe realizzati con attenzione al punto di vista del destinatario, viene espressamente richiesta una valutazione feedback ai fruitori (“Raccontaci in che modo il Recovery Act ti riguarda. Cos’è che funziona? Cos’è che non funziona? Vogliamo sentirlo da te”).

E in una vera conversazione, questo comunicare contenuti nuovi e concreti con un linguaggio nuovo e concreto fa nascere quel rispetto e quella fiducia che mille paroloni aulici e complicatissime matrioske sintattiche non riescono più a suscitare in me (da quando avevo quindici anni).

Le parole nello scanner

Fare didattica oggi a scuola (geografia, scienze, antropologia, educazione alla tecnologia, educazione alla cittadinanza) senza le mappe satellitari tipo googlemaps è perder tempo.
E come più volte si è detto in questo blog, non si tratta di una carta geografica (anche perché la parola “carta” non va più bene) da portare in classe e guardarla per un po’ e fare le fotocopie e magari tracciarci sopra delle righe a matita e tracciare aree con gli evidenziatori.

Per comprendere appieno una didattica capace di integrare armonicamente gli strumenti delle TIC nel flusso situazionale e conversazionale delle situazioni formative, nella mente dell’insegnante deve essere ben viva una rappresentazione dei Luoghi di apprendimento come indifferentemente fisici (l’aula scolastica, il territorio) e digitali (come le mappe online).
Questo perché la didattica poi trova visibilità e interazione nella pubblicazione social web di elementi originali frutto delle attività scolastiche su quella stessa mappa, sotto forma ad esempio di segnalibri con dentro video immagini e testo e collegamenti ipertestuali, e questo si chiama abitare la mappa, arricchendola di vissuto e risvolti antropologici socioterritoriali e connotandola come luogo identitario, che parla di me e del mio fare. La mappa è un ambiente, non uno strumento.

La mappa di Google è un ambiente digitale che però mette in scena l’ambiente fisico e relazionale, e questo cortocircuito ci confonde un po’ le idee. Qui raccontavo di come forse sia meglio oggi dire “il territorio è la mappa”.
Però credo anche che i siti dei Comuni e delle Regioni potrebbero tranquillamente usare una mappa digitale online come homepage, su cui appuntare spazi informativi e di navigazione: quale miglior modo di mostrarmi chi sei se non mostrandomi il tuo territorio, le sue peculiarità insediative, le collettività che lo abitano osservate nelle loro reti relazionali e conversazionali, nella loro unica e originale produzione mediatica?

Quello che vale per le mappe online, vale anche per l’aggregatore di classe (da cui distillare quotidianamente spunti per le attività scolastiche, restando sintonizzati sul mondo) e per il blog di classe (dove contrappuntare i flussi degli apprendimenti con commenti personali da parte degli stessi allievi, perché ri-raccontare agli altri ciò che si è appreso fa imparare meglio) e per molti altri Luoghi che già popolano la nostra vita di oggi, strumenti e ambienti di interazione sociale che per quelle piccole persone di nove anni costituiranno una presenza costante per tutta la loro vita.

Già integrare queste cose nel flusso situazionale dell’aula scolastica, si diceva sopra, significa svolgere concretamente Educazione alla Cittadinanza nel rendere consapevoli i minori dei propri diritti di accesso all’informazione e di espressione di sé; inoltre l’uso critico di questi stessi strumenti favorisce un corretto approccio di Media Education, rispetto alle retoriche della manipolazione mediatica; e ancora si promuoverebbe la corretta postura culturale (da cui pedagogica) dell’utilizzo del web sociale, dove le interfacce si “trasparentizzano” e si riesce finalmente a mettere a fuoco una delle vere mission delle generazioni umane che abitano e abiteranno il Ventunesimo secolo, ovvero riuscire a costruire “intelligenza collettiva”, Luoghi di socialità aperti e condivisi e partecipativi, Società planetaria della Conoscenza, nella certezza che l’incremento della circolazione di informazioni idee e opinioni possa contribuire in maniera determinante al miglioramento delle condizioni di qualità del nostro abitare, al ben-stare glocale su questo pianetino.

Ecco, guardare i computer e non vedere il web è purtroppo uno dei paraocchi che indossa chi oggi dovrebbe ragionare di fare scuola in modo moderno, come i ministri o molti dirigenti scolastici o molti insegnanti, ma di modernità non capisce nulla.
In tal modo, quando guardo il computer penso “informatica”, rendendo ancora più solide quelle interfacce che invece vorrei vedere trasparentizzarsi. Guardo il computer, e penso ancora “calcolatore”, non “socialità”; penso fogli di calcolo, non blog o community. A scuola creo i famigerati laboratori informatici, anziché provvedere connettività nelle classi. Mi invento i curricoli di informatica, e poi se va bene faccio un po’ di multimedialità, e non adotto nessuna metodologia didattica specifica in grado di migliorare l’apprendimento in ambienti ormai stabilmente abitati da Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione.
E io che sono qui a lagnarmi di scelte strategiche sbagliate, esito di scarsa Cultura Digitale, nello stabilire cosa vada valorizzato o meno nei ragionamenti sugli utilizzi delle TIC in classe, vengo come immagino molti insegnanti italiani raggelato dalle dichiarazioni di una FAQ del Ministero, dove si afferma che il laboratorio di informatica “non costituisce, soprattutto nella scuola primaria, un insegnamento prioritario”. Ne parla repubblica.it.

E’ chiaro che se alle scuole primarie diminuiscono le compresenze degli insegnanti, e alle scuole medie diminuiscono le ore di Educazione Tecnica, i bambini andranno sempre meno nell’aula informatica. Lì si può tagliare.
Che poi è assurdo che sia il prof di Educazione Tecnica che deve “fare computer”.
Che poi è assurdo che le ore di Educazione Tecnica diminuiscano, in un mondo tecnologico.
Che poi è assurdo che esistano le aule di informatica, e dei curricoli che prevedono informatica dentro le aule informatiche, alle scuole di base.

Lì potrebbe essere la chiave, nella frase sopra riportata. Nelle parole leggiamo l’approccio culturale di chi le ha scritte, e traspare una visione del mondo vecchia due volte. Non solo quel funzionario o quel ministro non sa cogliere il significato social delle tecnologie TIC nei settori della formazione, secondo precise indicazioni europee; non viene nemmeno più garantito l’uso dello strumento computer, indipendentemente dal fatto che sia connesso o meno. Questo perché i giovani quando entrano a scuola in realtà entrano in una capsula del tempo, e ritornano agli anni Ottanta quando non c’erano né il web né i cellulari. Meno divertente però il fatto che uscendo da scuola per lavorare e diventare cittadini si trovino a dover abitare un mondo decisamente tecnologico, su cui la scuola non ha saputo promuovere nessuna competenza o consapevolezza specifica.

L’errore non è che “non sia prioritario”, l’errore è considerare ancora il pc e il web come oggetto di insegnamento curricolare.

UPDATE: via Roberto Sconocchini, apprendo che quelli del Ministero hanno rimosso la frase incriminata dalle FAQ.

Formazione post-industriale

Evoluzione della Formazione al modificarsi dei modelli economici e organizzativi dell’industria. La riflessione è ripresa da Domenico Lipari e paragona la Formazione in tre grandi momenti storici:

  1. nell’era Fordista la logica d’azione della Formazione era l’istruzione; trasferire nozioni operative che permettano all’operatore l’utilizzo di macchinari e tecniche produttive.
  2. nell’era del Taylorismo la logica diventa l’interazione tra individuo ed organizzazione. La Formazione è organizzata nell’analisi dei bisogni, nella progettazione, la gestione didattica (aula) e la valutazione finale.
  3. Oggi, nell’era Post Industriale, la logica della formazione diventa la capacità di lavorare sulle esperienze capitalizzando la conoscenza (tacita e non formalizzata) che viene creata. La conoscenza è qualcosa cha va generata e l’apprendimento è il processo cui questo viene garantito.

Oggi, per realizzare una formazione qualitativamente elevata è necessario uscire dall’aula ed entrare nei processi informali di apprendimento.

Oggi l’apprendimento è molto più frequente quando avviene in modalità non strutturate e senza una pianificazione o una intenzione della committenza.

E’ iniziata l’era delle Community.

via Luigi Mengato

Distretti di Economia Solidale

Incollo qui dei ragionamenti trovati su Utopieonlus, utili per la progettazione locale di Distretti di Economia solidale.

Rete di Economia Solidale

Il progetto “RES” (Rete di Economia Solidale) è un esperimento in corso per la costruzione di una economia “altra”, a partire dalle mille esperienze di economia solidale. Questa progetto in costruzione, come sta avvenendo in diversi altri luoghi in giro per il mondo, segue la “strategia delle reti” come pista di lavoro. Intende cioè rafforzare e sviluppare le realtà di economia solidale attraverso la creazione di circuiti economici, in cui le diverse realtà si sostengono a vicenda creando insieme spazi di mercato finalizzato al benessere di tutti.

(…) Una rete è costituita dalle cellule, sue unità costitutive, dalle loro interconnessioni relazionali e dai i flussi che le alimentano. Questi flussi possono essere di tre tipi: flussi d’ informazione e tecnologia, flussi di beni e prodotti e flussi di valori, sia economici che etici, di gran lunga i più importanti. Ogni volta che due gruppi, due organizzazioni si integrano in un processo di scambio con altri gruppi, in cui uno alimenta l’ altro in un intercambio di diversità ed arricchimento reciproco allora abbiamo una rete. Tutti i tipi di organizzazioni (movimenti delle donne, reti di diritti umani, reti di produttori agricoli) che si organizzano e che s’integrano in un flusso di informazioni e consumo fanno poi parte di questa rete. Le dinamiche relazionali fra cellule avvengono senza gerarchie verticali prestabilite. La nozione di rete permette di lavorare con la diversità, e fare della diversità la forza del cambiamento. Le reti si autoalimentano tramite la diversità: tanto maggiore è la diversità, tanto più forte è la rete. La sua forza è nella tessitura, nell’ inclusività e nella qualità dei legami tra i suoi componenti. È la stessa idea dell’ecologia, ma qui si tratta di una diversità con principi etici; non tutte le diversità sono buone, alcune annullano le libertà dell’ individuo, ma quelle «buone» ne garantiscono le libertà. Le reti sono importanti, e rivoluzionarie, perché per la prima volta esiste una forma di organizzazione politica che integra i vari gruppi di produzione, cultura, educazione. Ognuno lavorando in sua autonomia, e cercando di garantire alla comunità le condizioni basilari all’ esercizio della libertà prima ricordate. Il concetto cruciale è quello del “bem-vivir”, del ben-vivere, contrapposto a quel ben-avere che, nella mentalità oggi dominante, coincide con il benessere.

In Italia questo percorso è stato avviato il 19 ottobre 2002 a Verona nel corso di un seminario sulle “Strategie di rete per l’economia solidale”, in cui le numerose realtà convenute hanno deciso di affrontare questo viaggio collettivo. Un primo passo è stata la definizione della “Carta per la Rete Italiana di Economia Solidale”, presentata al salone Civitas di Padova il 4 maggio 2003. Ora il percorso prevede la attivazione di reti locali di economia solidale, denominati “distretti”, come passaggio fondamentale per la costruzione di una futura rete italiana di economia solidale. Questo progetto è sostenuto da un gruppo di lavoro su base volontaria a cui partecipano diversi soggetti dell’economia solidale italiana. Gli incontri del gruppo di lavoro sono aperti alle persone interessate. E’ attivo il portale internet www.retecosol.org

In vari paesi del mondo (Brasile, Argentina, Spagna, Francia) esistono già reti di economia solidale, nate negli ultimi anni. In Italia la Rete di Lilliput e diversi soggetti di economia alternativa (Botteghe del Mondo-commercio equo solidale, Gruppi di Aquisto Solidali, organizzazioni della Finanza Etica e del Turismo Responsabile, cooperative sociali) stanno promuovendo un processo analogo, per collegare e rafforzare queste pratiche di economia basate su principi opposti a quelli del neoliberismo; punto di partenza di questo processo è la costituzione di Distretti locali di Economia Solidale.

I principi su cui si basano le reti di economia solidale

* Nuove relazioni tra i soggetti economici, fondate su principi di cooperazione e reciprocità.
* Giustizia e rispetto delle persone (condizioni di lavoro, salute, formazione, inclusione sociale, garanzia di beni e servizi essenziali).
* Partecipazione democratica
* Disponibilità a entrare in rapporto con il territorio (partecipazione a progetti locali).
* Disponibilità a entrare in relazione con le altre realtà dell’economia solidale condividendo un percorso comune.
* Investimento degli utili per scopi di utilità sociale.

Distretti di economia solidale

I distretti di economia solidale sono “laboratori pilota” locali in cui si sperimentano forme di collaborazione e di sinergia per un modello economico che pratica modalità opposte a quello dominante e presentato come unico possibile sulla base di:
* Economia equa e socialmente sostenibile: i soggetti che appartengono ai Distretti si impegnano ad agire: in base a regole di giustizia e rispetto delle persone (condizioni di lavoro, salute, formazione, inclusione sociale, garanzia di beni e servizi essenziali); in modo equo nella distribuzione dei proventi delle attività economiche (investimento degli utili per scopi sociali con lavoratori locali e del Sud del mondo); con criteri trasparenti nella definizione dei prezzi da attribuire a merci e servizi.
* Sostenibilità ecologica: i soggetti aderenti ai Distretti si impegnano a praticare un’economia rispettosa dell’ambiente (sia nell’uso di energia e materie prime, sia nella produzione di rifiuti) e il più possibile contenuta nell’impatto ambientale
* Valorizzazione della dimensione locale, il che significa dare la priorità alla produzione e al consumo delle risorse del territorio, sia in termini di materie prime ed energia, che di conoscenze, saperi, pratiche tradizionali, relazioni e partecipazione a progetti locali.
* Partecipazione attiva e democratica: i soggetti che fanno parte dei Distretti, nel definire concretamente come gestire i processi economici e le relazioni al proprio interno e con gli altri soggetti del proprio territorio, faranno riferimento a metodi partecipati.

Possono far parte dei distretti
* le imprese dell’economia solidale e le loro reti/associazioni
* i consumatori dei prodotti e servizi dell’economia solidale e le loro reti/associazioni
* i risparmiatori-finanziatori delle imprese e delle iniziative dell’economia solidale e le loro reti/associazioni o imprese
* i lavoratori dell’economia solidale
* gli enti locali che intendono favorire sul proprio territorio la nascita e lo sviluppo di esperienze di economia solidale
* le associazioni o i Centri di Ricerca che si occupano del te ma.

Gli obiettivi principali proposti ai vari soggetti che faranno parte dei Distretti sono:
* utilizzare prioritariamente beni e servizi forniti da altri membri del Distretto stesso
* investire preferibilmente gli utili nelle imprese che fanno parte del Distretto
* promuovere e diffondere in modo sinergico la cultura dell’economia solidale, degli stili di vita sobria e del consumo critico.

Questo non esclude ovviamente la possibilità di collegarsi, a livello nazionale o internazionale, con altre realtà che svolgono attività analoghe (altri distretti, reti di commercio equo, di finanza etica, di turismo responsabile e così via).

Quando governano i premoderni

Giampiero D’Alia “Il 5 febbraio 2009, durante la seduta n. 143 del Senato della Repubblica, promuove e ottiene l’inserimento di un emendamento (Art. 50-bis) nel ddl da presentare alla Camera, nel quale si sancisce la Repressione di attività di apologia o istigazione a delinquere compiuta a mezzo internet”.

Trovate la notizia e le riflessioni critiche qui sulla Stampa, su PuntoInformatico, su Apogeonline.
Prendendo le mosse dalla presenza in Rete (su Facebook, su YouTube) di pagine inneggianti alla mafia o al nazismo, il senatore arricchisce il “pacchetto sicurezza” del governo con un emendamento contro i reati di opinione commessi appunto attraverso internet, dove i fornitori di connettività provider vengono chiamati a segnalare le apologie di reato, e con molta confusione si chiede ai fornitori di servizi web (come YouTube) di rimuovere pagine o contenuti con la minaccia di oscurare la visibilità web per i navigatori italiani.
Ma il senatore non conosce le cose di cui parla, letteralmente sproloquia, sia dal punto di vista della comprensione “tecnica” del funzionamento del web, sia da quello della portata del suo dire rispetto alla libertà di espressione di ciascuno di noi.

Gilioli dell’Espresso intervista infatti D’Alia, e Elvira Berlingieri su Apogeonline mette nero su bianco tutte le imprecisioni tecniche e giuridiche del senatore, riportando tutto pragmaticamente alle precise parole del provvedimento, segnalando spesso contraddizioni e sottolineando la futilità di una nuova legiferazione per reati già previsti nel Codice italiano.

Leggete anche Granieri, che coglie la dinamica complessiva del nuovo modo di fare informazione distribuita.

Perché scrivo di questa notizia?
Perché stiamo parlando di libertà di opinione e di espressione, che troppi vorrebbero limitare. E perché lo stesso Gilioli, scrivendo a proposito del senatore D’Alia

Il problema è che lui e quelli come lui non si rendono neppure lontanamente conto delle enormità che dicono (e che fanno), della loro drammatica appartenenza culturale a un altro secolo e a reticoli concettuali premoderni

mi ha fatto pensare ai NuoviAbitanti, che provano a vivere in questo ventunesimosecolo e comprendono i reticoli concettuali moderni, o per lo meno s’interrogano su questo stesso blog.

Ma come mi tratti?

Immaginatevi una Anagrafe digitale pubblica, gestita da Pubbliche Amministrazioni. Qualche server beneducato a non dimenticare nulla, dei database per ogni cittadino, e se per cominciare rendiamo disponibile dieci megabyte per ciascun italiano, alla fine ce l’asciughiamo con 600 terabyte, tutte robe tecnicamente fattibilissime.
Le tabelle cominciano a popolarsi nel momento in cui nasciamo, anzi prima ancora dal momento della visita in ginecologia in cui viene sancita dal medico la presenza su questo pianeta di una nuova vita. Ovviamente, il momento dell’apertura del nuovo file nell’Anagrafe Pubblica è esattamente il momento di passaggio, e facilmente i prossimi riti tecnosociali prevederanno cerimoniali specifici su come svolgere al meglio questo iniziale gesto di attribuzione di identità al nuovo nato.

Cominciamo a riempire il database. I genitori hanno obblighi specifici, scelgono il nome del pàrgolo, sottoscrivono il proprio impegno nel provvedere alla sua inculturazione, riporteranno via via gli episodi salienti della vita del figlio. Ma un mucchio di altra gente potrà scrivere ufficialmente (tracciando gli autori) su quel database, ad esempio il medico che diagnostica malattie infantili allega le cartelle (digitali) cliniche, poi le cure dentarie, poi gli insegnanti che annotano i percorsi di apprendimento intrapresi, la maestra di ballo e la psicologa certificheranno questo e quello, e di tutti questi dati bisognerà stabilire quali sono pubblici, e quali invece possono essere compulsati solo dopo consenso del titolare, oppure su ordine della magistratura.

Al compimento del diciottesimo anno di vita, al nostro ragazzo del 2027 verrebbe ufficialmente consegnata dal Sindaco la password per l’accesso al proprio database, di cui diventa unico responsabile dinanzi alla collettività. Ci son degli obblighi di legge, bisogna aver cura del profilo identitario e scriverci delle cose sopra, documentare sé stessi e prendere posizione rispetto ad alcune scelte etiche che la società ci chiede di intraprendere.
Ad esempio, a diciotto anni ciascuno di noi dovrebbe cominciare a redigere e aggiungere alla propria identità tecnosociale un documento in grado di esprimere esplicitamente la nostra personale visione del mondo rispetto al Senso della Vita e della Morte, e quindi in grado di orientare poi i comportamenti da tenere nei miei confronti in modo che nulla possa avvenire contro la mia volontà, anche me assente o impossibilitato. Un testamento biologico.

Del mio corpo, della mia mente decido io, e sorreggo l’affermazione con la stessa responsabilità civica di cui mi faccio carico dinanzi alla collettività riguardo le conseguenze delle mie azioni.

Ahimè, chissà quando vedremo realizzato e operante quel database identitario pubblico. Nel frattempo utilizzo questo semioblog, mio luogo di espressione con nome e cognome.

Udine, 8 febbraio 2009

Io sottoscritto Giorgio Jannis, nato a Udine il 21 giugno 1967, nella pienezza delle mie facoltà fisiche e mentali, dispongo quanto segue.

Qualora fossi affetto:
da una malattia allo stadio terminale,
da una malattia o una lesione traumatica cerebrale invalidante e irreversibile,
da una malattia implicante l’uso permanente di macchine o altri sistemi artificiali e tale da impedirmi una normale vita di relazione,
non voglio più essere sottoposto ad alcun trattamento terapeutico.

Nelle predette ipotesi:
qualora io soffra gravemente dispongo che si provveda ad opportuno trattamento analgesico pur consapevole che possa affrettare la fine della mia esistenza;
qualora non fossi più in grado di assumere cibo o bevande, rifiuto di essere sottoposto a idratazione o alimentazione artificiale;
qualora fossi anche affetto da malattie intercorrenti (come infezioni respiratorie e urinarie, emorragie, disturbi cardiaci e renali) che potrebbero abbreviare la mia vita, rifiuto qualsiasi trattamento terapeutico attivo, in particolare antibiotici, trasfusioni, rianimazione cardiopolmonare, emodialisi.

Sempre nelle predette ipotesi:
Rifiuto qualsiasi forma di continuazione dell’esistenza dipendente da macchine.

Detto inoltre le seguenti disposizioni:
non richiedo alcuna assistenza religiosa;
il mio corpo può essere donato per trapianti;
il mio corpo può essere utilizzato per scopi scientifici e didattici.

Lo scopo principale di questo mio documento è di salvaguardare la dignità della mia persona, riaffermando il mio diritto di scegliere fra le diverse possibilità di cura disponibili ed eventualmente anche rifiutarle tutte, diritto che deve essere garantito anche quando avessi perduto la mia possibilità di esprimermi in merito.
E questo al fine di evitare l’applicazione di terapie che non avessero altro scopo di prolungare la mia esistenza in uno stato vegetativo o incosciente e di ritardare il sopravvenire della morte.

Horse Latitude

Come già l’altr’anno, oggi sono andato a Pordenone nel liceo dove insegna Pier e lui assente (saluto i prof che erano presenti, Alessandro e Enrico) ho tenuto la mia lectio magistralis sul Senso della Cultura Tecnologica moderna e dell’Abitare sociodigitale, secondo approccio gangherologico. Dilagando per quasi tutte le due ore, e studenti e studentesse che eravate presenti commentate pure questo post, o qualunque altro, per farmi domande relative o no.
Sono andato anche a mangiare pastalpesto e due fritole a casa di Sergio, quindi non sono nemmeno uscito dalla modalità “digital world” che avevo settato mentalmente per fare lezione nella mattinata e ho continuato per due ore a chiacchierare amabilmente in gergo da webaddicted.

In realtà, questo post era per prendere appunti.
Qui Gigi Cogo racconta delle dinamiche del web 2.0 a supporto dei servizi di eGovernment, e riesce a illustrare il farsi strada dei nuovi approcci comunicativi, delle nuove necessarie posture conversazionali nella cultura di gruppo delle Pubbliche Amministrazioni.

Carlo Infante su PerformingMedia espone e suggestionea incastrando bene le pratiche di Rete, di multimedialità e di territorio dentro i nuovi scenari che geoblogging e media locativi rendono visibili e vivibili – “scrivere storie nelle geografie”. Carlo andrebbe con la forza costretto a produrre idee relative a possibili applicazioni ev’ryday-life delle tecnologie georeferenziali, a inventarsi situazioni e messe in scena di comportamenti umani interfacciati.

Sergio Maistrello mette giù un sacco di idee sulle nuove dinamiche del giornalismo più o meno web e sul problema della disintermediazione della comunicazione istituzionale, partendo dalla riorganizzazione profonda dei modi di interpellazione dell’interlocutore e dei contenuti espressi dai siti governativi americani in seguito all’elezione di Obama.

Poi avevo messo da parte una serie di link su argomenti tipo “tracciabilità”, ovvero indicazioni su argomenti che riuscissero a mostrare qualcosa di robe come mappature di comunità (indifferentemente su terra, web o supporti mobili), borghi digitali, webcittadinanza, utilizzo di cellulari come sensori (ne parlavo qui), anzi i cittadini stessi sono i sensori, ma si può mettere dei rilevatori anche sui piccioni e farli comunicare in tempo reale su wifi cittadino le condizioni ambientali (quota di anidride carbonica, per esempio) dei quartieri. Trovate tutto qui, da Vodaphone.

La Nokia non sta ferma, figuriamoci, e come sappiamo dopo Nokia Sensors per rilevamenti ambientali (cerchiamo di fornire contesto al nostro dire, mettiamo dentro il messaggio il più possibile della situazione enunciativa) lancia MyMobile, che però è un webserver da mettere dentro il nostro telefonino, così possiamo arrivarci dentro via web, navigando. Ma siccome sul telefono è possibile mantenere ad esempio gallerie fotografiche pubbliche di foto nostre originali, oppure fare un blog (sì, dentro il cellulare) o condividere un calendario, ecco che abbiamo per le mani un modo nuovo di “darsi” degli individui dentro la rete, innescando community (frequentazioni, partecipazioni, appartenenze) basate sulle reti cellulari.
Esistono anche le community geograficamente strettissime, ad esempio quelle basate sullo scambio bluetooth tra i cellulari, così quando entrate in discoteca o in pizzeria avete già sul visore del telefono la mappa situazionale dei personaggi presenti, con i loro profili, e strumenti di interazione. Esempio di queste tecnologie sono Mobiluck e Crowdsurfer, e anche i cellulari social sono cosa che già abita il presente, anche se al momento servono a cuccare in modo creativo.

Ancora tre link: urban-atmospheres.net locative-media.orge urban-atmospheres.net
per ragionare sempre di nuove forme di abitanza digitale, interessanti. La locuzione “media locativi” non mi sembra male, peraltro.

Chiaramente, mentre sto per chiudere il post arriva Google (ne parlano qui) con il suo nuovissimo GoogleLatitude, che appunto è un marcatore social di presenza basato su Google Maps. Scaricate il nuovo GMaps 3.0 per cellulari, lui rileva la vostra posizione sul pianeta via GPS o sui wifi o sulle reti cellulari, e la riporta sulle mappe satellitari. Poi spedite l’invito ai vostri contatti gmail, quelli che volete, e anche loro se accettano compariranno come avatar sulla mappa geografica, simboleggiando la loro posizione (la quale può essere anche mentita, impostando una posizione manualmente). La mappa poi la vedete sul cellulare o anche via web (non italia ancora), come widget dentro la iGoogle.

Se per districarvi tra tutte queste indicazioni e suggestioni vi serve una mappa mentale, traggo da qui alcune indicazioni di Buzan in persona su come impostare i nodi di primo livello.

Here are some additional tips from Buzan on the types of words that tend to make effective basic ordering ideas:

  • Divisions: chapters, lessons or themes
  • Properties: characteristics of things
  • History: a chronological sequence of events
  • Structure: how things are formed or arranged
  • Function: what things do
  • Process: how things work
  • Evaluation: how good, beneficial or worthwhile things are
  • Classification: how things are related to each other
  • Definitions: what things mean
  • Personalities: what roles or characters people have

Retrofuturo web

La personalità di un bambino comincia a formarsi da quando è ancora in pancia. Anzi, la personalità del bambino comincia a formarsi nel pensiero dei suoi genitori, dentro una relazione, prima ancora del concepimento.

Qui un servizio televisivo di un tg americano del 1981 parla del nostro web, “chissà che mondo sarà quello in cui a colazione leggeremo le nuove sullo schermo di un personal computer”.

Che poi, quand’è finita quella tonalità futuro-progresso-startrek-ottimismo con cui si dipingevano le notizie tecnologiche negli anni Settanta e anche primi Ottanta? Son passati BladeRunner e il cyberpunk e hanno steso una vernice cupa a rivestire tutto? Quale intellettuale opinionleader gatekeeper quindici o vent’anni fa ha magari ripreso in mano quell’Heidegger storto che non aveva ancora capito bene la Tecnica, per tuonare – come nei temi in terza media sulla bomba atomica – contro la tecnologia disumanizzante che ci circonda e ci pervade? Perché d’un tratto questa svolta disforica, nel clima narrativo della webStoria? E’ possibile risalire alle scintille iniziali, che hanno impresso poi connotazione negative alle vicende successive contribuendo a costruire il frame cognitivo dentro cui avremmo interpretato i cambiamenti sociali legati alla nascita di Mondo 2.0? Ci sarebbero state anche da sopportare tutte le sciocche retoriche scandalistiche e criminalizzanti riguardo il web, a fine Novanta, e sappiate che “la mafia usa la posta elettronica”, tanto per dire, è affermazione che farebbe la sua disinformativa figura anche dentro un TG qualunque di questa sera.

“Imagine, if you will, sitting down to your morning coffee, turning on your home computer to see the day’s newspaper. Well, it’s not as far-fetched as it may seem.”

via MatteoBaldan

Spicciolame

Pasteris dice che

CriticalCity ha vinto i Kublai Awards 2009
CriticalCity è una piattaforma di riqualificazione urbana ludica e partecipata. E’ un progetto innovativo per mettere al centro i cittadini e trasformarli in motore attivo della trasformazione sociale, culturale e fisica del territorio urbano. Molti cittadini non sono soddisfatti della condizione della propria città, molti la vivono a fatica, la subiscono ma non sanno da dove cominciare, non hanno a disposizione uno strumento semplice per poter agire direttamente sulla propria città e fare qualcosa – anche di piccolo – per cambiarla, per renderla più vivibile, migliore. CriticalCity risponde al bisogno di potersi impegnare per la propria città e pensa che il modo più efficace per riuscire in questo sia di trasformare questa attività in un gioco.

Mi sono iscritto come Solstizio, dalle mie parti non c’è nessuno, proverò a capire come funzia.

Poi c’è questo brano di McLuhan del 1963, pubblicato da repubblica.it e arrivatomi via ValterBinaghi. C’è tutta una critica iniziale, sulla natura depauperante delle tecnologie di connettività – il sistema nervoso extracorporeo, nato con il telegrafo. Poi distingue

“… La nuova tecnologia elettronica, però, non è un sistema chiuso. In quanto estensione del sistema nervoso centrale, essa ha a che fare proprio con la consapevolezza, con l’ interazione e con il dialogo.”

E qui McLuhan, diciamolo, è eccezionale per la lucidità con cui riesce a rendere pertinenti le peculiarità dei new media dei suoi tempi (frutto di precise innovazioni tecnologiche) rispetto alle considerazioni sul funzionamento delle collettività umane. Con una visione moderna, di sistema e di processo – anche se ci sento dentro una figuratività metaforica un po’ ottocentescamente organicista o hegeliana, mah – riesce a cogliere l’emergere della consapevolezza collettiva nei sistemi mediatici planetari, proprio come un sistema nervoso sufficientemente complicato ad un certo punto sviluppa forme di coscienza, come strumento per meglio gestire quella complicatezza che ormai si può chiamare complessità. Si giunge all’autocoscienza, anche per il fatto che le tecnologie fulcro del cambiamento sociale attuale sono proprio le tecnologie della comunicazione e dell’informazione.

“Nell’era elettronica, la stessa natura istantanea della coesistenza tra i nostri strumenti tecnologici ha dato luogo a una crisi del tutto inedita nella storia umana. Ormai le nostre facoltà e i nostri sensi estesi costituiscono un unico campo di esperienza e ciò richiede che essi divengano collettivamente coscienti, come il sistema nervoso centrale stesso.”

Sta parlando di internet, è chiaro. Considerando evolutivamente il sistema televisivo come sviluppo degli organi di senso del corpo sociale (e negli Stati Uniti dei primi sessanta c’era già un sistema rediotelevisivo paragonabile all’italia degli anni Ottanta, per varietà di voci e capillarità), ad un certo punto si arriverà alla nascita di un sistema nervoso centrale, un Luogo di elaborazione dei flussi informativi, e si tratta di un Luogo sociale. Sul problema della scrittura e dell’oralità potremmo confrontarci con letteratura più recente, ma porre l’accento sui gruppi in relazione ai media è mossa notevolissima.
“La scrittura, in quanto tecnologia visiva, ha dissolto la magia tribale ponendo l’accento sulla frammentazione e sulla specializzazione, e ha creato l’ individuo. D’ altra parte, i media elettronici sono forme di gruppo.”

“Siamo diventati come l’ uomo paleolitico più primitivo, di nuovo vagabondi globali; ma siamo ormai raccoglitori di informazioni piuttosto che di cibo. D’ ora in poi la fonte di cibo, di ricchezza e della vita stessa sarà l’ informazione.”

“Quando nuove tecnologie si impongono in società da tempo abituate a tecnologie più antiche, nascono ansie di ogni genere. Il nostro mondo elettronico necessita ormai di un campo unificato di consapevolezza globale; la coscienza privata, adatta all’uomo dell’era della stampa, può considerarsi come un cappio insopportabile rispetto alla coscienza collettiva richiesta dal flusso elettronico di informazioni. In questa impasse, l’unica risposta adeguata sembrerebbe essere la sospensione di tutti i riflessi condizionati.
Penso che, in tutti i media, gli artisti rispondano prima di ogni altro alle sfide imposte da nuove pressioni. Vorrei che ci mostrassero anche dei modi per vivere con la nuova tecnologia senza distruggere le forme e le conquiste precedenti. D’altronde, i nuovi media non sono giocattoli e non dovrebbero essere messi nelle mani di Mamma Oca o di Peter Pan. Possono essere affidati solo a nuovi artisti.”

Qui credo emerga un problema. Noi non conosciamo le potenzialità della nostra coscienza, nella sua abilità di coordinare flussi informativi, di farci restare attenti rispetto all’umwelt, come fossimo scimmie che in una foresta cercano sempre il profilo della tigre tra le foglie. Per il nostro essere animali, questa è facoltà necessaria per la sopravvivivenza (al punto che uno che legge il giornale in autobus è visto con un po’ di riprovazione, diceva Goffman, perché non può svolgere la funzione sociale di “sorvegliante” della situazione), e la coscienza come meccanismo serve anche a questo. En passant, sia chiaro che la coscienza per come ce la raccontano Hofstadter e Dennett può essere anche caratteristica di un formicaio, se non delle singole formiche, in relazione ai comportamenti adottati, quindi evitiamo di antropomorfizzare il discorso come al solito.
Ma il fatto è che se dentro un mondo virtuale in 3D, magari con visore e guanto, se mi dimezzano la forza di gravità ci metto un attimo ad adeguarmi. I bambini precocissimi non fanno fatica a interagire con flussi informativi, anche attraverso interfacce non pensate per loro (un telecomando del decoder o un software che si chiama Ufficio).
Se guardate i flash giornalistici di notte alla tv, vedrete uno schermo pieno zeppo di informazioni su molti flussi diversi (la voce dello speaker, le immagini alle sue spalle, i boxini con le quotazioni dell aborsa e il meteo in parte, nel sottopancia scorrono veloci altre news) eppure non facciamo fatica a seguire tutto. La nostra coscienza sembra essere sovradimensionata, capace di gestire anche quello per cui non è nata. Oppure semplicemente le sue facoltà non vanno pensate in termini di quantità, ma di algoritmi di funzionamento. Oppure meglio ancora, cerchiamo di capire che specie umana e tecnologie sono in simbiosi, da secoli. La pensabilità della tecnologia determina le direzioni verso cui la troviamo, spesso serendipicamente facendo lo sgambetto alla prevedibilità – d’altronde, la realtà notoriamente non ha nessun obbligo di essere verosimile, non siam mica a teatro qui – allo stesso modo in cui gli artefatti che ci circondano determinano le direzioni del nostro pensare. Perché stiamo dialogando con l’ambiente, e le tecnologie sono le parole dei nostri discorsi, dove traggo identità di me dal loro risuonare.
E guarda caso, nel mutuo reciproco evolversi degli Umana e dell’ambiente di vita, si scoprono facoltà cognitive che non si pensava esistessero (sì, sto ancora pensando al bambino di quattro anni che vi maneggia il MediaCenter in salotto con la stessa dimestichezza di un bibliotecario con un master in digital library) che si rivelano adeguate a fronteggiare le nuove forme di complessità degli ambienti mentali, fisici e digitali.
Nel parlare di coscienza privata e collettiva, McLuhan non poteva che pensare da dentro l’orizzonte della pensabilità del 1961, anche se in maniera eccezionale nella sua capacità di tratteggiare scenari futuri a partire da pochi segnali deboli. Qui forse ha tenuto ferma nel suo ragionamento una costante, la forma e le funzioni di quello che chiama coscienza, che invece è da considerarsi anch’essa una variabile, per il suo evolversi e mostrare nuove facoltà quando chiamata a fare il suo lavoro di “centro regìa” nel gestire flussi provenienti da ovunque, dentro e fuori su molti canali diversi.
Ma la coscienza e il mondo co-evolvono, non c’è bisogno di ipotizzare tragiche morti di coscienza individuale a favore di coscienze collettive. L’interazione dialogica tra sistema nervoso e oggetti è cosa sottile. Ad esempio, tutta la folksonomia è una risposta concettuale e operativa (forse addirittura non-pensabile nel 1961) che prova a fare luce su certi fenomeni socioculturali che si collocano su faglie di confine tra contesto individuale di significazione e i comportamenti degli oggetti culturali negli ecosistemi della conoscenza.

Gli artisti che scavano sotto i riflessi condizionati mi puzza ancora di romanticismo, mi sembra il solito Picasso che “dipinge quello che vede, non quello che sa”. Poi vengono gli straniamenti, poi le installazioni come indagine sul contesto di rappresentazione, i meticciamenti e le sinestesie. Questo ci porterebbe sui linguaggi della creatività, e via andare. Ma resteremmo ancora bloccati in una dialettica di contesti di pensabilità degli oggetti e dei comportamenti impostata su vecchie concezioni del mondo e della socialità e dello scambio informativo. Al momento, i migliori artigiani che conosco sono la sterminata massa anonima di sviluppatori software che di notte, nel buio dei profondi anni Ottanta o primi Novanta, hanno sviluppato il mondo digitale che ora abitiamo. Dell’arte parliamo più avanti.

E infine questa recensione di Tito Vagni ad un libro di Piero Vereni, “Identità catodiche. Rappresentazioni mediatiche di appartenenze collettive” che è un titolo di quelli giusti densissimi ma “catodiche” non mi piace, ma non credo che parli solo di tecnologia digitale, quindi figuriamoci se posso giudicare un libro dal titolo, toccherà fare un salto in libreria. La recensione è interessante, incollo anche qui alcuni concetti con la normale colla CtrlV.
… Esiste però un filo conduttore costituito dal ruolo determinante che i mezzi di comunicazione hanno assunto nella vita quotidiana e la necessità, per le scienze sociali, di guardare ai media come al luogo privilegiato dell’analisi sociale.

… ricostruzione dettagliata dei lavori di “antropologia dei media”, termine con cui individua un filone di studi derivante dalla contaminazione tra antropologia linguistica e cultural studies, che tenta di comprendere il rapporto tra sistema dei media e sistemi culturali

… “di fronte ai nuovi media siamo tutti primitivi, dato che tutti abbiamo bisogno di elaborare strategie d’uso e di significazione originali che abbiano e producano un senso dentro il sistema culturale che viviamo”

… mostra particolare attenzione al modo in cui l’introduzione di un mezzo di comunicazione ridisegni l’organizzazione dello spazio o, utilizzando le parole di Meyrowitz, riesca a proiettare l’abitare “oltre il senso del luogo”.

… la presenza della tecnologia nella vita quotidiana si è fatta talmente massiccia da rendere impertinenti alcune analisi sociali che eludono il ruolo dei media

Tutto interessante.

Piano e-Gov 2012

E’ stato presentato il piano generale dell’e-government in italia, e-Gov 2012, disponibile sui siti istituzionali del Ministero per la pubblica amministrazione e l’innovazione e della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Trovate la Presentazione, gli Obiettivi, il Management summary, la Sintesi e la Pianificazione di alcuni progetti, tutta roba in pdf che si legge velocemente.

Anche Quintarelli nel parla, e trae alcune puntuali osservazioni.

C’è una mancanza iniziale, come in ogni storia che si rispetti, rilevabile dalla bassa posizione dell’italia nelle classifiche europee di diffusione di TIC e cultura digitale; c’è un contratto da rispettare, le indicazioni di Lisbona; c’è una ammissione esplicita di incompetenza da parte della Pubblica Amministrazione, all’inizio della pagina 7 del Management Summary, nel suo ancora insufficiente apporto alla conversazione in rete, la qual cosa potrebbe in effetti essere una delle concause che inibiscono i cittadini italiani a frequentare maggiormente il web. E il Piano è il modo con cui il governo intende affrontare il percorso verso una maggior qualità della comunicazione tra Amministrazioni e Cittadini, e nel contempo cercare di risparmiare il 25% delle spese attuali grazie alle varie ottimizzazioni nei settori della Salute, Giustizia, Anagrafi, alle dematerializzazioni tipo la casella elettronica certificata per le operazioni con le PA. Il tutto per milletrecentottanta milioni di euro.
Nell’ultima pagina del Summary ci sono degli aspetti di monitoraggio e valutazione dell’applicazione del Piano, e ci sarà un portale e-gov2012 dove poter seguire gli avanzamenti. Tralascio la customer satisfaction e le faccine che smailano, però per fortuna vedo che sono previste espressamente attività di formazione (con Formez e Scuola Superiore PA) sia frontali sia online per tutti quelli dentro le PA, e gli argomenti parleranno di aspetti di processo, di project management, di comunicazione al cliente, di comunicazione interna, di gestione della trasformazione organizzativa.

Per la Scuola, si parla espressamente di diffusione di strumenti di innovazione nella didattica (lavagne digitali, pc, contenuti digitali, e‐book), nell’interazione scuola‐famiglia (pagella e registro elettronico, domande di iscrizione, accesso ai fascicoli personali degli studenti e prenotazione colloqui online) anche in modalità multicanale (tv, web, email, sms), nei servizi amministrativi e servizi allo studente (wifi nelle università), di 240 duecentoquaranta milioni di euro.


Avere tutte le scuole e magari le aule collegate veloce anche in wifi, produrre learningobject sia dal basso (gli insegnanti) sia dall’alto (case editrici) da rendere tutti disponibili su piattaforma nazionale per l’acquisto o la fruizione libera da parte delle scuole, puntare decisamente verso la comunicazione scuola-famiglia con la digitalizzazione di molti atti amministrativi e documentazione dell’allievo, creare una anagrafe nazionale per monitorare le politiche scolastiche, dotare gli studenti delle primarie di notebook personali, sponsorizzati da Intel, Telecom Italia e Microsoft.
Cose di cui si parla ormai da parecchi anni, e certamente sarebbe splendido accadessero (farei un paio di distinguo… gradirei più informazioni su filosofia dell’e-learning seguita, su risvolti commerciali della piattaforma, sugli sponsor commerciali), almeno per muovere un po’ le acque e aumentare lo stress di quei dirigenti scolastici e quegli insegnanti che non capiscono di cosa si stia parlando. In realtà, nel 2005 dicevamo sarebbero arrivate nel 2009, e invece l’italia è in ritardo. E le persone che devono agire questo cambiamento non lo comprendono: quelli bravi vedono il valore strumentale, solo qualcuno di essi magari riesce a riflettere sulle modificazioni stesse che stanno subendo gli ambienti di vita, e delle necessarie correlate innovazioni negli ambienti formativi, sia di tipo tecnologico sia metodologico. E la metodologia per essere insegnanti moderni, “registi” di situazioni di apprendimento attraversate da molti flussi informativi e conversazionali indifferentemente biodigitali, passa necessariamente attraverso una comprensione degli strumenti in quanto ambienti da abitare, foss’anche l’utilizzo di una mappa satellitare nella didattica.
Altrimenti le lavagne e i pc restano morti o mortificati, sappiamo come funziona.

Sarebbe di primaria importanza portare molte persone in Rete, a partecipare e a coinvolgersi nelle conversazioni, poi la serendipità fa il resto. Far nascere in loro, con la frequentazione, i valori di condivisione e apertura della Rete, di reputazione e civiltà dell’abitare anche digitale… poi nel pensare il sito web scolastico quella persona che magari fa di lavoro il dirigente scolastico riuscirebbe con maggior probabilità a comprendere i risvolti qualitativi della comunicazione pubblica dell’istituzione da lui diretta.
Essendo anche fruitore, saprebbe meglio giudicare e progettare la propria identità digitale come parlante istituzionale ratificato del territorio, gli spazi di conversazione.
Formare le persone, non gli insegnanti.
Ovvero fornire competenze digitali, piani di lettura della realtà moderna e luoghi di espressione di sé, che rendano le persone normali cittadini digitali.
Se ho un blog e frequento dei blog, so cosa fare di un blog scolastico.
Se mi vengono a insegnare come fare un blog e non so cosa sia, poi lo uso come bacheca e basta, ma mi sfugge il suo lato conversazionale.
Ma abitare non può essere insegnato, proprio perché è partecipazione e coinvolgimento relazionale. Soprattutto non può essere insegnato con addestramenti agli strumenti, formazione incapace di fornire orizzonti più ampi per inquadrare il cambiamento in atto, le modificazioni della quota di comunicazione che deve sostenere l’insegnante nel suo fare didattico e la scuola tutta nel suo essere soggetto attivo della comunità sociale.
Ruotare il proprio fare in direzione della pubblicazione e della conversazione imporrà grossi mutamenti alla struttura scuola. Una gestione seria anche solo della posta elettronica nelle PA, come descritta nel piano e-Gov quisopra, costringerà le vecchie procedure d’ufficio a torcersi fino a spezzarsi, a meno che qualcuno abbia il coraggio di riprendere in considerazione tutti i flussi documentali e ottimizzarli secondo nuove priorità, date dalla comprensione del nuovo habitat.
Siamo di nuovo lì: non posso spiegare l’abitare in Rete. Va vissuto, esperienzialmente. E al preside sessantenne che sproloquia di facebook senza esserci mai stato, o all’insegnante che non capisce wikipedia, servono dei “percorsi esperienziali” di cultura digitale, immersivi. Sarebbe assai utile per la civiltà dell’italia se tutti i dirigenti scolastici e gli insegnanti italiani passassero su web 15 ore alla settimana, toh, e lo facessero con passione nel seguir liberamente le loro passioni e interessi.
Altrimenti siamo sempre al dover dare la soluzione, della quale non so che farmene, se non ho la domanda.

“Vengo lì e ti formo”
“Uh. E perché?”
“Hai un problema”
“Non sapevo di avere un problema”
“QUESTO è il problema”

Non son cose che spieghi con un powerpoint, questo volevo dire.