Archivi autore: Giorgio Jannis

Reportage dalle Venice Sessions

Esiste il modo in cui raccontiamo il futuro, e questo racconto ha delle conseguenze.

Telecom Italia e Nòva24 – Il Sole 24 ore, con il contributo dei curatori Luca De Biase e Giuliano da Empoli, sono partiti da qui, dalle conseguenze, per chiedersi: come si può narrare il futuro?
È tramontata l’era delle certezze alimentate dai professionisti delle previsioni, i cosiddetti futurologi. Resta, però, l’esigenza di comprendere gli scenari mutevoli e complessi generati dalla globalizzazione: è una sfida che l’Italia non può rimandare per cogliere le opportunità di cambiamenti epocali.

Invitati da Telecom Italia e da Nòva 24, tecnologi e umanisti si incontrano a Venezia nel convento di San Salvador, sede del Future Centre di Telecom Italia.

Narratori e imprenditori, filosofi e scienziati, artisti e giornalisti: sono menti sorprendenti che si confrontano in eventi ogni volta diversi capaci di stimolare la creatività. Insieme esprimono un’intelligenza collettiva curiosa, fertile, imprevedibile. Che esplora il futuro interrogandosi sulle esigenze del Paese: il racconto di esperienze, visioni e progetti diventa, infatti, un metodo di ricerca in grado di unire culture differenti in un percorso condiviso.

Gli argomenti toccati dagli speaker, poi, vengono rielaborati in mappe concettuali che il pubblico può commentare sul web e sui Social Network. Arricchendo, così, la narrazione di un futuro che appartiene a tutti.

Segnalo qui un interessante quanto articolato reportage di Irada Pallanca dedicato alle Venice Sessions dello scorso 31 marzo, ripreso da Key4Biz.

Fin qui, stavamo scherzando

Siete pronti, Siete caldi? Anch’io! (cit.)

Sono ormai anni che parliamo del web come Grande Conversazione, ma in queste ultime ore sta veramente esplodendo il giocattolo. Tutto diventa flusso, tutte le piattaforme stanno arredando i propri salotti pubblici o privati con dispositivi di lifestreaming socializzato in tempo reale, muovendoci in giro in Rete o sul mondo tramite cellulare avremo sempre con noi amici o sconosciuti che potranno commentare il loro/nostro fare e inoltrarlo ovunque.
Youtube vi permette di socializzare tramite flussi, Facebook si twitterizza, FriendFeed diventa un posticino dove si vengono finalmente a conoscere gli stili dialogici conversazionali dei grossi nomi della blogosfera italiana – tono prevalente adottato: “regazzi’, fatte da parte”, sintomo forse di infantilismo dialettico mai maturato nel confronto interpersonale dentro strumenti sincroni, fossero anche le chat su IRC di dieci anni fa.
Insomma, ne vedremo delle belle, come al solito, come ogni sei mesi la Rete ci fa dire dinanzi alle novità. E le novità saranno tutte robe sociali e chiacchierose, nei prossimi, va da sé. Lì c’è la bellezza, e lì molti pensano ci sia anche il business.
Munitevi di strumenti per restare sintonizzati, aggregatori identitarii di flussi personali, ambienti per racimolare e radunare quello che si dice e si fa in giro, su cui volete mantenere la presa su ciò che scorre. Questa è tutta roba liquidissima, rapida, e purtroppo non lascia traccia stabile, nemmeno come innesco per approfondimenti successivi. Tecnologie traccianti, sì, ne parlavo qui e qui.

Comunicare la decrescita

Una riflessione di Marco Geronimi Stoll, dal suo sito.

Comunicare la decrescita

Anche un imprenditore della decrescita ha bisogno di farsi conoscere; però ha bisogno di “utensili comunicativi” diversi dalla normale tecnica pubblicitaria. L’articolo propone come esempio il caso di un piccolo imprenditore con scarsissimo budget. Per illustrare quale strategia gli convenga usare, l’articolo propone un esercizio di stile; ci sono cinque o sei parole tecniche della pubblicità di cui, con la semplice aggiunta di una esse, si può invertire il senso: smarketing, s-target, s-business … Ne emerge una strategia che consente una crescita lenta e costante dell’azienda fino ad un livello ottimale, e a quel punto l’assesta e la rinforza.


Si può “fare pubblicità” alla decrescita?

La pubblicità è comunicazione a pagamento per influenzare le scelte degli individui e diffondere notizie utili ad incrementare i profitti economici dei suoi committenti.

E’ evidente che questa accezione è lontana mille miglia dalle basi etiche della decrescita: il modello sobrio di esistenza e la transazione alla pari tra produttore ed acquirente.
Ma un imprenditore della decrescita
non è forse vero che anche un agricoltore bio, un artigiano, un installatore di pannelli solari… se vuole sopravvivere deve comunicare che esiste, dimostrare di essere affidabile, fare bella figura, insomma farsi pubblicità?

Sì, si può; ma a un patto...

Noi siamo pubblicitari, cioè conosciamo bene il mestiere di convincere la gente a riempirsi la casa di porcherie inutili. Non ne abbiamo nessuna intenzione, siamo i disertori del nostro mestiere.
Purtroppo molte aziende etiche, ambientaliste e leali non sono molto brave a comunicare, e per questo sono più deboli; è un peccato, la società e l’ambiente hanno bisogno che i loro valori sopravvivano anche in questo mercato.
Noi possiamo dare forza a loro e loro possono dare forza a noi disertori.
La pubblicità ha un suo glossario tecnico, come tutti i mestieri. Che sia anglofono può suonare fastidioso, ma è fatale; il problema è un altro. Le parole della pubblicità sono tutte impregnate dall’idea che il successo commerciale consista vendere rapidamente, tantissimo e a qualsiasi costo.

Smarketing non è solo un gioco di parole per smarcarsi dalla marca e dal marketing. In comunicazione le parole sono utensili; se prendi il cacciavite, non puoi lavorare coi chiodi. Allo stesso modo se prendi la parola “target” non c’è verso, cominci a ragionare come un cecchino. Insomma, cambiare le parole con cui si formulano analisi, pensieri e strategie significa cambiare modo di analizzare, pensare ed operare.
La esse privativa davanti a un termine ne indica il contrario, come slegare, sgonfiare, scontento… viene dal latino ex-, significa uscire da un luogo o da uno stato. In inglese capita come abbreviazione di slow: lento, rallentato.

In particolare molte parole del mestiere della pubblicità sono intrise di accelerazione, di finanziarizzazione, di servizi parassitari, di estetica dello spreco e di spreco dell’estetica. Noi cerchiamo nel nostro piccolo di contribuire ad un cambiamento radicale, con qualche nuova parola-utensile che ci porti fuori da quella logica.

Tra queste parole nuove c’è “sbusiness“, che sta per slow business: è giusto guadagnare dal proprio lavoro e dalla propria inventiva, ma la crescita è sana se è lenta, tranquilla e armonica col contesto, come un albero nel bosco.
Poi c’è il concetto di starget: invertendo i ruoli il produttore diventa il target del cliente, invece di cercarlo in modo invadente e ripetitivo, si lascia trovare; non è facile ma è possibile, noi sappiamo come si può fare e infatti voi in questo momento siete su questa pagina, avete saputo trovarci in mezzo a milioni di possibili navigazioni offerte dal web.
E c’è lo sbranding, che è l’emancipazione dalle marche famose con etichette comuni di garanzia etica e ambientale e con lo scambio reciproco di visibilità.
Certo, non basta mettere una esse davanti alle parole dell’advertisement per cambiare il mondo, ma come vedete ci sono cinque o sei casi in cui questo gioco è davvero illuminante.

Del vecchio mestiere del marketer commerciale, è tutto da buttare?

No perchè, in buona o cattiva fede, è comunque uno dei pochi mestieri che conosce davvero la comunicazione, l’attenzione e la memoria. Alcuni ferri del mestiere non solo vanno salvati, ma addirittura diventano più importanti per chi usa media deboli ed economici. Il tuo messaggio deve essere tanto più chiaro, efficace e memorabile, quanto più “debole” è il tuo media budget.

Ad esempio

Prendiamo il caso tipico: diciamo che tu sei un piccolissimo imprenditore della decrescita, non nuoti nell’oro e proprio per questo hai veramente bisogno di farti conoscere. Diciamo che come tanti, sei bravo a fare il tuo lavoro, ma meno abile a comunicarlo. Naturalmente hai pochissimi soldi per farti pubblicità e anzi, faresti volentieri a meno di spendere anche quei pochi, ma è evidente che se non trovi abbastanza clienti devi chiudere bottega.
Il famoso R.O.I. (il ritorno economico dell’investimento pubblicitario) per te è molto più importante che per la multinazionale che ingorga la televisione generalista di spot milionari. Non è solo questione di scala, ma anche questione di rischio; alla multinazionale che lancia una nuova campagna conviene scommettere, di solito la posta in gioco vale ampiamente il rischio di sbagliare qualche serie di spot; tanto lei di scommesse ne fa tante su tanti prodotti in tante nazioni, quindi anche se perde qualche mano, vince comunque la partita; tu invece no: tu vuoi e puoi rischiare meno possibile.
Tanto per restare nel nostro gioco con la esse, ti occorre lo SROI, lo slow retourn of investiments; significa che fai poca pubblicità solo su media piccoli e di nicchia, su internet e su qualche radio: spendi poco, cresci un pochino, poi spendi un altro po’ … e cresci ancora un po’… fino ad arrivare ad una dimensione di scala adeguata per un onesto benessere; da quel punto in poi non ti serve crescere ulteriormente, devi piuttosto assestarti, rinforzarti e sperimentare qualche innovazione.
La pubblicità generalista non ti andrebbe affatto bene: immagina di vincere al superenalotto e poter fare pubblicità in TV: avresti un successo enorme per alcune settimane, ti troveresti a assumere dipendenti, ampliare il laboratorio, comprare macchine, ma poi tutto finirebbe altrettanto rapidamente: gente licenziata, il capannone che se lo prendono le banche… insomma il classico successo disastroso, di cui in Italia purtroppo ci sono anche troppi esempi. Infatti la pubblicità è solo un pezzettino del tuo processo produttivo e deve essere proporzionata al resto. E’ vero per chi, in un’ottica consumista, vende principalmente il brand, cioè la pura immagine idealizzata, è ancora più vero per te che, invece, ci scommetti la vita; per te è meglio che la pubblicità sia misurata per una crescita lenta e graduale, tranquilla, senza picchi e al riparo da eccessive perturbazioni.
Questo sistema funziona solo se la tua comunicazione è di ottima qualità. Ma attenzione, non è lo stesso tipo di qualità che si richiedere a un normale pubblicitario votato al business veloce.

C’è anche una qualità della qualità. E se lavori per la decrescita, lo sai.

Brunetta, il JumPC e la scuola in rete

Ieri sera ero già sulla poltrona, mi stavo gustando la prima mezz’ora di Indipendence Day, da lì in poi è tutto tramaticamente scontatissimo e infatti siamo dentro una parodia americanona, ma mi preme sottolineare che io vivo fondamentalmente per veder arrivare gli alieni, ché veder spuntare quelle astronavi grandi come province tra le nuvole mi scancella la mente di ogni punto di riferimento come lo scancellino scancella la lavagna, e a quel punto facciano pure quel che vogliono, compreso spazzar via la Terra perché di qua deve passare un’autostrada galattica da lungo tempo progettata (cit.).

Ma il cellulare fringa, perché se sono sulla poltrona non posso mica alzarmi e fare tre metri per andare alla scrivania, e in chat mi arriva da due diversi contatti la segnalazione di una dichiarazione del Ministro Brunetta (quello zippato) relativa alla prossima futura distribuzione di netbook personali a tutta la popolazione scolastica, e la cosa va da sé mi incuriosice alquanto.

Io non penso che quegli esseri abbiano fatto migliaia e migliaia di anni luce solo per venire qui e iniziare una guerra… Non sono mica degli attacca brighe! (citazione dal film di cui sopra, fonte wikipedia, non sto parlando del governo, neh)

Ci penso su, mi faccio una mappa mentale – in senso letterale, dentro la mia testa – delle solite inventio, dispositio, elocutio (la prima talvolta offre nuovi spunti, le altre due seguono il solito metodo del “come viene, viene”), mi soffermo sulle possibili conclusioni da trarre, e ovviamente trattandosi di argomento già da me più volte affrontato nelle discussioni che trovate in giro riguardo le tecnologie didattiche e l’apprendimento e il senso del fare scuola oggi, decido che posso lasciar perdere e ricado mollemente sulla poltrona a valutare l’efficacia patemica dei doppiatori italiani.

Ma la pulce alligna (?), gli ingranaggi girano, continuo a visualizzare mentalmente scàmpoli di frasi da accostare come pezzi di domino. Alle 23.32 vado al computer e comincio a scrivere, alle 2.00 spedisco a Maistrello, oggi trovate l’articolo su Apogeonline.

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Brunetta, il JumPC e la scuola in rete

Dopo la positiva sperimentazione in Lazio, Piemonte e Sicilia, i ministri dell’innovazione e dell’istruzione intendono estendere la sperimentazione del computer in classe a «centinaia di migliaia di bambini», dalle elementari alle superiori.

Ecco una notizia che dovrebbe rallegrare chi, genitore o professionista della formazione, ha a cuore la modernità dell’insegnamento e la promozione di tecnologie educative aggiornate in àmbito scolastico. Mi riferisco alle dichiarazioni del ministro Renato Brunetta sulla futura diffusione di netbook ai giovanissimi studenti delle scuole primarie, dichiarazioni espresse in occasione della conferenza stampa tenutasi a Roma presso il circolo didattico Walt Disney per illustrare gli esiti di una sperimentazione condotta in questi mesi dalla Fondazione Mondo Digitale (presieduta da Tullio De Mauro), insieme a Intel e Olidata, in diverse regioni italiane, riguardante la distribuzione gratuita a circa 150 bambini e a 15 docenti di un computer personale denominato JumPC.

Si tratta in ogni caso di prendere atto dei risultati concreti di un cambiamento strategico peraltro lungamente atteso da chi si occupa del “fare scuola” odierno, in linea con l’espressa volontà ministeriale di svecchiare la Scuola italiana grazie a dotazioni tecnologiche quali la presenza di connettività veloce e di lavagne interattive multimediali.

Le domande certo sarebbero molte, a partire dalle implicazioni “etiche” del progetto nella scelta dei partner commerciali, alla preferenza per software proprietario, fino alle modalità di funzionamento dei filtri alla navigazione installati da Olidata sul JumPC mediante l’applicativo Magic Desktop, ma le informazioni sono ancora troppo lapidarie per poter comprendere i piani di utilizzo e i risvolti sociali dell’introduzione dei pc in classe, ovvero le modificazioni effettive della pratica d’insegnamento nel contesto di attuazione del progetto. Perché un insegnante che vede dinanzi a sé quindici o venti “coperchi” alzati a nascondere il viso degli studenti, che convive cinque ore con il ronzìo soffuso ma penetrante delle ventole, che abita con gli allievi dentro reti relazionali sostenute da collegamenti wifi e ha sotto la freccina del mouse tutto lo scibile umano non può continuare a concepire i processi dell’apprendimento come prima che tutto questo accadesse, come se nulla fosse successo.

Mi rallegro dell’introduzione capillare del pc a scuola, perché modificherà l’ambiente cognitivo ed emozionale dentro cui avviene oggi l’apprendimento formale; forzerà positivamente la mano a quelli che lodano i bei tempi andati perché non capiscono la Società della Conoscenza attuale, costringendoli almeno a mantenere una dignità nel loro sproloquiare; riuscirà col tempo a promuovere pratiche significative di utilizzo didattico adeguate alle nuove potenzialità offerte dallo strumento tecnologico, magari evitando che venti computer vengano contemporaneamente accesi dentro la stessa stanza per fare il dettato su un programma di videoscrittura – altrimenti la dotazione di pannelli fotovoltaici sul tetto delle scuole diventa oltremodo impellente, moltiplicando anche solo poche decine di watt per il milione di netbook che i ministri Brunetta e Gelmini intendono introdurre nelle scuole.

Ma esperienza e pragmaticità già mi dicono che inesorabilmente i primi anni di questa Scuola 2.0 saranno connotati da utilizzi bassamente strumentali delle ex-nuove tecnologie – come già abbiamo visto, tranne poche coraggiose iniziative, accadere ieri con la famigerata aula multimediale e oggi con le lavagne interattive, utilizzate appunto quali mere succedanee dell’ardesia senza prendere in considerazione le innovazioni didattiche che questi ritrovati tecnologici potrebbero apportare all’insegnamento in quanto supporti interattivi e connessi, in grado di lasciar emergere quelle dimensioni gruppali di condivisione di informazioni e scambio dialogico importantissime in una concezione sociale e socializzata dell’apprendimento.

Non si tratta qui di fare facili previsioni su un iniziale “fallimento” dei pc in classe, anzi sono consapevole del fatto che storicamente sia necessaria in ogni piccola o grande rivoluzione di certe pratiche sociali – per giunta in grado di coinvolgere le istituzioni stesse, come in questo caso – una certa “rottura” rispetto a pensieri linguaggi e prassi sedimentati nella mente dei docenti e nella struttura stessa dell’organizzazione scolastica ormai non più adeguati alla modernità. Proprio questa potrebbe essere la strada per innescare fattivamente cambiamenti nel fare scuola.

Si tratta di qualcosa che doveva succedere, e che stavamo aspettando. Qui in Occidente molti di noi utilizzano i computer per lavoro, per produrre quel bene economico intangibile che è informazione e distribuzione delle conoscenze, mentre i ragazzini a scuola, knowledge worker per eccellenza, sono ancora lì a ricopiare il problema di matematica dalla lavagna sul quaderno.

Molti insegnanti rimarranno favorevolmente sorpresi dai concreti risultati scolastici che otterranno dalle pratiche didattiche “aumentate”, rese più potenti dai pc personali e dalla spinta motivazionale e dal “peer-to-peer” delle conoscenze nel gruppo-classe.
Questo non si può certo chiamare fallimento, né dal loro punto di vista (seppur ancora legato alla percezione di risultati valutati secondo ottiche da mondo analogico) né dal mio, che in questo rito di passaggio epocale noto comunque una opportunità per una educazione informale della classe insegnante nazionale, che si troverà di qui a qualche anno a riconoscersi cambiata senza accorgersene, e in molti casi senza neppure volerlo.

In ogni caso punto fermo e finalità del fare scuola deve essere l’apprendimento, e sulla scorta di questa considerazione è bene non confondere l’hardware della Scuola con il relativo software, la disponibiltà fisica dei computer e di altre nuove tecnologie in classe con l’automatico miglioramento della qualità dell’offerta formativa, misurata nella sua capacità di promuovere competenze personali (non solo abilità) e di suscitare nei giovanissimi consapevolezza e senso critico rispetto al proprio essere futuri cittadini connessi e interconnessi (su Il blog nella didattica potete trovare tracce di alcune recentissime discussioni su questi argomenti riguardanti le tecnologie didattiche in classe, tra lavagne Lim e stili di apprendimento dei nativi digitali).

Per questo confido e auspico che qualche milione di euro venga nell’immediato futuro destinato alla promozione ministeriale di corsi intelligenti di aggiornamento per gli insegnanti e per i dirigenti scolastici: usando la metafora dell’automobile, ora che le macchine quattoruote vengono distribuite a tutti sarebbe il caso di provvedere una seria educazione al comportamento su strada, magari concentrandosi un po’ meno sulla tecnica del carburatore e della frizione e un po’ di più sul rispetto della segnaletica (guidare l’auto è azione sociale) e sulla scelta qualitativa degli itinerari da percorrere.

La pensabilità delle nuove potenzialità didattiche offerte dalle tecnologie prima di diventare prassi quotidiana strutturata è qualcosa che vive dentro la testa degli insegnanti, e nuovi criteri per la progettazione e la valutazione della formazione possono e devono essere sapientemente comunicati dentro i programmi di aggiornamento professionale per i docenti, dove poter finalmente affrontare le tematiche dell’acquisizione di competenze di abitanza digitale specifiche. Competenze non limitate a infarinature sull’utilizzo di applicativi tipo ufficio, non affogate dentro denominazioni tecniche che con l’informatica come scienza nulla hanno a che fare, ma schiettamente orientate a fornire degli orizzonti di operatività concreta, da subito sociale e glocale come può essere a esempio una mappa satellitare da noi stessi arricchita con segnalazioni multimediali originali, rispetto alle suggestioni di questa tutta nostra Cultura Digitale in cui viviamo, a cui noi stessi abbiamo faticosamente contribuito abitando in Rete senza declinare responsabilità, consapevoli della tecnosocialità quale ambiente di crescita e di vita delle nuove generazioni.

Diritto di privacy nell’Era digitale – Viviane Reding

Riscrivo sinteticamente uff questo post, dopo aver per la prima volta qui su Blogger perso la prima stesura nonostante presunto salvataggio in bozza.

Europeans must have the right to control how their personal information is used. European privacy rules are crystal clear: your information can only be used with your prior consent.

Lo spunto è dato dalla comunicazione settimanale della Signora Reding, a questo indirizzo presso la Commissione Europea “Information Society and Media” trovate il video e anche il pdf con il testo. L’argomento è costituito dall’esercizio individuale del diritto di privacy rispetto ai nuovi rilevanti fenomeni tecnosociali, con particolare riferimento ai social network, al behavioural advertisement (profilatura avanzata dei navigatori grazie alla informazioni raccolte dai loro comportamenti online, a fini commerciali) e agli àrfidi RFID, le etichette connesse da aggiungere a ogni prodotto per realizzare la cosiddetta “Internet delle cose”.

Viviane Reding nel suo discorso tiene centrale il valore per il soggetto di poter sempre controllare l’utilizzo che altri fanno delle sue informazioni personali online.

La Commissione Europea ha già invitato i responsabili delle piattaforme sociali a provvedere degli strumenti di tutela per i profili dei minori, mediante quindi auto-regolamentazione, e intende promuovere eventuali nuove regole solo come ultima scelta, se non vi saranno altre strade percorribili.
Per quanto riguarda il caso delle indebite profilature commerciali dei consumatori, viene sottolineato come le regole attuali europee sulla privacy siano di una chiarezza cristallina, dove indicano come le informazioni riguardo una persona possano essere utilizzate solo con suo previo consenso. Le istituzioni europee anzi sorveglieranno e agiranno concretamente verso quegli Stati europei che non riusciranno a rispettare questo proprio obbligo esplicito, di tutelare il diritto di privacy dei cittadini rispetto alle iniziative commerciali.
In relazione agli smart chips, di riconosciuta importanza per l’ottimizzazione dei sistemi distributivi commerciali, la Reding offre una visione ben delineata, dove nuovamente focale risulta la consapevolezza del cittadino europeo sul funzionamento specifico di questa recente tecnologia, sulle implicazioni rispetto alla propria persona, sulla possibilità tecnica di poter rimuovere l’etichetta RFID o spegnerla in ogni momento.
L’accento è sul lato sociale delle tecnologie, dove si dice che l’Internet delle cose funzionerà solo se accettata da tutti.

Verso la fine dell’intervento, viene ribadita la necessità di metter mano alle regole generali europee per la protezione dei dati personali, del 1995, alla luce dei recenti sviluppi delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione.

Ma è positivo poter dire che le indicazioni sulla strategia istituzionale europea riguardo il diritto di privacy sanno eludere e anzi additare come controproducente un infuocato legiferare in termini proibizionistici – chiaro riferimento a ultimissimi fallimentari intenti politici di controllo della rete Internet, qui in italia e in altri Stati europei – sia in relazione alla promozione di responsabilità personale nell’essere informati e consapevoli di tutti noi fruitori della rete, sia riguardo alla stessa internet, che giungla ora certo non è, e tale diventerebbe solo se venisse tralasciata appunto la tutela dei diritti della persona.
E le regole che ci sono ora vanno già benissimo, vi è fiducia nel sistema libero attuale della rete, e piuttosto bisognerebbe puntare sull’educazione alla cittadinanza digitale, se proprio si intende fare una bella cosa.

Scuola, lavagne, web20

Sul sito dell’Agenzia NAzionale per lo Sviluppo dell’Autonomia Scolastica (ANSAS, ex-Indire) è disponibile il report Formazione Scuola 2008, relativo agli stili di apprendimento legati alla Lavagna Interattiva Multimediale (LIM).
L’argomento delle lavagne digitali connesse in queste ultime settimane è molto dibattuto, al pari delle interpretazioni e degli impliciti legati all’espressione “nativi digitali”… partendo dal blog di Gianni Marconato potrete risalire alle varie discussioni e riflessioni che son fiorite al riguardo nei Luoghi web dove si prova a mettere chiarezza sul ruolo di queste tecnologie in classe, e dell’impatto che esse hanno sullo stile di apprendimento del gruppo-classe.

Più volte qui su NuoviAbitanti si è provato a esprimere un punto di vista sulla questione delle Tecnologie didattiche e dell’Educazione (queste ultime in quanto non strettamente legate ai curricoli, ma a esempio relative alla Cittadinanza), ma sempre si è cercato di tenere appunto fermo il focus del discorso sulla questione dell’apprendimento, il vero “risultato atteso” del fare scuola, dove gli obiettivi sono costituiti dall’acquisizione di competenze (e sempre più va tenuto in considerazione il saper-fare digitale da promuovere nei giovanissimi, anch’esso non necessariamente correlato alle discipline scolastiche, anzi), mentre le azioni sono date dal allestimento strumentale e concettuale di un ambiente formativo, ormai necessariamente biodigitale fisico-mentale-digitale, non più costretto dentro muri e anzi capace di ospitare il mondo in sé, dove per un insegnante sia possibile gestire registicamente molteplici flussi di informazioni e di narrazioni in entrata e in uscita con cui arricchire l’esperienza formativa della classe, in maniera indifferente rispetto agli strumenti e ai media utilizzati.

Ma sappiamo che nel caso delle ex-nuove tecnologie la percezione strettamente strumentale del computer, della lavagna interattiva o dei Luoghi formativi online diventa un ostacolo ulteriore da abbattere (una non aggirabile pars destruens da affrontare nella progettazione del percorso formativo) rispetto al raggiungimento di apprendimento significativo, perché la stessa vecchia visione culturale degli strumenti didattici impedisce di cogliere nel computer in classe e nel web in classe (e nella scuola che dialoga finalmente con il territorio e con il mondo) quelle caratteristiche che rendono questi ultimi diversi dalle lavagne in ardesia, o anche da un televisore con un videoregistratore collegato.

Non abbiamo a che fare con supporti muti o con depositi fermi di conoscenze come i libri, che l’insegnante volta per volta deve rendere eloquenti vivificandoli con la propria cultura ed esperienza. Superare, tra-guardare lo strumento pc o lavagna digitale ci porta dritti sul web, porta il web dentro la classe, e quindi ci situa in una dimensione non solo ricettiva, da consumatori di informazioni, ma sempre più produttiva di contenuti, da pubblicare ovvero rendere pubblici, aperti alla visione e alle considerazioni degli altri, in una scuola con molte finestre e molte porte, costantemente connessa con le comunità educanti di riferimento.

Queste considerazioni dovrebbero portarci infatti a privilegiare una concezione piuttosto sociale di questi dispositivi connessi, come veri e propri ambienti formativi in sé, in modo simile a come siamo disposti a conferire a un buon libro un valore educativo in sé, in quanto microuniverso narrativo: un libro deve essere da noi abitato e riempito di senso dialogico nel momento del leggerlo, come le mappe satellitari in quanto imprescindibile sostegno alla didattica e alla cittadinanza vanno abitate e arricchite di senso per il tramite della nostra produzione culturale originale, da apporre poi coerentemente nei marcatori geografici, per fare in modo che la mappa stessa oltre al significato “verticale” dello sguardo che osserva il territorio possa veicolare quella visione “orizzontale” fatta di percorsi antropici, di Luoghi di particolare significatività storica, di considerazioni di geografia umana.
Ma appunto leggere un libro, abitarlo, rimane un fatto privato, mentre abitare il web diventa un fenomeno pubblico, sociale, che non può essere compreso dall’interno di una prospettiva solamente strumentale.

Le osservazioni delle lezioni hanno cercato di mettere in luce le funzioni della LIM più frequentemente attivate. In continuità con le attività tradizionalmente condotte con la lavagna d’ardesia, le funzioni prevalenti sono state scrivere, disegnare, evidenziare; diffuse anche le presentazioni di animazioni e simulazioni e l’uso di learning object o software applicativi. Bassa invece la frequenza di funzioni legate al web, come la navigazione in rete; del tutto assenti infine le funzioni connesse alle potenzialità comunicative della LIM, come la videoconferenza che consente di attivare su di una medesima lezione aule remote (ospedale, PC casalingo, aula gemellata). I docenti sembrano ancorare la LIM al contesto classe senza spingersi oltre i confini dell’aula fisica.

Queste righe del report ministeriale confermano questa prospettiva interpretativa, secondo cui gli insegnanti alle prese con la tecnologia delle lavagne digitali rimangono ancorati ad atteggiamenti tradizionali rispetto allo strumento, senza appunto esplorare e saggiarne le nuove potenzialità. L’utilizzo è quello tipico del “supporto visivo”, anche se va sottolineato il recepimento del cambiamento di “postura” dell’insegnante, che in simile situazione di apprendimento da intendere come “realtà aumentata” comprende il valore del ricoprire via via ruoli differenti nel corso dell’esperienza (esperto dei contenuti, facilitatore, conduttore di gruppi), nonché la necessità di ri-progettare la strutturazione dei percorsi formativi secondo le nuove potenzialità espressive delle LIM.

Vengono anche sottolineati i diversi stili di partecipazione da parte degli studenti, ovviamenti sollecitati alla collaborazione attiva da parte dello strumento LIM, dove

… predominanti sono stili intellettivi “logico” e “verbale”, in continuità con la didattica tradizionale, con un rafforzamento dell’intelligenza “visiva” consentita dal codice iconico del quale si avvale la LIM .
Laddove lo studente è chiamato ad agire direttamente sulla LIM, la dimensione manipolativa consente di attivare anche l’intelligenza “cinestetica”. La forte attivazione dell’intelligenza “intrapersonale” (51%), legata soprattutto alla registrazione degli esercizi degli studenti per la costruzione del portfolio personale e per la valutazione.
Il mancato uso di strumenti di comunicazione online si traduce in un basso livello di attivazione dell’intelligenza “esistenziale” connessa alla conoscenza di sé stessi in contesti di simulazione e alla sperimentazione di nuovi ruoli o stili relazionali (per esempio in contesti wiki o community online).

Segnalo anche due interessanti articoli su Insight, l’Osservatorio europeo per le nuove tecnologie e l’educazione, a cui sono giuto tramite European Schoolnet, il portale europeo per l’educazione.
In particolare, sul blog di Insight potete trovare un documento report promosso dalla European Commission’s Joint Reasearch Center (JRC) in collaborazione con la Direzione Generale per l’Educazione e la Cultura (DG EAC), riguardante l’impatto degli strumenti web 2.0 sull’educazione in Europa.
L’utilizzo di wiki, blog, social network è diventata una pratica quotidiana a scuola? Lentamente, stanno cambiando gli stili di approccio, e si cominciano a scoprire nuovi territori per l’apprendimento, stanno prendendo forma vie innovative per utilizzare gli strumenti2.0 in classe: è possibile seguire le pratiche nei settori del sostegno classico alla didattica, del networking (quando gli strumenti comunicativi e sociali riescono a costituire una vera e propria comunità d’apprendimento), dell’integrazione dell’apprendimento in collettività ampie, del coinvolgimento della Società.

Il report “Horizon” edizione 2009 sull’educazione fino a dodici anni mostra invece i fattori emergenti delle tecnologie didattiche, dislocandoli in tre prospettive differenti sul piano temporale: gli ambienti collaborativi e la comunicazione online saranno di uso corrente entro il 2010, l’adozione di tecnologie mobili (tramite telefoni cellulari, a esempio) troverà ampio riscontro in un’orizzonte a medio termine, mentre gli ambienti di personal web (da tradurre poi in PLE, Personal Learning Environment) prenderanno piede tra quattro o cinque anni a partire da ora.
La ricerca identifica inoltre molte variabili in grado di influenzare l’insegnanmento, l’apprendimento e la creatività nelle scuole di base; tra quelle a maggior impatto, sono da segnalare la tecnologia in quanto presente nella vita quotidiana (studio, lavoro, socializzazione); la tecnologia per motivare gli studenti, e non più da concepire come veicolo di isolamento sociale; il fatto del web in quanto ambiente di esperienza personale; una nuova concezione degli ambienti di apprendimento sempre più interdisciplinari, basati e vivificati da community centrate sulla collaborazione e la comunicazione online; una nuova percezione della creatività e dell’innovazione in quanto stimate abilità professionali.
Nell’elenco di quelle che possono essere considerati i maggiori inibitori (dove può esserci una sfida, insomma) del cambiamento, vengono indicati il bisogno crescente di educazione formale sulle nuove abilità richieste dalla TIC, come alfabetizzazione digitale ma anche “visuale”, in relazione ai nuovi meida; l’ostacolo costituito dalla vecchia letteratura scolastica e dalle vecchie prassi didattiche; un apprendimento troppo spesso sottovalutato e raramente praticato in quanto processo che riesca a incorporare esperienze di vita reale; la struttura stessa delle istituzioni educative, che non favorisce i cambiamenti oggi necessari nel fare scuola.

Lavorare su Facebook (anche per insegnanti)

Rimango fermo sulle mie idee: in Rete esistono Luoghi migliori di Facebook per provare a fare didattica online, specificamente disegnati per le esigenze degli insegnanti e degli studenti, ovvero pensati nativamente come ambienti di apprendimento.

Sto parlando di ambienti 2.0, totalmente web-based – l’unico software necessario per la partecipazione è costituito dal browser – ed escludo per seguire il filo del ragionamento quegli ambienti ad esempio di e-learning come Moodle, che richiedono di essere installati su un proprio spazio web acquistato presso un provider, configurati e amministrati anche tecnicamente da parte nostra. In questi giorni si vocifera di una peraltro lungamente attesa integrazione tra Moodle e GoogleApps, che riuscirebbe a rompere l’esclusività e la percezione di Luogo conchiuso che caratterizza Moodle, aprendolo ai flussi da e verso il web, permettendo di arredare ad esempio l’ambiente di apprendimento scolastico (ogni scuola dovrebbe offrire “spazi attrezzati” su qualche proprio dominio) con le produzioni documentali che normalmente alloggiamo sui siti specializzati nell’ospitare video o presentazioni mutlimediali.

Perché credo che sia buona cosa che gli insegnanti abbiano comunque i loro molteplici luoghi personali di pubblicazione su web (vedi PLE Personale Learning Environment), da riproporre e linkare dentro gli ambienti di apprendimento reticolari, piuttosto che svolgere la loro attività esclusivamente dentro questi ultimi, senza che il loro fare risulti visibile e condivisibile all’esterno.

Tralascio anche le considerazioni di tipo “etico” sull’utilizzo di Facebook, se siete interessati ho provato a parlarne qui e qui.

Ogni insegnante, oppure ogni classe, potrebbe predisporre un proprio ambiente di social networking usando Ning (anche Eelg è piattaforma simpatica, di quelle però da scaricare e installare come Moodle), dove grazie alle tecnologie di tracciamento offerte dai feed RSS e alle finestre di visibilità widget da allestire sulle proprie pagine sul socialnetwork risulterebbe facile far confluire tutta la produzione documentale elaborata dal gruppo classe e altrove allocata, e insieme provvedere strumenti per la valutazione della comprensione da parte dei discenti, quali forum e bacheche specifiche per le discussioni corali sulle tematiche proposte dagli insegnanti.

Avendo le proprie presentazioni o documenti .doc .pdf su Slideshare o su Scribd, i propri video su YouTube o su Vimeo, incastrando video e presentazioni con Zentation, mostrando le vostre foto su Flickr, lavorando attivamente sulle mappe satellitari della propria zona arricchendole di contenuti originali sviluppati nel corso delle attività didattiche, collaborando sui wiki creati con PBWiki o Wikispaces o Wikia, sfruttando a fondo le potenzialità offerte dagli strumenti del vostro account Google quali GMail o il Calendario condiviso e collaborativo, l’imprescindibile GoogleDocumenti per scrivere e pubblicare pagine web, l’altrettanto fondamentale aggregatore Reader per nutrire e tenere aggiornata la cultura del gruppo di lavoro, e riportando tutte le attività che ogni singolo partecipante svolge autonomamente su web su tutti questi e su altri Luoghi all’interno del “social network di classe”, già ottengo un ambiente flessibile e potente, capace di accentrare le funzionalità operative e quindi connotato identitariamente in modo stabile, riconoscibile nel tempo in quanto esplicito Luogo di apprendimento online ufficialmente firmato dalla scuola e dall’insegnante.

Se proprio proprio volete insistere su Facebook, tramutatelo almeno in un ambiente meno dispersivo, arredandolo con degli applicativi web di terze parti che potranno concorrere a rendere più efficace il vostro quotidiano lavoro di insegnanti su quella piattaforma.
A questo indirizzo su Selectcourses.com trovate cento 100 risorse per la produttività personale e per l’insegnamento da utilizzare dentro FB, organizzate secondo categorie: ci sono strumenti per mettere in luce le connessioni sociali, la gestione dei documenti e la loro condivisione, per le funzioni di ricerca delle informazioni, per la gestione dei gruppi di lavoro, per l’organizzazione lavorativa, nonché strumenti specifici per l’apprendimento e lo studio, da utilizzare anche con approccio ludico.

Enjoy and happy teaching.

Comprendere l’umanità aumentata

La comprensione culturale di un mondo che cambia così in fretta richiede una ridefinizione dei parametri che utilizziamo per orientarci. Tuttavia è fortemente probabile che la scuola avrà il compito di occuparsi dell’educazione tradizionale, dai classici alla matematica. Quindi il senso dello spirito del tempo, la comprensione culturale, l’educazione ai media saranno un problema delle famiglie. E starà a noi riportare sull’uomo la centralità dell’azione, che le tecnologie abilitano e che oggi ha nuove potenzialità. Il governo stesso della nostra vita emozionale, dei nostri affetti, dei nostri interessi e la tutela dei nostri diritti, la difesa dei nostri valori: sono tutti aspetti che possiamo, oggi, gestire in maniera accresciuta.

Ma se sapremo guadagnarci, o se guadagneremo, solo ansie, dipenderà solo da noi, dalla decisione di cominciare a governare culturalmente il cambiamento o di subirlo lasciando ad altri (i nostri figli) il compito di affrontarlo e di gestirlo. Loro, non potranno farne a meno. (grassetto mio)

Queste riflessioni le trovate su Piovono rane, la rubrica di Alessandro Gilioli su L’Espresso. Sono le righe conclusive dell’anticipazione del nuovo libro di Giuseppe Granieri, “Umanità accresciuta” (Laterza, in libreria il 17 aprile), dove uno dei migliori studiosi italiani di tutte queste cose di social web e abitare in rete prova a fare il punto della situazione attuale e a delineare qualche scenario futuro, con sensibilità tutta umanistica.

Chi mi segue sa quanto e da quanto tempo (ne parlo qui, qui, qui e toh anche qui, qui e qui), io provi a promuovere cultura digitale in àmbito scolastico e a sviscerare le problematiche relative alla corretta “postura” del fare scuola oggi, rispetto alla necessità civica di fornire ai giovanissimi degli orizzonti culturali e delle competenze digitali che li rendano in grado di fruire appieno dei loro diritti di cittadinanza, di accesso all’informazione e agli strumenti sociali di espressione di sé.
Per questo la posizione pragmaticissima di Granieri, riguardo il fatto che con estrema probabilità tutti questi apprendimenti non avverranno tramite educazione formale, mi fa male, perché ha ragione.
La Scuola sta perdendo tempo, simili tematiche verranno con dignità (dentro la testa dei docenti, dentro i curricoli, nella stessa organizzazione didattica) affrontate solo tra molti anni, quando i ragazzi di adesso saranno già parte attiva della popolazione, adulti che affronteranno la complessità del mondo futuro con una preparazione abborracciata tipica del loro essere abitanti digitali nativi (evito l’etichetta “barbari” – oppure leggete seriamente cosa dice Baricco – perché questi parlano molto, altro che balbettare, hanno una cultura vivacissima, e perché è parola eccessivamente razzista nel connotare il loro nuovo e vincente stile abitativo biodigitale rispetto alla nostra morente civiltà del pensiero scritto e stampato), alla cui formazione nessun insegnante grazie al filtro della propria sensibilità ed esperienza ha potuto contribuire, educandoli alle forme di significatività del mondo e alla costruzione consapevole della propria identità sociale.
Perché gli insegnanti, tranne ovviamente i soliti illuminati che ora soffrono come cani per le difficoltà che incontrano nel provare a introdurre degli ammodernamenti didattici o organizzativi resi possibili dalle TIC, di queste cose non capiscono nulla, non avendone appunto esperienza. Nulla.
E i nuovi insegnanti che vedo arrivare nelle scuole o che provano timidamente ad affacciarsi qui in Rete con dei propri Luoghi personali o professionali, sono lì a perder tempo con le stesse domande che ci facevamo dieci anni fa, con gli stessi software tipo Ufficio, senza avere nemmeno l’umiltà di leggersi qualche libro aggiornato oppure di scandagliare le profondità della rete, su quei forum e bacheche dove da anni fioriscono le riflessioni sui risvolti educativi delle ex-nuove tecnologie… poi qualcuno mette una parola di finto buon senso, “l’apprendimento è così e cosà”, “alla fin fine niente sostituirà mai un buon libro”, “l’approccio pedagogico di TaldeiTali”.
Tutti pensieri fatti da gente, autori prestigiosi o educatori, che magari vent’anni fa avevano tutta la loro ragion d’essere, ma oggi non funzionano, e cadono inesorabilmente fuori luogo.
Perché questa gente non ha un blog, non commenta sui blog o sui forum, non ha un account su YouTube, non usa un aggregatore, non frequenta Luoghi websociali, usa la Rete solo per rubare come predoni nomadi, ma non abitano, non hanno cura dei territori digitali dove i ragazzi vivranno, non donano niente, non costruiscono niente. E poi tutti baldanzosi di essere alfieri del web20, ovvero della ormai banale normalità del vivere in Rete, giungono con fare messianico a dire agli altri cosa devono fare, di quello che loro stessi non fanno e non sanno fare.

“Eh, signora mia, qui non si più come vestirsi, non ci sono più le mezze stagioni”.
Ma soprattutto, “qui una volta era tutta campagna”: nel frattempo il web è diventato il principale Luogo di socialità del pianeta, struttura e flusso costitutivo del nostro essere cittadini consapevoli e critici della modernità, qui è dove ci informiamo e dove discutiamo e dove agiamo professionalmente e ludicamente, e non esisterà un futuro senza Rete, potete esserne certi.

Web is a-changing

Da un commento a una battuta gambelunghe di Fabio Giglietto su FriendFeed, mi appunto qui un’osservazione.
FriendFeed, come già Facebook settimane fa, è in fase di restyling dell’interfaccia. E’ già successo, ci saranno i soliti putiferii su “meglioprima/meglioadesso”, poi ci si abitua. In realtà sappiamo che modificare (oppure nascondere vs. promuovere) la disposizione dei bottonètti sulle pagine riconfigura nella nostra testa anche la percezione delle possibilità operative, i comportamenti che pratichiamo – e tralascio l’impatto del look&feel sul nostro sentire emozionale rispetto l’interfaccia, importantissimo.
Ma la nuova interfaccia di FF ha un bottone “pausa” (è sempre in real-time sui post), perché siam passati da un web dove le cose statiche andavano aggiornate (consumare il tasto F5, insomma) ad un web dove le cose vanno fermate.
Certo AJAX in quanto tecnologia soggiacente il web20 ci ha abituato alle pagine dinamiche, con gli oggetti movibili e i refresh rapidi. Semplicemente ora il web è veramente fatto di flussi, e FriendFeed rimane il miglior esempio di lifestreamer sociale che conosco. Vediamo se la nuova interfaccia ancora in beta metterà l’accento sui contenuti pubblicati o sulle dinamiche relazionali, ad esempio.

Coprifuoco a Udine

Ne ho già parlato altre volte qui su questo blog, perché si tratta di una situazione oggettiva, misurabile, non dei deliri di uno come me a cui talvolta piace andare in giro di notte a vedere cosa fa la gioventù per sentirsi viva e dirlo al mondo. Capirai, vado al cinema, a vedere delle robe di arte, a sentire musica nei locali, cerco gente e idee. Socialità. Udine è un deserto di per sé, dove una pozzanghera minuscola diventa un mare di novità dove si ritrovano a sguazzare quelle poche centinaia di ragazzi e ragazze, forse mille, che animano la vita notturna di una città di centomila abitanti, dove i pubblici esercizi possono contare su un certo numero di clienti, anche grazie all’Università.

Un anno fa chiudeva il NoFun aka LaCantina, un circoloarci dove Gaetano era riuscito a portare con costanza un po’ di gruppetti simpatici a suonare, persino americani o inglesi, una programmazione di qualità. Questo faro di cultura giovanile udinese (se non altro per il fatto di essere l’unico posto stabile per fare concerti con 80 persone dentro, ripeto ottanta; a Udine non ci sono posti per fare un concerto con chessò 300 persone) dopo quindici anni di presenza non ha ottenuto il rinnovo del contratto di locazione, e può capitare.
Un altro circoloarci, il Pabitele aka Zoo, è riuscito a fare pochi anni di concerti e djset, ma sempre in modo un po’ precario, e ora credo facciano solo delle serate di milonga e tango, perché il vicino da sempre protesta a tal punto da far passare la voglia ai gestori di combattere con denunce e sanzioni.
Ora gli eventi stanno precipitando: hanno chiuso il Barcollo, in pieno centro, dove i ragazzi soprattutto universitari si incontravano per i rituali dello spritz, e hanno fortemente limitato gli orari di apertura dei Provinciali, che è (era) un osteria con la cucina aperta fino alle 23.
Nel primo caso il gestore ventitreenne seguiva scrupolosamente gli orari di spegnimento musica, stop somministrazione bevande, chiusura serranda: poi la gente rimane a parlare in strada, com’è ovvio, e le forze dell’ordine hanno chiuso il locale, una mattina, su denuncia di qualcuno che abita nelle vicinanze. Chiuso, e basta, con i dipendenti a casa e migliaia di euro di perdita a fronte di un affitto che immagino stellare.
Il gestore dei Provinciali ha dovuto mandare a casa quattro o cinque dipendenti, non potendo più contare sulle entrate serali legate all’attività di ristorantino: gli è stato imposto di smettere tutto alle 21.00.
Se a Udine andate al cinema di sera, uscendo dal primo spettacolo (!) troverete con difficoltà un locale dove bere qualcosa, e camminando in centro a mezzanotte e mezza sentirete solo il silenzio.


Perché l’ultima novità è quest’ordinanza sindacale con cui si stabilisce che la musica nei locali (live o riprodotta) deve finire appunto a mezzanotte e mezza, 00.30 anziché all’1.00, e i locali hanno mezz’ora o un’ora massimo per far sgombrare la gente. A casa, a dormire, e non rompere i coglioni soprattutto.
L’altro sabato sera in piazza hanno fatto smettere di suonare a mezzanotte una tipa che era da sola sul palco con la sua chitarra, mica una band di metallo pesante.

Il Visionario, che fondamentalmente è un bar lungo con una stretta terrazza e con un palchetto buono appena per ospitare un paio di dj, quando offre una serata musicale vede arrivare centinaia di ragazzi e ragazze, perché non ci sono altri posti dove andare, semplicemente. Ieri sera scommettevo col gestore non sul fatto che la polizia arrivasse o meno a controllare il rispetto dell’ordinanza sindacale, quello era ovvio: noi puntavamo sul loro orario di arrivo. Io dicevo prima della chiusura, lui diceva appena dopo. Ho vinto io, e titubante mi son scolato lo shottino di uischi in palio temendo che insieme all’unico drink bevuto mezzora prima mi facesse salire il livello alcolico oltre il fatidico 0.5, e qui ci fermano anche sulla Vespa per farci il palloncino.

Di questa cosa ne parlano Gaia Baracetti e Alessandro Venanzi, quest’ultimo anche ventisettenne consigliere comunale, che provano bontà loro anche a suggerire delle soluzioni ispirate al buon senso e al dialogo, nella consapevolezza che l’offerta di luoghi cittadini di socialità (rispettosa delle leggi, certo) sia un sinonimo di qualità del vivere, di vivacità culturale.

A Udine c’è una giunta di sinistra, il sindaco è quell’Honsell ex-rettore dell’Università, che scrive su Wired e andava da Fazio a spiegare matematicamente perché se piove è meglio camminare che correre. Non posso credere che la Giunta comunale abbia motu proprio operato questo giro di vite, questo inasprirsi del controllo sociale su Udine, che quasi sembra un piano repressivo. Udine è morta, sia chiaro, culturalmente parlando.
Potrebbero essere indicazioni dei Destri (Regione e Provincia) sul questore, che però difficilmente si muove senza coordinarsi con il sindaco di una città. Oppure siamo dentro un do ut des, dove in cambio di una certa tranquillità politica la Destra ha ottenuto appunto la certezza di vedere applicate certe iniziative di controllo sociale. Non c’erano più locali da strigliare, siam passati a chiudere i bar.

Ecco a cosa potrebbe servire Facebook: a far arrivare per caso 800 ragazzi e ragazze in piazza, con i bidoni per suonare e cantare la bellezza di una vita, quale potrebbe essere e non è.

La Scuola di domani: aperta, connessa, sociale.

La Scuola di domani: aperta, connessa, sociale.
Giorgio Jannis

Cambiamento è la parola chiave di questi nostri anni. Una parola che può servirci per etichettare efficacemente il rapidissimo modificarsi delle strutture sociali degli ultimi decenni, e al contempo spinge il nostro agire attuale verso nuove forme di organizzazione del vivere, verso un necessario ripensamento e conseguente riprogettazione del fare umano rispetto ai territori d’insediamento e agli spazi di socialità oggi indifferentemente biodigitali.

I territori abitativi interpretati secondo visioni sistemiche emergono nella percezione come stratificazioni di epoche lontane, nelle tecnologie del mondo agrario e di quello industriale – le strade e le ciminiere, i tralicci e le bonifiche – ovvero come reti comunque tecnologiche di produzione e distribuzione dal forte sapore connotativo del Paesaggio, a cui oggi va aggiunta la tecnologia miniaturizzata e invisibile delle reti di connessione dei telefoni cellulari e di Internet, dove il web sta maturando in sé la capacità di offrire all’umanità un ambiente in cui intrattenere comodamente proficue relazioni sociali e notevolissimo scambio informativo ed espressivo con altre persone, fino al punto di farci ormai ritenere connaturata al nostro esercitare Cittadinanza Attiva la possibilità di poterci esprimere liberamente in Rete e da quest’ultima trarre informazioni dalle plurime fonti disponibili. Anzi, la presenza nelle legislazioni di un esplicito “diritto di banda” per ogni cittadino permetterebbe un ottimo confronto del grado di civiltà raggiunto dai singoli Stati, in quanto rappresentazione della libertà espressiva e dell’apertura alla Società della Conoscenza, come valore fondamentale per i tempi a venire.

Conseguentemente, si profila la necessità di provvedere una certa Educazione alla Cittadinanza attiva, proprio perché le tecnologie della comunicazione – il cinema, poi la radio, la tv, il web: sono i nuovi luoghi del Novecento in cui l’umanità racconta sé stessa – ovvero le principali responsabili della presa di coscienza collettiva della Transizione che stiamo vivendo, rendono sempre più diffusa la possibilità (il diritto!) per tutti noi di partecipare al dibattito collettivo, nei termini di consultazioni pubbliche o di veri propri atti di democrazia partecipativa, da concepire soprattutto con attenzione agli aspetti di governo locale del territorio. Come dire, qui bisogna dotare le persone di competenze digitali, per una questione di civiltà: l’accento va posto sulle dimensioni sociali delle nuove tecnologie, e non sugli aspetti tecnici dello strumento computer quale finestra per accedere alle forme di Abitanza digitale nel web.

La Scuola, quale luogo istituzionale deputato alla formazione del Cittadino, credo sia riuscita negli ultimi tempi a portare in luce, ragionando sul proprio fare, una distinzione importante riguardo l’utilizzo didattico delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione, dove finalmente a fianco di una funzione puramente strumentale di queste ultime (l’utilizzo di programmi di videoscrittura e di fogli di calcolo, oppure i software specifici per aspetti tecnici) emerge una considerazione sul loro essere piuttosto degli “ambienti di vita”, con cui tutti noi interagiamo quotidianamente, che si tratti di web o di cellulari o altri schermi. Disporre di spazi di espressione multimediali e pubblici, come i forum, i blog, i wiki, gli archivi audiovideo e le mappe satellitari, e utilizzarli tranquillamente nel flusso delle attività didattiche in classe (comprendendone le peculiarità social web, ovvero partecipative e collaborative) rende chiaramente percepibile il flusso di informazioni, ora aumentato e bidirezionale, che scorre tra la società e quella Scuola che ritiene importante essere un attore sociale trasparente e attento, aperto alla comunicazione con il territorio.

Purché gli insegnanti vedano nel computer una finestra verso un mondo ricco di socialità e di espressione di sé, e non come una macchina per scrivere; purché i PC in classe diventino “trasparenti” come lo sono i libri e le lavagne, supporti tecnologici dell’apprendimento ormai inglobati nel flusso delle progettazioni didattiche; purché le aule scolastiche siano percepite come “stanze senza pareti”, dove risulti facile consultare risorse del territorio e portare il mondo dentro la scuola, in uno scambio osmotico garanzia di aggiornamento costante e sintonia tra sistema formativo e società tutta.

Ecco, una scuola senza muri, liberamente attraversata da flussi fisici ed elettronici di persone e idee eppur riconoscibile nella sua identità istituzionale di Luogo formativo, dove strumenti di connettività personale rendano possibile far lezione ovunque e dove qualsiasi risorsa dello scibile umano sia disponibile all’istante, senza interrompere il flusso della narrazione gruppale con cui docenti e allievi, in presenza o a distanza, esplorano gli argomenti di studio e ri-giocano la realtà ricontestualizzando le conoscenze apprese dentro contenitori online condivisi e collaborativi, potrebbe essere una buona palestra alla Cittadinanza intesa in senso moderno, in un mondo fatto di ambienti di vita (di crescita) fisici e digitali in rapida trasformazione.

Diventa anche tu delatore

Sì, lo so, la delazione e la civiltà e il farsi i cazzi propri eccetera eccetera. Ma mi sono stancato.
Su questo argomento in particolare poi, da vecchio rissaiolo, mi prudono subito le mani.
E vi risparmio la faccia di maritino e mogliettina, l’arroganza delle loro occhiate sulla plebaglia, altrimenti Lombroso mi applaude dalla tomba.

Bene. Un’ora fa ero a far la spesa in un super qualsiasi. Subito fuori dall’entrata ci sono ovviamente gli stalli per far parcheggiare le persone ad esempio con handicap motorio, e mi pare civiltà.
Quindi considero assolutamente incivile (nonché meritevole almeno di pubblico ludìbrio) chi potendo camminare per 15 – quindici! – metri parcheggia sugli stalli riservati a chi espone il bollino col disegnetto della carrozzella. E’ sinceramente una delle cose che mi altera maggiormente, passo subito in modalità “rissa”.

Sono anche rimasto ad aspettare i proprietari dell’auto, e dalla mia postura e da come li guardavo hanno capito subito che in realtà aspettavo una scintilla qualsiasi… il maritino voleva forse chiedermi qualcosa a muso duro, la mogliettina gli ha fatto cenno di tirar via dritto.

In questo stesso supermarket ho già battibeccato per lo stesso motivo un paio di volte, con dei croati tamarrissimi che però han capito e con una sioretta che invece si ostinava a far finta di non capire. Ormai andare a far la spesa lì è uno dei motivi che mi tiene vivo.
In entrambi i casi erano macchinoni, BMW grosse oppure il SUVetto della siora.
Oggi si trattava di Mercedes 320 da 60.000 euro assolutamente senza bollino esposto, che vi siano correlazioni statisticamente significative tra atteggiamenti arroganti e macchina posseduta?

Non sono ancora arrivato al punto di chiamare un vigile, ma pubblicare qui sì.
Segnatevi la targa del merda: DK793GC.

Maragliano, Infante: digital inclusion

Alcune suggestioni per una risposta maggiormente articolata agli interrogativi di cui al post precedente, per la comprensione delle relazioni tra internet e scuola, può giungere da questo video, dove Carlo Infante (qui trovate un suo profilo) intervista Roberto Maragliano per la trasmissione Salva con Nome di RaiNews24.

En passant, faccio notare come la difficoltosa definizione iniziale del moderno “stare in Rete” avrebbe potuto succintamente ed efficacemente essere resa con la locuzione “abitare in Rete”, ormai ampiamente accettata da chi si occupa di cultura digitale (e relativi risvolti antropologici) in Italia. Ma certo è facile dire questo, qui sul blog dei NuoviAbitanti ;)

Abitare il video aka “Mai distrarsi”

Le cose sono andate così.
Sergio Maistrello, conoscendo la mia accidia – era bello quando ero giovane, ed ero solamente pigro – circa un mesetto fa mi ha chiesto se potevo prestargli un intervento video di una decina di minuti, dedicato agli argomenti dell’abitanza digitale, da mostrare ai partecipanti di un master in digital marketing a Milano.

Ovviamente, me ne sono dimenticato per tre settimane. Quando GoogleCalendar mi ha avvisato con un sms, ho fatto spallucce: avevo davanti ancora dei giorni interi per fare brutta figura.

Poi mi sono ammalato, un raffreddore da trasformare il naso in rubinetto e la testa in una confezione di ovatta. Ma il video era da fare, perbacco. Ci ho provato un paio di volte, ma dimenticavo sempre il microfono chiuso oppure mi saltava la webcam, e oltre a me anche il pc ha preso un virus.
Soluzione drastica: ho continuato a sproloquiare liberamente, registrando, così poi da un’ora di girato ho ricavato quindici minuti di montato. Tutte le volte che starnutivo o tiravo su col naso o prendevo l’aspirina o mangiavo un paninetto con lo speck, le ho tagliate via, ho ritenute superfluo documentare tutto tutto. Nel delirio raffreddoso, mi ha sfiorato anche per un attimo l’idea di farne un videoclip musicale, un rap su una base funkettara di tosse e starnuti.

Quello che è rimasto, è qua sotto ovvero su Vimeo. Enjoy.


Cultura TecnoTerritoriale, Abitanza BioDigitale from Giorgio Jannis on Vimeo.

L’importanza di …

Fare le cose per bene, con quell’accento sullo stato del mondo ottimale in seguito all’azione svolta.
Meglio far le cose per bene, che farle al meglio, forse.

Ecco, quel “bene” non è un valore assoluto, dipende anch’esso dal contesto.
L’azione “fatta bene” è quella più adeguata al contesto. Prendete il galateo di Della Casa o di Lina Sotis, e noterete che spesso le regole dei cerimoniali non tendono a ottenere il miglior risultato possibile, ma il risultato migliore nella situazione sociale in cui l’azione si svolge… dove spesso infatti i rituali strutturati sono progettati per far sì che ciascuno abbia un ruolo sociale definito nella situazione e sappia cosa fare/dire, non per l’efficacia dell’azione. L’obiettivo situazionale è più rendere le situazioni fluide, rispetto all’efficacia perfetta. Tant’è che spesso il galateo complica le situazioni, ma tutti sono a loro agio se seguono l’etichetta. Prendere le forchette via via dall’esterno verso il piatto non può creare imbarazzo, è una cosa funzionale nella situazione. Se la regola non è funzionale fa saltare l’agio dei partecipanti, e quindi la regina margherita mangia il pollo con le dita, e tutti si sentono a proprio agio nella situazione sociale.
Alla base, certo la funzionalità, ma credo più importante sia l’adeguatezza sociale nella situazione. Perché la situazione può sostenere (spesso il cerimoniale prevede anche i rituali di riparazione) una funzionalità farraginosa, ma nessuna situazione sociale umana può sostenere l’imbarazzo di una persona, perché l’imbarazzo è di tutti gli altri che non sanno più come interagire con una persona che d’un tratto si trova “senza faccia” (Goffman, da qualche parte).

Ma fare un lavoro per bene nel mondo degli atomi, come riparare una sella di uno scooter (ecco che questo mio cuore a forma di Vespa comincia ad accelerare) significa fare un lavoro che appunto prenda come misura della propria qualità il proprio essere adeguato al contesto fisico del mondo. Quindi l’artigiano (dentro di lui si muovono generazioni di artigiani che da millenni dialogano con tessuti e aghi e fili, con la grammatica tecnologica donata da Atena) cercherà di realizzare un lavoro che resista all’usura di un jeans che per ore si strofina sulla sella. La sua competenza sta nel trovare i materiali e nel possedere informazioni sul comportamento fisico/chimico/meccanico, nel tempo, dei materiali, per adeguarli al contesto della relazione sella-sedere.

Ma fare un lavoro sul web non riguarda la materia. I pixel non si consumano a guardarli, i bit non arrivano stanchi per l’attrito.
Fare un lavoro per bene su web significa adeguarsi al contesto immateriale e perennemente in progress, il web è sempre beta-release. Quando dieci anni ho cominciato a rompere l’anima alle maestre con gli ipertesti e i power(colpoditosse)point, era importante far loro comprendere come l’opera potesse essere ripresa l’anno successivo, ed ampliata: questo contrasta con la mentalità editoriale dell’edizione definitiva. Non c’è più niente di definitivo. E non ci saranno più appendici e integrazioni alle opere, l’opera è in continuo farsi. E quindi fare bene un lavoro non vuol dire finirlo, e neanche farlo bene. Su web, per cominciare, significa farlo. Poi il vivere stesso autonomo di quell’opera (quel sito, quel documento pubblicato, quel post sul blog) conterrà gli strumenti del proprio miglioramento, auspicabilmente grazie agli apporti di tutti quelli che ci interagiscono.

Tutto questo per rispondere a Gino Tocchetti, che in un suo post dedicato alla cultura del lavoro artigianale riprende un suggerimento di Andrea Beggi che parlava proprio del suo incontro un vecchio meccanico di scooter, esempio vivente di un’etica del lavoro encomiabile, nello svolgere il suo compito “a regola d’arte”.

Ma credo che siano cambiate le regole dell’arte (ars, techne, Atena e Vulcano), qui, dentro il web. E appunto fare un lavoro “per bene” non significa finirlo -> chiuderlo al meglio, ma forse aprirlo al meglio. Non volere le cose perfette, mettersela via, pubblicare in bozza, scrivere di getto e fidarsi degli altri. Per i nevrotici sarà un delirio, la signorina Perfettini potrebbe dar di matto.
Eppure funziona così, qui. Se fai una cosa perfetta, è vecchia, o non maneggiabile. Non permette serendipità nel suo uso, che fa scoprire ciò per cui non era stata progettata, come fare i cartoni animati con powerpoint reinventando la sua destinazione d’uso, con approccio mentale bricolage.

Giustamente Gino sottolinea (lui è veneto, io friulano, viviamo dentro una cultura del fare artigianale ben precisa, storica, concreta) la qualità del pensiero professionale di quell’artigiano. Ma non credo che il miglior artigiano del web debba necessariamente condividere quella mentalità. Potrebbe darsi il caso che per lavorare a regola d’arte qui dentro quell’artigiano debba avere in sé (nel pensiero di sé che pensa la professionalità del proprio essere dignitosamente artigiano ai propri stessi occhi) una gerarchia di valori completamente differente, su cui appoggiarsi per impostare e giudicare sia l’opera sia il processo di produzione dell’opera.

Su David Orban (ora il sito non si carica, mah) trovate una traduzione italiana del Cult of Done Manifesto di Bre Pettis, da tradurre appunto come Manifesto del Culto del Fare rispetto a Culto del Fatto, proprio per mantenere aperta la visione dinamica (sennò bisognere spiegare che il Fare è un Fatto, e via rotoloni giù per la scala a chiocciola del Senso). Ecco qui.

Il Culto del Fare
  1. Ci sono tre stati dell’esistere. Ignoranza, azione e completamento.
  2. Accetta che tutto è una bozza. Questo aiuterà a fare.
  3. Non c’è un secondo passaggio, di editing o montaggio.
  4. Far finta di sapere cosa stai facendo è quasi lo stesso che saperlo fare davvero, quindi accetta che sai quello che stai facendo, anche se non è vero e fallo.
  5. Non procrastinare. Se aspetti più di una settimana per agire su un’idea, abbandonala.
  6. Lo scopo del fare (being done) non è finire, ma poter fare altro.
  7. Quando l’hai fatto puoi buttarlo via.
  8. Ridi in faccia alla perfezione. È noiosa e ti trattiene dal fare.
  9. Le persone che non si sporcano le mani sono nel torto. Se fai qualcosa hai ragione.
  10. Il fallimento conta come fare. Quindi devi fare sbagli.
  11. La distruzione è una variante del fare.
  12. Se hai un’idea e la pubblichi online in Internet, conta come lo spirito (ghost) del fare.
  13. Il fare è il motore del più.

Bello, eh? Di che capottare le fondamenta su cui abbiamo costruito nei secoli la dignità e l’etica del lavoro. Se restiamo fermi a manufatti atomici. Ma nel web, è l’unica soluzione valida. Tant’è che oggi Encarta (pensiero artigianale/industriale) ha chiuso, e Wikipedia evviva.

Insegnanti, vi voglio vedere

L’Inghilterra ha appena varato una riforma scolastica decisamente innovativa.
Le materie di studio curricolari alla scuola primaria passano da tredici a sei (inglese, comunicazione e linguaggi, matematica, scienze e tecnologie, scienze umane sociali ed ambientali, scienze della salute e del benessere, arti e design), molti argomenti ad esempio di storia scienze o geografia non verranno più affrontati in quanto destinati comunque ad essere ripresi nelle scuole secondarie medie e superiori, ma soprattutto verrà dato un peso notevolissimo all’alfabetizzazione informatica e alle competenze digitali. Nel corso degli anni di scuola elementare, i bambini dovranno avere imparato a usare strumenti come le email, i podcast, Wikipedia e Twitter, e la scrittura al computer sarà parificata a quella manuale nella pratica quotidiana.

Perché muoversi foss’anche a tentoni in un mondo che cambia è sempre meglio di restare immobili, e venir travolti.

Ci sono insegnanti che leggono, qui? O persone comunque interessate alla tematica? Il dialogo è aperto, la ragion d’essere di un blog è la presenza di quel bottone “commenti”, qua sotto.

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Massimo Mantellini per PuntoInformatico

Giovanni Arata nei giorni scorsi ha dedicato un articolo su questo giornale alle recenti ipotesi di innovazione nel mondo dell’istruzione inglese. Se ne è parlato molto nei giorni scorsi anche sugli altri media italiani, spesso con toni a metà fra lo stupito ed il canzonatorio. Colpa forse di Twitter, piattaforma sociale di recente fama che in Gran Bretagna, forse con qualche avventatezza, vorrebbero elevare a materia di insegnamento nelle scuole.

L’argomento è interessante per un numero ampio di ragioni. Intanto perchè non esiste al riguardo alcuna certezza. Vi interessano studi scientifici che riguardino l’influenza delle nuove tecnologie sulla didattica o sullo sviluppo psichico degli adolescenti? Nessun problema, ne troverete moltissimi, capaci di sostenere con ragione, numeri e dotte conclusioni qualsiasi sfumatura fra le molte posizioni possibili, da quella dell’irremovibile luddista a quella del tecnofanatico.

Molti studi neurofisiologici dicono cose piccole e intuitive, per esempio che il nostro cervello sta cambiando, in relazione agli stimoli che riceve. Esattamente come è sempre stato. Non ci sono giudizi di merito in molte di queste osservazioni: ci stiamo abituando a processare più informazioni di quanto non ci accadesse in passato, più velocemente, attraverso strumenti emotivamente avvolgenti che fino ad un decennio fa nemmeno immaginavamo. Paghiamo per questo un prezzo in termini di elaborazione culturale, sedimentazione dei contenuti, meditazione, calma? Probabilmente sì, lo dicono gli scienziati e ce ne accorgiamo in parte anche noi stessi, ogni giorno.

Se il governo inglese decide di includere con maggior vigore le nuove tecnologie e gli strumenti che le abitano nella didattica fa una cosa certamente ragionevole, ancorché inevitabile, per lo meno in un paese che tenga nel giusto conto la crescita culturale delle proprie giovani generazioni. Ci sono ottime possibilità che lo faccia male, che vada per tentativi, che scelga percorsi che domani si riveleranno sbagliati, ma non c’è dubbio che sarà sempre meglio di non fare nulla. Non dobbiamo illuderci che l’immobilismo sia la rassicurante calda coperta di lana che non è. E’ invece vero il contrario.

E pensare che in molti casi non si tratta di esprimere giudizi di merito ma semplicemente di osservare il già successo. Pensate per esempio alla scrittura: quanti adulti oggi nel mondo del lavoro scrivono ormai con la penna?In qualsiasi ambiente professionale, impiegatizio, amministrativo in senso lato, nella stragrande maggioranza di quelle professioni in cui si usava carta e penna oggi, semplicemente, non la si usa più. E’ una constatazione, non un giudizio di valore sulla penna in sé. Io – per dire – ho una età tale che quando frequentavo le scuole elementari ci si allenava con il pennino e l’inchiostro: il pennino, l’inchiostro e la carta assorbente, non so se vi rendete conto. La Bic a quei tempi era ancora (per poco) tecnologia prossima ventura.

E’ certamente traumatico pensare alla calligrafia come ad un residuo del passato e non sarebbe nemmeno giusto farlo : ci sono mille ragioni sacrosante per conservarne per quanto possibile le abitudini. E non sarei contento se mia figlia che frequenterà la prima elementare quest’anno, non tornasse a casa con i suoi quaderni pieni di lettere ordinate e tutte uguali a riempire le pagine. Per il resto non ci sono santi: quello che doveva succedere è già successo ed i nostri figli, domani (in quel frammento brevissimo di tempo che è il domani), scriveranno con la tastiera di un computer (o con un sistema di riconoscimento vocale o con quello che vi pare a voi). In ogni caso, già adesso, non c’è alcuna possibilità di riportarli indietro al calamaio e nemmeno alla penna a sfera.

Io già li immagino i sorrisini imbarazzati o anche la palese costernazione di molti insegnanti ai quali si racconta che oltremanica usano Twitter a scuola, o Wikipedia o qualsiasi altra diavoleria mediata da Internet. Lo so bene, perchè quella imbarazzante costernazione è un po’ anche la mia, di tutti quelli che vedono il mondo cambiare sotto le dita, così come so bene che esiste una dinamica di rifiuto nota nei confronti dei repentini cambi di scenario.

Non abbiamo ancora capito se, come diceva Bill Clinton qualche anno fa, i computer debbano incontrare le nuove generazioni già ai tempi dell’asilo, non sappiamo se Twitter sia una buona idea per uno studente liceale, ma sappiamo che gli strumenti tecnologici hanno invaso le nostre vite comunque.
Noi abbiamo due compiti principali mi pare: il primo è quello di trovare una utile ragionevole mediazione che incastri utilmente l’utilizzo della tecnologia dentro le nostre vite, il secondo, specie negli ambienti sensibili ed importanti nei quali si forma la cultura di una paese come la scuola, è quello di immaginare le nuove tecnologie come la grande opportunità che sono e muoversi di conseguenza. Muoversi.