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Comprendere l’umanità aumentata

La comprensione culturale di un mondo che cambia così in fretta richiede una ridefinizione dei parametri che utilizziamo per orientarci. Tuttavia è fortemente probabile che la scuola avrà il compito di occuparsi dell’educazione tradizionale, dai classici alla matematica. Quindi il senso dello spirito del tempo, la comprensione culturale, l’educazione ai media saranno un problema delle famiglie. E starà a noi riportare sull’uomo la centralità dell’azione, che le tecnologie abilitano e che oggi ha nuove potenzialità. Il governo stesso della nostra vita emozionale, dei nostri affetti, dei nostri interessi e la tutela dei nostri diritti, la difesa dei nostri valori: sono tutti aspetti che possiamo, oggi, gestire in maniera accresciuta.

Ma se sapremo guadagnarci, o se guadagneremo, solo ansie, dipenderà solo da noi, dalla decisione di cominciare a governare culturalmente il cambiamento o di subirlo lasciando ad altri (i nostri figli) il compito di affrontarlo e di gestirlo. Loro, non potranno farne a meno. (grassetto mio)

Queste riflessioni le trovate su Piovono rane, la rubrica di Alessandro Gilioli su L’Espresso. Sono le righe conclusive dell’anticipazione del nuovo libro di Giuseppe Granieri, “Umanità accresciuta” (Laterza, in libreria il 17 aprile), dove uno dei migliori studiosi italiani di tutte queste cose di social web e abitare in rete prova a fare il punto della situazione attuale e a delineare qualche scenario futuro, con sensibilità tutta umanistica.

Chi mi segue sa quanto e da quanto tempo (ne parlo qui, qui, qui e toh anche qui, qui e qui), io provi a promuovere cultura digitale in àmbito scolastico e a sviscerare le problematiche relative alla corretta “postura” del fare scuola oggi, rispetto alla necessità civica di fornire ai giovanissimi degli orizzonti culturali e delle competenze digitali che li rendano in grado di fruire appieno dei loro diritti di cittadinanza, di accesso all’informazione e agli strumenti sociali di espressione di sé.
Per questo la posizione pragmaticissima di Granieri, riguardo il fatto che con estrema probabilità tutti questi apprendimenti non avverranno tramite educazione formale, mi fa male, perché ha ragione.
La Scuola sta perdendo tempo, simili tematiche verranno con dignità (dentro la testa dei docenti, dentro i curricoli, nella stessa organizzazione didattica) affrontate solo tra molti anni, quando i ragazzi di adesso saranno già parte attiva della popolazione, adulti che affronteranno la complessità del mondo futuro con una preparazione abborracciata tipica del loro essere abitanti digitali nativi (evito l’etichetta “barbari” – oppure leggete seriamente cosa dice Baricco – perché questi parlano molto, altro che balbettare, hanno una cultura vivacissima, e perché è parola eccessivamente razzista nel connotare il loro nuovo e vincente stile abitativo biodigitale rispetto alla nostra morente civiltà del pensiero scritto e stampato), alla cui formazione nessun insegnante grazie al filtro della propria sensibilità ed esperienza ha potuto contribuire, educandoli alle forme di significatività del mondo e alla costruzione consapevole della propria identità sociale.
Perché gli insegnanti, tranne ovviamente i soliti illuminati che ora soffrono come cani per le difficoltà che incontrano nel provare a introdurre degli ammodernamenti didattici o organizzativi resi possibili dalle TIC, di queste cose non capiscono nulla, non avendone appunto esperienza. Nulla.
E i nuovi insegnanti che vedo arrivare nelle scuole o che provano timidamente ad affacciarsi qui in Rete con dei propri Luoghi personali o professionali, sono lì a perder tempo con le stesse domande che ci facevamo dieci anni fa, con gli stessi software tipo Ufficio, senza avere nemmeno l’umiltà di leggersi qualche libro aggiornato oppure di scandagliare le profondità della rete, su quei forum e bacheche dove da anni fioriscono le riflessioni sui risvolti educativi delle ex-nuove tecnologie… poi qualcuno mette una parola di finto buon senso, “l’apprendimento è così e cosà”, “alla fin fine niente sostituirà mai un buon libro”, “l’approccio pedagogico di TaldeiTali”.
Tutti pensieri fatti da gente, autori prestigiosi o educatori, che magari vent’anni fa avevano tutta la loro ragion d’essere, ma oggi non funzionano, e cadono inesorabilmente fuori luogo.
Perché questa gente non ha un blog, non commenta sui blog o sui forum, non ha un account su YouTube, non usa un aggregatore, non frequenta Luoghi websociali, usa la Rete solo per rubare come predoni nomadi, ma non abitano, non hanno cura dei territori digitali dove i ragazzi vivranno, non donano niente, non costruiscono niente. E poi tutti baldanzosi di essere alfieri del web20, ovvero della ormai banale normalità del vivere in Rete, giungono con fare messianico a dire agli altri cosa devono fare, di quello che loro stessi non fanno e non sanno fare.

“Eh, signora mia, qui non si più come vestirsi, non ci sono più le mezze stagioni”.
Ma soprattutto, “qui una volta era tutta campagna”: nel frattempo il web è diventato il principale Luogo di socialità del pianeta, struttura e flusso costitutivo del nostro essere cittadini consapevoli e critici della modernità, qui è dove ci informiamo e dove discutiamo e dove agiamo professionalmente e ludicamente, e non esisterà un futuro senza Rete, potete esserne certi.

Web is a-changing

Da un commento a una battuta gambelunghe di Fabio Giglietto su FriendFeed, mi appunto qui un’osservazione.
FriendFeed, come già Facebook settimane fa, è in fase di restyling dell’interfaccia. E’ già successo, ci saranno i soliti putiferii su “meglioprima/meglioadesso”, poi ci si abitua. In realtà sappiamo che modificare (oppure nascondere vs. promuovere) la disposizione dei bottonètti sulle pagine riconfigura nella nostra testa anche la percezione delle possibilità operative, i comportamenti che pratichiamo – e tralascio l’impatto del look&feel sul nostro sentire emozionale rispetto l’interfaccia, importantissimo.
Ma la nuova interfaccia di FF ha un bottone “pausa” (è sempre in real-time sui post), perché siam passati da un web dove le cose statiche andavano aggiornate (consumare il tasto F5, insomma) ad un web dove le cose vanno fermate.
Certo AJAX in quanto tecnologia soggiacente il web20 ci ha abituato alle pagine dinamiche, con gli oggetti movibili e i refresh rapidi. Semplicemente ora il web è veramente fatto di flussi, e FriendFeed rimane il miglior esempio di lifestreamer sociale che conosco. Vediamo se la nuova interfaccia ancora in beta metterà l’accento sui contenuti pubblicati o sulle dinamiche relazionali, ad esempio.

Coprifuoco a Udine

Ne ho già parlato altre volte qui su questo blog, perché si tratta di una situazione oggettiva, misurabile, non dei deliri di uno come me a cui talvolta piace andare in giro di notte a vedere cosa fa la gioventù per sentirsi viva e dirlo al mondo. Capirai, vado al cinema, a vedere delle robe di arte, a sentire musica nei locali, cerco gente e idee. Socialità. Udine è un deserto di per sé, dove una pozzanghera minuscola diventa un mare di novità dove si ritrovano a sguazzare quelle poche centinaia di ragazzi e ragazze, forse mille, che animano la vita notturna di una città di centomila abitanti, dove i pubblici esercizi possono contare su un certo numero di clienti, anche grazie all’Università.

Un anno fa chiudeva il NoFun aka LaCantina, un circoloarci dove Gaetano era riuscito a portare con costanza un po’ di gruppetti simpatici a suonare, persino americani o inglesi, una programmazione di qualità. Questo faro di cultura giovanile udinese (se non altro per il fatto di essere l’unico posto stabile per fare concerti con 80 persone dentro, ripeto ottanta; a Udine non ci sono posti per fare un concerto con chessò 300 persone) dopo quindici anni di presenza non ha ottenuto il rinnovo del contratto di locazione, e può capitare.
Un altro circoloarci, il Pabitele aka Zoo, è riuscito a fare pochi anni di concerti e djset, ma sempre in modo un po’ precario, e ora credo facciano solo delle serate di milonga e tango, perché il vicino da sempre protesta a tal punto da far passare la voglia ai gestori di combattere con denunce e sanzioni.
Ora gli eventi stanno precipitando: hanno chiuso il Barcollo, in pieno centro, dove i ragazzi soprattutto universitari si incontravano per i rituali dello spritz, e hanno fortemente limitato gli orari di apertura dei Provinciali, che è (era) un osteria con la cucina aperta fino alle 23.
Nel primo caso il gestore ventitreenne seguiva scrupolosamente gli orari di spegnimento musica, stop somministrazione bevande, chiusura serranda: poi la gente rimane a parlare in strada, com’è ovvio, e le forze dell’ordine hanno chiuso il locale, una mattina, su denuncia di qualcuno che abita nelle vicinanze. Chiuso, e basta, con i dipendenti a casa e migliaia di euro di perdita a fronte di un affitto che immagino stellare.
Il gestore dei Provinciali ha dovuto mandare a casa quattro o cinque dipendenti, non potendo più contare sulle entrate serali legate all’attività di ristorantino: gli è stato imposto di smettere tutto alle 21.00.
Se a Udine andate al cinema di sera, uscendo dal primo spettacolo (!) troverete con difficoltà un locale dove bere qualcosa, e camminando in centro a mezzanotte e mezza sentirete solo il silenzio.


Perché l’ultima novità è quest’ordinanza sindacale con cui si stabilisce che la musica nei locali (live o riprodotta) deve finire appunto a mezzanotte e mezza, 00.30 anziché all’1.00, e i locali hanno mezz’ora o un’ora massimo per far sgombrare la gente. A casa, a dormire, e non rompere i coglioni soprattutto.
L’altro sabato sera in piazza hanno fatto smettere di suonare a mezzanotte una tipa che era da sola sul palco con la sua chitarra, mica una band di metallo pesante.

Il Visionario, che fondamentalmente è un bar lungo con una stretta terrazza e con un palchetto buono appena per ospitare un paio di dj, quando offre una serata musicale vede arrivare centinaia di ragazzi e ragazze, perché non ci sono altri posti dove andare, semplicemente. Ieri sera scommettevo col gestore non sul fatto che la polizia arrivasse o meno a controllare il rispetto dell’ordinanza sindacale, quello era ovvio: noi puntavamo sul loro orario di arrivo. Io dicevo prima della chiusura, lui diceva appena dopo. Ho vinto io, e titubante mi son scolato lo shottino di uischi in palio temendo che insieme all’unico drink bevuto mezzora prima mi facesse salire il livello alcolico oltre il fatidico 0.5, e qui ci fermano anche sulla Vespa per farci il palloncino.

Di questa cosa ne parlano Gaia Baracetti e Alessandro Venanzi, quest’ultimo anche ventisettenne consigliere comunale, che provano bontà loro anche a suggerire delle soluzioni ispirate al buon senso e al dialogo, nella consapevolezza che l’offerta di luoghi cittadini di socialità (rispettosa delle leggi, certo) sia un sinonimo di qualità del vivere, di vivacità culturale.

A Udine c’è una giunta di sinistra, il sindaco è quell’Honsell ex-rettore dell’Università, che scrive su Wired e andava da Fazio a spiegare matematicamente perché se piove è meglio camminare che correre. Non posso credere che la Giunta comunale abbia motu proprio operato questo giro di vite, questo inasprirsi del controllo sociale su Udine, che quasi sembra un piano repressivo. Udine è morta, sia chiaro, culturalmente parlando.
Potrebbero essere indicazioni dei Destri (Regione e Provincia) sul questore, che però difficilmente si muove senza coordinarsi con il sindaco di una città. Oppure siamo dentro un do ut des, dove in cambio di una certa tranquillità politica la Destra ha ottenuto appunto la certezza di vedere applicate certe iniziative di controllo sociale. Non c’erano più locali da strigliare, siam passati a chiudere i bar.

Ecco a cosa potrebbe servire Facebook: a far arrivare per caso 800 ragazzi e ragazze in piazza, con i bidoni per suonare e cantare la bellezza di una vita, quale potrebbe essere e non è.

La Scuola di domani: aperta, connessa, sociale.

La Scuola di domani: aperta, connessa, sociale.
Giorgio Jannis

Cambiamento è la parola chiave di questi nostri anni. Una parola che può servirci per etichettare efficacemente il rapidissimo modificarsi delle strutture sociali degli ultimi decenni, e al contempo spinge il nostro agire attuale verso nuove forme di organizzazione del vivere, verso un necessario ripensamento e conseguente riprogettazione del fare umano rispetto ai territori d’insediamento e agli spazi di socialità oggi indifferentemente biodigitali.

I territori abitativi interpretati secondo visioni sistemiche emergono nella percezione come stratificazioni di epoche lontane, nelle tecnologie del mondo agrario e di quello industriale – le strade e le ciminiere, i tralicci e le bonifiche – ovvero come reti comunque tecnologiche di produzione e distribuzione dal forte sapore connotativo del Paesaggio, a cui oggi va aggiunta la tecnologia miniaturizzata e invisibile delle reti di connessione dei telefoni cellulari e di Internet, dove il web sta maturando in sé la capacità di offrire all’umanità un ambiente in cui intrattenere comodamente proficue relazioni sociali e notevolissimo scambio informativo ed espressivo con altre persone, fino al punto di farci ormai ritenere connaturata al nostro esercitare Cittadinanza Attiva la possibilità di poterci esprimere liberamente in Rete e da quest’ultima trarre informazioni dalle plurime fonti disponibili. Anzi, la presenza nelle legislazioni di un esplicito “diritto di banda” per ogni cittadino permetterebbe un ottimo confronto del grado di civiltà raggiunto dai singoli Stati, in quanto rappresentazione della libertà espressiva e dell’apertura alla Società della Conoscenza, come valore fondamentale per i tempi a venire.

Conseguentemente, si profila la necessità di provvedere una certa Educazione alla Cittadinanza attiva, proprio perché le tecnologie della comunicazione – il cinema, poi la radio, la tv, il web: sono i nuovi luoghi del Novecento in cui l’umanità racconta sé stessa – ovvero le principali responsabili della presa di coscienza collettiva della Transizione che stiamo vivendo, rendono sempre più diffusa la possibilità (il diritto!) per tutti noi di partecipare al dibattito collettivo, nei termini di consultazioni pubbliche o di veri propri atti di democrazia partecipativa, da concepire soprattutto con attenzione agli aspetti di governo locale del territorio. Come dire, qui bisogna dotare le persone di competenze digitali, per una questione di civiltà: l’accento va posto sulle dimensioni sociali delle nuove tecnologie, e non sugli aspetti tecnici dello strumento computer quale finestra per accedere alle forme di Abitanza digitale nel web.

La Scuola, quale luogo istituzionale deputato alla formazione del Cittadino, credo sia riuscita negli ultimi tempi a portare in luce, ragionando sul proprio fare, una distinzione importante riguardo l’utilizzo didattico delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione, dove finalmente a fianco di una funzione puramente strumentale di queste ultime (l’utilizzo di programmi di videoscrittura e di fogli di calcolo, oppure i software specifici per aspetti tecnici) emerge una considerazione sul loro essere piuttosto degli “ambienti di vita”, con cui tutti noi interagiamo quotidianamente, che si tratti di web o di cellulari o altri schermi. Disporre di spazi di espressione multimediali e pubblici, come i forum, i blog, i wiki, gli archivi audiovideo e le mappe satellitari, e utilizzarli tranquillamente nel flusso delle attività didattiche in classe (comprendendone le peculiarità social web, ovvero partecipative e collaborative) rende chiaramente percepibile il flusso di informazioni, ora aumentato e bidirezionale, che scorre tra la società e quella Scuola che ritiene importante essere un attore sociale trasparente e attento, aperto alla comunicazione con il territorio.

Purché gli insegnanti vedano nel computer una finestra verso un mondo ricco di socialità e di espressione di sé, e non come una macchina per scrivere; purché i PC in classe diventino “trasparenti” come lo sono i libri e le lavagne, supporti tecnologici dell’apprendimento ormai inglobati nel flusso delle progettazioni didattiche; purché le aule scolastiche siano percepite come “stanze senza pareti”, dove risulti facile consultare risorse del territorio e portare il mondo dentro la scuola, in uno scambio osmotico garanzia di aggiornamento costante e sintonia tra sistema formativo e società tutta.

Ecco, una scuola senza muri, liberamente attraversata da flussi fisici ed elettronici di persone e idee eppur riconoscibile nella sua identità istituzionale di Luogo formativo, dove strumenti di connettività personale rendano possibile far lezione ovunque e dove qualsiasi risorsa dello scibile umano sia disponibile all’istante, senza interrompere il flusso della narrazione gruppale con cui docenti e allievi, in presenza o a distanza, esplorano gli argomenti di studio e ri-giocano la realtà ricontestualizzando le conoscenze apprese dentro contenitori online condivisi e collaborativi, potrebbe essere una buona palestra alla Cittadinanza intesa in senso moderno, in un mondo fatto di ambienti di vita (di crescita) fisici e digitali in rapida trasformazione.

Diventa anche tu delatore

Sì, lo so, la delazione e la civiltà e il farsi i cazzi propri eccetera eccetera. Ma mi sono stancato.
Su questo argomento in particolare poi, da vecchio rissaiolo, mi prudono subito le mani.
E vi risparmio la faccia di maritino e mogliettina, l’arroganza delle loro occhiate sulla plebaglia, altrimenti Lombroso mi applaude dalla tomba.

Bene. Un’ora fa ero a far la spesa in un super qualsiasi. Subito fuori dall’entrata ci sono ovviamente gli stalli per far parcheggiare le persone ad esempio con handicap motorio, e mi pare civiltà.
Quindi considero assolutamente incivile (nonché meritevole almeno di pubblico ludìbrio) chi potendo camminare per 15 – quindici! – metri parcheggia sugli stalli riservati a chi espone il bollino col disegnetto della carrozzella. E’ sinceramente una delle cose che mi altera maggiormente, passo subito in modalità “rissa”.

Sono anche rimasto ad aspettare i proprietari dell’auto, e dalla mia postura e da come li guardavo hanno capito subito che in realtà aspettavo una scintilla qualsiasi… il maritino voleva forse chiedermi qualcosa a muso duro, la mogliettina gli ha fatto cenno di tirar via dritto.

In questo stesso supermarket ho già battibeccato per lo stesso motivo un paio di volte, con dei croati tamarrissimi che però han capito e con una sioretta che invece si ostinava a far finta di non capire. Ormai andare a far la spesa lì è uno dei motivi che mi tiene vivo.
In entrambi i casi erano macchinoni, BMW grosse oppure il SUVetto della siora.
Oggi si trattava di Mercedes 320 da 60.000 euro assolutamente senza bollino esposto, che vi siano correlazioni statisticamente significative tra atteggiamenti arroganti e macchina posseduta?

Non sono ancora arrivato al punto di chiamare un vigile, ma pubblicare qui sì.
Segnatevi la targa del merda: DK793GC.

Maragliano, Infante: digital inclusion

Alcune suggestioni per una risposta maggiormente articolata agli interrogativi di cui al post precedente, per la comprensione delle relazioni tra internet e scuola, può giungere da questo video, dove Carlo Infante (qui trovate un suo profilo) intervista Roberto Maragliano per la trasmissione Salva con Nome di RaiNews24.

En passant, faccio notare come la difficoltosa definizione iniziale del moderno “stare in Rete” avrebbe potuto succintamente ed efficacemente essere resa con la locuzione “abitare in Rete”, ormai ampiamente accettata da chi si occupa di cultura digitale (e relativi risvolti antropologici) in Italia. Ma certo è facile dire questo, qui sul blog dei NuoviAbitanti ;)

Abitare il video aka “Mai distrarsi”

Le cose sono andate così.
Sergio Maistrello, conoscendo la mia accidia – era bello quando ero giovane, ed ero solamente pigro – circa un mesetto fa mi ha chiesto se potevo prestargli un intervento video di una decina di minuti, dedicato agli argomenti dell’abitanza digitale, da mostrare ai partecipanti di un master in digital marketing a Milano.

Ovviamente, me ne sono dimenticato per tre settimane. Quando GoogleCalendar mi ha avvisato con un sms, ho fatto spallucce: avevo davanti ancora dei giorni interi per fare brutta figura.

Poi mi sono ammalato, un raffreddore da trasformare il naso in rubinetto e la testa in una confezione di ovatta. Ma il video era da fare, perbacco. Ci ho provato un paio di volte, ma dimenticavo sempre il microfono chiuso oppure mi saltava la webcam, e oltre a me anche il pc ha preso un virus.
Soluzione drastica: ho continuato a sproloquiare liberamente, registrando, così poi da un’ora di girato ho ricavato quindici minuti di montato. Tutte le volte che starnutivo o tiravo su col naso o prendevo l’aspirina o mangiavo un paninetto con lo speck, le ho tagliate via, ho ritenute superfluo documentare tutto tutto. Nel delirio raffreddoso, mi ha sfiorato anche per un attimo l’idea di farne un videoclip musicale, un rap su una base funkettara di tosse e starnuti.

Quello che è rimasto, è qua sotto ovvero su Vimeo. Enjoy.


Cultura TecnoTerritoriale, Abitanza BioDigitale from Giorgio Jannis on Vimeo.

L’importanza di …

Fare le cose per bene, con quell’accento sullo stato del mondo ottimale in seguito all’azione svolta.
Meglio far le cose per bene, che farle al meglio, forse.

Ecco, quel “bene” non è un valore assoluto, dipende anch’esso dal contesto.
L’azione “fatta bene” è quella più adeguata al contesto. Prendete il galateo di Della Casa o di Lina Sotis, e noterete che spesso le regole dei cerimoniali non tendono a ottenere il miglior risultato possibile, ma il risultato migliore nella situazione sociale in cui l’azione si svolge… dove spesso infatti i rituali strutturati sono progettati per far sì che ciascuno abbia un ruolo sociale definito nella situazione e sappia cosa fare/dire, non per l’efficacia dell’azione. L’obiettivo situazionale è più rendere le situazioni fluide, rispetto all’efficacia perfetta. Tant’è che spesso il galateo complica le situazioni, ma tutti sono a loro agio se seguono l’etichetta. Prendere le forchette via via dall’esterno verso il piatto non può creare imbarazzo, è una cosa funzionale nella situazione. Se la regola non è funzionale fa saltare l’agio dei partecipanti, e quindi la regina margherita mangia il pollo con le dita, e tutti si sentono a proprio agio nella situazione sociale.
Alla base, certo la funzionalità, ma credo più importante sia l’adeguatezza sociale nella situazione. Perché la situazione può sostenere (spesso il cerimoniale prevede anche i rituali di riparazione) una funzionalità farraginosa, ma nessuna situazione sociale umana può sostenere l’imbarazzo di una persona, perché l’imbarazzo è di tutti gli altri che non sanno più come interagire con una persona che d’un tratto si trova “senza faccia” (Goffman, da qualche parte).

Ma fare un lavoro per bene nel mondo degli atomi, come riparare una sella di uno scooter (ecco che questo mio cuore a forma di Vespa comincia ad accelerare) significa fare un lavoro che appunto prenda come misura della propria qualità il proprio essere adeguato al contesto fisico del mondo. Quindi l’artigiano (dentro di lui si muovono generazioni di artigiani che da millenni dialogano con tessuti e aghi e fili, con la grammatica tecnologica donata da Atena) cercherà di realizzare un lavoro che resista all’usura di un jeans che per ore si strofina sulla sella. La sua competenza sta nel trovare i materiali e nel possedere informazioni sul comportamento fisico/chimico/meccanico, nel tempo, dei materiali, per adeguarli al contesto della relazione sella-sedere.

Ma fare un lavoro sul web non riguarda la materia. I pixel non si consumano a guardarli, i bit non arrivano stanchi per l’attrito.
Fare un lavoro per bene su web significa adeguarsi al contesto immateriale e perennemente in progress, il web è sempre beta-release. Quando dieci anni ho cominciato a rompere l’anima alle maestre con gli ipertesti e i power(colpoditosse)point, era importante far loro comprendere come l’opera potesse essere ripresa l’anno successivo, ed ampliata: questo contrasta con la mentalità editoriale dell’edizione definitiva. Non c’è più niente di definitivo. E non ci saranno più appendici e integrazioni alle opere, l’opera è in continuo farsi. E quindi fare bene un lavoro non vuol dire finirlo, e neanche farlo bene. Su web, per cominciare, significa farlo. Poi il vivere stesso autonomo di quell’opera (quel sito, quel documento pubblicato, quel post sul blog) conterrà gli strumenti del proprio miglioramento, auspicabilmente grazie agli apporti di tutti quelli che ci interagiscono.

Tutto questo per rispondere a Gino Tocchetti, che in un suo post dedicato alla cultura del lavoro artigianale riprende un suggerimento di Andrea Beggi che parlava proprio del suo incontro un vecchio meccanico di scooter, esempio vivente di un’etica del lavoro encomiabile, nello svolgere il suo compito “a regola d’arte”.

Ma credo che siano cambiate le regole dell’arte (ars, techne, Atena e Vulcano), qui, dentro il web. E appunto fare un lavoro “per bene” non significa finirlo -> chiuderlo al meglio, ma forse aprirlo al meglio. Non volere le cose perfette, mettersela via, pubblicare in bozza, scrivere di getto e fidarsi degli altri. Per i nevrotici sarà un delirio, la signorina Perfettini potrebbe dar di matto.
Eppure funziona così, qui. Se fai una cosa perfetta, è vecchia, o non maneggiabile. Non permette serendipità nel suo uso, che fa scoprire ciò per cui non era stata progettata, come fare i cartoni animati con powerpoint reinventando la sua destinazione d’uso, con approccio mentale bricolage.

Giustamente Gino sottolinea (lui è veneto, io friulano, viviamo dentro una cultura del fare artigianale ben precisa, storica, concreta) la qualità del pensiero professionale di quell’artigiano. Ma non credo che il miglior artigiano del web debba necessariamente condividere quella mentalità. Potrebbe darsi il caso che per lavorare a regola d’arte qui dentro quell’artigiano debba avere in sé (nel pensiero di sé che pensa la professionalità del proprio essere dignitosamente artigiano ai propri stessi occhi) una gerarchia di valori completamente differente, su cui appoggiarsi per impostare e giudicare sia l’opera sia il processo di produzione dell’opera.

Su David Orban (ora il sito non si carica, mah) trovate una traduzione italiana del Cult of Done Manifesto di Bre Pettis, da tradurre appunto come Manifesto del Culto del Fare rispetto a Culto del Fatto, proprio per mantenere aperta la visione dinamica (sennò bisognere spiegare che il Fare è un Fatto, e via rotoloni giù per la scala a chiocciola del Senso). Ecco qui.

Il Culto del Fare
  1. Ci sono tre stati dell’esistere. Ignoranza, azione e completamento.
  2. Accetta che tutto è una bozza. Questo aiuterà a fare.
  3. Non c’è un secondo passaggio, di editing o montaggio.
  4. Far finta di sapere cosa stai facendo è quasi lo stesso che saperlo fare davvero, quindi accetta che sai quello che stai facendo, anche se non è vero e fallo.
  5. Non procrastinare. Se aspetti più di una settimana per agire su un’idea, abbandonala.
  6. Lo scopo del fare (being done) non è finire, ma poter fare altro.
  7. Quando l’hai fatto puoi buttarlo via.
  8. Ridi in faccia alla perfezione. È noiosa e ti trattiene dal fare.
  9. Le persone che non si sporcano le mani sono nel torto. Se fai qualcosa hai ragione.
  10. Il fallimento conta come fare. Quindi devi fare sbagli.
  11. La distruzione è una variante del fare.
  12. Se hai un’idea e la pubblichi online in Internet, conta come lo spirito (ghost) del fare.
  13. Il fare è il motore del più.

Bello, eh? Di che capottare le fondamenta su cui abbiamo costruito nei secoli la dignità e l’etica del lavoro. Se restiamo fermi a manufatti atomici. Ma nel web, è l’unica soluzione valida. Tant’è che oggi Encarta (pensiero artigianale/industriale) ha chiuso, e Wikipedia evviva.

Insegnanti, vi voglio vedere

L’Inghilterra ha appena varato una riforma scolastica decisamente innovativa.
Le materie di studio curricolari alla scuola primaria passano da tredici a sei (inglese, comunicazione e linguaggi, matematica, scienze e tecnologie, scienze umane sociali ed ambientali, scienze della salute e del benessere, arti e design), molti argomenti ad esempio di storia scienze o geografia non verranno più affrontati in quanto destinati comunque ad essere ripresi nelle scuole secondarie medie e superiori, ma soprattutto verrà dato un peso notevolissimo all’alfabetizzazione informatica e alle competenze digitali. Nel corso degli anni di scuola elementare, i bambini dovranno avere imparato a usare strumenti come le email, i podcast, Wikipedia e Twitter, e la scrittura al computer sarà parificata a quella manuale nella pratica quotidiana.

Perché muoversi foss’anche a tentoni in un mondo che cambia è sempre meglio di restare immobili, e venir travolti.

Ci sono insegnanti che leggono, qui? O persone comunque interessate alla tematica? Il dialogo è aperto, la ragion d’essere di un blog è la presenza di quel bottone “commenti”, qua sotto.

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Massimo Mantellini per PuntoInformatico

Giovanni Arata nei giorni scorsi ha dedicato un articolo su questo giornale alle recenti ipotesi di innovazione nel mondo dell’istruzione inglese. Se ne è parlato molto nei giorni scorsi anche sugli altri media italiani, spesso con toni a metà fra lo stupito ed il canzonatorio. Colpa forse di Twitter, piattaforma sociale di recente fama che in Gran Bretagna, forse con qualche avventatezza, vorrebbero elevare a materia di insegnamento nelle scuole.

L’argomento è interessante per un numero ampio di ragioni. Intanto perchè non esiste al riguardo alcuna certezza. Vi interessano studi scientifici che riguardino l’influenza delle nuove tecnologie sulla didattica o sullo sviluppo psichico degli adolescenti? Nessun problema, ne troverete moltissimi, capaci di sostenere con ragione, numeri e dotte conclusioni qualsiasi sfumatura fra le molte posizioni possibili, da quella dell’irremovibile luddista a quella del tecnofanatico.

Molti studi neurofisiologici dicono cose piccole e intuitive, per esempio che il nostro cervello sta cambiando, in relazione agli stimoli che riceve. Esattamente come è sempre stato. Non ci sono giudizi di merito in molte di queste osservazioni: ci stiamo abituando a processare più informazioni di quanto non ci accadesse in passato, più velocemente, attraverso strumenti emotivamente avvolgenti che fino ad un decennio fa nemmeno immaginavamo. Paghiamo per questo un prezzo in termini di elaborazione culturale, sedimentazione dei contenuti, meditazione, calma? Probabilmente sì, lo dicono gli scienziati e ce ne accorgiamo in parte anche noi stessi, ogni giorno.

Se il governo inglese decide di includere con maggior vigore le nuove tecnologie e gli strumenti che le abitano nella didattica fa una cosa certamente ragionevole, ancorché inevitabile, per lo meno in un paese che tenga nel giusto conto la crescita culturale delle proprie giovani generazioni. Ci sono ottime possibilità che lo faccia male, che vada per tentativi, che scelga percorsi che domani si riveleranno sbagliati, ma non c’è dubbio che sarà sempre meglio di non fare nulla. Non dobbiamo illuderci che l’immobilismo sia la rassicurante calda coperta di lana che non è. E’ invece vero il contrario.

E pensare che in molti casi non si tratta di esprimere giudizi di merito ma semplicemente di osservare il già successo. Pensate per esempio alla scrittura: quanti adulti oggi nel mondo del lavoro scrivono ormai con la penna?In qualsiasi ambiente professionale, impiegatizio, amministrativo in senso lato, nella stragrande maggioranza di quelle professioni in cui si usava carta e penna oggi, semplicemente, non la si usa più. E’ una constatazione, non un giudizio di valore sulla penna in sé. Io – per dire – ho una età tale che quando frequentavo le scuole elementari ci si allenava con il pennino e l’inchiostro: il pennino, l’inchiostro e la carta assorbente, non so se vi rendete conto. La Bic a quei tempi era ancora (per poco) tecnologia prossima ventura.

E’ certamente traumatico pensare alla calligrafia come ad un residuo del passato e non sarebbe nemmeno giusto farlo : ci sono mille ragioni sacrosante per conservarne per quanto possibile le abitudini. E non sarei contento se mia figlia che frequenterà la prima elementare quest’anno, non tornasse a casa con i suoi quaderni pieni di lettere ordinate e tutte uguali a riempire le pagine. Per il resto non ci sono santi: quello che doveva succedere è già successo ed i nostri figli, domani (in quel frammento brevissimo di tempo che è il domani), scriveranno con la tastiera di un computer (o con un sistema di riconoscimento vocale o con quello che vi pare a voi). In ogni caso, già adesso, non c’è alcuna possibilità di riportarli indietro al calamaio e nemmeno alla penna a sfera.

Io già li immagino i sorrisini imbarazzati o anche la palese costernazione di molti insegnanti ai quali si racconta che oltremanica usano Twitter a scuola, o Wikipedia o qualsiasi altra diavoleria mediata da Internet. Lo so bene, perchè quella imbarazzante costernazione è un po’ anche la mia, di tutti quelli che vedono il mondo cambiare sotto le dita, così come so bene che esiste una dinamica di rifiuto nota nei confronti dei repentini cambi di scenario.

Non abbiamo ancora capito se, come diceva Bill Clinton qualche anno fa, i computer debbano incontrare le nuove generazioni già ai tempi dell’asilo, non sappiamo se Twitter sia una buona idea per uno studente liceale, ma sappiamo che gli strumenti tecnologici hanno invaso le nostre vite comunque.
Noi abbiamo due compiti principali mi pare: il primo è quello di trovare una utile ragionevole mediazione che incastri utilmente l’utilizzo della tecnologia dentro le nostre vite, il secondo, specie negli ambienti sensibili ed importanti nei quali si forma la cultura di una paese come la scuola, è quello di immaginare le nuove tecnologie come la grande opportunità che sono e muoversi di conseguenza. Muoversi.

Carlucci, Damele, Davide

Ma guardate questo articolo del Messaggero Veneto: cos’è, pensiero magico? Un esempio di post hoc ergo propter hoc? Siccome l’autista si è insospettito che il tipo non volesse scendere dall’autobus, allora gli agenti hanno accertato che era da rimpatriare?
Quale profonda visione metaforica della leggibilità del mondo può portare a raccontare così questo evento di cronaca, dove l’autobus corrisponde all’italia e il non-voler-scendere corrisponde al non-voler-essere-rimpatriati?
Ah, quando la grammatica sfugge e le parole parlano da sole – a parte il giornalista arruffone in buona o cattiva fede, intendo, che ci regala fughe interpretative decisamente poetiche.
Nel frattempo, Bora.la ha pubblicato una mia riflessione sulle famigerate “leggi di internet”, su Daniele Damele che fa copiaincolla e sull’utilizzo di inutili e anzi controproducenti filtri alla navigazione per la tutela dei minori.

Se volete, andate a leggere (e commentare) di là, l’articolo lo incollo qui tra qualche giorno.

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Daniele Damele ha il pallino del filtro

Appena la risacca delle news giornalistiche riporta ciclicamente verso riva qualche episodio recente sui rischi di internet, ecco che prontamente Daniele Damele erompe in sentitissime lamentazioni sul degrado morale e sociale del giorno d’oggi, e quale soluzione taumaturgica propone sempre quest’accrocchio tecnico del filtro a monte che protegge i minori durante la navigazione su web.

Un normalissimo filtro basato su blacklist, peraltro, dove un software confronta gli indirizzi di destinazione delle nostre ricerche su web con un elenco di siti segnalati come non appropriati ai minori, e nel caso inibisce la navigazione.

Quelli tra voi più addentro alle cose tecniche, staranno sorridendo, lo so.

Perché l’efficacia di un filtro basato su blacklist dipende appunto dalla completezza degli elenchi di confronto, i quali vengono a quanto pare aggiornati da centinaia di collaboratori volontari o dagli stessi genitori (gente che passa le giornate a guardare apposta siti pedopornografici e invocazioni al satanismo, immagino… qualcuno deve pur fare il lavoro sporco), ma di certo non può offrire nessuna fondata garanzia riguardo al fatto che sul vostro schermo non possa comparire qualche immagine sconveniente, al contrario di quanto millantato da Damele sul suo blog.

In queste settimane poi quelli della parte politica di Damele, a Roma e purtroppo al governo, stanno promuovendo squinternate proposte e disegni di legge (D’Alia, Carlucci, Barbareschi) da cui appunto si ricava come queste persone non conoscano né il funzionamento tecnico della Rete né abbiano chiarezza sulla portata dei propri effettivi poteri legislativi, ed è francamente spassoso (tristissimo, in realtà) vedere come vengano pubblicamente sbugiardati e ridicolizzati per la propria ignoranza e faciloneria anche dalla stampa internazionale e talvolta dagli stessi colleghi di corrente politica; vi rimando a Gilioli su L’Espresso per apprezzare l’ultimissima vis comica di Gabry Carlucci, mentre questo è il link dell’osservatorio giornalistico promosso da Apogeonline per tenere d’occhio gli sviluppi legislativi di queste cosiddette “leggi di internet”.

Da parte mia, sottoscrivo quanto scritto da Sergio Maistrello da Pordenone, sempre su Apogeonline: a parte l’insopportabile situazione di veder legiferare persone che non comprendono quello di cui stanno parlando né riescono a concepire le conseguenze deleterie di simili decisioni per lo sviluppo socioeconomico e culturale del Paese, la promulgazione di nuove leggi laddove sarebbero sufficienti quelle esistenti per perseguire penalmente qualsiasi tipo di reato venga compiuto a mezzo internet sembra proprio adombrare una volontà politica decisa a limitare pesantemente le nostre libertà individuali di accesso all’informazione e di libera espressione.

Ma torniamo agli accadimenti locali.

Prendendo la palla al balzo, Damele sul suo blog commenta la notizia del ddl Carlucci, dedicato peraltro all’anonimato e alla diffamazione in rete, e la utilizza come spunto narrativo per le sue personali perorazioni: innanzitutto, paladino della libertà, Damele sottolinea magnanimamente l’importanza di garantire l’accesso alla rete a tutti, poi con partecipazione tutta umana giunge al suo cavallo di battaglia, appunto il filtro alla navigazione per la tutela dei minori, da adottare da parte di famiglie e scuole.

Sulla tematica del filtro alla navigazione, non intendo dilungarmi: dal punto di vista tecnico come dicevo non offre nessuna garanzia di blocco di contenuti riprovevoli, ma soprattutto innesca alcuni comportamenti decisamente controproducenti; ad esempio, per i quindicenni aggirare le imposizioni genitoriali è uno scopo di vita, e saltare i proxy e disabilitare filtri è esattamente quello che già fanno quando devono usare i loro programmi peer-to-peer. Se imposti una battaglia con gli adolescenti a base di divieti e proibizioni, innanzitutto perdi gli scontri regolarmente, e inoltre contribuisci alla formazione di una mentalità nel minore decisamente orientata al “vaffa” e al cercare di fregare gli adulti, al segreto e alla menzogna (e han ragione i giovanissimi, sia chiaro: questione di sopravvivenza).

Per un genitore, sentirsi con la coscienza a posto perché “tanto ho installato un filtro sul pc di casa” potrebbe portare a evitare di controllare fattivamente cosa fa il figlio quando naviga, delegando a un dispositivo tecnologico alcune importanti funzioni genitoriali.

Un dirigente scolastico poi che utilizza dei denari pubblici per acquistare delle soluzioni informatiche che limitano la libertà di navigazione senza offrire alcuna sicurezza informatica come contropartita, magari facendo tutto di testa sua senza informarne il Consiglio d’Istituto, compie un atto sbagliato, in relazione al messaggio pedagogico di una scuola laica. Il singolo genitore può legittimamente dar fiducia al filtro Davide e acquistarlo, ma nel caso di istituzioni pubbliche il discorso cambia. E’ come se gli acquisti dei libri per la biblioteca di un Istituto scolastico statale avvenissero solamente da cataloghi o in negozi approvati dalla chiesa cattolica, e non è un esempio a caso.

Perché il filtro proposto da Damele, molte volte da quest’ultimo reclamizzato nel corso degli anni, è prodotto e promosso da un prete torinese che molti anni fa ha dato vita a una società commerciale di servizi internet, ovvero il provider di connettività Cometa Comunicazioni, la quale appunto vende il filtro Davide sostenendo al contempo l’eticità delle proprie iniziative tramite il sito dell’associazione onlus Davide.it, sempre presieduta dallo stesso prete. Qui trovate alcune informazioni aggiuntive, anche se non è ben chiaro se sia il provider Cometa o la onlus Davide a incassare i non pochi soldi che privati aziende scuole associazioni e biblioteche spendono per acquistare il filtro.

Il sito Davide inoltre comunica in modo piuttosto fumoso, soffermandosi parecchio su discorsoni di banale senso comune, ma senza portare delle prove concrete sull’efficacia delle proprie offerte informatiche: secondo voi la frase “la maggior parte dei filtri blocca al massimo il 65% dei siti non adatti ai minori. Davide.it ha un’efficacia fino al 95% con il più basso numero di errori” dice qualcosa di verificabile? Il 95% di cosa, di grazia?

Vi è poi un altro aspetto interessante: Damele si deve essere scocciato di ripetere sempre le stesse cose nel corso degli anni, quindi nel post in questione ritiene ormai superfluo citare la fonte delle sue affermazioni. Ma internet è simpatica, per queste cose. Così scopro che molte frasi del suo articolo sono letteralmente copiaincollate da Davide.it, ma nascondendo il furtarello. Giocate anche voi a smascherare l’inghippo, confrontando quanto espresso qui con quanto da Damele asserito sul suo blog (nel caso qualcosa cambiasse, ho gli screenshot delle pagine web in questione).

Nel caso concreto, mettiamo il caso che il figlio di Damele minorenne al parco pubblico scopra nell’erba una rivista pornografica oppure venga avvicinato da qualcuno con intenzioni losche: probabilmente avvertirà il genitore, il quale chiamerà giustamente la polizia, la quale a sua volta intraprenderà delle indagini su ordine di un magistrato e magari terrà sotto sorveglianza gli afflussi di persone, ma di certo non chiuderà l’intero parco alla cittadinanza, come si vorrebbe ora fare con le “leggi di internet” se qualcosa di simile capitasse nei territori digitali dove oggi noi abitiamo con dignità di cittadini. Tutti noterebbero l’incongruenza e lo sproposito della reazione, nel ledere il mio diritto di cittadino di usufruire del parco pubblico rispetto al perseguire penalmente chi si è macchiato di un singolo reato, che rimane grave ovunque venga commesso.

Nell’intervento sul suo blog dal titolo Ecco cosa bisogna bloccare, ma dove ohibò la censura non c’entra per niente, Damele enumera i contenuti da filtrare a monte: si tratta di “documenti appartenenti alle seguenti categorie: pedofilia e pornografia con partecipazione di minorenni, suggerimenti e inviti al suicidio, istigazione all’uso di stupefacenti, gioco d’azzardo, satanismo con sacrifici cruenti di animali o persone, materiale nocivo ai minorenni, pornografia esplicita, satanismo, violenza, istigazione all’odio e/o ad atti violenti, razzismo, turpiloquio”… tutte cose che esistono da ben prima di Internet, e per le quali esistono già precise indicazioni legislative per la loro repressione per via giudiziaria, senza alcun bisogno di nuove leggi specifiche.

Teniamo presente che Daniele Damele è giornalista, ed è perfettamente libero di credere e di promuovere quello in cui crede, foss’anche riducendo la sua professione a quella di tragicomico acritico tamburino locale delle scelte politiche targate PdL, nel momento stesso in cui vengono promulgate qui in Italia leggi liberticide promosse da personaggi di nessuna credibilità e di nessun competenza.

Però Damele è stato anche presidente del Comitato Regionale per le Comunicazioni CoReCom, sugli stessi argomenti ha collaborato a Roma con commissioni interministeriali e dentro comitati di garanzia Internet&Minori, ha ricoperto o ricopre incarichi ufficiali da dirigente presso la Provincia di Udine, è docente universitario di “Etica e comunicazione” a Udine, e spero citi le fonti bibliografiche nelle sue dispense d’aula.

Capite quindi come quella di Damele sia una voce autorevole in virtù delle cariche pubbliche da lui ricoperte, ovvero in grado di orientare le coscienze di molte persone nella considerazione di queste tematiche etiche legate alle libertà individuali di opinione e di pubblicazione, indici sicuri del livello di civiltà raggiunto da una data collettività; a maggior ragione potrete comprendere come sia molto grave, per questi stessi motivi, che dal suo alto pulpito Damele continui da anni a reclamizzare (spero per lui in modo dichiaratamente remunerato, almeno) una determinata soluzione tecnica, di per sé palliativa e censoria quindi non educativa, quale risposta adeguata alla pericolosità dell’ambiente Internet per le giovani generazioni.

Articolando

Quindi, buttiamo tutto sulla matrice, e vediamo che possono esserci abitanti stanziali connessi e non connessi, oppure abitanti nomadi, a loro volta connessi o meno.

Tenete sempre presente che parliamo di abitare Luoghi indifferentemente dentro o fuori il web, digitali o fisici. E anche su web è possibile ravvisare comportamenti stanziali o nomadi, da parte di singoli, gruppi e collettività più ampie. Ti piace cliccare sui blogroll altrui, verso l’Ignoto? O sui followers di Tizio? Nomadizzi, t’incuriosisci per un nick e segui briciole di pane o suggestive scie di profumo per mezza Internet, ti impelaghi. Perché ricordate, il web era un mare da navigare e surfare, e di qua e di là qualche isoletta offriva approdo.
Il web non è più un posto per scorrerie, qui noi oggi abitiamo. Abbiamo fatto terra-forming per dieci anni, adesso mettiamo i piedi su cose solide e di noi stabilmente identitariamente connotate, come il nostro blog che ci guarda da qualche anno o il forum che frequento da quando cercavo gli aggiornamenti per windows98 o le reti dei messenger.

Qui ora vado in direzione degli eventi che con maggiore probabilità possono innescare cambiamenti sociali: ad esempio, in collettività umane attraversate dal flusso nomadico degli zingari credo si formino credenze riguardo alla relazione con l’Altro diverse rispetto a raggruppamenti sociali stabili che conoscono pochi contatti con lo Straniero.

Quindi il tutto si riverbera nel web, dove molti di noi stanziali connessi adottiamo comportamenti che talvolta rafforzano la relazione dentro le reti conosciute, dentro l’insieme olistico dei Luoghi che frequento e quelli fino dove giungono le mie tracce di presenza, e talvolta, restando stanziali, diventiamo veri nomadi, nel muoverci su territori digitali sconosciuti.

Nel corso del tempo è cambiato il nostro propendere per “rafforzamento rete sociale conosciuta” rispetto a “esplorazione reti sconosciute”? Reti di persone, di socialità. Una volta si aggregavano di più le cose, oggi si aggregano le persone? Tutti i socialweb che articolano il concetto di follower, che lo visualizzano, che mettono in scena le reti contribuiscono a “stringere” le reti? E quanto incoraggiano il nomadismo, come apertura allo stupore dell’epifania numinosa quanto inattesa dell’Altro da me, eh?, nei percorsi serendipici?
Conservatori o progressisti? No, prima ancora. Disposti a porgere l’orecchio e l’occhio e la freccina del mouse a un link ipertestuale che vi porterà chissà dove, a leggere di argomenti o vedere foto di cose prima mai pensate, oppure a lasciar entrare nel vostro aggregatore e nella vostra coscienza flussi di alterità, questo scegliamo per noi stessi, così impostiamo i filtri del lifestreaming da e verso di noi, così costruiamo e usiamo le porte e i segni.
Cosa cerco dalla conoscenza? Conferme o sgambetti?
Nel MedioEvo, la comunicazione pubblica delle PA (i feudatari) era zero, a parte le grida in pubblica piazza e quell’albo pretorio che ha millenni di storia. Conservare il potere (basato sulle informazioni, poi) era ed è non comunicare. E’ chiaro che esporsi alla comunicazione è esporsi al cambiamento, e qualcuno giunge ad affermare che negarsi alla comunicazione è negare il cambiamento, ovvero il volersi mantenere uguali, conservare l’attuale.
Anche se vedo contradittoria una società che si vuole progressista che sbarra le porte (la Cina?).

Qui c’è Massimo Moruzzi su Dotcoma che vede bene lo stesso problema, riferendosi a come i contenitori sociali su web e i loro meccanismi pre-orientino la relazione e in-formino il nostro abitare nelle reti.

Facebook, vale la pena a questo punto sottolineare, non è più un sistema chiuso su sé stesso – o non più di quanto non lo siano il tuo feedreader o la tua webmail, perchè vi puoi importare praticamente di tutto, come e più che su un feedreader, o ricevere di tutto, come con la tua email.

Facebook ha vinto, ma senza risolvere nulla. Su Facebook, vedo foto, link, video e musica dei miei amici – ma non sarebbe molto più interessante vedere cosa apprezza chi ha gusti simili ai miei? Facebook è un passo indietro da un web di interessi condivisi a un web di amici che già conosci.

Questo accade perché proprio questa è la peculiarità del social web, lo dice la parola stessa. Permettendo l’emergere e quindi la visibilità delle reti relazionali, ha posto l’attenzione sulle persone. L’altro ieri andavo su web per cercare un documento o una risorsa, ieri per cercare delle persone, oggi cerco cosa dicono le persone che stimo e/o conosco sulle risorse e sulle novità, domani saremo tutti presi in un vortice vorticoso di cose e oggetti geotaggati e news e commenti e lifestreaming.
Il “web degli amici che già conosci” è una fase necessaria di ristrutturazione dell’economia della rete, perché permette di organizzare meglio i filtri e le reti dei flussi di informazioni e opinioni sulle informazioni, in direzione di una maggior efficacia nella propagazione delle idee, nel web degli interessi condivisi.
Si guardavano gli oggetti culturali, ora si guardano le persone, ma si tornerà a guardare gli oggetti, però incomparabilmente arricchiti dalle riflessioni di molti su di essi, da prezioso contesto, da vissuto personale.

Dopo questa costrizione che il socialweb ha imposto al nostro fare negli ultimi anni, nel farci concentrare sulla edificazione dei Luoghi sociali del nostro abitare, sull’allestimento di una identità adeguata ai nuovi ambienti che frequento, sulla definizione di una rete amicale e professionale, possiamo tornare a estrovertirci, verso cose che non conosco.

Un altro esempio: la funzione dei commenti dentro Google Reader. C’è questa funzione nuova per commentare ed inoltrare ad altri quello che ci arriva dentro l’aggregatore e reputiamo meritevole di.

C’è la condivisione “Share with note”, che rimanda la notizia ai vostri amici (chi già riceve ciò che segnalate), e il commento e la notizia possono anche essere pubblicati sulla pagina pubblica del mio aggregatore.
Ma da poco tempo anche dentro il bottone “Share”, quello per la semplice condivisione con un click, troviamo una ulteriore funzione di commento, dove però la visibilità dello stesso è rivolta “a tutti quelli che possono vedere la notizia originale condivisa”.
Che quindi potrebbero essere anche persone che non sono vostre amiche (ovvero nel vostro elenco di persone con cui condividete permanentemente il flusso di pubblicazione), ma in qualche modo la stessa notizia è presente anche nel loro aggregatore e se leggeranno la notizia dopo di voi vedranno anche il vostro eventuale commento. Immagino.

Quindi, nel primo caso ho condivisione e aumento informativo (il mio commento) verso reti conosciute, nel secondo caso compio un movimento molto più “alla cieca”, senza finalità immediate, ma potenzialmente foriero di inaspettato, cose o persone si tratti.

Dove decido di interfacciarmi? Nello scegliere attimo per attimo come utilizzare e come reinoltrare risorse, persone, memi, nel mio essere router di socialità, mi rivolgo a reti conosciute o sconosciute? Nel pensare il destino del mio dire e del mio fare in rete, mi viene più facile immaginare uno sconosciuto o un amico, nell’attimo di leggere l’ultimo post del mio blog sul suo aggregatore? E quanta fiducia ci metto, nell’inoltrare (e questo torna ad assomigliare a un messaggio nella bottiglia in un web che torna ad essere un po’ mare) e nell’ascoltare?

ps. dopo geni e memi, ci servirebbe una unità di significato delle reti sociali, dei cluster relazionali, dove il contenuto è dato dalla forma peculiare che ciascun sistema adotta.

Hai prestato attenzione?

Da Spicchidilimone, via Laura Pozzar, trovo un video che si rivolge agli insegnanti, e lo fa in modo provocatorio.
Forse la fiducia che vien posta nelle tecnologie più o meno didattiche è eccessiva; o forse tale interpretazione dell’eccessivo entusiasmo ci arriva dal fatto che abbiano scelto un montaggio piuttosto veloce, dove le argomentazioni tendono a diventare slogan.

Però molti/e insegnanti faranno un salto sulla sedia, e inorridiranno sull’onda di qualche “mala tempora currunt” e diventeranno dei laudatori delle cose com’erano un tempo, e troveranno facili argomenti per ridicolizzare il filmato e le domande che pone, riguardo la stessa capacità della classe docente attuale di rendersi culturalmente conto delle modificazioni tecnosociali in atto, e del necessario nuovo ruolo della Scuola rispetto all’educazione dei giovanissimi.
E molto di quello che si dice nel video è realtà quotidiana.

Video introduttivo, a cura Associazione Docenti Italiani, dei lavori del seminario internazionale ADi 2009 che si è svolto a Bologna il 27 e 28 Febbraio 2009 dal titolo: DA SOCRATE A GOOGLE: Come si apprende nel nuovo millennio.

Se vedi la crisi, stai già meglio

Partendo dagli interessanti commenti di Alberto Cottica, risalgo fino a First Draft inseguendo Enzo Rullani e la sua visione sull’attuale crisi economica.

Liberismo o statalismo sono vecchie ricette per pensare il problema e cercare soluzioni, dice Rullani. Anzi, questi stessi concetti come le parole che li esprimono recano con sé una visione novecentesca, ancora lineare e industriale, poco adatta a società postindustriali: si tratta di letture ed interpretazioni della realtà poco sistemiche, non in grado di cogliere in modo più ampio l’intero orizzonte del cambiamento socioeconomico attuale, incapaci di prendere appieno in considerazione le conseguenze della globalizzazione e l’attenzione per i beni comuni.

Come superare la crisi economica

Vi proponiamo di seguito un estratto dell’articolo di Enzo Rullani sulla crisi economica.

C’è in giro una vulgata della crisi che la considera quasi una disgrazia venuta dal cielo, o il frutto di una serie di esagerazioni, imbrogli ed errori, a cui, oggi, occorre rimediare.[…] Di qui la domanda ricorrente: chi è la colpa di tutto questo? E la risposta, sbagliata ma non per questo meno convinta: degli altri, naturalmente. […] La verità è che la crisi non è dovuta ad errori fatti da liberisti o statalisti in buona fede, né da sabotatori dei due modelli infiltrati nel meccanismo. Ossia ad eventi che possono essere “curati” espellendo guasti e guastatori dalla fisiologia dei due modelli ideali che ancora una volta si contendono il campo. […]
Le cause vere sono altre. Possiamo dire che oggi la situazione è particolarmente “dura” perché mette insieme, in realtà, tre crisi in una:

  • una crisi di domanda da interdipendenza non governata, che ha sfasciato i rapporti tra domanda e offerta, portando a picco i valori attribuiti dai mercati agli assets materiali e immateriali di cui disponiamo (e che non sono spariti, anche se nessuno li vuole comprare, trascinando i prezzi verso lo zero);
  • una crisi da squilibri competitivi non facilmente aggiustabili, dovuta alla perdita della distanza che isolava in precedenza paesi dotati di costi del lavoro assolutamente inconfrontabili e che oggi invece fanno parte dello stesso villaggio globale. Mettendo in moto dinamiche competitive di grande portata, tali da portare stabilmente fuori equilibrio molti capitalismi nazionali (tra cui il nostro), bisognosi di un drammatico riposizionamento;
  • una crisi da insostenibilità, in tutti quei campi – e sono molti: ambiente energia, cibo, cultura, conoscenza sociale – in cui la crescita è andata avanti dritta per la sua strada, senza curarsi di rigenerare le sue premesse.

Come uscirne?
Bisogna da questo punto di vista far leva non su inesistenti “poteri ordinatori” o regole a scala globale (che forse verranno o forse no), ma sui legami che sono giù presenti e attivi a scala più limitata (Stati nazionali, sistemi locali, filiere, comunità, famiglie). […] Sul terreno della competitività, il rimedio da proporre fin da ora è che i paesi high cost si attrezzino per usare i loro redditi (più alti) per investire nella creazione di conoscenze originali e di reti di relazione esclusive, tali da compensare i differenziali negativi di costo del lavoro, rendendo “morbido” l’inseguimento tra paesi ricchi e paesi emergenti, che oggi rischia di trasformarsi in uno scontro cruento, per la sopravvivenza. Il made in Italy è destinato a soffrire più di altri la crisi di competitività. […]
Nessuno, infine, si è dato carico degli elementi dissipativi che erano impliciti nello sviluppo, nel momento in cui consumava beni comuni, quelli che gli anglosassoni chiamano commons: ambiente, risorse naturali, cultura, conoscenza sociale. Tutti beni che, non essendo presidiati da un proprietario privato ed essendo solo in parte coperti da una tutela pubblica, sono stati quasi sempre consumati dalla produzione senza che i beneficiari si dessero carico di ricostituirli. […]
Chi deve pensare a trasformare l’uso dissipativo di beni comuni in valorizzazione riflessiva degli stessi?
Questo è un grande interrogativo e un discrimine politico vero: altro che continuare la guerra dei cento anni, tra liberisti e statalisti. Pensiamo a questa nuova frontiera della riflessione economica e della politica: la comunità reclama un uso del mercato e dello Stato che sia funzionale alla valorizzazione dei beni comuni, e chiama le intelligenze personali e le relazioni sociali a fare la loro parte, affiancando le forme tradizionali di mercato e di Stato che dovrebbero sempre più essere innervate di aspetti comunitari.

Enzo Rullani

La versione integrale dell’articolo è disponibile qui.

Quest’interfaccia non mi è nuova

Ne parlava anche Pierre Lévy, ma la suggestione arriva da più lontano. Noi siamo interfacce, parti del nostro corpo sono delle interfacce, come gli occhi e il naso e i sensi, ma anche come i polmoni, la pelle. Anche le stazioni e gli aeroporti sono interfacce, in scala socioterritoriale. Ma per restare sull’individuo, anche gli organi genitali sono interfacce. Tutte cose che trasportano traducono connettono, e in quanto in tal modo o tal altro conformate contribuiscono a dare senso alla relazione (interumana, o uomo-macchina) che veicolano, lasciano tracce di “semantica naturale” nella semiosi che poi innescano, nell’interpretazione degli eventi.
Stazioni ferroviarie architettonicamente differenti organizzano diversamente i flussi di socialità al proprio interno, e fondano esperienze-utente affettivamente e cognitivamente differenti, nella relazione con gli altri e con il mondo.
L’usabilità di un software può decretarne il successo, molto più della sua effettiva efficacia come strumento per produrre/distribuire documentazione o operatività; il merito è di chi ha disegnato l’interfaccia grafica.
La conformazione fisica dei nostri organi sessuali ha portato molte culture a fondare dicotomie assiologiche forti tra penetrazione/ricezione, attivo/passivo.

Eppoi, come dire, ciascuno di noi conosce bene la propria interfaccia gonadica, ci giochicchiamo da sempre. Vi è dimestichezza, comodità psicologica all’interazione, feedback. La mia mano conosce il mio pisello, lo ammetto. E tu donna che leggi, la tua mano conosce la tua patata, è indubbio.

Andate a vedere il video qui, da MailofDay, poi tornate.

Ecco quindi che il joystick dei videogiochi assume decisamente forma fallica, e ne replica le modalità d’interazione classica, ovvero andare su e giù con la manina.
La curva di apprendimento è un concetto obsoleto, nessuno può dire di trovare ostica l’interfaccia.
Immagino si possa realizzare anche la versione “patata”.

Cortocircuito (e scintille di futuro)

Già altre volte qui ho parlato del blog personale di Renzo Tondo, governatore del Friuli Venezia Giulia, sottolineando e analizzandone la specifica postura conversazionale e la “solidità” dei temi affrontati rispetto all’ufficialità del dire dello stesso governatore.

La domanda è: il blog del governatore è un Luogo politico? Disintermediazione, quindi.

Nella mia opinione, il proprio blog personale dovrebbe essere il primo Luogo di espressione di sé (in quanto dichiaratamente identitario, conversazionale, connotato, storico, etc… magari domani nasce un equivalente altrettanto efficace, e vedremo) da cui poi gli altri possono legittimamente trarre indicazioni per una valutazione del personaggio/i che ciascuno di noi intende mettere in scena, dal cui testo trarre poi indizi per attribuire orientamenti, credenze, schieramenti espliciti, atteggiamenti, stile a colui che in questo modo intende partecipare al pubblico dibattito.

A quanto pare, anche il Messaggero Veneto (gruppo l’Espresso/Kataweb) ha deciso di prendere sul serio il blog personale del governatore, guardate questa foto del giornale di oggi:


Quindi un mezzo di comunicazione di massa dell’epoca industriale (il quotidiano di riferimento della zona, lo Strumento della Storia locale nel suo farsi) ha esplicitamente riconosciuto la veridicità e l’autorevolezza del blog personale di Renzo Tondo, in quanto Luogo politico. Una parola là pronunciata, non è chiacchiera, è Storia anch’essa. Il Messaggero Veneto riconosce esplicitamente l’esistenza e la posizione socioconversazionale di parlante ratificato al personaggio Renzo Tondo espresso da Renzo Tondo mediante il suo blog renzotondo.blogspot, senza più aver bisogno di comunicati ufficiali e conferenze stampa, interviste con giornalisti iscritti all’albo, filtri e intermediazioni.
Il Territorio e i suoi attori parlano liberamente, e io giornale comincio a modificarmi, per riuscire a rendere conto dei dibattiti sociali e politici che ora vivono in molti altri ambienti conversazionali.

Il dire di Tondo colà costituisce posizione politica ufficiale, e proprio chi fino a questo momento era l’unico “testimone del dire” dei personaggi pubblici (e della sua veridicità, e dell’ufficialità delle dichiarazioni anche nelle loro conseguenze pragmatiche), ovvero la stampa, sancisce ora esplicitamente l’autorevolezza delle nuove forme di espressione di sé, quei blog e quei nuovi spazi di socialità e di conversazione così opperbacco spudoratamente post-industriali e digitali, ma non più effimeri e irrilevanti, a quanto pare.

Rinnovo gli auguri di happy-blogging a Tondo: in riferimento al contenuto dell’articolo pubblicato, mi piacerebbe alquanto se poi en passant provasse a spiegare un po’ meglio la sua attuale posizione personale sulla legge per il testamento biologico, apparentemente in contraddizione rispetto alle stesse onorevoli azioni da lui intraprese in relazione al caso di Eluana Englaro qui in Regione. E come ne parlerà sul suo blog, sarà ufficiale.

Parlar chiaro, gusto pulito

Chi è il responsabile della comunicazione pubblica governativa in italia? Che studi ha fatto, come parla, che cultura abita dentro la sua testa? Se pone un interrogativo professionale a sé stesso riguardo una maggior adeguatezza e efficacia della postura del parlante (il governo), oppure rispetto al tono linguistico da utilizzare (modalità d’interpellazione del destinatario, scelte lessicali e sintattiche, stile della comunicazione), quali sono i paletti che guidano il suo ragionamento, nel come dire le cose?
Perché l’ufficialità del dire governativo italiano, i discorsi i pronunciamenti le leggi le ordinanze fino ai discorsi di capodanno in tv o ai siti web delle PA, dev’essere sempre pesantemente paludata con orpelli linguistici e periodare labirintico, affogata in retoriche ottocentesche, corazzata di formule ormai vuote, armata di capziosità?

Com’è facile leggere il disprezzo dell’altrui comprensione, in questo fare comunicativo.
Anche se sei prigioniero di una retorica stantìa, mio caro comunicatore pubblico, anche se in te vive e intendi consapevolmente o meno trasmettere una ormai vecchia concezione dell’autorevolezza fondata sulla rigidità della postura (gli immutabili cerimoniali della comunicazione ufficiale, indifferenti ai nuovi paesaggi mediatici) e un’idea di serietà e di decoro che evidentemente non possono che trovare manifestazione in grammatiche oscure e contorte, non puoi non tenere in considerazione la comprensione del destinatario, e su questa basarti per organizzare le strategie del tuo dire.

Gramsci nei Quaderni scriveva “A differenza dei funzionari francesi e inglesi, che scrivono per il popolo, quelli italiani scrivono per i propri superiori”.
Italo Calvino parlava spesso della Antilingua degli uffici della Pubblica Amministrazione, di come da decenni avvocati e funzionari, ministri e amministratori, e anche giornalisti, traducano tutto in questa lingua inesistente, un gergo professionale costituito da burocratese e giuridichese e locuzioni desuete, e dal “terrore” di usare le parole comuni, per cui /fare/ si dice /effettuare/ e /convalidare/ si dice /obliterare/.
De Mauro combatte da anni per un “dovere costituzionale di farsi capire” da parte della Pubbliche Amministrazioni; Cortellazzo combatté per anni con l’antilingua, nel promuovere fin da tempi degli ammodernamenti voluti da Bassanini nei primi Novanta un “Manuale di Stile” per la semplificazione del linguaggio amministrativo. Plain language, linguaggio piano.
E rinnovo i miei incitamenti per tutti quelli che di lavoro fanno proprio i comunicatori pubblici dentro le Pubbliche Amministrazioni, a restare sintonizzati alle modernità mediatiche (non confidando in addestramenti da acquisire in corsi di aggiornamento professionale, ma coinvolgendosi in prima persona con curiosità e passione) e talvolta a osare qualcosa, a sperimentare nuovi approcci per l’ottimizzazione della comunicazione interna e esterna delle PA.

Guardiamo cosa fanno gli americani, dài.
Questa immagine qui sopra è una foto del sito governativo americano recovery.gov dedicato alle strategie per il salvataggio economico degli Stati Uniti dinanzi alla crisi attuale, dove è possibile restare informati in tempo reale sulla destinazione dei soldi dei contribuenti, che il Governo sta ridistribuendo secondo un Piano con nuove e diverse priorità.

Se sapete anche poco l’inglese, già comprendete di cosa tratta il sito. Perché il linguaggio utilizzato è linguaggio piano, perfino colloquiale.
“Tracciabilità e trasparenza. Questi sono i tuoi soldi. Hai il diritto di sapere dove stanno andando e come vengono spesi. Scopri quali passi stiamo facendo per assicurare che tu possa tracciare i nostri progressi in ogni momento”
C’è Obama in video che spiega tranquillamente questo concetto della tracciabilità pubblica degli investimenti governativi, ci sono grafici e mappe realizzati con attenzione al punto di vista del destinatario, viene espressamente richiesta una valutazione feedback ai fruitori (“Raccontaci in che modo il Recovery Act ti riguarda. Cos’è che funziona? Cos’è che non funziona? Vogliamo sentirlo da te”).

E in una vera conversazione, questo comunicare contenuti nuovi e concreti con un linguaggio nuovo e concreto fa nascere quel rispetto e quella fiducia che mille paroloni aulici e complicatissime matrioske sintattiche non riescono più a suscitare in me (da quando avevo quindici anni).