Archivi autore: Giorgio Jannis

Sempre SchoolbookCamp: le videointerviste

L’altra settimana al convegno di Fosdinovo, usando il cellulare come videocamera, ho fatto delle rapide interviste ad alcuni partecipanti ponendo tre domande tre.

Si trattava di indagare quali cambiamenti tecnologici e socioculturali abbiano reso significativa la proposizione di un evento barcamp dedicato all’e-book e all’editoria scolastica, quali posizioni fossero emerse dagli incontri, quali indicazioni il convegno stesso poteva dare per suggerire le azioni da intraprendere nel futuro, per un utilizzo adeguato dei testi digitali su supporto elettronico negli àmbiti della scuola e della formazione alla persona, per una riflessione tematiche inerenti i modelli economici dell’editoria elettronica, l’introduzione dell’e-book a scuola, le comunità professionali online.

Ho posto queste domande a Noa Carpignano della BBN Edizioni, ad Agostino Quadrino della Garamond, a Mario Guaraldi per la omonima casa editrice, a Marco Guastavigna insegnante e autore di testi sull’apprendimento, a Gianni Marconato quale operatore nel settore della formazione; ne esce certamente un quadro interessante e variopinto.

Il video è lunghetto, 25minuti, però ha un andamento abbastanza rapido.

Se siete interessati a partecipare ai ragionamenti sull’e-book e l’editoria scolastica, qui sulla community Ning di BookCamp trovate il gruppo SchoolbookCamp.

SchoolbookCamp a Fosdinovo. Videointerviste from Giorgio Jannis on Vimeo.

SchoolbookCamp, poi

A mo’ di resoconto, quindi, di due intense giornate in un castello della Lunigiana, eccomi a ragionare di editoria e web, di apprendimento e ruolo della scuola, di e-book come testi scolastici.
Del convegno ne parlano Noa Carpignano, Antonio Fini, Maria Grazia Fiore, Marina Boscaino, Maurizio Chatel e Gianni Marconato, Mario Guaraldi ha lasciato sul post precedente e altrove un commento che qui mostrerò come reportage, e saluto anche Agostino Quadrino, Marco Guastavigna, Francesco Mizzau, Alberto Ardizzone, Elisabetta Tramacere, Filippo Cabiddu e l’assessore (per ora) Massimo Dadà, del Comune di Fosdinovo.

In un barcamp classico, per quanto simposio destrutturato, esiste comunque il tabellone degli interventi, dove la novità sta nel fatto che i post-it con le presentazioni dei selfpromoting relatori vengono affissi la mattina stessa del convegno, quando il tutto prende letteralmente forma.

A Fosdinovo lo SchoolbookCamp è stato invece impostato basandosi su libere discussioni dei partecipanti, inizialmente suddivisi in due gruppi, per continuare poi in plenaria. Questo necessariamente ha provocato la suddivisione dei discorsi in mille rivoli, a volte si regrediva a posizioni già espresse, a volte improvvise fughe dialettiche portavano il gruppo ad arrotolarsi su tematiche non strettamente pertinenti all’argomento del convegno, nonostante l’ottimo lavoro di Maurizio Chatel e di Mario Guaraldi quali “moderatori” delle discussioni.

D’altra parte, questa modalità gruppale di affrontare le implicazioni dell’e-book a scuola ha permesso da subito l’emergere di nette posizioni personali espresse con vivacità, ha portato i punti di vista di insegnanti editori e operatori culturali a confrontarsi direttamente, ha lasciato trapelare i colori forti delle emozioni rispetto a un tema capace di coinvolgere appassionatamente le persone, talmente prese dalla discussione da saltare anche una pausa caffè a metà mattinata, pur di non perdere il filo del ragionamento.

Ma la portata degli annessi&connessi al ragionamento intorno all’editoria elettronica in relazione ai testi scolastici andava regolamentata, delineata.

Si sarebbe dovuto ad esempio illustrare bene il processo editoriale di ideazione e produzione degli e-book, fino al momento della loro pubblicazione; altro filo di discussione avrebbe a quel punto dovuto essere “il destino” degli e-book scolastici, ovvero la loro vita effettiva negli ambienti formativi, il loro utilizzo più o meno rivoluzionario rispetto alle necessità didattiche attuali della scuola.
Ponendo l’attimo della pubblicazione come discrimine, molti ragionamenti sulla Cultura Digitale, sui modelli economici del funzionamento delle moderne case editrici (pregevole Agostino Quadrino di Garamond per le sue idee sul significato odierno della proprietà intellettuale e sulla necessità di conversazione con gli attori sociali, segno di sicura cultura di Rete), sulla visione di sussidi didattici come ambienti e non più come semplici strumenti, sui dispositivi di lettura come Kindle o iLiad, sui nativi digitali e risvolti sociologici, sulle tematiche dell’apprendimento e sulla centralità dei discenti avrebbero trovato una giusta collocazione nel palinsesto del convegno, fatta salva poi la possibilità che i feedback continui tra progettazione e pratiche di utilizzo, come tra discorsi inerenti l’oggetto libro elettronico e le metodologie d’insegnamento possano contribuire a migliorare la percezione e la comprensione di questa ulteriore rivoluzione nella Società della Conoscenza.

Un problema basilare credo stia ancora nell’identificazione del libro cartaceo con il suo contenuto, ovvero la difficoltà per mentalità gutemberghiane di concepire appieno il significato culturale di una Rete capace di sostenere e mettere in relazione tra loro ogni singolo componente dello scibile umano, insieme alle persone che in Rete abitano in maniera consapevole.
Quando diciamo e-book o libro elettronico, la nostra mente oscilla tra il supporto tecnologico in grado di riprodurre testi (il libro cartaceo o il reader) e l’oggetto di conoscenza così veicolato.

L’e-book, come in una relazione sfondo-figura, assume molteplici sensi a seconda del contesto dentro cui viene percepito/pronunciato. E lo sfondo offerto dall’intero sistema editoriale moderno porta necessariamente a considerare il testo elettronico come un terminale, forse una terminazione nervosa, una attualizzazione di forme di sapere che ormai vivono stabilmente e felicemente nel loro ambiente “naturale”, quel web fatto solamente di idee e di opinioni e di relazioni interumane, tutte cose immateriali, che oggi trovano modi diversi di essere narrate. Un e-book letto sopra un e-book reader connesso, come ieri un powerpoint che contenesse anche un solo link verso il web, non è più un libro, ma è un pezzo di web. Non abita più tra le vostre mani, ma sulla Rete. E a dirla tutta, nemmeno i contenuti di ieri (Sofocle o Leopardi, formule matematiche o cartine geografiche) hanno mai avuto vita sui supporti cartacei, ma sempre e solo nella mente e nelle parole di chi li pronunciava. Oggi i contenuti, immateriali come sempre sono stati ovvero oggetti di conoscenza indipendenti dal supporto, abitano dove stanno più comodi, su web.
Persistere a considerare, nella sua progettazione e nella sua fruizione, il libro di testo come oggetto chiuso, autosufficiente, nel momento in cui questo viene reso fruibile tramite supporti aperti e connessi con l’intero scibile umano, impedisce di comprendere la rivoluzione in atto.

Se poi lo sfondo contro cui si staglia il libro elettronico è quello dato dall’intero sistema scolastico, come Luogo sociale deputato all’educazione formale, dove i muri le lavagne di ardesia i libri i professori e i curricoli e la stessa organizzazione dei tempi seguono una logica loro costitutiva non più adeguata ai tempi, giocoforza le innovazioni tecnologiche vengono innanzitutto affrontate come una minaccia all’ordine precostituito, anziché essere valutate nelle loro potenzialità educative. Ma questo significherebbe (ne parlo qui e qui su Apogeo) rimettere in discussione tutta l’organizzazione scolastica, il ruolo dei docenti e la loro preparazione, riconsiderare necessariamente le pre-conoscenze possedute dagli allievi in termini di competenze digitali al fine di meglio programmare la didattica, re-impostare le finalità stesse della scuola attuale in direzione di una formazione ai cittadini che sia sintonizzata rispetto alla modernità.

La scuola è un luogo chiuso, autoreferenziale, incapace di conversare con il territorio. Se prendete una scuola media friulana e la trasferite mattoni e personale in Sicilia, il suo funzionamento rimarrebbe identico, indifferente al mutato contesto. La scuola non è trasparente, figuriamoci osmotica. E pensare che a me piacerebbe che le scuole fossero aperte fino a mezzanotte, dove i cittadini potessero entrare e uscire liberamente come da una biblioteca o un altro luogo della socialità e della partecipazione, una scuola che racconta se stessa e pubblica documenti facendo sentire la sua voce e si pone come parlante ratificato, attore sociale rispetto alla collettività di riferimento, cui appartiene e da cui trae il proprio senso, la propria postura rispetto alla situazione conversazionale con il territorio.

La scuola assomiglia a un libro cartaceo, ecco, mentre preferirei assomigliasse a un e-book. Dove la scuola di mattoni assomiglia a un e-book reader, e la didattica ai contenuti.

Come gli editori non possono, nell’organizzare il proprio fare, tenere in considerazione solamente l’oggi come oggi, ma devono saper porre sé stessi in una prospettiva futura attraverso sperimentazioni e nuove proposte, così la scuola (che peraltro non può far altro che abitare il futuro, nel comprendere la propria dimensione rispetto alle nuove generazioni) deve acquisire la capacità di porsi in termini comunicativi rispetto al mondo.

E la sperimentazione può essere anche fine a sé stessa, se come effetto collaterale produce un rinnovamento delle pratiche. Sappiamo che per come sono state presentate le lavagne interattive, i netbook tipo il JumpPc oppure gli e-book, difficilmente otterremo dei risultati immediati, adeguati alle finalità concrete dell’apprendimento, visto che i nuovi strumenti vengono utilizzati secondo vecchie metodologie di addestramento e pochi insegnanti possiedono competenze in grado di far loro sprigionare tutta le potenzialità aumentate permesse dalle tecnologie della connettività e dell’interattività.
Ma credo che la frequentazione quotidiana con e-book, LIM, blog e aggregatori possa modificare la percezione che gli educatori hanno del loro stesso ambiente di lavoro, li possa portare a saggiare ed esplorare le tecnologie abilitanti, a patto che siano professionali nel loro essere professionisti della formazione.

______

Giusto per non lasciarlo “affogato” tra i commenti di questo blog, incollo qui le parole di MArio Guaraldi.

Salute a Giorgio, Maurizio, Noa, Fulvio, Gianni e a tutte le dozzine di editori, redattori, insegnanti, free-lance, blogger (ma quanti eravamo, in realtà? una marea… ) che hanno condiviso questa full-immersione nel futuro del libro scolastico (e non), con livelli di adrenalina capaci di sciogliermi i calcoli che mi angustiavano.
Bella, bella esperienza davvero, passione, voglia di ascoltare oltre che di parlare, narcisismi ben shakerati con senso di responsabilità: dimostrazione che il metodo collaborativo paga, che professionalità e gratuità possono andare a braccetto quando ci sono in ballo valori autentici. E nel nostro caso, ha ragione Maurizio (Chatel) a indicare che la concorde valutazione di tutti è stata quella che di ripensare tutto intero il progetto educativo e didattico, senza fermarsi ai suoi “strumenti” più o meno tecnologici; allargando anzi il dibattito al mondo della rete.
La dice lunga il fatto che i partecipanti abbiano tutti rigettato la logica dei singoli gruppi di discussione originariamente proposti per convogliare in un unico confronto collettivo i problemi, le domande e le proposte che ciascuno di noi si portava appresso.
Bella, grande esperienza di “democrazia”: anche rispetto alle caterve di circolari e disposizioni ministeriali che da subito gettano un’ombra sinistra sulla legittimità stessa della originaria norma fascista che IMPONE l’adozione del libro di testo e lo vincola a “contenuti didattici” precisi, alla faccia dell’autonomia didattica dell’insegnante. Geniale trovata mussoliniana di organizzazione precoce del consenso a cascate successive: degli insegnanti, degli allievi, delle famiglie (che pagano, e come se hanno pagato, carissima, quella geniale imposizione di contenuti scelti da altri…).
Anche questo è emerso, una dolorosa pillola rossa che ha improvvisamente mostrato come la stessa sinistra sia non solo caduta in questa trappola, ma addirittura l’abbia cavalcata divenendo fisiologicamente “reazionaria” e “conservativa”… Ma anche al rischio di “buttarla in politica” si è giustamente sottratta un’assemblea scafata e tutta protesa al nocciolo della questione educativa.
Non mi azzarderò a tentare una sintesi del molto detto: ma mi piacerebbe che tutti assieme riprendessimo il filo delle proposte “positive” e “creative” bruscamente reciso da uno sconsiderato intervento di una dirigente scolastica (che non aveva partecipato ai lavori) che pretendeva di delegittimare l’assemblea a discutere di scuola e di didattica. Come dire: la scuola è “cosa nostra”, a noi il libro va bene così com’è, di che vi impicciate? Ho chiesto scusa pubblicamente a quella Dirigente scolastica per il modo eccessivamente aspro con cui ho reagito alla sua offensiva dichiarazione. Ora voglio pubblicamente ringraziarla per avermi mostrato direi quasi fisicamente il volto vero del “pensiero burocratico” ripiegato su sé stesso, dalla didattica fine a sé stesso, de-finalizzata da ogni vera vocazione educativa, che forse ogni insegnante combatte in sé stesso, nelle proprie fibre più intime. Aveva davvero ragione San Paolo: ogni guerra, ogni violenza nasce dal cuore stesso dell’uomo. E’ questo il nemico vero da battere…

SchoolBookCamp a Fosdinovo

Questo è un parallelo che mi gioco spesso, quando devo raccontare dei cambiamenti di mentalità soggiacenti ai cambiamenti tecnologici.
Inventando il proiettore e la pellicola perforata per il trascinamento, i fratelli Lumiere inventarono la tecnologia della cinematografia. Poi divennero necessariamente anche cineasti, perché dovevano ben mostrare qualcosa al pubblico. Ebbene, forse le loro strutture mentali erano ancora legate al mondo della fotografia, forse avevano una visione documentaristica, ma in ogni caso produssero dei contenuti grammaticamente caratterizzati da inquadratura fissa, punto di vista centrale, piano sequenza, come nella famosa scena del treno che ci viene incontro e che fece urlare dallo spavento i primi spettatori della settima arte.
Era come filmare il teatro, e riproporlo con un fascio di luce.
Negli stessi anni finesecolo però un genialoide di nome Georges Melies, il secondo padre del cinema, già scopriva le nuove potenzialità narrative del media, e produsse pellicole in cui utilizzava tecniche di esposizione multipla e di dissolvenza, ma soprattutto elaborò delle tecniche di montaggio, la qual cosa costituisce il proprium dell’arte cinematografica, permettendo intrecci paralleli, ellissi, anticipazioni flashforward e flashback, grammatiche innovative, nuove tipologie di narrazione. Melies aveva compreso la specificità del mezzo, dalle possibilità tecniche dello strumento aveva saputo ricavare una poetica formalmente innovativa, nascevano opere che avrebero potuto vivere solo nel nuovo linguaggio cinematografico.

Tralascio i ragionamenti su televisione e web, tanto avete capito. Al mondo c’è sempre chi ripropone i contenuti e le forme narrative del vecchio media dentro i nuovi linguaggi (e va benissimo, visto che i media si integrano tra loro e non si escludono a vicenda), e chi invece prova a esplorare le nuove possibilità di racconto offerte in questo caso dall’ipertestualità.

Nei prossimi giorni parteciperò allo SchoolBookCamp al castello di Fosdinovo, tra Sarzana e Carrara, dove l’argomento principale delle discussioni sarà costituito da ragionamenti sull’editoria elettronica, sui learning object, sui dispositivi lettori di ebook, sulle novità in àmbito scolastico conseguenti all’introduzione di questi nuovi supporti della conoscenza.
C’è una circolare ministeriale n. 16 del 10 febbraio che vincola le scuole ad avviare una “progressiva transizione ai libri di testo online o in versione mista a partire dalle adozioni relative all’anno scolastico 2009-2010”.
E stiamo parlando del buon vecchio libro di testo. Che però con l’ipertestualità esplode, e non riesce più a far stare comodi i contenuti su una angusta pagina. Anzi, molti libri scolastici così come sono pensati non hanno più senso di esistere, come molta manualistica, visto che oggi i nodi di conoscenza vivono in Rete, e lì abitano anche le relazioni tra le persone che rendono quei nodi patrimonio culturale condiviso e in continuo accrescimento.
Il libro non è vecchio, è semplicemente inadeguato in relazione a certi scopi concreti di trasferimento delle conoscenze.

Interessante sarà anche seguire i ragionamenti sui format di contenuto, quei learning object da fornire come pillole agli studenti (vecchia visione di un e-learning più tagliato sull’addestramento che sull’apprendimento significativo, ovvero socializzato) e sui quali articolare il percorso formativo, nonché sugli e-book reader, come Kindle e gli altri, che presi di per sé sono degli splendidi oggetti tecnologici, e non vedo l’ora che in qualche classe qui dalle mie parti vengano finalmente avviate delle sperimentazioni serie, dove ai ragazzi viene fornito un lettore e l’insegnante indica loro via via quali testi scaricare, piluccando dagli ormai ampissimi archivi online di materiale didattico gratuito o disponibile a pagamento presso le case editrici, oppure meglio ancora fornendo spesso loro le proprie schede e dispense in formato digitalizzato. E possibilmente dispense pensate in maniera ipertestuale, ricche di link verso risorse multimediali su web, e non semplice riproposizione di vecchi format testuali, lineari, dentro i nuovi linguaggi.

Al convegno (formula barcamp, ma piuttosto ibrida) ci saran inevitabilmente persone che parleranno di cose che non capiscono, quelli che non abitano in Rete e non comprendono bene l’ecosistema della conoscenza attuale, ci saranno gli apocalittici e gli integrati, i laudatores temporis acti del “niente sostituirà mai il libro” e del “dove andremo a finire”, ci saranno dei visionari, ci saranno quelli che proveranno seriamente a ragionare di innovazione nel mondo scolastico. Con il paradosso che il Kindle e i lettori di e-book sono oggetti connessi via wifi, e nelle scuole non c’è il wifi. Vedremo, poi vi racconto.

Venezia 2.1 secolo

Ogni essere animale o vegetale rappresenta una parola viva nel dialogo tra codice genetico e ambiente. Una parola di cui aver cura, perché veicola un significato unico e originale, esito tangibile di una selezione darwiniana da leggersi nella profondità delle generazioni. Un essere vivente, guarda caso, è perfettamente adatto a interagire con la propria circostanza vitale, nella propria nicchia ecologica.

In modo simile, anche i linguaggi umani sono sommamente preziosi, avendo ciascuno la capacità di nominare il mondo in modo unico e originale. Un termine linguistico fiorisce perché una comunità di parlanti ritiene utile la sua esistenza per poter comunicare.

Poi le specie viventi muoiono o si trasformano, e così le parole.
Se cambia l’ambiente di vita, e nella popolazione non è già presente la giusta mutazione genetica capace di “incastrarsi” con le nuove condizioni esterne, gli organismi si estinguono.
Se oggi la parola “glauco” non esiste più, è perché non vi è più la necessità sociale di pertinentizzare un colore che sta a metà tra il celestino e il verde e il grigio acciaio, che i Latini vedevano e noi non vediamo più. Il mare oggi ha altri colori, evidentemente, negli occhi di chi lo guarda, nelle parole con cui lo si pensa.

Anche gli artefatti, le “parole pronunciate” della tecnologia, possiedono nella propria forma determinate caratteristiche storiche che ci rendono capaci di ricondurre la loro progettazione e realizzazione a tempi e luoghi ben precisi, soprattutto nel caso di utensìli appartenenti alla Cultura Tecnologica agricolo-artigianale, slegati dalle logiche della produzione industriale seriale e della distribuzione planetaria.
Arnesi e strumenti sono nati in contesti d’uso specifici, sono anch’essi frutto di una negoziazione tra l’urgenza di risolvere un problema pratico, i modelli di pensiero dell’ideazione posseduti da una data collettività, e la realtà fisica materiale su cui dovranno intervenire. L’aratro o un coltello per desquamare un pesce, oppure la tecnologia della concia delle pelli e quella dei rivestimenti murari sono apparsi indipendentemente in molte diverse zone del mondo in tempi diversi, dove a parità di funzione d’uso possiamo notare mille varianti realizzative, a seconda della diversa conoscenza di tecnologie trasformative delle materie prime, a seconda della durezza della terra da arare o del tipo di pesce da cucinare, a seconda del clima in cui quella collettività viveva. Gli artefatti parlano, CI parlano, parlano di noi e delle peculiarità ecosistemiche del nostro ambiente di vita, dell’inventiva dei nostri predecessori.

Specie viventi, parole o artefatti, il senso è sempre contestuale.

Guardate lo scalmo nella foto qui a fianco: i veneziani dovendo muoversi con quelle loro barche lunghe e strette in angusti canali naturali della laguna o artificiali come nella loro tutta tecnologica città, hanno dovuto prediligere una postura del vogatore particolare, che non richiedesse troppo spazio né in profondità né in larghezza alla remata, e permettesse di condurre l’imbarcazione stando in piedi.
Questo ovviamente è stato reso possibile dall’evoluzione dello scalmo in un supporto del remo elaborato, unico e originale e solo veneziano, che rendesse praticabile la particolare vogata del gondoliere, per come la conosciamo oggi.
C’è tutto il mondo dentro e dietro quello scalmo, c’è l’intelligenza dei maestri d’ascia nel loro trattare il legno, c’è la comprensione delle necessità vogatorie, c’è una rappresentazione del contesto d’utilizzo, c’è un’estetica talmente connotata da far assurgere nel tempo quella postura e quel gesto del gondoliere a simbolo stesso della città, fino alle riproduzioni in plastica per i turisti.

Ora Venezia dopo mille anni di storia si accorge di essere moribonda. Venezia in quanto città esplicitamente voluta e tecnologicamente progettata, sorta in un ambiente inospitale fatto di sabbia e di paludi reso Luogo antropico dal fare delle generazioni. Una città costruita sopra milioni di pali di rovere infissi nel fango per sostenerne le fondamenta, dove l’intelligenza delle sue genti e dei suoi governanti ha compreso fin dal Cinquecento – dall’istituzione del Magistrato delle Acque – che la sua sopravvivenza fisica dipendeva dalla capacità di gestire con dighe e canali, ecosistemicamente, i flussi delle maree e delle acque di superficie dell’intera laguna e di ampie fasce dell’entroterra. Venezia resa ricca dall’intraprendenza dei suoi commercianti nel Duecento, capaci allora di scommettere sul futuro, resa illustre nei secoli dalla qualità dell’ambiente socioculturale cosmopolita che poteva offrire, ormai da molti anni sopravvive a sé stessa svolgendo attività amministrative e in ultimo turistiche.

Le sue stesse caratteristiche fisiche, ragione del suo successo storico, si sono rivelate inadeguate rispetto ad una economia di tipo industriale pesante, fatta di binari e di tralicci e di scarti tossici, e certamente gli insediamenti di industrie chimiche nell’immediato entroterra di Marghera non sono stati pensati con una logica ecosistemica, che tenesse in dovuta considerazione le difficoltà logistiche dei trasporti e degli approvvigionamenti di materie prime, l’effetto della pressione antropica, il delicato equilibrio ecologico della laguna veneta, ricamata di isole e canali come un merletto.
La secolare sapienza nella gestione del territorio è capitolata dinanzi all’impatto del pensiero industriale, indifferente e prevaricatore rispetto alle specificità del contesto di attuazione. Il dialogo tra collettività umana e ambiente di vita è diventato senza senso, come una gaffe o peggio come un delirio, dove le parole pronunciate non tengono conto del contesto di enunciazione.

Al mutare dell’ambiente di vita in direzione dell’economia industriale, cento anni fa, quell’essere vivente che è la città di Venezia non risultava più adeguato alle nuove esigenze, il supporto tecnologico (lo scalmo) dell’organizzazione territoriale insediativa e abitativa non risultava più adatto al movimento vitale (il remo) della produzione di beni e degli scambi commerciali, le parole pronunciate non riuscivano più a cadere coerentemente nella conversazione intrecciata con le altre collettività umane, se non in discorsi circoscritti come quello della fruizione turistica, abbandonando la modernità e l’innovazione, scegliendo la museizzazione come proprio destino e i turisti come noncuranti abitanti.

Oggi però assistiamo a un ulteriore cambiamento epocale, quello innescato a partire dagli anni Settanta dalle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione, dall’economia della miniaturizzazione o della smaterializzazione, dal pensiero post-industriale.
Venezia può tornare oggi a essere un centro vitale, fatto di imprese e di cittadini, perché nelle nuove forme di economia la distanza o l’agibilità geografica dei luoghi produttivi è molto meno rilevante, avendo soprattutto a che fare con il trasferimento di informazioni.
Non è più necessario stravolgere il territorio con artefatti macroscopici per adeguare il contesto della produzione alle necessità delle imprese. Anzi, la qualità stessa dell’ambiente lavorativo, a misura d’uomo e non di macchina, costituisce un fattore prezioso per la scelta degli insediamenti produttivi nel settore del terziario avanzato.

Ridisegnare Venezia per il Ventunesimo secolo, scommettendo sulla Cultura Digitale e sull’economia dell’immateriale, significa riuscire a tenere in considerazione l’ecosistema della conoscenza, significa riflettere sull’interazione vivificante tra web e territorio, significa promuovere le nuove forme di socialità in Rete e l’abitanza digitale.
Perché aver cura dei territori ormai indifferentemente fisici o digitali dove viviamo e lavoriamo è ciò che differenzia un cittadino, tale solo per il suo essere vincolato a diritti e doveri spesso percepiti come esterni e impersonali, rispetto a un Abitante affettivamente coinvolto nella promozione della qualità delle condizioni di vita, del proprio Ben-Stare in quanto astratto benessere finalmente declinato concretamente in un qui-e-ora.

Il coinvolgimento degli abitanti di Venezia, individui o gruppi formali, istituzioni e imprese, nei circuiti conversazionali resi oggi disponibili dalla Rete attraverso l’e-government e l’e-democracy, i blog urbani e le mappe georeferenziate della socialità e dei flussi vitali della produzione e del commercio, permetterà alla nuova identità che Venezia sente pulsare dentro di sé (come ri-orientamento della propria postura “esistenziale” e del proprio fare rispetto al mondo tecnosociale del Ventunesimo secolo) di emergere e di trovare una rappresentazione mediatica polivocale di sé costruita collettivamente da tutti gli attori sociali nella loro quotidiana riflessione e partecipazione alle dinamiche abitative della città, alle scelte politiche nel senso pieno ed etimologico della parola, fino all’apparire di un sentimento di appartenenza a una collettività e a un territorio biodigitale su cui poter abitare consapevolmente.

Per ragionare di tutto questo qualche giorno fa sono stato invitato dal vicesindaco di Venezia, Michele Vianello, a partecipare a una sorta di brainstorming su come impostare alcune iniziative culturali in grado di suggerire la nuova visione di Venezia in quanto città digitale, capace di coniugare l’innovazione con il proprio straordinario patrimonio culturale, dove già dal prossimo luglio i cittadini potranno usufruire di collegamenti wifi gratuiti su quasi tutto il centro storico.
Sono rimasto piacevolemente sorpreso dalla determinazione di Vianello nel proporre il cambiamento e l’innovazione come qualcosa di assolutamente necessario per la vitalità stessa della sua città, dalla sua personale cultura di cose digitali e del loro risvolto civico (potete trovare traccia delle “rivoluzioni” nella Pubblica Amministrazione veneziana consultando liberamente questo suo libriccino dedicato alla Cittadinaza digitale e all’Amministrare 2.0, Una scommessa da vincere).

Alla tavolarotonda hanno partecipato persone ben addentro alle dinamiche della Rete, professionalmente coinvolte e attente agli aspetti sociali e abitativi delle moderne tecnologie di comunicazione, e mi preme sottolineare come si sia instaurato rapidamente un buon clima di gruppo, fecondo di idee e propositivo rispetto alla progettazione di future iniziative (un convegno magari destrutturato e creativo da tenersi in settembre, la delineazione dei criteri di qualità delle reti civiche rese possibili dalla connettività diffusa, le connotazioni culturali su cui poggiare per la narrazione mediatica dell’identità cittadina) per la promozione di VeneziaDigitale.
Gigi Cogo ha approntato un wiki su cui poter continuare a riflettere e progettare, Massimo Mantellini, Sergio Maistrello, Roberto Scano, Luca De Biase hanno bloggato le loro impressioni sull’incontro, Alfonso Fuggetta, Marco Camisani Calzolari, Andrea Casadei e Lele Dainesi stanno scrivendo sul wiki.

La sfida è ardua, ma la conversazione è stimolante, e gli obiettivi prestigiosi. Credo mi divertirò.

Il contesto


Le persone

La mappa


Aver cura della rete

 

Facebook, PA, il Garante della privacy e gli ambienti sociali.

Recentemente in Friuli Venezia Giulia la Pubblica Amministrazione regionale (politicamente schierata a destra) ha proibito la navigazione su Facebook dei propri dipendenti, impedendone tecnicamente l’accesso dai computer degli uffici.
La Provincia di Udine (politicamente schierata a destra) dal canto suo non ha mai avuto simili problemi, avendo sempre inibito pesantemente la navigazione libera sulla Rete durante l’orario di lavoro.
Il Comune di Udine (politicamente schierato a sinistra) invece lascia completamente libero l’accesso a Internet, avendo fiducia nei propri impiegati e considerando la frequentazione della Rete come un’opportunità di auto-formazione alla socialità digitale, nonché come concreta risorsa professionale. Inoltre, i sistemi di valutazione non segnalano alcuna flessione negativa del rendimento lavorativo dei dipendenti comunali (intervista sul Gazzettino Udine del 16 maggio all’assessore Paolo Coppola).

Proibire non è una soluzione duratura.
Domani nasceranno altri socialnetwork o situazioni simili, e altri problemi si presenteranno, visto che non viene presa in considerazione né la grammatica specifica della socialità online dentro i nuovi ambienti digitali, né la stessa Internet viene compresa nella sua natura tecnica e quindi nelle nuove potenzialità offerte alla Società della Conoscenza, in cui tutti noi viviamo.

Pochi giorni fa, sempre su Facebook, sono state pubblicate da un’incauta infermiera dell’Ospedale di Udine delle fotografie che ritraggono normali momenti lavorativi in corsia, con i medici in posa vicino a dei pazienti, ledendo sicuramente il diritto alla privacy di questi ultimi, impossibilitati a firmare liberatorie.
L’infermiera era in buona fede, non credeva che le fotografie potessero essere viste da qualcuno esterno alla propria rete digitale di amicizie (in realtà quelle foto non potrebbero essere nemmeno essere affisse su una bacheca di sughero nell’atrio dell’Ospedale, né mostrate a nessuno nel proprio salotto senza ledere il diritto alla privacy dei soggetti ritratti), non aveva adeguatamente impostato le opzioni di pubblicazione e di condivisione dei propri materiali, ripresi poi da altri e quindi resi disponibili a tutti.

Il problema qui è la mancanza di educazione ai comportamenti da tenere nei Luoghi di socialità digitale, e purtroppo le stesse sensate indicazioni del Garante della privacy che trovate in apertura di questo post non sono affatto rese note alla popolazione, non sono illustrate a scuola o sugli ambienti di lavoro, né mostrate a chi si iscrive ai socialnetwork.

Educare è una soluzione duratura.
L’educazione alle nuove grammatiche dell’abitare digitale permette l’instaurarsi in noi di punti di vista in grado di prendere in considerazione anche eventi futuri non ancora immaginabili, permette di sviluppare competenze, in questo caso di cittadinanza digitale, che poggiano sulla consapevolezza delle persone rispetto all’adeguatezza dei comportamenti nei Luoghi pubblici.

Qui sotto trovate questa mia posizione espressa sul Gazzettino Udine 16 maggio, in seguito a intervista telefonica fattami da Lorenzo Marchiori.

Web20: politiche e prassi della comunicazione politica

[Post lungo, ma spero sufficientemente discorsivo. Oggi i ditini correvano sulla tastiera, e come sapete quello che si scrive in venti minuti abbisogna di due ore di tempo per essere presentabile. Oggi avevo mezz’oretta.
“Se avessi avuto più tempo, avrei scritto una lettera più breve.” Marco Tullio Cicerone, filosofo e politico.
In ogni caso, paragoni irriverenti a parte, in fondo al post trovate dei link per interessanti documenti sul tema de “La Pubblica Amministrazione e il web 2.0]

Norberto Bobbio e Giovanni Sartori ci hanno insegnato che la democrazia è soprattutto un insieme di regole, un insieme di procedure che consentano la libera scelta dei governanti da parte dei governati. Questo è il nucleo minimo fondante senza il quale, giusta la lezione dei fondatori della politologia italiana contemporanea, discorrere di democrazia è esercizio retorico, quando non fuorviante. L’esistenza di questo nucleo minimo di procedure democratiche rappresenta una condizione necessaria ma non sufficiente affinché si consolidi e si sviluppi una democrazia e, a maggior ragione, una democrazia di qualità. Alle procedure della democrazia, infatti, vanno aggiunte quelle dimensioni di contesto che ne rendano effettiva l’applicazione. Se è vero che i governi democratici possono scaturire solo dalla corretta applicazione di procedure democratiche, purtroppo non è vero l’inverso: l’esistenza di regole democratiche non ci garantisce mai completamente dall’utilizzo perverso delle medesime.
(Marco Almagisti, su ComunicatoriPubblici)

Certo, la democrazia è una tecnologia.
Tecnologia abilitante, si suole dire oggidì. Tutte le tecnologie sono in realtà abilitanti, perché un telaio tessile del neolitico non solo permette di costruire tessuti, ma anche di pensare meglio alla progettazione dei vestiti, tanto quanto un computer connesso non è solo uno strumento per redigere documenti come la macchina per scrivere, ma consente una raffigurazione mentale e proiezioni operative migliori delle nuove forme di abitanza delle collettività umane, come nel caso delle suggestioni offerte dai ragionamenti sulla cittadinanza digitale.
Le collettività umane sono da sempre interconnesse tramite strade, semplicemente le moderne reti telematiche fanno emergere e rendono visibile la socialità su scala planetaria, e la loro maggior efficienza nello scambio di informazioni (sincronia, multimedialità) permette al pensiero di immaginare prima e di sperimentare poi miglioramenti qualitativi nelle forme dell’abitare umano, anche rispetto alle forme di governo, sempre storicamente deterninate, di cui le collettività intendono dotarsi e ai meccanismi del loro funzionamento pratico.
Se le strade fossero ancora in terra battuta e non ci fosse il telegrafo, la dimensione delle province italiane sarebbe diversa, tanto per dire, perché vi sono dei limiti nell’estensione geografica che è possibile amministrare efficacemente senza una dovuta organizzazione, tant’è che l’impero romano possedeva un sistema di posta a cavallo ineguagliato fin quasi l’Ottocento.

Torniamo alla democrazia. Vi è una domanda in noi in quanto collettività che riguarda le modificazioni dell’ambiente interumano in direzione di forme di governo rappresentativo e di giustizia sociale, e la democrazia è uno dei modi possibili per rispondere al come organizzare le strutture sociali di potere, controllo e promozione culturali e economiche (quest’ultimo termine da oikòs nomòs, ovvero “le regole della casa/ambiente”, acconcia amministrazione, cerchiamo di non dimenticarcelo).
Poi la tecnologia, in quanto attività tutta umana, veicola necessariamente valori ed è valore in sé, e la Storia ci porta oggi a considerare appunto la democrazia stessa come un valore in cui credere e da difendere, almeno dalla Rivoluzione americana e francese in qua, in quanto forma di governo preferibile.
Il perché sia preferibile risulta abbastanza semplice, una volta indagate le assiologie valoriali soggiacenti al pensiero che pensa in che modo certi uomini debbano governare altri uomini, e giungendo così a comprendere come la democrazia, grazie ai suoi meccanismi di funzionamento, offra maggiori garanzie nel rispetto del valore dell’uguaglianza sociale – una testa un voto, e nessun feudatario accede a verità più profonde in virtù della sua ricchezza, né possiede per status o ceto maggior ragione per governare gli altri – e al valore della partecipazione soggettiva alle riflessioni e alle scelte politiche nella gestione della cosa pubblica, in direzione di una maggiore qualità della politica.

La democrazia come tecnologia ci abilita a pensare un mondo migliore.
Se fossi incapace di pensare un concetto come la democrazia, non potrei raffigurarmi mentalmente né dar luogo concreto (tramite pensiero tecnologico, quindi progettazione per il futuro e modificazioni dell’ambiente) a innovazioni sociali riguardanti il benessere delle collettività, misurato sull’uguaglianza degli esseri umani e la loro libera partecipazione alle decisioni sull’amministrazione dei territori.

I valori e le conquiste sociali democratiche vanno poi diffusi capillarmente nella società, mantenuti vivi, alimentati. Questo ci porta a ragionare di comunicazione politica, o meglio delle possibili politiche della comunicazione politica.

Certo, l’informazione è potere, e una storia delle forme di governo potrebbe essere tranquillamente scritta a partire da una classificazione delle forme di comunicazione istituzionale permesse o promosse all’interno di una data collettività. Dove evidentemente un principe ben poco concedeva al popolo riguardo la pubblicazione dei suoi affari di stato (perché avrebbe dovuto?), e di converso gli individui ben poco potevano decidere riguardo le scelte politiche inerenti la collettività di appartenenza.

Giungiamo ora rapidamente ai giorni nostri, e notiamo l’esistenza di molti Luoghi di dialogo “dal basso” tra cittadini e istituzioni (i partiti politici, i movimenti, i comitati) che da molti anni possono contare su tecnologie in grado di amplificare la voce come i giornali e la radio, la televisione e Internet.
Dall’Indice dei libri sottoposti a censura ecclesiastica con il famoso “visto-si-stampi” e l’imprimatur, alle scenografie e alla propaganda naziste e fasciste, alle moderne sottili forme di manipolazione del consenso e dell’opinione pubblica tramite il controllo (o la diretta proprietà) dei mezzi di comunicazione di massa, molto sappiamo e molta letteratura ci mette in guardia rispetto alla comunicazione “dall’alto”, alla capacità del Potere di allestire visioni del mondo funzionali al riconoscimento sociale della bontà del proprio operato, misconoscendo o inibendo la diffusione di informazioni od opinioni a sé controproducente.

Oggi però esiste il web, sociale e partecipativo, paritetico e neutrale, libero luogo di espressione.
La partecipazione dei cittadini è stata disintermediata, non è più necessario possedere un giornale o un sistema di produzione radiotelevisivo per esprimere la propria opinione ed essere ascoltati da migliaia di persone. In Rete avvengono aggregazioni sociali spontanee, basate sulla condivisione di interessi, e riflettere e proporre iniziative sulla gestione della cosa pubblica è fortunatamente prassi diffusa, dentro i forum di discussione a dimensione planetaria oppure nei blog urbani.

Le recenti evoluzioni tecniche del web (web 2.0) hanno reso la partecipazione ancora più facile, abilitando in tutti noi una concezione finalmente sociale della Rete quale Luogo antropico abitabile, di cui aver cura proprio in quanto nativamente connotato di democrazia (non esistono bit di informazione “privilegiata” rispetto ad altri, nel correre lungo i cavi delle connessioni planetarie; la mail di un ministro viaggia veloce come la mia, e questo blog è “visibile” tanto quanto quello di una multinazionale) e campo stesso di esercizio dell’agire democratico, da parte di individui o gruppi sociali più o meno organizzati.

Le persone ora usano il web.
Se camminate per strada, guardate quelli tra i venti e i cinquantanni: la metà di loro ha un account su Facebook, in italia (il che non è in sé buona cosa, però a FB verrà riconosciuto il fatto di aver introdotto allo scambio e al confronto interpersonale milioni di persone, sbozzandone le prime competenze di cultura digitale: comprendere che Facebook non è un luogo democratico è già un primo passo in questa direzione).
Il passaparola delle relazioni interumane concrete come pure le milioni di parole scritte qui in Internet nel corso degli anni sono costantemente disponibili per l’auto-formazione sul corretto utilizzo dello strumento, dalla netiquette alle considerazioni sull’identità e sulla reputazione personale. I nuovi arrivati potranno all’inizio essere un po’ disorientati dall’esplosivo fiorire di mille luoghi espressivi, ma rapidamente comprendono come Internet sia oggi il posto migliore per pensare con la propria testa, trovare informazioni ed esprimere opinioni, dove l’autorevolezza del dire non dipende automaticamente dalla fonte (i giornali, i governi, le multinazionali) ma dalla capacità di articolazione del proprio pensiero nel rispetto della conversazione pubblica e del dialogo, nell’apertura e nel confronto.

Quindi noi semplici cittadini per prove ed errori, nel coinvolgimento personale fatto di passione e di stupide salatissime bollette telefoniche (soprattutto in italia) per un servizio di connettività alla popolazione che per una banale questione di civiltà dovrebbe funzionare secondo il modello delle strade statali, siamo riusciti ad affacciarci sul web e ad abitarci in modo stanziale e costruttivo, mentre a tutt’oggi in Parlamento ancor più stupidi legislatori o sedicenti esperti locali di etica e comunicazione cercano di proibire, oscurare, censurare la libertà della Rete, di cui palesemente non comprendono né il funzionamento tecnico né le implicazioni sociali, culturali e civiche, in relazione al futuro e alla qualità della vita delle prossime generazioni. E per fortuna la stessa maggioranza parlamentare cui appartengono rigetta le loro proposte di legge: sto pensando ovviamente alla figura meschina fatta di recente da D’Alia e Carlucci.

Tra l’altro i politici in tempo di elezioni da sempre promettono di asfaltare le strade, ma ne ho visti pochissimi parlare seriamente di riduzione dello spartiacque digitale – ché divario digitale non è digital divide, la corretta traduzione è ben più radicale – tra chi può e chi non può accedere al web in maniera dignitosa, e ancor meno comprendere l’assoluta impellente necessità di provvedere competenze civiche ai cittadini sulle nuove forme di abitanza e di democrazia elettronica, e non sto ovviamente parlando di alfabetizzazione agli strumenti.

Nonostante esistano buone leggi e indicazioni per l’ammodernamento del paese, le istituzioni indubitabilmente sono rimaste indietro, nel loro fare comunicativo. Un po’ perché le pubbliche amministrazioni sono frequentate da personaggi, da un ministro a un preside scolastico giù giù fino a un’impiegata dietro uno sportello, che pensano di vivere ancora in un’epoca in cui “non sono tenuti a dare informazioni” (notare la peculiare costruzione grammaticale), un po’ perché nell’istituzione stessa manca una cultura della comunicazione intesa come dialogo con i cittadini (i famigerati “siti-vetrina” altro non sono che una attualizzazione dell’Albo Pretorio, evidentemente monodirezionale), un po’ perché le indicazioni legislative sulla trasparenza delle procedure amministrative, back-office e front-office, almeno dalla Bassanini 1997 in qua, sono state ampiamente disattese.
En passant, vi ricordo che in quanto cittadini, secondo il Codice dell’Amministrazione digitale del 2006, avete diritto all’uso delle tecnologie (art. 3), diritto all’accesso e all’invio di documenti digitali (art. 4), diritto ad effettuare qualsiasi pagamento in forma digitale (art. 5), diritto a ricevere qualsiasi comunicazione pubblica per e-mail (art. 6), diritto alla qualità del servizio e alla misura della soddisfazione (art. 7), diritto alla partecipazione (art. 8), diritto a trovare on-line tutti i moduli e i formulari validi e aggiornati (art. 58).

E-government ed e-democracy sarebbero in buona misura praticabili oggi stesso, se gli amministratori pubblici non si comportassero come feudatari medievali, timorosi di una sana e proficua comunicazione bidirezionale tra Istituzioni e cittadini.

Dicevo che esistono numerose Indicazioni e Linee guida per la qualità della comunicazione pubblica della Pubblica Amministrazione: sul sito del Formez potrete trovare documenti e relazioni relativi all’adozione delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione nei settori pubblici.
In particolare, di recentissima pubblicazione sono gli Strumenti per le Amministrazioni 2.0, a cura del CNIPA Centro Nazionale per L’Informatica nella Pubblica Amministrazione, relativi all’utilizzo di approcci moderni 2.0 nella progettazione e nella conduzione di siti web e nelle attività di comunicazione pubblica delle Istituzioni.
Interessante anche questo articolo di Flavia Marzano “Pubblica Amministrazione 2.0” pubblicato su Astrid (altri articoli rilevanti sulla stessa pagina).

E se vi imbattete su Facebook sulla pagina del vostro Comune o della Regione, oppure se vi accorgete che il vostro Sindaco utilizza Twitter per raccontare ciò che viene dibattuto durante il Consiglio Comunale, non inorridite subito: anche le Istituzioni stanno imparando per prove ed errori l’effettiva portata comunicativa e l’efficacia dei singoli strumenti, ma nel frattempo le informazioni circolano un po’ di più, le competenze digitali si diffondono, il mondo migliora.

Parlanti digitali

Incollo qui questo video dove degli allievi di una scuola americana descrivono il loro mondo, il loro avere a che fare quotidianamente con oggetti tecnologici che permettono di accedere ai mondi digitali. L’argomento centrale non è costituito dagli strumenti tecnologici (pc, iPod, cellulare) ma dalle proprietà abilitanti di questi, nel consentire a questi ragazzi e a tutti noi di esprimerci liberamente, di scrivere o di fare musica o fotografie, magari in modo socializzato, entro la stessa classe scolastica oppure su web.

Qui non si parla più soltanto di leggere il mondo, del fatto che queste persone nate dopo l’invenzione del www possiedano grammatiche concrete – date loro dal fatto di essere “parlanti madrelingua”, per immersione – per interpretare i flussi informativi e le posizioni relazionali interpersonali veicolati dai media. Qui si parla di scrivere il mondo, della volontà e abilità di creare contenuti digitali, e della effettiva impossibilità di realizzare questo loro desiderio dentro le pratiche scolastiche odierne, non attrezzate né materialmente né concettualmente per sostenere simili attività espressive, fornendo al contempo formazione critica MediaEducation sugli strumenti nonché educazione all’abitanza digitale, negli aspetti di cittadinanza.

Volevo intitolare questo post “Discenti digitali”, ma non ci riesco: quel discenti/docenti puzza troppo di una visione pedagogica superata da decenni, dove da una parte della cattedra si trasmettono contenuti che al di qua vengono recepiti da allievi considerati come contenitori vuoti e passivi, da riempire di nozioni preformate. Ascoltiamoli, invece: una testa ben fatta è meglio di una testa ben piena, e avremo modi migliori per valutare il nostro stesso fare educativo.

Questi ragazzi ci stanno chiedendo di poter parlare.

Approfondimenti: Agati sui nativi digitali, Marconato sul problema degli e-books a scuola.

Gruppi di acquisto solidale e Transizione

Partendo da una buona lista di articoli relativi a “La vita dopo il petrolio” su Altreconomia, giungo su una pagina a cura di Gianluca Ruggieri, esplicitamente dedicata alle tematiche della Transizione, dove vengono elencati autori importanti e relative pubblicazioni.
Richard Heinberg per quanto riguarda la Transizione in sé e il problema del picco del petrolio, Lester Brown fondatore del WorldWatchInsitute e autore/promotore del “Piano B 2.0: una strategia di pronto soccorso per la Terra” (qui su Indipendenza Energetica potete trovare il libro tradotto e liberamente scaricabile), James Howard Kunstler, Albert Bates.

Della Transizione abbiamo già parlato su questo stesso blog, qui e qui.
Cristiano Bottone sul blog “Io e la transizione” definisce quest’ultima come

un movimento culturale impegnato nel traghettare la nostra società industrializzata dall’attuale modello economico profondamente basato su una vasta disponibilità di petrolio a basso costo e sulla logica di consumo delle risorse a un nuovo modello sostenibile non dipendente dal petrolio e caratterizzato da un alto livello di resilienza

dove la resilienza è

la capacità di un certo sistema, di una certa specie, di una certa organizzazione di adattarsi ai cambiamenti, anche traumatici, che provengono dall’esterno senza degenerare, una sorta di flessibilità rispetto alle sollecitazioni.

Va da sé, le società industrializzate sono caratterizzate da un bassissimo livello di resilienza, ovvero sono molto fragili, in quanto fortemente dipendenti da filiere (prodotti alimentari, energia, etc.) lunghissime, sostenute fondamentalmente da un’economia “drogata” fondata sul petrolio.

Ma si cominciano a vedere sorgere dei modelli di abitanza territoriale che provano a fare a meno del petrolio, ed ecco che dopo l’Inghilterra con le sue Transition Town (vedi qui un articolo relativo sul Corriere della Sera) anche in Italia stanno nascendo delle Città di Transizione, ne potete trovare informazioni sul blog Transitiontowns Italia, dove si provano a costruire o riprogettare cittadine a basso impatto ambientale, mosse da innovazioni tecnologiche miranti alla sostenibilità energetica e da peculiari approcci alla produzione nel settore primario, ad esempio secondo Permacultura. Utili anche i riferimenti alla mappa italiana degli eco-villaggi.

Tutto questo per meglio inquadrare le azioni di una economia solidale alla luce di nuovi approcci eco-economici (non solo teorici, come abbiam visto) in grado di riportare il senso dell’abitare all’interno di pratiche antropiche consapevoli della sostenibilità ambientale e della qualità della vita delle collettività umane.

Certo, oltre alla improrogabile riprogettazione ampia degli insediamenti abitativi e del funzionamento concreto dei flussi tecnologici di energia materia e informazione, esistono molte buone pratiche che è possibile adottare fin da subito, semplicemente modificando di poco, ma efficacemente, il nostro stile di vita e in particolare i nostri comportamenti come consumatori.

I Gruppi di Acquisto Solidale (GAS) in quanto esperienza di consumo critico intendono sollevare risvolti etici rispetto alla nostra partecipazione al Mercato, ma il modello che seguono potrebbe essere rivisitato, alla luce degli approcci alla Transizione.

Ecco cosa suggerisce Cristiano, dal blog Io e la Transizione.

Dai GAS ai GAST

È venuto il momento di cercare di spiegare questa faccenda dei GAST, premettendo che è qualcosa che mi gira in testa, ma che non ho avuto il tempo di definire completamente. Non ci ho neppure provato, perché una definizione completa dovrebbe maturare attraverso un bel lavoro di pensiero collettivo e il tempo per sperimentarne i risultati.

Sono abbastanza sicuro però che il modello dei GAS abbia compiuto il suo tempo e svolto egregiamente la sua meravigliosa opera di trasformazione culturale.

I GAS (Gruppi di Acquisto Solidale) hanno a mio parere una caratteristica molto precisa: nascono e si sviluppano come circuito di acquisto alternativo a un mercato principale. Nei GAS si ritrovano persone che vogliono compiere scelte più etiche e consapevoli, sottraendosi alle mille insidie del mercato della crescita.

Fin qui tutto bene, ma i tempi cambiano e anche grazie al prezioso lavoro dei GAS è arrivato il momento di passare alla fase successiva. Bisogna cominciare a contaminare e a trasformare il mercato “normale” quello da cui fino ora si cercava di stare lontani.

Nella logica dei GAS ci sono infatti alcuni aspetti che portano verso scelte che non sono sostenibili e che per la loro scomodità continuano ad escludere da questo circuito moltissime persone. Chiunque appartenga a un GAS ha sperimentato difficoltà in fase di ordine dei prodotti (specie se si tratta di prodotti freschi e deperibili), il peso delle gestione degli ordini stessi, la scomodità di ritirare la merce solo in una dato momento, ecc.

Spesso si generano per le consegne molti viaggi in auto, si percorrono molti chilometri e tutto questo non è molto sostenibile. Poi, mano a mano che un GAS cresce, si trova ad affrontare alcuni dilemmi. I più grandi affittano magazzini per stivare le merci e si trovano ad assomigliare molto a veri e propri grossisti (anche se etici).

Modifichiamo la formula

Così ho pensato che nel modello GAS si potrebbe fare una variazione passando da Gruppi di Acquisto Solidale a Gruppi di Acquisto Sostenibili di Transizione.

Sostenibili perché a mio parere il concetto di sostenibilità non riguarda solo la “meccanica e il ciclo” delle risorse. La sostenibilità deve e non può che essere anche un fattore sociale e contenere in sè solidarietà, etica, trasparenza, equità. Tutto il processo di acquisto deve essere “sostenibile”, se per avere una zucchina biologica si consumano 6 litri di benzina il processo non sta funzionando.

Inoltre il GAST dovrebbe essere integrato in una più ampia iniziativa di transizione del sistema (ecco la contaminazione del mercato attuale). Il GAST dovrebbe operare perché prodotti sostenibili arrivino nei negozi normali. La logica dal produttore al consumatore ha molti limiti. Funziona bene e risulta veramente sostenibile solo in certi casi particolari.

Parlando con gli agricoltori ci si rende conto che se oltre a coltivare questi devono gestire un canale di vendita, a un certo punto hanno bisogno di una strutturazione (che significa costi). Serve qualcuno che vada al Farm Market, che prepari i prodotti in un certo modo, servono tempo e soldi. Ciò che si pensa di risparmiare evitando il passaggio in negozio in realtà, nel migliore dei casi, si evita solo parzialmente.

Dal produttore al consumatore, sicuri che sia una buona idea?

I negozi sono nati in epoca preindustriale e hanno un preciso senso logistico. Credo che se ci si limitasse a un solo passaggio intermedio tra produttore e consumatore (cosa che in una logica di filiera corta mi pare possibile) i costi rimarrebbero ragionevoli e aumenterebbe notevolmente l’efficienza del sistema. Così zucchine, pomodori e pere prodotti da fornitori diversi sarebbero reperibili comodamente presso un unico punto vendita. Se poi questo punto vendita fosse in grado di gestire consegne a domicilio ben organizzate, magari con un veicolo elettrico rifornito da un bell’impianto a energia rinnovabili, ci staremmo avvicinando molto a una situazione di grande sostenibilità.

Ma la parola Transizione, nella sigla starebbe anche a indicare un certo tipo di sguardo complessivo di cui il GAST sarebbe portatore. Sappiamo che la resilienza delle nostre comunità dipende dalla ridondanza dei sistemi che sapremo costruire. E quindi il GAST dovrebbe operare per differenziare i sistemi di approvvigionamento alimentare sostenendo parallelamente alla “riforma” del mercato, la nascita di orti, fattorie sociali, la riscoperta delle verdure spontanee, la nascita di foreste edibili permanenti, l’autoproduzione, il reskilling, ecc.

Come fare tutto questo?

Il modello della Transizione fornisce già moltissimi degli strumenti necessari, principi di riferimento e un grande paradigma a cui ispirarsi. Se mancasse qualcosa lo inventiamo, che problema c’è?
Mi piacerebbe moltissimo che qualcuno organizzasse un grande Open Space con tantissimi “gasisti” per far nascere mille idee su questo tema. Credo che emergerebbero cose splendide.

Mi parli così? o ti ascolto così?

[In ascensore]
Nella parte alta, subito sotto il display, alcuni disegni mostrano la procedura per lanciare l’allarme in caso di blocco: disegno di un dito che preme un bottone con una campana; disegno di una clessidra; disegno di una testa umana a fianco di una cornetta del telefono.
Una campana, una clessidra, una cornetta del telefono.
Le campane non vengono più utilizzate per dare l’allarme. Le clessidre sono oggetti d’arredamento. Sull’ascensore non c’è un telefono con cornetta, ma un microfono ambientale.
Il simbolo sopravvive all’oggetto.
[via L’estinto]

Certo, è dura inventarsi segni che si riferiscano a stati/eventi del mondo non osservabili, smaterializzati, informatici.
Delle tre categorie classiche di classificazione dei modi di produzione semiotica dei segni, ovvero secondo iconicità (e tralasciamo l’amabile infinito discorso sulla “somiglianza” e sulle caratteristiche che determinano la riconoscibilità dell’oggetto rappresentato rispetto al segno, ad esempio in ottica transculturale), secondo indicalità (dove indice o sintomo è qualcosa di fisico e fisicamente connesso all’Oggetto, come le bolle del morbillo rispetto alla malattia o una boa che segnala la presenza di un sommozzatore in immersione), e secondo l’arbitrarietà di una Legge Legisegno (un codice, come le parole, le quali mica c’entrano nulla con ciò che intendono significare, nemmeno nel caso dell’onomatopea; il suono della parola /tavolo/ non reca con sé le caratteristiche del contenuto “tavolo”, non ha quattro zampe e un piano), perdiamo l’iconicità.
Non possiamo suggerire con un disegno stilizzato ciò che non possiamo vedere, vivendo oggi in mondi fatti da agenti immateriali o miniaturizzati.
Ricorriamo a segni la cui comprensibilità si appoggia su referenti culturali appartenenti al mondo agricolo-industriale, solidamente atomici e pure macroscopici.

Per dire, nel caso dei feed RSS ci han messo un’onda di propagazione, e tra i cerchi di un sasso nello stagno e l’acustica possiamo risalire al significato veicolato, al diciamo-così concetto, anche se qui siamo nell’immateriale e nulla si muove.

Decisamente campana, clessidra e cornetta parlano di un’altra epoca. Quindi affinché possano essere comprese come segni di azioni (avvertire monodirezionale, aspettare, comunicare bidirezionale) gli utilizzatori dell’ascensore si presume siano in possesso di un codice in grado di correlare appunto a questi segni i rispettivi stati del mondo. E già vivono intorno a noi bambini che potrebbero non aver mai visto nessuno di questi oggetti, per i quali sarebbe quindi necessaria 1. una alfabetizzazione a oggetti svaniti dal mondo, affinché 2. possano maturare in sé dei piani e delle relazioni stabili nelle reti enciclopediche dello scibile posseduto, su cui in seguito 3. poter fondare dei codici di correlazione semiotica in grado di 4. rendere eloquenti i segni costruiti iconicamente a partire da quegli oggetti.
Follia.
Ci serve un’iconologia dell’immateriale dei bit e dell’informazione, ed è già un bell’ossimoro su cui scommettere senza ricorrere a metafore passatiste, oppure fare in modo che i significati veicolati siano direttamente osservabili, magari attraverso la mediazione audiovideo, che è pur sempre rappresentazione. Così al posto di un bottone con sopra la campana o la cornetta in ascensore mettiamo un video (touchscreen, ovviamente, così è il testo che agisce) che mostra l’azione di avvertire o di chiamare, ovviamente con i risvolti sociali del caso, quindi narrativi, quindi pragmatici, o meglio pragmaticisti, giusto per restare vicino alle idee matte e ficcanti di Peirce.

La verità di una concezione poggia esclusivamente sulle sue relazioni con la condotta della vita.

Beni culturali friulani su web, 3D e cellulari


Fonte: Agi

Il patrimonio storico-artistico del Friuli Venezia Giulia, gia’ catalogato dal centro di Villa Manin di Pasariano (Udine) integrato con altri data-base, entro un paio d’anni sara’ a disposizione di tutti sul web con un semplice ‘clic’ oppure in altre modalita’ come cellulari e modelli 3D.
Ne potranno usufruire sia turisti, sia cittadini, visitatori di musei, siti archeologici e beni storici e artistici presenti sul territorio.

Lo prevede il progetto Informatica e web per i beni culturali, servizi innovativi mobili e 3D per il turismo, finanziato dalla regione Fvg e al quale lavorano da un anno i Dipartimenti di storia e beni culturali, di matematica, informatica e georisorse dell’Universita’ di Udine assieme a Friuli Innovazione e alla sovrintendenza del Friuli Venezia Giulia.

“Con questo progetto il Friuli Venezia Giulia emerge a livello nazionale per qualita’ della ricerca, concretezza e innovazione con ricadute immediate sul territorio e in questo caso sulla valorizzazione dei beni culturali”, ha detto, congratulandosi con Friuli Innovazione e Universita’ di Udine, l’assessore regionale al lavoro, universita’ e ricerca Alessia Rosolen.
Complimenti accolti con gratitudine dal rettore dell’Universita’ di Udine, Cristiana Compagno che ha sottolineato come “qui al Parco si vedono sempre piu’ spesso nascere le cose, si tocca con mano come delle idee diventino progetti e poi realta’ per il territorio” e dal presidente di Friuli Innovazione e sindaco di Udine Furio Honsell che ha ricordato come in questo progetto si siano “coniugate mirabilmente le conoscenze informatiche con quelle della conservazione dei beni culturali”, due settori nei quali l’Universita’ di Udine vanta primati nazionali per aver dato vita alla prima facolta’ di Conservazione dei beni culturali e fra le prime in informatica d’Italia.
“In momenti come questi si apprezza ancor di piu’ – ha aggiunto Honsell – come sia indispensabile investire in cultura, perche’ solo cosi’ si costruisce il futuro”.

E’ stata la prof. Donata Levi dell’Universita’ di Udine a presentare il progetto, giunto alla fine del primo anno e che proseguira’ nei prossimi due e che prevede di mettere a disposizione di tutti sul web il patrimonio storico artistico del Fvg gia’ catalogato dal Centro di Villa Manin, integrato con altri database sulle vicende conservative e sui cantieri di restauro. Una quantita’ enorme di dati, e immagini, che saranno disponibili anche in altre modalita’ (cellulari e modelli 3D). Ne potranno usufruire sia turisti sia cittadini, visitatori di musei, di siti archeologici e di beni storico-artistici presenti sul territorio. Sul progetto, finanziato dalla Regione, stanno lavorando da un anno i Dipartimenti di Storia e tutela dei beni culturali, di Matematica e informatica e di Georisorse dell’Universita’ di Udine, Friuli Innovazione e la Soprintendenza del Friuli Venezia Giulia.

Reportage dalle Venice Sessions

Esiste il modo in cui raccontiamo il futuro, e questo racconto ha delle conseguenze.

Telecom Italia e Nòva24 – Il Sole 24 ore, con il contributo dei curatori Luca De Biase e Giuliano da Empoli, sono partiti da qui, dalle conseguenze, per chiedersi: come si può narrare il futuro?
È tramontata l’era delle certezze alimentate dai professionisti delle previsioni, i cosiddetti futurologi. Resta, però, l’esigenza di comprendere gli scenari mutevoli e complessi generati dalla globalizzazione: è una sfida che l’Italia non può rimandare per cogliere le opportunità di cambiamenti epocali.

Invitati da Telecom Italia e da Nòva 24, tecnologi e umanisti si incontrano a Venezia nel convento di San Salvador, sede del Future Centre di Telecom Italia.

Narratori e imprenditori, filosofi e scienziati, artisti e giornalisti: sono menti sorprendenti che si confrontano in eventi ogni volta diversi capaci di stimolare la creatività. Insieme esprimono un’intelligenza collettiva curiosa, fertile, imprevedibile. Che esplora il futuro interrogandosi sulle esigenze del Paese: il racconto di esperienze, visioni e progetti diventa, infatti, un metodo di ricerca in grado di unire culture differenti in un percorso condiviso.

Gli argomenti toccati dagli speaker, poi, vengono rielaborati in mappe concettuali che il pubblico può commentare sul web e sui Social Network. Arricchendo, così, la narrazione di un futuro che appartiene a tutti.

Segnalo qui un interessante quanto articolato reportage di Irada Pallanca dedicato alle Venice Sessions dello scorso 31 marzo, ripreso da Key4Biz.

Fin qui, stavamo scherzando

Siete pronti, Siete caldi? Anch’io! (cit.)

Sono ormai anni che parliamo del web come Grande Conversazione, ma in queste ultime ore sta veramente esplodendo il giocattolo. Tutto diventa flusso, tutte le piattaforme stanno arredando i propri salotti pubblici o privati con dispositivi di lifestreaming socializzato in tempo reale, muovendoci in giro in Rete o sul mondo tramite cellulare avremo sempre con noi amici o sconosciuti che potranno commentare il loro/nostro fare e inoltrarlo ovunque.
Youtube vi permette di socializzare tramite flussi, Facebook si twitterizza, FriendFeed diventa un posticino dove si vengono finalmente a conoscere gli stili dialogici conversazionali dei grossi nomi della blogosfera italiana – tono prevalente adottato: “regazzi’, fatte da parte”, sintomo forse di infantilismo dialettico mai maturato nel confronto interpersonale dentro strumenti sincroni, fossero anche le chat su IRC di dieci anni fa.
Insomma, ne vedremo delle belle, come al solito, come ogni sei mesi la Rete ci fa dire dinanzi alle novità. E le novità saranno tutte robe sociali e chiacchierose, nei prossimi, va da sé. Lì c’è la bellezza, e lì molti pensano ci sia anche il business.
Munitevi di strumenti per restare sintonizzati, aggregatori identitarii di flussi personali, ambienti per racimolare e radunare quello che si dice e si fa in giro, su cui volete mantenere la presa su ciò che scorre. Questa è tutta roba liquidissima, rapida, e purtroppo non lascia traccia stabile, nemmeno come innesco per approfondimenti successivi. Tecnologie traccianti, sì, ne parlavo qui e qui.

Comunicare la decrescita

Una riflessione di Marco Geronimi Stoll, dal suo sito.

Comunicare la decrescita

Anche un imprenditore della decrescita ha bisogno di farsi conoscere; però ha bisogno di “utensili comunicativi” diversi dalla normale tecnica pubblicitaria. L’articolo propone come esempio il caso di un piccolo imprenditore con scarsissimo budget. Per illustrare quale strategia gli convenga usare, l’articolo propone un esercizio di stile; ci sono cinque o sei parole tecniche della pubblicità di cui, con la semplice aggiunta di una esse, si può invertire il senso: smarketing, s-target, s-business … Ne emerge una strategia che consente una crescita lenta e costante dell’azienda fino ad un livello ottimale, e a quel punto l’assesta e la rinforza.


Si può “fare pubblicità” alla decrescita?

La pubblicità è comunicazione a pagamento per influenzare le scelte degli individui e diffondere notizie utili ad incrementare i profitti economici dei suoi committenti.

E’ evidente che questa accezione è lontana mille miglia dalle basi etiche della decrescita: il modello sobrio di esistenza e la transazione alla pari tra produttore ed acquirente.
Ma un imprenditore della decrescita
non è forse vero che anche un agricoltore bio, un artigiano, un installatore di pannelli solari… se vuole sopravvivere deve comunicare che esiste, dimostrare di essere affidabile, fare bella figura, insomma farsi pubblicità?

Sì, si può; ma a un patto...

Noi siamo pubblicitari, cioè conosciamo bene il mestiere di convincere la gente a riempirsi la casa di porcherie inutili. Non ne abbiamo nessuna intenzione, siamo i disertori del nostro mestiere.
Purtroppo molte aziende etiche, ambientaliste e leali non sono molto brave a comunicare, e per questo sono più deboli; è un peccato, la società e l’ambiente hanno bisogno che i loro valori sopravvivano anche in questo mercato.
Noi possiamo dare forza a loro e loro possono dare forza a noi disertori.
La pubblicità ha un suo glossario tecnico, come tutti i mestieri. Che sia anglofono può suonare fastidioso, ma è fatale; il problema è un altro. Le parole della pubblicità sono tutte impregnate dall’idea che il successo commerciale consista vendere rapidamente, tantissimo e a qualsiasi costo.

Smarketing non è solo un gioco di parole per smarcarsi dalla marca e dal marketing. In comunicazione le parole sono utensili; se prendi il cacciavite, non puoi lavorare coi chiodi. Allo stesso modo se prendi la parola “target” non c’è verso, cominci a ragionare come un cecchino. Insomma, cambiare le parole con cui si formulano analisi, pensieri e strategie significa cambiare modo di analizzare, pensare ed operare.
La esse privativa davanti a un termine ne indica il contrario, come slegare, sgonfiare, scontento… viene dal latino ex-, significa uscire da un luogo o da uno stato. In inglese capita come abbreviazione di slow: lento, rallentato.

In particolare molte parole del mestiere della pubblicità sono intrise di accelerazione, di finanziarizzazione, di servizi parassitari, di estetica dello spreco e di spreco dell’estetica. Noi cerchiamo nel nostro piccolo di contribuire ad un cambiamento radicale, con qualche nuova parola-utensile che ci porti fuori da quella logica.

Tra queste parole nuove c’è “sbusiness“, che sta per slow business: è giusto guadagnare dal proprio lavoro e dalla propria inventiva, ma la crescita è sana se è lenta, tranquilla e armonica col contesto, come un albero nel bosco.
Poi c’è il concetto di starget: invertendo i ruoli il produttore diventa il target del cliente, invece di cercarlo in modo invadente e ripetitivo, si lascia trovare; non è facile ma è possibile, noi sappiamo come si può fare e infatti voi in questo momento siete su questa pagina, avete saputo trovarci in mezzo a milioni di possibili navigazioni offerte dal web.
E c’è lo sbranding, che è l’emancipazione dalle marche famose con etichette comuni di garanzia etica e ambientale e con lo scambio reciproco di visibilità.
Certo, non basta mettere una esse davanti alle parole dell’advertisement per cambiare il mondo, ma come vedete ci sono cinque o sei casi in cui questo gioco è davvero illuminante.

Del vecchio mestiere del marketer commerciale, è tutto da buttare?

No perchè, in buona o cattiva fede, è comunque uno dei pochi mestieri che conosce davvero la comunicazione, l’attenzione e la memoria. Alcuni ferri del mestiere non solo vanno salvati, ma addirittura diventano più importanti per chi usa media deboli ed economici. Il tuo messaggio deve essere tanto più chiaro, efficace e memorabile, quanto più “debole” è il tuo media budget.

Ad esempio

Prendiamo il caso tipico: diciamo che tu sei un piccolissimo imprenditore della decrescita, non nuoti nell’oro e proprio per questo hai veramente bisogno di farti conoscere. Diciamo che come tanti, sei bravo a fare il tuo lavoro, ma meno abile a comunicarlo. Naturalmente hai pochissimi soldi per farti pubblicità e anzi, faresti volentieri a meno di spendere anche quei pochi, ma è evidente che se non trovi abbastanza clienti devi chiudere bottega.
Il famoso R.O.I. (il ritorno economico dell’investimento pubblicitario) per te è molto più importante che per la multinazionale che ingorga la televisione generalista di spot milionari. Non è solo questione di scala, ma anche questione di rischio; alla multinazionale che lancia una nuova campagna conviene scommettere, di solito la posta in gioco vale ampiamente il rischio di sbagliare qualche serie di spot; tanto lei di scommesse ne fa tante su tanti prodotti in tante nazioni, quindi anche se perde qualche mano, vince comunque la partita; tu invece no: tu vuoi e puoi rischiare meno possibile.
Tanto per restare nel nostro gioco con la esse, ti occorre lo SROI, lo slow retourn of investiments; significa che fai poca pubblicità solo su media piccoli e di nicchia, su internet e su qualche radio: spendi poco, cresci un pochino, poi spendi un altro po’ … e cresci ancora un po’… fino ad arrivare ad una dimensione di scala adeguata per un onesto benessere; da quel punto in poi non ti serve crescere ulteriormente, devi piuttosto assestarti, rinforzarti e sperimentare qualche innovazione.
La pubblicità generalista non ti andrebbe affatto bene: immagina di vincere al superenalotto e poter fare pubblicità in TV: avresti un successo enorme per alcune settimane, ti troveresti a assumere dipendenti, ampliare il laboratorio, comprare macchine, ma poi tutto finirebbe altrettanto rapidamente: gente licenziata, il capannone che se lo prendono le banche… insomma il classico successo disastroso, di cui in Italia purtroppo ci sono anche troppi esempi. Infatti la pubblicità è solo un pezzettino del tuo processo produttivo e deve essere proporzionata al resto. E’ vero per chi, in un’ottica consumista, vende principalmente il brand, cioè la pura immagine idealizzata, è ancora più vero per te che, invece, ci scommetti la vita; per te è meglio che la pubblicità sia misurata per una crescita lenta e graduale, tranquilla, senza picchi e al riparo da eccessive perturbazioni.
Questo sistema funziona solo se la tua comunicazione è di ottima qualità. Ma attenzione, non è lo stesso tipo di qualità che si richiedere a un normale pubblicitario votato al business veloce.

C’è anche una qualità della qualità. E se lavori per la decrescita, lo sai.

Brunetta, il JumPC e la scuola in rete

Ieri sera ero già sulla poltrona, mi stavo gustando la prima mezz’ora di Indipendence Day, da lì in poi è tutto tramaticamente scontatissimo e infatti siamo dentro una parodia americanona, ma mi preme sottolineare che io vivo fondamentalmente per veder arrivare gli alieni, ché veder spuntare quelle astronavi grandi come province tra le nuvole mi scancella la mente di ogni punto di riferimento come lo scancellino scancella la lavagna, e a quel punto facciano pure quel che vogliono, compreso spazzar via la Terra perché di qua deve passare un’autostrada galattica da lungo tempo progettata (cit.).

Ma il cellulare fringa, perché se sono sulla poltrona non posso mica alzarmi e fare tre metri per andare alla scrivania, e in chat mi arriva da due diversi contatti la segnalazione di una dichiarazione del Ministro Brunetta (quello zippato) relativa alla prossima futura distribuzione di netbook personali a tutta la popolazione scolastica, e la cosa va da sé mi incuriosice alquanto.

Io non penso che quegli esseri abbiano fatto migliaia e migliaia di anni luce solo per venire qui e iniziare una guerra… Non sono mica degli attacca brighe! (citazione dal film di cui sopra, fonte wikipedia, non sto parlando del governo, neh)

Ci penso su, mi faccio una mappa mentale – in senso letterale, dentro la mia testa – delle solite inventio, dispositio, elocutio (la prima talvolta offre nuovi spunti, le altre due seguono il solito metodo del “come viene, viene”), mi soffermo sulle possibili conclusioni da trarre, e ovviamente trattandosi di argomento già da me più volte affrontato nelle discussioni che trovate in giro riguardo le tecnologie didattiche e l’apprendimento e il senso del fare scuola oggi, decido che posso lasciar perdere e ricado mollemente sulla poltrona a valutare l’efficacia patemica dei doppiatori italiani.

Ma la pulce alligna (?), gli ingranaggi girano, continuo a visualizzare mentalmente scàmpoli di frasi da accostare come pezzi di domino. Alle 23.32 vado al computer e comincio a scrivere, alle 2.00 spedisco a Maistrello, oggi trovate l’articolo su Apogeonline.

___________

Brunetta, il JumPC e la scuola in rete

Dopo la positiva sperimentazione in Lazio, Piemonte e Sicilia, i ministri dell’innovazione e dell’istruzione intendono estendere la sperimentazione del computer in classe a «centinaia di migliaia di bambini», dalle elementari alle superiori.

Ecco una notizia che dovrebbe rallegrare chi, genitore o professionista della formazione, ha a cuore la modernità dell’insegnamento e la promozione di tecnologie educative aggiornate in àmbito scolastico. Mi riferisco alle dichiarazioni del ministro Renato Brunetta sulla futura diffusione di netbook ai giovanissimi studenti delle scuole primarie, dichiarazioni espresse in occasione della conferenza stampa tenutasi a Roma presso il circolo didattico Walt Disney per illustrare gli esiti di una sperimentazione condotta in questi mesi dalla Fondazione Mondo Digitale (presieduta da Tullio De Mauro), insieme a Intel e Olidata, in diverse regioni italiane, riguardante la distribuzione gratuita a circa 150 bambini e a 15 docenti di un computer personale denominato JumPC.

Si tratta in ogni caso di prendere atto dei risultati concreti di un cambiamento strategico peraltro lungamente atteso da chi si occupa del “fare scuola” odierno, in linea con l’espressa volontà ministeriale di svecchiare la Scuola italiana grazie a dotazioni tecnologiche quali la presenza di connettività veloce e di lavagne interattive multimediali.

Le domande certo sarebbero molte, a partire dalle implicazioni “etiche” del progetto nella scelta dei partner commerciali, alla preferenza per software proprietario, fino alle modalità di funzionamento dei filtri alla navigazione installati da Olidata sul JumPC mediante l’applicativo Magic Desktop, ma le informazioni sono ancora troppo lapidarie per poter comprendere i piani di utilizzo e i risvolti sociali dell’introduzione dei pc in classe, ovvero le modificazioni effettive della pratica d’insegnamento nel contesto di attuazione del progetto. Perché un insegnante che vede dinanzi a sé quindici o venti “coperchi” alzati a nascondere il viso degli studenti, che convive cinque ore con il ronzìo soffuso ma penetrante delle ventole, che abita con gli allievi dentro reti relazionali sostenute da collegamenti wifi e ha sotto la freccina del mouse tutto lo scibile umano non può continuare a concepire i processi dell’apprendimento come prima che tutto questo accadesse, come se nulla fosse successo.

Mi rallegro dell’introduzione capillare del pc a scuola, perché modificherà l’ambiente cognitivo ed emozionale dentro cui avviene oggi l’apprendimento formale; forzerà positivamente la mano a quelli che lodano i bei tempi andati perché non capiscono la Società della Conoscenza attuale, costringendoli almeno a mantenere una dignità nel loro sproloquiare; riuscirà col tempo a promuovere pratiche significative di utilizzo didattico adeguate alle nuove potenzialità offerte dallo strumento tecnologico, magari evitando che venti computer vengano contemporaneamente accesi dentro la stessa stanza per fare il dettato su un programma di videoscrittura – altrimenti la dotazione di pannelli fotovoltaici sul tetto delle scuole diventa oltremodo impellente, moltiplicando anche solo poche decine di watt per il milione di netbook che i ministri Brunetta e Gelmini intendono introdurre nelle scuole.

Ma esperienza e pragmaticità già mi dicono che inesorabilmente i primi anni di questa Scuola 2.0 saranno connotati da utilizzi bassamente strumentali delle ex-nuove tecnologie – come già abbiamo visto, tranne poche coraggiose iniziative, accadere ieri con la famigerata aula multimediale e oggi con le lavagne interattive, utilizzate appunto quali mere succedanee dell’ardesia senza prendere in considerazione le innovazioni didattiche che questi ritrovati tecnologici potrebbero apportare all’insegnamento in quanto supporti interattivi e connessi, in grado di lasciar emergere quelle dimensioni gruppali di condivisione di informazioni e scambio dialogico importantissime in una concezione sociale e socializzata dell’apprendimento.

Non si tratta qui di fare facili previsioni su un iniziale “fallimento” dei pc in classe, anzi sono consapevole del fatto che storicamente sia necessaria in ogni piccola o grande rivoluzione di certe pratiche sociali – per giunta in grado di coinvolgere le istituzioni stesse, come in questo caso – una certa “rottura” rispetto a pensieri linguaggi e prassi sedimentati nella mente dei docenti e nella struttura stessa dell’organizzazione scolastica ormai non più adeguati alla modernità. Proprio questa potrebbe essere la strada per innescare fattivamente cambiamenti nel fare scuola.

Si tratta di qualcosa che doveva succedere, e che stavamo aspettando. Qui in Occidente molti di noi utilizzano i computer per lavoro, per produrre quel bene economico intangibile che è informazione e distribuzione delle conoscenze, mentre i ragazzini a scuola, knowledge worker per eccellenza, sono ancora lì a ricopiare il problema di matematica dalla lavagna sul quaderno.

Molti insegnanti rimarranno favorevolmente sorpresi dai concreti risultati scolastici che otterranno dalle pratiche didattiche “aumentate”, rese più potenti dai pc personali e dalla spinta motivazionale e dal “peer-to-peer” delle conoscenze nel gruppo-classe.
Questo non si può certo chiamare fallimento, né dal loro punto di vista (seppur ancora legato alla percezione di risultati valutati secondo ottiche da mondo analogico) né dal mio, che in questo rito di passaggio epocale noto comunque una opportunità per una educazione informale della classe insegnante nazionale, che si troverà di qui a qualche anno a riconoscersi cambiata senza accorgersene, e in molti casi senza neppure volerlo.

In ogni caso punto fermo e finalità del fare scuola deve essere l’apprendimento, e sulla scorta di questa considerazione è bene non confondere l’hardware della Scuola con il relativo software, la disponibiltà fisica dei computer e di altre nuove tecnologie in classe con l’automatico miglioramento della qualità dell’offerta formativa, misurata nella sua capacità di promuovere competenze personali (non solo abilità) e di suscitare nei giovanissimi consapevolezza e senso critico rispetto al proprio essere futuri cittadini connessi e interconnessi (su Il blog nella didattica potete trovare tracce di alcune recentissime discussioni su questi argomenti riguardanti le tecnologie didattiche in classe, tra lavagne Lim e stili di apprendimento dei nativi digitali).

Per questo confido e auspico che qualche milione di euro venga nell’immediato futuro destinato alla promozione ministeriale di corsi intelligenti di aggiornamento per gli insegnanti e per i dirigenti scolastici: usando la metafora dell’automobile, ora che le macchine quattoruote vengono distribuite a tutti sarebbe il caso di provvedere una seria educazione al comportamento su strada, magari concentrandosi un po’ meno sulla tecnica del carburatore e della frizione e un po’ di più sul rispetto della segnaletica (guidare l’auto è azione sociale) e sulla scelta qualitativa degli itinerari da percorrere.

La pensabilità delle nuove potenzialità didattiche offerte dalle tecnologie prima di diventare prassi quotidiana strutturata è qualcosa che vive dentro la testa degli insegnanti, e nuovi criteri per la progettazione e la valutazione della formazione possono e devono essere sapientemente comunicati dentro i programmi di aggiornamento professionale per i docenti, dove poter finalmente affrontare le tematiche dell’acquisizione di competenze di abitanza digitale specifiche. Competenze non limitate a infarinature sull’utilizzo di applicativi tipo ufficio, non affogate dentro denominazioni tecniche che con l’informatica come scienza nulla hanno a che fare, ma schiettamente orientate a fornire degli orizzonti di operatività concreta, da subito sociale e glocale come può essere a esempio una mappa satellitare da noi stessi arricchita con segnalazioni multimediali originali, rispetto alle suggestioni di questa tutta nostra Cultura Digitale in cui viviamo, a cui noi stessi abbiamo faticosamente contribuito abitando in Rete senza declinare responsabilità, consapevoli della tecnosocialità quale ambiente di crescita e di vita delle nuove generazioni.

Diritto di privacy nell’Era digitale – Viviane Reding

Riscrivo sinteticamente uff questo post, dopo aver per la prima volta qui su Blogger perso la prima stesura nonostante presunto salvataggio in bozza.

Europeans must have the right to control how their personal information is used. European privacy rules are crystal clear: your information can only be used with your prior consent.

Lo spunto è dato dalla comunicazione settimanale della Signora Reding, a questo indirizzo presso la Commissione Europea “Information Society and Media” trovate il video e anche il pdf con il testo. L’argomento è costituito dall’esercizio individuale del diritto di privacy rispetto ai nuovi rilevanti fenomeni tecnosociali, con particolare riferimento ai social network, al behavioural advertisement (profilatura avanzata dei navigatori grazie alla informazioni raccolte dai loro comportamenti online, a fini commerciali) e agli àrfidi RFID, le etichette connesse da aggiungere a ogni prodotto per realizzare la cosiddetta “Internet delle cose”.

Viviane Reding nel suo discorso tiene centrale il valore per il soggetto di poter sempre controllare l’utilizzo che altri fanno delle sue informazioni personali online.

La Commissione Europea ha già invitato i responsabili delle piattaforme sociali a provvedere degli strumenti di tutela per i profili dei minori, mediante quindi auto-regolamentazione, e intende promuovere eventuali nuove regole solo come ultima scelta, se non vi saranno altre strade percorribili.
Per quanto riguarda il caso delle indebite profilature commerciali dei consumatori, viene sottolineato come le regole attuali europee sulla privacy siano di una chiarezza cristallina, dove indicano come le informazioni riguardo una persona possano essere utilizzate solo con suo previo consenso. Le istituzioni europee anzi sorveglieranno e agiranno concretamente verso quegli Stati europei che non riusciranno a rispettare questo proprio obbligo esplicito, di tutelare il diritto di privacy dei cittadini rispetto alle iniziative commerciali.
In relazione agli smart chips, di riconosciuta importanza per l’ottimizzazione dei sistemi distributivi commerciali, la Reding offre una visione ben delineata, dove nuovamente focale risulta la consapevolezza del cittadino europeo sul funzionamento specifico di questa recente tecnologia, sulle implicazioni rispetto alla propria persona, sulla possibilità tecnica di poter rimuovere l’etichetta RFID o spegnerla in ogni momento.
L’accento è sul lato sociale delle tecnologie, dove si dice che l’Internet delle cose funzionerà solo se accettata da tutti.

Verso la fine dell’intervento, viene ribadita la necessità di metter mano alle regole generali europee per la protezione dei dati personali, del 1995, alla luce dei recenti sviluppi delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione.

Ma è positivo poter dire che le indicazioni sulla strategia istituzionale europea riguardo il diritto di privacy sanno eludere e anzi additare come controproducente un infuocato legiferare in termini proibizionistici – chiaro riferimento a ultimissimi fallimentari intenti politici di controllo della rete Internet, qui in italia e in altri Stati europei – sia in relazione alla promozione di responsabilità personale nell’essere informati e consapevoli di tutti noi fruitori della rete, sia riguardo alla stessa internet, che giungla ora certo non è, e tale diventerebbe solo se venisse tralasciata appunto la tutela dei diritti della persona.
E le regole che ci sono ora vanno già benissimo, vi è fiducia nel sistema libero attuale della rete, e piuttosto bisognerebbe puntare sull’educazione alla cittadinanza digitale, se proprio si intende fare una bella cosa.

Scuola, lavagne, web20

Sul sito dell’Agenzia NAzionale per lo Sviluppo dell’Autonomia Scolastica (ANSAS, ex-Indire) è disponibile il report Formazione Scuola 2008, relativo agli stili di apprendimento legati alla Lavagna Interattiva Multimediale (LIM).
L’argomento delle lavagne digitali connesse in queste ultime settimane è molto dibattuto, al pari delle interpretazioni e degli impliciti legati all’espressione “nativi digitali”… partendo dal blog di Gianni Marconato potrete risalire alle varie discussioni e riflessioni che son fiorite al riguardo nei Luoghi web dove si prova a mettere chiarezza sul ruolo di queste tecnologie in classe, e dell’impatto che esse hanno sullo stile di apprendimento del gruppo-classe.

Più volte qui su NuoviAbitanti si è provato a esprimere un punto di vista sulla questione delle Tecnologie didattiche e dell’Educazione (queste ultime in quanto non strettamente legate ai curricoli, ma a esempio relative alla Cittadinanza), ma sempre si è cercato di tenere appunto fermo il focus del discorso sulla questione dell’apprendimento, il vero “risultato atteso” del fare scuola, dove gli obiettivi sono costituiti dall’acquisizione di competenze (e sempre più va tenuto in considerazione il saper-fare digitale da promuovere nei giovanissimi, anch’esso non necessariamente correlato alle discipline scolastiche, anzi), mentre le azioni sono date dal allestimento strumentale e concettuale di un ambiente formativo, ormai necessariamente biodigitale fisico-mentale-digitale, non più costretto dentro muri e anzi capace di ospitare il mondo in sé, dove per un insegnante sia possibile gestire registicamente molteplici flussi di informazioni e di narrazioni in entrata e in uscita con cui arricchire l’esperienza formativa della classe, in maniera indifferente rispetto agli strumenti e ai media utilizzati.

Ma sappiamo che nel caso delle ex-nuove tecnologie la percezione strettamente strumentale del computer, della lavagna interattiva o dei Luoghi formativi online diventa un ostacolo ulteriore da abbattere (una non aggirabile pars destruens da affrontare nella progettazione del percorso formativo) rispetto al raggiungimento di apprendimento significativo, perché la stessa vecchia visione culturale degli strumenti didattici impedisce di cogliere nel computer in classe e nel web in classe (e nella scuola che dialoga finalmente con il territorio e con il mondo) quelle caratteristiche che rendono questi ultimi diversi dalle lavagne in ardesia, o anche da un televisore con un videoregistratore collegato.

Non abbiamo a che fare con supporti muti o con depositi fermi di conoscenze come i libri, che l’insegnante volta per volta deve rendere eloquenti vivificandoli con la propria cultura ed esperienza. Superare, tra-guardare lo strumento pc o lavagna digitale ci porta dritti sul web, porta il web dentro la classe, e quindi ci situa in una dimensione non solo ricettiva, da consumatori di informazioni, ma sempre più produttiva di contenuti, da pubblicare ovvero rendere pubblici, aperti alla visione e alle considerazioni degli altri, in una scuola con molte finestre e molte porte, costantemente connessa con le comunità educanti di riferimento.

Queste considerazioni dovrebbero portarci infatti a privilegiare una concezione piuttosto sociale di questi dispositivi connessi, come veri e propri ambienti formativi in sé, in modo simile a come siamo disposti a conferire a un buon libro un valore educativo in sé, in quanto microuniverso narrativo: un libro deve essere da noi abitato e riempito di senso dialogico nel momento del leggerlo, come le mappe satellitari in quanto imprescindibile sostegno alla didattica e alla cittadinanza vanno abitate e arricchite di senso per il tramite della nostra produzione culturale originale, da apporre poi coerentemente nei marcatori geografici, per fare in modo che la mappa stessa oltre al significato “verticale” dello sguardo che osserva il territorio possa veicolare quella visione “orizzontale” fatta di percorsi antropici, di Luoghi di particolare significatività storica, di considerazioni di geografia umana.
Ma appunto leggere un libro, abitarlo, rimane un fatto privato, mentre abitare il web diventa un fenomeno pubblico, sociale, che non può essere compreso dall’interno di una prospettiva solamente strumentale.

Le osservazioni delle lezioni hanno cercato di mettere in luce le funzioni della LIM più frequentemente attivate. In continuità con le attività tradizionalmente condotte con la lavagna d’ardesia, le funzioni prevalenti sono state scrivere, disegnare, evidenziare; diffuse anche le presentazioni di animazioni e simulazioni e l’uso di learning object o software applicativi. Bassa invece la frequenza di funzioni legate al web, come la navigazione in rete; del tutto assenti infine le funzioni connesse alle potenzialità comunicative della LIM, come la videoconferenza che consente di attivare su di una medesima lezione aule remote (ospedale, PC casalingo, aula gemellata). I docenti sembrano ancorare la LIM al contesto classe senza spingersi oltre i confini dell’aula fisica.

Queste righe del report ministeriale confermano questa prospettiva interpretativa, secondo cui gli insegnanti alle prese con la tecnologia delle lavagne digitali rimangono ancorati ad atteggiamenti tradizionali rispetto allo strumento, senza appunto esplorare e saggiarne le nuove potenzialità. L’utilizzo è quello tipico del “supporto visivo”, anche se va sottolineato il recepimento del cambiamento di “postura” dell’insegnante, che in simile situazione di apprendimento da intendere come “realtà aumentata” comprende il valore del ricoprire via via ruoli differenti nel corso dell’esperienza (esperto dei contenuti, facilitatore, conduttore di gruppi), nonché la necessità di ri-progettare la strutturazione dei percorsi formativi secondo le nuove potenzialità espressive delle LIM.

Vengono anche sottolineati i diversi stili di partecipazione da parte degli studenti, ovviamenti sollecitati alla collaborazione attiva da parte dello strumento LIM, dove

… predominanti sono stili intellettivi “logico” e “verbale”, in continuità con la didattica tradizionale, con un rafforzamento dell’intelligenza “visiva” consentita dal codice iconico del quale si avvale la LIM .
Laddove lo studente è chiamato ad agire direttamente sulla LIM, la dimensione manipolativa consente di attivare anche l’intelligenza “cinestetica”. La forte attivazione dell’intelligenza “intrapersonale” (51%), legata soprattutto alla registrazione degli esercizi degli studenti per la costruzione del portfolio personale e per la valutazione.
Il mancato uso di strumenti di comunicazione online si traduce in un basso livello di attivazione dell’intelligenza “esistenziale” connessa alla conoscenza di sé stessi in contesti di simulazione e alla sperimentazione di nuovi ruoli o stili relazionali (per esempio in contesti wiki o community online).

Segnalo anche due interessanti articoli su Insight, l’Osservatorio europeo per le nuove tecnologie e l’educazione, a cui sono giuto tramite European Schoolnet, il portale europeo per l’educazione.
In particolare, sul blog di Insight potete trovare un documento report promosso dalla European Commission’s Joint Reasearch Center (JRC) in collaborazione con la Direzione Generale per l’Educazione e la Cultura (DG EAC), riguardante l’impatto degli strumenti web 2.0 sull’educazione in Europa.
L’utilizzo di wiki, blog, social network è diventata una pratica quotidiana a scuola? Lentamente, stanno cambiando gli stili di approccio, e si cominciano a scoprire nuovi territori per l’apprendimento, stanno prendendo forma vie innovative per utilizzare gli strumenti2.0 in classe: è possibile seguire le pratiche nei settori del sostegno classico alla didattica, del networking (quando gli strumenti comunicativi e sociali riescono a costituire una vera e propria comunità d’apprendimento), dell’integrazione dell’apprendimento in collettività ampie, del coinvolgimento della Società.

Il report “Horizon” edizione 2009 sull’educazione fino a dodici anni mostra invece i fattori emergenti delle tecnologie didattiche, dislocandoli in tre prospettive differenti sul piano temporale: gli ambienti collaborativi e la comunicazione online saranno di uso corrente entro il 2010, l’adozione di tecnologie mobili (tramite telefoni cellulari, a esempio) troverà ampio riscontro in un’orizzonte a medio termine, mentre gli ambienti di personal web (da tradurre poi in PLE, Personal Learning Environment) prenderanno piede tra quattro o cinque anni a partire da ora.
La ricerca identifica inoltre molte variabili in grado di influenzare l’insegnanmento, l’apprendimento e la creatività nelle scuole di base; tra quelle a maggior impatto, sono da segnalare la tecnologia in quanto presente nella vita quotidiana (studio, lavoro, socializzazione); la tecnologia per motivare gli studenti, e non più da concepire come veicolo di isolamento sociale; il fatto del web in quanto ambiente di esperienza personale; una nuova concezione degli ambienti di apprendimento sempre più interdisciplinari, basati e vivificati da community centrate sulla collaborazione e la comunicazione online; una nuova percezione della creatività e dell’innovazione in quanto stimate abilità professionali.
Nell’elenco di quelle che possono essere considerati i maggiori inibitori (dove può esserci una sfida, insomma) del cambiamento, vengono indicati il bisogno crescente di educazione formale sulle nuove abilità richieste dalla TIC, come alfabetizzazione digitale ma anche “visuale”, in relazione ai nuovi meida; l’ostacolo costituito dalla vecchia letteratura scolastica e dalle vecchie prassi didattiche; un apprendimento troppo spesso sottovalutato e raramente praticato in quanto processo che riesca a incorporare esperienze di vita reale; la struttura stessa delle istituzioni educative, che non favorisce i cambiamenti oggi necessari nel fare scuola.

Lavorare su Facebook (anche per insegnanti)

Rimango fermo sulle mie idee: in Rete esistono Luoghi migliori di Facebook per provare a fare didattica online, specificamente disegnati per le esigenze degli insegnanti e degli studenti, ovvero pensati nativamente come ambienti di apprendimento.

Sto parlando di ambienti 2.0, totalmente web-based – l’unico software necessario per la partecipazione è costituito dal browser – ed escludo per seguire il filo del ragionamento quegli ambienti ad esempio di e-learning come Moodle, che richiedono di essere installati su un proprio spazio web acquistato presso un provider, configurati e amministrati anche tecnicamente da parte nostra. In questi giorni si vocifera di una peraltro lungamente attesa integrazione tra Moodle e GoogleApps, che riuscirebbe a rompere l’esclusività e la percezione di Luogo conchiuso che caratterizza Moodle, aprendolo ai flussi da e verso il web, permettendo di arredare ad esempio l’ambiente di apprendimento scolastico (ogni scuola dovrebbe offrire “spazi attrezzati” su qualche proprio dominio) con le produzioni documentali che normalmente alloggiamo sui siti specializzati nell’ospitare video o presentazioni mutlimediali.

Perché credo che sia buona cosa che gli insegnanti abbiano comunque i loro molteplici luoghi personali di pubblicazione su web (vedi PLE Personale Learning Environment), da riproporre e linkare dentro gli ambienti di apprendimento reticolari, piuttosto che svolgere la loro attività esclusivamente dentro questi ultimi, senza che il loro fare risulti visibile e condivisibile all’esterno.

Tralascio anche le considerazioni di tipo “etico” sull’utilizzo di Facebook, se siete interessati ho provato a parlarne qui e qui.

Ogni insegnante, oppure ogni classe, potrebbe predisporre un proprio ambiente di social networking usando Ning (anche Eelg è piattaforma simpatica, di quelle però da scaricare e installare come Moodle), dove grazie alle tecnologie di tracciamento offerte dai feed RSS e alle finestre di visibilità widget da allestire sulle proprie pagine sul socialnetwork risulterebbe facile far confluire tutta la produzione documentale elaborata dal gruppo classe e altrove allocata, e insieme provvedere strumenti per la valutazione della comprensione da parte dei discenti, quali forum e bacheche specifiche per le discussioni corali sulle tematiche proposte dagli insegnanti.

Avendo le proprie presentazioni o documenti .doc .pdf su Slideshare o su Scribd, i propri video su YouTube o su Vimeo, incastrando video e presentazioni con Zentation, mostrando le vostre foto su Flickr, lavorando attivamente sulle mappe satellitari della propria zona arricchendole di contenuti originali sviluppati nel corso delle attività didattiche, collaborando sui wiki creati con PBWiki o Wikispaces o Wikia, sfruttando a fondo le potenzialità offerte dagli strumenti del vostro account Google quali GMail o il Calendario condiviso e collaborativo, l’imprescindibile GoogleDocumenti per scrivere e pubblicare pagine web, l’altrettanto fondamentale aggregatore Reader per nutrire e tenere aggiornata la cultura del gruppo di lavoro, e riportando tutte le attività che ogni singolo partecipante svolge autonomamente su web su tutti questi e su altri Luoghi all’interno del “social network di classe”, già ottengo un ambiente flessibile e potente, capace di accentrare le funzionalità operative e quindi connotato identitariamente in modo stabile, riconoscibile nel tempo in quanto esplicito Luogo di apprendimento online ufficialmente firmato dalla scuola e dall’insegnante.

Se proprio proprio volete insistere su Facebook, tramutatelo almeno in un ambiente meno dispersivo, arredandolo con degli applicativi web di terze parti che potranno concorrere a rendere più efficace il vostro quotidiano lavoro di insegnanti su quella piattaforma.
A questo indirizzo su Selectcourses.com trovate cento 100 risorse per la produttività personale e per l’insegnamento da utilizzare dentro FB, organizzate secondo categorie: ci sono strumenti per mettere in luce le connessioni sociali, la gestione dei documenti e la loro condivisione, per le funzioni di ricerca delle informazioni, per la gestione dei gruppi di lavoro, per l’organizzazione lavorativa, nonché strumenti specifici per l’apprendimento e lo studio, da utilizzare anche con approccio ludico.

Enjoy and happy teaching.