Archivi autore: Giorgio Jannis

Felicità sostenibile

Leggo questo libro, e mi accorgo di come dentro di me vivano schemi interpretativi, gerarchie di valori, meccanismi “automatici” di attribuzione di senso, su cui poi poggiano ipotesi sul funzionamento economico delle società assolutamente non tarate sulla realtà dei fatti.

La visione culturale che l’Occidente ha di se stesso, il macro-codice (non-detto, non narrativizzato) attraverso cui poi interpreta il proprio abitare sul pianeta e la relazioni con le altre culture e con l’ambiente abita da un paio di generazioni almeno dentro una colossale fiction di tipo cinetelevisivo, la stessa in cui i polli crescono direttamente nei supermercati.
Al punto che se qualcosa qui va storto, e vista l’aleatorietà del nostro attuale sistema economico basterebbe il giusto sassolino nel giusto ingranaggio, lo scenario che mi viene in mente è quello de “I sopravvissuti“, quella serie televisiva inglese della fine degli anni Settanta.

Io decrescito.

I Paesi in cui il reddito pro capite è inferiore ai due dollari al giorno sono i Paesi non industrializzati, a cui i Paesi industrializzati tolgono il necessario per alimentare il superfluo delle loro economie che sono obbligate a crescere per evitare di entrare in una fase di recessione. Considerarli poveri perché il loro reddito pro capite è inferiore a due dollari al giorno è una forma di colonialismo culturale e, in ultima analisi, di razzismo. Significa ritenere che le società fondate sulla crescita della produzione di merci sono superiori alle società in cui l’autoproduzione di beni continua ad avere un ruolo determinante. Significa credere che il modo in cui in queste società si soddisfano i bisogni essenziali è il modo migliore per farlo, tanto da diventare la misura a cui rapportare tutte le altre. Con due dollari al giorno si è poveri soltanto se si deve comprare tutto ciò che serve per vivere. Ma se la maggior parte dei beni si autoproduce, due dollari al giorno possono essere sufficienti a comprare ciò che non si riesce, non si può, non si sa, non conviene autoprodurre.
Maurizio Pallante, La felicità sostenibile, pg. 58.

Il contrappasso mediatico di Sua Emittenza

Ecco cosa succederà! Questa blob informe della Sinistra italiana, ma spero tutti noi italiani amanti della verità, capiremo che l’idea che Berlusconi debba essere frontalmente messo a pubblico giudizio per il modo di condurre le attività imprenditoriali prima e per le leggi disinvoltamente da lui fatte approvare sulla sua stessa persona poi è esattamente la cosa da tradurre in pratica.
Senza perder tempo con la fuffa che ci sta intorno, al Fenomeno.
Fuffa che peraltro in altri paesi democratici porterebbe all’impeachment (quindi a processarlo), oppure muoverebbe dei capi di governo, ancora in possesso di una dignità personale, a farsi processare e a mettersi da parte.

Gli italiani vogliono sapere cosa pensa l’italia di Berlusconi, obiettivamente.
Ma questo deve essere frutto di una profonda presa di coscienza della collettività italiana, di tutti quelli che in testa riescono a concepire il pensiero di nazione – senza alcun retrogusto, questa parola, da intendere semplicemente come la forma di collettività che pensano questi italiani contemporanei quando pensano sé stessi come un tutto.

E allora chi ha a cuore la dignità dell’Italia, e qui lo scrivo maiuscolo perché è la mia idea di Italia e non la sua, dovrebbe riuscire a suscitare – magari andando in milioni intorno alle sedi rai, ma dico 15milioni di persone, ché non credo simile comportamento della società possa essere promosso dalle Istituzioni, in quanto esse stesse impegnate a difendersi – a produrre dicevo un colossale giudizio pubblico di tutti noi cittadini su Berlusconi, come una gigantesca nomination di un reality, realizzata per via mediatica prima e concretamente poi, votando. Su tutti i media italiani, e poi nei seggi. Tipo quando abbiam detto monarchia sì o no.
Un evento epocale, collettivo, per toglierlo di lì.

Innanzitutto si rendono gli italiani edotti sul contendere, sottolineando le malefatte del nostro personaggio villain, ed è sufficiente vedere cosa dice wikipedia nel riportare le tappe dell’ascesa, oppure gli elenchi delle sentenze giudiziarie dei processi, poi i vari lodi, spesso descritti in passato anche da giornalisti riconosciuti onesti nella loro visione, ancorati ai fatti, con ragionamenti su cui tutti possono concordare, tranne i fanatici. Tutte informazioni molto concrete, non opinabili.

Ebbene, la tv pubblica, i quotidiani tutti, i siti istituzionali governativi dovrebbero presentare agli italiani tutta la vita di Berlusconi, e dico letteralmente, senza parlare praticamente di altro, per dieci giorni e dieci notti, ripetendo continuamente a vari livelli discorsivi secondo comprensibilità e complessità le sue manovre negli ultimi quarant’anni, di modo che sia possibile fare chiarezza, e che a tutti sia chiaro chi è B. e cosa ha fatto in vita sua. Mostrare i fatti, nudi e crudi, e togliere la fuffa.

Se uno al bar dice “sì, ma forse lui…” gli si mostra subito la foto, un discorso scritto, il documentario, lo spezzone di un tg, il testo di una legge, insomma il documento stick-to-the-fact in cui il suo argomento oppositivo viene smentito.

Si organizza una costruzione collaborativa di una linea editoriale, tanto la linea registica da seguire è mostrare semplicemente i fatti della vita di una persona, e bisogna riuscire a pubblicare un racconto pulito, asciutto, concreto, anche asettico se serve, da parte di tutti i media italiani. Tutti i direttori dei quotidiani d’italia, e quelli delle televisioni, tutti insieme, e si stabilisce la linea per descrivere il Premier. E giornalisti e osservatori stranieri.
Ho ancora fiducia che si possa acclarare pubblicamente cosa sia una fatto reale, e distinguerlo da opinioni e dietrologie e drammi a tesi.

Tutti i media mostrano continuamente cose che parlino di lui, come sequenza ininterrotta di informazioni senza coloriture.
Tipicamente, voglio vedere la sua faccia su tanti televisori dentro le vetrine dei negozi, come in un filmone di una volta, e manifesti per strada che rechino scritta una qualsiasi delle sentenze pronunciate contro di lui, prese proprio da wikipedia.

Voglio che alla tv al posto degli spot pubblicitari, per dieci giorni, vengano fatti passare dei servizi giornalistici dove vengono ripetuti i capi d’accusa e la sentenza completa, viene illustrata la conseguenza delle sue leggi nel voler legittimamente procedere contro di lui.
Ogni pagina web editoriale dovrebbe pubblicare in home in alto un fatto random della berlusconeide, e parlare poi d’altro, dei rituali d’amore della coccinella peruviana.
I blog e i luoghi personali o riportano fatti, o tacciono. Sapere come la pensiamo tutti è più importante di sapere cosa ne pensa tizio o caio, per pochi giorni.
Se qualcuno sgarra, e crea un contenuto mediatico sbilanciato di qua o di là, tutti lo segnaliamo, e viene oscurato il sito o interrotta la pubblicazione per i giorni che mancano ai dieci da fare.
Chi sgarra è uno che vuole intorbidare le acque, che devono restare limpide per la formazione della coscienza, per una nascita di un’opinione pubblica.
La comunità internazionale ci controlla.

Dopo dieci giorni, lo avete capito, si vota. E si vota pubblicamente, con nome e cognome. E votano tutti, perché quelli che non vanno a votare o votano “mi va bene Berlusconi, anche se so che è antidemocratico, corruttore e mentitore” verrebbero subito visti e da tutti additati come persone che non attribuiscono i giusti significati nemmeno all’evidenza dei fatti, quindi o stupidi o persone interessate a negare la realtà, per una loro convenienza ben poco dignitosa.

E questa cosa dovrebbe essere detta di loro in ogni occasione pubblica, che sono esseri meschini.
Con segno di riconoscimento addosso, certo. Con un cartello sulla loro porta di casa, con un RFID nei loro vestiti. Ad esempio, obbligarli a tenere aperto un bluetooth che ti dà l’informazione sulla loro bassezza morale, o mettere un sottopancia quando passano in televisione o sul giornale o camminano per strada, così da sapere sempre che ho a che fare con gente che senza pudore nega la realtà, e che sostenendo una persona antidemocratica eccetera sono imputabili di eversione e apologia di reato. Lo farei per gli stupratori, per i pedofili, che han compiuto reati contro la persona, lo farei con quelli che dichiarano di voler agire contro la collettività, chi in questo caso avesse in sé lo squallore intellettuale ed etico di non voler considerare i fatti nel formulare il suo giudizio.
Una persona così non merita di essere ascoltata, nel suo parlare di come dovrebbero andare le cose. Non può parlare per gli altri, non può stabilire niente che mi riguardi, non la tengo in considerazione, non è un parlante ratificato nella conversazione civica.
Gogna, ma veramente pubblica, non da un potere centrale imposta, ma progettata e praticata collettivamente da tutti, nel segnalare subito (con un click, o chiamando i Vigili) chi esprime e propala una narrazione about berlusconi non conforme allo stile strettamente informativo. Per dieci giorni.

Poi tutta l’italia va a votare se vuole che quest’uomo del biscione abbia potere sull’identità pubblica e sui comportamenti istituzionali.

Perché, e qui sta il cuore del problema, io credo che qualunque italiano dinanzi ai fatti sia in grado di formarsi una propria rappresentazione della situazione, ma i fatti devono essere assolutamente neutri, come il tono di voce di Mike Bongiorno nel porgere la domanda a Rischiatutto.
Sarò ingenuo, ma fiducioso. E non credo che Berlusconi meriti una guerra civile.
Ho fiducia nel fatto che chiunque, indipendentemente dal proprio livello culturale e dalle proprie idee politiche, sappia comprendere i crudi fatti della realtà, e manifesti la propria volontà di abitare in uno Stato democratico.

E Berlusconi vedrete dovrà dimettersi da ogni carica pubblica, accettare di vedersi limato l’impero mediatico, vivere serenamente il suo futuro da imprenditore o da nonno, quietare la propria ambizione.
Se gli italiani si esprimono invece a favore di chi gioca barando, allora o sono stupidi o sono antidemocratici, e in entrambi i casi voglio in italia un commissariamento dell’Onu.

Un vero reality

Forse già dal 27 luglio Udine avrà lo streaming del Consiglio Comunale. Interesting.
Credo Paolo Coppola, assessore diUdine all’Innovazione e all’e-Government, si meriti una pacca sulla spalla, perché sta facendo un buon lavoro sulla presenza mediatica del Comune (aspetto strumenti più interattivi; senza un po’ di sana e-Democracy l’e-Government suona come una “concessione”), e perché credo abbia dovuto lottare con assessori e consiglieri contrari a mostrare il loro faccione in webdiretta.

Si lavora per far partire il servizio già da lunedì prossimo, 27 luglio
IL CONSIGLIO COMUNALE VA ONLINE
Coppola: “Un segnale di partecipazione, apertura e trasparenza della politica verso tutti i cittadini”.

Due telecamere riprenderanno le sedute e le trasmetteranno in diretta streaming sul sito del Comune

Due telecamere che riprendono i lavori del Consiglio comunale di Udine e che trasmettono le immagini in diretta streaming sul sito del Comune. È l’idea dell’assessore all’Innovazione e alla Trasparenza Paolo Coppola che, probabilmente già dalla prossima seduta del 27 luglio, in via sperimentale, intende offrire a tutti i cittadini la possibilità di seguire in diretta online il consiglio comunale. “In queste ore stiamo cercando di risolvere i problemi tecnici e burocratici – spiega Coppola – per lanciare il servizio in via sperimentale già da questo Consiglio. Credo che coinvolgere i cittadini, attraverso tutti gli strumenti che la tecnologia ci offre, rappresenti un segnale di apertura della politica e delle istituzioni verso una sempre maggiore trasparenza e partecipazione”.
Nella sala del consiglio, oltre alle due telecamere, sarà posizionata una piccola regia, basata su un computer portatile che gestirà le riprese e inserirà i sottotitoli per spiegare chi in quel momento sta parlando.
Collegandosi al sito www.comune.udine.it, dunque, sarà possibile seguire in diretta lo svolgimento della seduta pubblica. Ma non solo. Nei giorni successivi al consiglio, infatti, i video verranno caricati su youtube, sul canale del comune, e suddivisi per i diversi punti all’ordine del giorno, in modo tale da rendere più facile il reperimento di una parte specifica della discussione. “È la prima volta in assoluto che a Udine viene effettuato un servizio del genere – prosegue soddisfatto l’assessore che ha anche la delega ai servizi informativi – e spero vivamente che, dopo la fase sperimentale, si possa partire a pieno regime perché credo sia fondamentale rendere consapevoli e partecipi i cittadini delle decisioni prese per tutta la collettività, riducendo il pericoloso distacco tra politica e vita quotidiana. Vedremo poi – conclude – quali saranno le reazioni da parte del web e, sulla base dei risultati, vedremo se continuare o meno”.
Sta di fatto che, a partire dalla campagna elettorale di Obama fino alle nostre recenti elezioni europee, se da un lato si sta diffondendo sempre più l’uso di internet nella comunicazione politica, è anche vero che dall’altro sono sempre più le persone di tutte le età che cercano in modo diretto le informazioni, possibilmente senza intermediazioni. Ed è proprio in quest’ottica che si inserisce l’idea di far seguire online le discussioni del consiglio comunale udinese.

Udine, 21 luglio 2009 Ufficio stampa

via Facebook (della notizia non ne ho trovato ancora traccia sul sito del Comune di Udine)

Identità digitale, socialità in rete, progettazione di ambienti

L’aula scolastica è l’ambiente dove ha luogo la situazione sociale di apprendimento, e non è un luogo neutro. L’arredamento, la disponibilità di supporti alla didattica, perfino il colore diverso della tinteggiatura delle pareti potrebbe modificare nei partecipanti la percezione dei flussi comunicativi gruppali tramite cui avviene apprendimento. Facebook non è uno strumento, è un ambiente. Non è certamente neutro, non è trasparente, e non è il più indicato per attività didattiche. Non è nemmeno un luogo democratico. Quale messaggio di educazione alla cittadinanza digitale ‘passerebbe’ agli allievi? Dov’è la capacità critica degli insegnanti, nel valutare innanzitutto gli stessi (oggetti, parole, libri, strumenti, situazioni, ambienti) supporti alla conoscenza?

Ok, dopo aver reiterato i miei dubbi per le attività didattiche che certi insegnanti (persone che sono arrivate in Rete ieri, evidentemente, e si comportano come bambini in un negozio di giocattoli) svolgono dentro Facebook, procedo con una di quelle liste di segnalazioni che talvolta metto giù per prendermi degli appunti.

Avete presente quando si dice che il web è un posto caldo, fatto di relazioni? Ne parlava il buon Livraghi anni e anni fa. Beh, siccome il web moderno è definito social web, ecco che un tot di sociologi e antropologi e social designer e media strategist e narratologi specializzati nelle dinamiche affettive delle conversazioni e delle strategie identitarie dei gruppi (ehm) stanno provando a individuare le peculiarità delle nuove forme di socialità su web.
Ad esempio, visto che il passaparola è fondamentale per l’evoluzione della specie umana, quando mi serve qualcosa a chi posso chiedere? Ecco uno schemino per una esplicitazione delle competenze digitali secondo una sorta di prossemica sociale.

L’altro giorno dovevo augurare buon compleanno a un tipo. La domanda era: dove? Si tratta di una mia conoscenza di tipo professionale, ma abbiamo condiviso anche momenti informali con buon feeling interpersonale. Telefonargli a casa, telefonargli al cellulare, sms, facebook, altri social network, strumenti di lifestreaming tipo Friendfeed, mail? In occasione dei rituali più strutturati, la competenza sulla scelta del mezzo e sul tono da tenere risulta decisiva, perché in quei casi la situazione comunicativa dice ben più del messaggio stesso. Non è importante cosa si dice agli sposi o a un funerale, le frasi sono sempre quelle, assai più importante è compredere la grammatica dei tempi e dei modi, per evitare gaffe. Codici, sissignori. Possedere i codici interpretativi della circostanza e delle aspettative altrui, secondo cultura di appartenenza.
Nel caso di ambienti online, queste diventano appunto competenze digitali, che non c’entrano nulla con l’alfabetizzazione informatica, tanto quanto – vecchio parallelo – saper come funziona un motore quattrotempi o come si cambiano le marce (cultura tecnologica, consapevolezza dell’interfaccia) in un’automobile ha poco a che fare con il sapersi comportare in autostrada.
Nel mio caso personale, dovendo anche per lavoro portare in superficie queste grammatiche di socialità digitale inespresse che molti di noi dopo molti anni in rete possiedono senza saperlo, sono riuscito ad appoggiarmi a dei ragionamenti per stabilire quale fosse il giusto media da utilizzare.
Per rifarmi al caso degli insegnanti sopraespresso, non sono sicuro della loro capacità di far chiarezza in se stessi rispetto all’adeguatezza degli ambienti di socialnetworking, soprattutto in relazione alla specificità della didattica e dell’organizzazione scolastica.

Piercesare Rivoltella offre sempre riflessioni interessanti: qui su Medialog ragiona su autonomia e narrazione, in occasione di un seminario dedicato a “Media, storia, cittadinanza”. In particolare, Rivoltella organizza il suo pensiero sulle forme della socialità digitale intorno a tre coppie di termini: sfera pubblica / sfera privata, apprendimento insegnato / apprendimento non insegnato, autonomia / eteronomia.
Sempre su Medialog, in aprile, un bel post provava a “riflettere sulla necessità di dare risposte da parte della scuola agli aspetti che riguardano l’uso sociale dei nuovi media. Tra i tanti, l’economia dell’attenzione che essi comportano (diversa da quella implicata dalel forme più convenzionali di comunicazione) e la pluricollocazione nello spazio e nel tempo dei soggetti”. Interrogandosi sul rapporto esistente nuovi media, educazione e cittadinanza, Rivoltella descrive tre cornici: il frame alfabetico; il frame critico; il frame autoriale. Tre approcci differenti (ma da intendersi forse come sfaccettature della stessa realtà) da tenere in considerazione per una scuola che intenda far ragionare le nuove generazioni sulla partecipazione alle forme di cittadinanza digitale, che va da sé non può essere disgiunta da una seria Media Education.

Ragionando di identità personale, ecco un articolo di Luciano Floridi da “Philosophy of information”

“Who are you online?” is a question with enormous practical implications, and yet, crucially, individuals as well as groups seem to lack a clear, conceptual understanding of who they are in the infosphere and what it means to be an ethically responsible informational agent online.

Qui trovate invece qualcosa per ragionare di integrazione tra network di sensori e network sociali, per meglio provvedere informazioni di contesto. Stiamo già parlando di socialità dentro la Internet delle cose (vedi anche qui e qui per argomenti attinenti).

La Microsoft ci racconta dell’utilizzo di tecnologia per i mercati emergenti: “The research in this group consists of both technical and social-science research. We do work in the areas of ethnography, sociology, political science, and economics, all of which help understand the social context of technology, and we also do technical research in hardware and software to devise solutions that are designed for emerging and underserved markets, both in rural and urban environments.”
Ad esempio, coinvolgere agricoltori in progetti di educazione informale alle tecniche di coltivazione mediante l’utilizzo di video digitale; usare interfacce utente di tipo non testuale, per popolazioni non alfabetizzate, elaborando con supporto di studi etnografici alcuni principi per il design; studiare pc multi-utente; creare reti sociali tra microimprese; avviare interventi di miglioramento in campo sanitario, supportati da utilizzi avanzati di tecnologia a basso costo.

Molte delle riflessioni riguardano la centralità di una progettazione (delle reti informatiche, delle interfacce, dei luoghi di comunicazione pubblica per imprese o pubbliche amministrazioni, delle organizzazioni lavorative, delle architetture di informazioni) che sia in grado di porre l’utente al centro dell’approccio speculativo. Anzi, qui non si tratta più di progettare l’interazione con l’utente, ma proprio di ragionare sulla progettazione dell’esperienza dell’utente, quella che in gergo viene detta UX, ovvero User Experience, l’nsieme dato dalle componenti cognitive e patemiche nella “convergenza tra design digitale e industrial design, tra hardware e software, tra applicazioni e servizi, che a volte sfocia perfino nella progettazione degli spazi (interni ed esterni) in cui l’esperienza avviene. In questo caso la sfida più grossa è quella della multicanalità e della multidimensionalità dell’esperienza, e di quelle che Joel Grossman chiama “esperienze ponte”. Tutto questo lo trovate su questa pagina di UXmagazine.

Cosa vuol dire progettare l’esperienza utente? Ci sono tante risposte. Storicamente è un’attività strettamente connessa allo User Centered Design, da cui ha tratto filosofia di base, metodi e strumenti. Qualcuno la definisce mettendo insieme le competenze o gli ambiti disciplinari che concorrono al progetto (Steve Psomas), oppure elencando cosa non è. Qualche anno fa Peter Morville propose un modello con sette facce che descrivono le qualità dell’esperienza utente . Più recentemente Nathan Shredroff ha proposto un modello simile basato su sei dimensioni.

In realtà, in tempo di socialnetwork, qualcuno sta giustamente pensando di passare da un “user-centered experience design” a un “group-centered experience design”, proprio perché appare sempre più chiaro (per via dell’emergere alla visibilità di questi processi finora immersi nella complessità, grazie ai socialcosi) che le linee dei comportamenti sociali digitali – il marketing virale, la diffusione dei memi, i meccanismi del passaparola, la status-sfera, la folksonomia degli oggetti culturali di qualità, le reti relazionali umane – dipendono dalle dinamiche dei gruppi online, dalla loro capacità di essere organizzatori di senso, o banalmente trend-setter, in grado poi di connotare con la loro sanzione esplicita, positiva o negativa, una configurazione riconoscibile delle conversazioni online con una veste di “accettabilità” o di “novità” o di “sei out se non sai/fai questo o quello”. Per dire, il meccanismo in Facebook è riconoscibilissimo, nella circolazione delle appartenenze ai gruppi e nei dispositivi di condivisione delle informazioni, anche se viene persa la significatività specifica a causa del calderone in cui tutto viene riversato, della cornice onnivora che vampirizza il senso delle singole discussioni, livellandole verso il basso (il famoso cazzeggio).

Qui su Ibridazioni (ne parla anche con buoni esempi Alberto Mucignat) c’è una proposta di riflessione (un bel documento da scaricare) sulla progettazione basata sull’esperienza gruppale, a partire da un design di tipo motivazionale, fondato quindi sugli utenti e non sulle piattaforme, ad esempio per avviare ambienti sociali per le organizzazioni lavorative:

La nostra proposta metodologica si fonda su quattro concetti chiave:
1. Bisogni Funzionali: gli obiettivi di progettazione rivisti in chiave di necessità.
2. Usabilità Sociale: l’usabilità rivista in dinamica sociale (partendo dalla definizione di Nielsen).
3. Motivazioni Relazionali: il concetto di motivazione rivisto in chiave relazionale (one-to-one e sociale).
4. Flusso di Attività Circadiano: ovvero le attività abituali delle persone durante la giornata.

Fra queste, le componenti caratterizzanti sono, come intuibile, Usabilità Sociale e ancora più Motivazioni Relazionali. La prima definisce quattro proprietà RICE: Relazioni interpersonali, Identità, Comunicazione ed Emergenza dei gruppi, mentre la seconda quattro motivazioni CECA: Competizione, Eccellenza, Curiosità, Appartenenza.

Il Design Motivazionale si applica sia ai Sistemi a Social Newtwork presenti nel Web che alle Intranet e Community Aziendali che vogliono sfruttare le nuove prassi collaborative che si sono evolute nel Web 2.0 (l’ormai nota Enterprise 2.0).

I ragionamenti sulla condivisione della conoscenza nelle organizzazioni aziendali (Enterprise 2.0) sono certo fondamentali, ne parla anche RobinGood qui, dove la Torre (gerarchia e verticalità) incontra la Nuvola del bottom up e delle relazioni orizzontali.

Putting People First riporta l’attenzione sul service design, grazie alla segnalazione di un articolo scientifico di Daniela Sangiorgi, dove si prova a ristabilire una prospettiva basata sulla considerazione dell’interfaccia (da intendere come l’intera situazione dove l’esperienza ha luogo), rispetto ai “prodotti” di un’attività di design, nella definizione di servizi, dove soggetti azioni norme ruoli e artefatti vanno tutti considerati senza troppo spezzettare lo sguardo, per una comprensione più ampia dei fenomeni, e soprattutto in ottica groupware.

Alla base di molti approcci scientifici recenti allo studio delle socialità in Rete e della human-computer interaction (qui il link per il blog di Luca Chittaro – direttore dell’HCI Lab dell’Università di Udine – su Nova100 ilSole24ore, vi è indubbiamente quella che viene definita “Activity theory” (vedi Wikipedia)

Activity theory is a psychological meta-theory, paradigm, or framework, with its roots in the Soviet psychologist Vygotsky’s cultural-historical psychology. Its founders were Alexei N. Leont’ev (1903-1979), and Sergei Rubinshtein (1889-1960) who sought to understand human activities as complex, socially situated phenomena and go beyond paradigms of psychoanalysis and behaviorism. It became one of the major psychological approaches in the former USSR, being widely used in both theoretical and applied psychology, in areas such as education, training, ergonomics, and work psychology [1]. Activity theory theorizes that when individuals engage and interact with their environment, production of tools results. These tools are “exteriorized” forms of mental processes, and as these mental processes are manifested in tools, they become more readily accessible and communicable to other people, thereafter becoming useful for social interaction.

Ora metto un paio di fotografie. Si tratta di anziani in casa di riposo che usano la Wii Nintendo.
Ne trovate altre qui: occhio che è un sito che contiene anche robe pornelle :)

Udine stupidina, e sprecata

Ho letto questo post di Gaia, che non conosco, e credo sia più giovane di me.
Sono annoni che non vado a una festa di laurea di qualcuno, e anche l’epoca dei primi matrimoni credo sia finita, nel mio giro di amicizie. Infatti le notizie a distanza uno/due gradi di separazione sono i tradimenti e i secondi matrimoni, e manca poco al “sai che Gino ha avuto un infarto? Stava sniffando una riga di bianca tra le tette di una cubista croata durante un’orgia di scambisti in un club privè” (cit. a memoria di non mi ricordo chi; ndGJ).

Perché Gaia parla di Udine, una città stupidina. E dice cose giuste e appunto letteralmente condivisibili, tant’è che copioincollo qua sotto le sue parole. Qualche volta ci ho provato anch’io, su questo blog, a raccontare degli stereotipi schizoidi di questa città di provincia. Della sua ambigua socialità che vivacchia tra l’indignato perbenismo di facile calco televisivo e i topless lapdance spritz party nei capannoni delle statali, tra le ferrari e le porsche in doppia fila e la mensa dei frati che trabocca di gente in cerca di una minestra. Un territorio che offre iniziative culturali internazionali – Sunsplash, FarEastFilmFestival, VicinoLontano, realtà sorte “dal basso” – offuscato dalla miopia culturale di una classe politica incapace di progettare un’identità e una linea d’azione innovativa e lungimirante, fondata su una lettura semplicissima della modernità fatta di scenari transfrontalieri, consapevolezza ecologica del rispetto del territorio (il FVG è la regione più cementizzata d’italia), nuove forme di socialità, superamento delle logiche economiche di tipo veteroindustriale.
Se c’è una cosa in cui i friulani sono bravi, e dove gli udinesi raggiungono l’eccellenza, è nell’impedire che il vicino di casa faccia qualcosa di innovativo e magari culturalmente ed economicamente redditizio. Siamo specializzati nello sbranarci a vicenda, prima ancora che le cose si muovano. Invidia, rancore, pressione sociale al conformismo, guerra di bande, cattolici vs. massoni, chissà. Piuttosto che lasciarti aprire un negozio sotto casa mia, dò fuoco al condominio dove entrambi abitiamo, ecco.

Ma riprendo qui gli sforzi di Gaia, mi associo e continuo a credere di poter cambiare la mentalità di questa città sprecata.

cosa ci faccio qui?

Luglio 17, 2009 — gaiabaracetti

Ieri ho avuto il piacere di partecipare ad una festa di laurea a Padova. Con i suoi 55,000 studenti (dati del Miur), Padova è decisamente una città universitaria, per cui molto diverente: una delle città in cui sarebbe bello vivere. Ce ne sono tante, in Italia, penso a Torino, Roma, Bologna, per dirne alcune, o le città del sud… per non parlare delle fantastiche metropoli europee: Berlino, Parigi, Barcellona… Invece sono ancora a Udine. Ogni tanto mi chiedo perché, che ci faccio qui, in questa città piccola, sgarbata e conservatrice, quando le alternative sono illimitate e così allettanti

La risposta, oltre che agli ovvi motivi che qui ci sono nata e che qui lavoro, è che io vedo Udine non per quello che è, ma per quello che potrebbe essere -e potrebbe essere veramente una città perfetta. Ogni tanto può nauseare, ma le piccole dimensioni hanno numerosi vantaggi: non ci si sente soli come in una grande città, è facile rimanere in contatto con tutti, e coinvolgere molte persone nelle proprie iniziative. In grandi città, per la mia esperienza, è tutto molto più dispersivo e faticoso.

Udine è una città ricca: se solo gli udinesi spendessero i propri soldi in cose come la cultura, o persino l’artigianato, invece di comprare cose inutili nei centri commerciali, si creerebbero posti di lavoro fantastici che spingerebbero i giovani a restare, e si renderebbe stimolantissima la vita udinese.

Siamo una regione di confine, eppure dell’Austria ci importa poco, e la Slovenia la trattiamo con diffidenza. Se sapessimo sfruttare questa posizione, potremmo essere al centro di scambi culturali unici, invece che una periferia considerata dal resto d’Italia rozza, remota e poco invitante -mentre noi non facciamo altro che ripeterci quanto siamo speciali perché siamo friulani.

Infine, ho deciso di restare in una zona ricca come il Friuli perchè bisogna ridurre guerre e povertà nel mondo, e siccome entrambe queste cose sono sempre più collegate alle disparità nella distribuzione globale di risorse, se agendo qui si potesse spingere la parte ricca del mondo (tutti i friulani, quindi, non solo quelli che noi consideriamo ricchi) a consumare di meno, avremmo già risolto metà del problema. Noi consumiamo più risorse di quante la nostra terra ci fornisca, e per queste risorse ci sono guerre, sfruttamento e fame in parti del mondo che non conosciamo nemmeno.

Udine è strana: tantissimi giovani se ne vogliono andare, però la maggior parte finisce per restare, risucchiata qui da non si capisce cosa… io ora come ora sono tra questi. Ogni tanto anch’io sento le sirene di altre città, o dell’estero, e vivere a Udine, dove è così difficile mettere in pratica idee nuove, può essere frustrante. Però penso che la nostra potrebbe essere davvero una città che riassuma in sè il meglio della nostra era in una dimensione davvero umana… ma siamo lontani da questo obiettivo, e quando mi trovo davanti a gente che si lamenta perché non si parcheggia in centro, o chiede più polizia in borgo stazione, mi chiedo se basteranno i miei sforzi per cambiare la mentalità di questa città sprecata.

Mezzi diversi

Oggi è il giorno in cui bisognerebbe stare zitti per protestare contro l’obbligo di rettifica per la stampa e i siti informatici, contenuto nel disegno di legge alfano sulle intercettazioni.
Massimo rispetto per i promotori e chi aderisce, ma non è la mia posizione, quella che ho più volte espresso in questo blog, la posizione di chi ritiene sia importante dire, ridire, ripetere, sottolineare, argomentare, mostrare i fatti, indicare gli errori, sostenere sempre e comunque la libertà di espressione di pensiero e di parola, e farlo in prima persona in ogni buona occasione e magari anche a sproposito, visto che in italia vengono varate leggi oscurantiste e censorie.
Per tutto il resto, c’è il reato di diffamazione.

Sono ottimista e fiducioso: da domani i blogger smetteranno di pensare a cazzate varie e resteranno per qualche settimana in trincea a scrivere e a commentarsi molto, per difendere con le armi della libera discussione quella poca visione critica della realtà rimasta in questo Stato fondato sulla fiction.

Innovare nonostante. Mario Calabresi

Se devi progettare qualcosa, pensa subito a un sistema con due “motori”: uno serve per l’innovazione che intendi promuovere, l’altro per combattere (la burocrazia, la visione miope, la pochezza culturale, la mancanza di coraggio) tutto ciò che si oppone al tuo progetto.

In questo video il direttore de “La Stampa”, Mario Calabresi, spiega in modo semplice ed efficacissimo quali accortezze siano necessarie per far passare l’innovazione in Italia.


La comunicazione nella Scuola

Qualche premessa.

Innanzitutto, ogni singola Istituzione scolastica va considerata come un’organizzazione lavorativa complessa. Abbiamo ruoli dirigenziali, ruoli amministrativi, docenti, personale tecnico o ATA, gli studenti stessi, le partecipazioni dei genitori. Ci sono organi interni per la consultazione e la rappresentatività democratica, meccanismi pluridecennali di tipo ufficiale (normati da regolamenti legislativi, in quanto Pubblica Amministrazione) per la circolazione delle informazioni e per il cammino dei processi decisionali, nonché responsabilità giuridiche nominali.

Abbiamo più volte visto su questo blog come le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione, secondo le modalità della loro adozione per quanto promosse dagli stessi Ministeri nazionali, siano destinate a scardinare i delicati in quanto soffocanti burocratismi della Pubblica Amministrazione, dove le strutture di ricezione e di produzione documentale risalgono per lo meno a epoche antecedenti la comparsa del telefono cellulare.
Capite bene come la semplice posta elettronica potrebbe essere esplosiva, in un sistema organizzativo della comunicazione basato sul libro del protocollo, dove le singole mail vanno stampate per poter essere archiviate secondo i crismi ottocenteschi dell’ufficialità. E non sono pochi i dirigenti scolastici che si fanno stampare le mail dalla segretaria per la sola semplice lettura. Credo che in questi ultimi mesi le discussioni sulla PEC Posta Elettronica Certificata o sulle mansioni di chi è tenuto a curare la comunicazione da e verso la scuola (“non sono tenuto a farlo!”) abbiano reso incandescenti numerosissimi collegi docenti o assemblee di Consiglio di Istituto.

In realtà, il flusso documentale dell’istituzione scolastica è veramente notevole. Atti, circolari, delibere, comunicazioni, relazioni, valutazioni, permessi viaggiano a decine ogni giorno in ogni singola scuola, dove magari fino a ieri (letteralmente) esisteva una sola casella mail del tipo @libero.it, dove l’architettura del sistema informativo è a dir poco approssimativa.
E bisogna inoltre tener conto che avendo qui a che fare con una Pubblica Amministrazione, esistono da parecchi anni precise indicazioni ministeriali per la qualità della comunicazione sia interna sia esterna della scuola, ovvero sia per l’organizzazione dei sistemi di intranet, sia per l’allestimento di spazi telematici pubblici a sostegno della comunicazione scuola-territorio, a partire dal sito web ben progettato secondo usabilità fino alle newsletter e alla gestione degli spazi interattivi con i genitori degli allievi e con tutti gli operatori culturali che si trovano ad agire dentro la scuola.

E non siate sempre lì a pensare che se il sito web della scuola di vostro figlio assomiglia a una pagina html del 1998 (statica, raramente aggiornata, non interattiva, asettica ovvero poco identitaria) sia perché i dirigenti e gli insegnanti incaricati – per legge, come per legge è prevista l’esistenza di un URP Ufficio Relazioni con il Pubblico in ogni PA – di gestire gli spazi comunicativi siano ignoranti in materia di moderna comunicazione. In realtà, credo sappiano benissimo cosa andrebbe fatto, ma sanno altrettanto bene che tutto questo scardinerebbe appunto equilibri faticosamente raggiunti, intaccherebbe zone di potere personale, esporrebbe alla vista ciò che si preferisce nascondere, mostrerebbe senza filtri la farraginosità e la non-efficienza dell’organizzazione scolastica.

Ma la velocità della posta elettronica, del mondo che ci circonda, è lì che incalza, gli insegnanti sono dei sovversivi rivoluzionari che chiedono di poter usare GoogleMaps per fare didattica oppure di far scrivere i bambini dentro un blog (orrore!) oppure di poter partecipare a corsi di aggiornamento ministeriali in modalità e-learning senza dover usare il computer e la connessione di casa loro, oppure chiederanno che siano allestiti degli ambienti collaborativi a distanza per le progettazioni didattiche, vorranno provare a usare una lavagna interattiva multimediale magari realizzata in proprio con il telecomando della Wii, vorranno mostrare ai bimbi il filmato presente sul server senza dover andare in aula multimediale, vorranno poter disporre di sistemi di videoconferenza per gli scambi culturali con altre scuole magari europee, vorranno poi introdurre in classe diavolerie come twitter o usare dei social network o far scrivere su dei wiki o produrre podcast e videodidattici da pubblicare nelle community professionali degli insegnanti.
E la scuola vecchio stampo collasserà, imploderà silenziosamente perché i bit non fanno rumore, e da cieca muta e sorda diventerà un Luogo ricco di stimoli, normale, adeguato ai tempi e quindi trasparente, dove gli allievi imparano a essere cittadini vivendo in prima persona gli strumenti dell’abitanza digitale e territoriale, i media e i luoghi di espressione personale e gli archivi documentali, e non (quando va bene) semplicemente studiandoli. I dirigenti e gli insegnanti oscurantisti e passatisti vorrebbero star tranquilli dentro una bolla avulsa dal mondo e dalla socialità moderna, e invece si vedranno costretti alla modernità liquida della comunicazione capace di intrufolarsi e di svellere i muri dell’isolamento. E si accorgeranno di quanto la Scuola, come ogni individuo o gruppo o istituzione, possa guadagnare dal confronto e dallo scambio sociale nell’essere attraversata da molte idee e molti diversi atteggiamenti, dalla partecipazione alla vita concreta del territorio su cui abita con precisa responsabilità rispetto all’educazione delle nuove generazioni.

Oggi ci sono aziende con dieci dipendenti che utilizzano vantaggiosamente (per l’organizzazione interna, per la propria efficienza in quanto “macchina” lavorativa, per la gestione del cambiamento indotto dalle innovazioni) strumenti di comunicazione backoffice/frontoffice liberamente e gratuitamente disponibili sul web, mentre ci sono scuole abitate ogni giorno da duemila persone – un qualsiasi grosso istituto tecnico, per esempio, con centinaia di docenti e decine di amministrativi – che si comporta come se vivesse negli anni Settanta.

Bene, proprio da riflessioni sulla comunicazione aziendale – tratte da www.intranetmanagement.it – prendo spunto per provare a fornire alcune indicazioni su come potrebbero essere usati i nuovi strumenti comunicativi all’interno delle organizzazioni scolastiche, secondo i dettami di qiello che viene definito Enterprise 2.0, ovvero l’insieme di approcci organizzativi e tecnologici orientati all’abilitazione di nuovi modelli organizzativi basati sul coinvolgimento diffuso, la collaborazione emergente, la condivisione della conoscenza e lo sviluppo e valorizzazione di reti sociali interne ed esterne all’organizzazione (vedi wikipedia).

Il primo schema riguarda un’articolazione degli ambienti di pubblicazione utilizzabili dalla scuola, secondo gli assi della strutturazione dell’informazione e della sua “ufficialità/informalità”.

Il blog d’Istituto, in particolare se ben progettato e condotto, potrebbe diventare facilmente il principale Luogo pubblico della scuola, capace di connotare in modo originale l’identità della scuola, la sua immagine pubblica, la sua vocazione social senza che venga compromessa l’ufficialità del suo dire nella comunicazione con il territorio.

Il secondo schema rappresenta invece un’analisi della adeguatezza dei singoli ambienti/strumenti di comunicazione rispetto alle necessità tipiche di un’organizzazione lavorativa, dove in un auspicabile futuro prossimo le competenze digitali dei dirigenti e degli insegnanti dovrebbero immediatamente saper suggerire quale strumento specifico utilizzare per veicolare/pubblicare/avere feedback su ogni determinato contenuto, a seconda della sua complessità, della sua articolazione, della sua destinazione.

In questo caso credo che bisognerebbe dare più fiducia ai sistemi di microblogging (Twitter, sempre più in auge) per costruire flussi comunicativi costanti sia all’interno dell’organizzazione scolastica sia rispetto ai portatori d’interesse territoriali, al fine di potenziare l’effetto presenza, la visibilità e lo scambio dialogico.

NuoviAbitanti a Venezia

Sapete, in italia c’è il decreto Pisanu. Nei primi anni di questo secolo, come risposta ai terrorismi mondiali, in italia si è pensato bene di impedire la libera navigazione pubblica sulla rete internet, e così gli internet point per farvi controllare la mail mentre siete in giro per lavoro o per svago devono chiedervi la carta d’identità e ottemperare a precise direttive burocratiche e legislative, le biblioteche idem devono tracciare tutto, e insomma qui da noi nessuno può installare una rete wifi e offrire libera connettività, perché deve tenere un registro e registrare gli utenti e conservare i log per tot mesi. Nessuno, né una biblioteca o un bar o voi a casa vostra. Se lasciate il wifi aperto, e magari sotto casa vostra passa Bin Laden che manda un video minacciando di morte Obama oppure più facilmente aggiorna il suo status su Facebook, siete colpevoli anche voi, perché non gli avete chiesto la carta d’identità.
Poi un giorno camminate per strada praticamente ovunque nel mondo, Oslo o Parigi o Buenos Aires, e il vostro cellulare trova decine di reti aperte per navigare su web. Nelle scuole e nelle biblioteche, nei bar e nei cinema la presenza di connettività è ormai quasi data per scontata.
Ma in italia, solo in italia, questo non succede.
Un semplice ragionamento sulla civiltà potrebbe far comprendere l’assurdità di questa posizione governativa, mostrare l’arretratezza culturale di una scelta che ci condanna a ulteriore arretratezza, visto che qui stiamo parlando proprio di impedimenti all’accesso agli strumenti di comunicazione. Scelte oscurantiste, contrarie alla libera circolazione delle idee e delle informazioni.

I progetti italiani di offerta di connettività gratuita alla cittadinanza da parte delle città italiane devono conseguentemente fare i conti con complicate procedure di autenticazione del fruitore, proprio per evitare di essere fuori legge. Ops, ho già detto che è una legge solo italiana, sciocca e miope? Questo fa sì che in italia le città che garantiscono navigazione mobile su web, in modo gratuito per un banale motivo di civiltà moderna, praticamente si contino con le dita delle mani.

Venerdì 3 luglio Venezia inaugura il proprio wifi cittadino.
Le idee e le parole di questo think tank che è NuoviAbitanti vivono anche sul Canal Grande, facendo io personalmente parte di un tavolo di lavoro (ne parlo qui e qui, su Semioblog) dedicato alla progettazione di nuove forme di abitanza digitale e di nuovi modi di narrare l’esperienza sociale del vivere connessi.
Come far emergere la partecipazione dei cittadini, dei turisti, dei lavoratori e delle imprese nei Luoghi digitali? Quale posizione comunicativa è consigliabile assuma la Pubblica Amministrazione veneziana? E-government, e-democracy? Come impostare i contenitori d’umanità, la socialità in rete, per dare visibiltà alla nuova identità cittadina? Quali ragionamenti si possono affrontare per tracciare approcci di urbanistica digitale, riflessioni sugli spazi e sulle dinamiche dell’abitare connessi, valorizzazioni culturali ed economiche?

Attraverso la segnalazione di Sergio Maistrello su Apogeonline, vediamo cosa succederà a Venezia il 3 luglio, e quale cultura digitale sostiene i prossimi imminenti piani d’intervento.

Venezia, laboratorio digitale d’Italia

di Sergio Maistrello

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29Giu2009

Il 3 luglio in laguna si inaugura il WiFi cittadino, prima tranche di un importante progetto di digitalizzazione delle comunicazioni e delle conoscenze. Un esempio di innovazione di sistema che potrebbe far del bene all’intero paese

Venerdì prossimo Venezia illuminerà ufficialmente col WiFi tutto il Canal Grande e molti altri luoghi strategici per la vita cittadina, comprese alcune zone di Mestre e parte del Lido. È lo snodo fondamentale del progetto di innovazione e digitalizzazione da 10 milioni di euro fortemente voluto dal vice di Massimo Cacciari, Michele Vianello. Da febbraio è attiva la piattaforma Venice Connected per i trasporti e i servizi turistici, mentre in questi giorni prende vita il portale Cittadinanza digitale. Il 3 luglio si festeggerà l’inaugurazione della rete wireless con un barcamp itinerante in battello e con una caccia al tesoro digitale che si snoderà per le calli. «Dedicheremo il 3 luglio alla Corte costituzionale francese, che ha bocciato la legislazione Hadopi perché colpisce i diritti universali dell’uomo alla comunicazione e all’espressione. Internet non è un lusso, è un nuovo grande diritto. Chi avrebbe messo in discussione in passato la costruzione di un asilo o di una scuola elementare? Bene, oggi la rete ha lo stesso valore», spiega Vianello, che che assicura di essere solo all’inizio di un importante ciclo di innovazione e di voler «alzare ancora l’asticella, proponendo la sperimentazione concreta di alcune soluzioni al piano Caio del Governo».

La rete come strategia

Partiamo dalla rete: 10.000 chilometri di fibra ottica già posati tra terraferma, laguna e isole. Non servono soltanto a illuminare la città con l’accesso a internet, sono un patrimonio strategico. «L’asset non è il WiFi, è la fibra ottica. In città arrivano soltanto due cavidotti: uno è di Telecom Italia, l’altro è della Città di Venezia. Questo ci rende molto competitivi sul mercato, possiamo dettare le regole del gioco. E la prima regola che imporremo è la garanzia della neutralità della rete», dice Michele Vianello. L’obiettivo prossimo venturo è ambizioso: non meno di 20 Megabit di banda (ma se possibile anche 100) in tutte le case, per «rimaterializzare tutto ciò che è stato smaterializzato, ma a casa di tutti i cittadini». È il benservito al digitale terrestre: con questa banda la tv passa per il cavo e dal romantico panorama lagunare potranno un giorno sparire le antenne. Il modello di business insegue la sinergia pubblico-privato: l’amministrazione comunale mette la rete e l’appetibilità dei suoi progetti di digitalizzazione di sistema, ai privati spetta il compito di cavalcare l’onda e ripartire i profitti. Porte aperte a tutte le idee, ma non potranno mai venir meno la gratuità dell’accesso in rete o nei servizi di social networking.

La rete WiFi copre le zone più vissute della città, di Mestre e del Lido, ma la rete di hotspot è in espansione. La loro disposizione in alcuni casi è stata concordata coi giovani, affinché coincidesse coi luoghi di ritrovo. Tutti i cittadini veneziani possono connettersi di diritto: è sufficiente registrarsi una volta per tutte sul portale civico. Sono assimilate ai cittadini anche le persone che frequentano con regolarità la città per ragioni di lavoro e studio. La rete sarà aperta anche ai turisti, ma in questo caso a pagamento: non è ancora disponibile un’offerta puntuale, ma i costi sono annunciati di gran lunga inferiori alle pretese fuori mercato tipiche di hotel e locali pubblici. Quanto alla certificazione dell’identità, Venezia si pone tra le più aperte città italiane: una volta soddisfatte le prescrizioni della legge Pisanu (tramite autenticazione su Sim mobile o registrazione con carta d’identità), non impone indirizzi di posta elettronica diversi da quello personale e quanto a identificazione del cittadino in alcuni casi – per esempio le petizioni online, che il Comune promuoverà tramite piattaforma dedicata – si accontenterà addirittura del nickname. «L’esperienza ci insegna che è sufficiente, non mi interessa sapere il nome. L’importante è poter interagire con le persone», spiega il vicesindaco.

Migrazione delle conoscenze

Dal punto di vista della macchina amministrativa, l’amministrazione mette sul piatto un progetto triennale di migrazione in rete delle conoscenze comunali. «Non è un problema di tecnologia, quanto semmai di procedure, di modi di lavorare, di cultura dell’innovazione», dice Vianello, che punzecchia anche il ministro Brunetta per i suoi tentativi di rilegificazione del pubblico impiego: «Io non ho bisogno di regole diverse, ho bisogno di meno regole. Devo poter incentivare l’amministrazione sulla base delle necessità del mio territorio. Io oggi mi trovo nella condizione di incentivare i disubbidienti, quelli che a volte fanno di testa loro con l’obiettivo di far funzionare meglio il sistema». La rete farà da leva anche in questo senso: grazie a postazioni di telepresenza nelle principali sedi comunali, verrà favorito da subito il lavoro nomadico dei dirigenti. «Non è necessario spostarsi ogni volta da Mestre a Venezia solo per una riunione, così come è possibile lavorare anche se non ci si trova fisicamente nel proprio ufficio».

Per Venezia questa è un’opportunità vitale. Venuto meno il traino dell’età industriale, la città cerca una dimensione nella società dei servizi che finora non ha ancora reso quanto sperato. Del resto, «una città che produce servizi ma non ha la rete è destinata a girare la testa all’indietro. Ora che abbiamo la rete, vogliamo creare un sistema in grado di attirare idee, talenti e attività. L’innovazione è cambiare la vita minuta di ogni giorno», dice Vianello. Primo tassello del sistema reticolare di Venezia è naturalmente la cultura: «Stiamo chiudendo un accordo di interconnessione tra la rete del Comune e le reti Garr della ricerca. Stiamo dialogando con tutte le istituzioni culturali pubbliche e private della città, a cui proponiamo di allacciarsi alla nostra rete in fibra ottica. A loro sottoporremo un grande progetto di digitalizzazione del patrimonio culturale veneziano, non tanto per la conservazione quanto per la fruizione delle opere. La cultura deve tornare a essere produzione culturale».

Idee e persone

Infine i cittadini. Il progetto di Venezia si gioca molto sulla capacità di spiegare a chi vive in città che cosa può fare per loro internet. La digitalizzazione dei servizi diventerà nel tempo un richiamo importante, ma l’opportunità che si presenta ai veneziani va molto oltre l’accesso da casa all’anagrafe comunale. Si tratta potenzialmente di reinventare la cittadinanza, di ripensare il rapporto tra le persone e il territorio, di annusare le tendenze che stanno mettendo in discussione le istituzioni culturali, economiche e politiche delle nazioni più reattive. In questo Venezia si fa laboratorio d’Italia, chiamando fin d’ora a raccolta idee e persone. Il primo appuntamento è fissato per ottobre, un grande incontro tra Venezia e il mondo della rete per far conoscere ai cittadini e alle aziende locali le esperienze che fanno sognare il mondo digitale.

L’Io è un format obsoleto

L’Io è un format obsoleto. E anche la presunzione di dotare di senso il nostro fare è romanticamente *fuori luogo*. Qualsiasi affermazione di sé, della autenticità del proprio dire, con conseguenti para-testi dedicati a comprovare l’autenticità del discorso della nostra autenticità nel dire chi siamo (occorre sempre un paradiscorso – autentico? – che dica che il discorso è autentico?) cade e cadrà sempre più in contesti esperienziali su cui non ho controllo e mai ne ho avuto. Si chiama negoziazione del Sé, patteggiamento interpersonale delle posizioni esistenziali espresse dai parlanti nella situazioni di enunciazione. Noi siamo rete, non c’è dentro e fuori, non c’è vero e falso, non c’è identità che non sia identificazione, quindi gioco linguistico, quindi rappresentazione. Siamo agiti, sì, me ne accorgo in ogni piccolo gesto. Configurazioni discorsive di superficie, abitudini innervate, empatie automatiche nei codici degli atteggiamenti. L’identità è opera d’arte sociale (tekne, quindi tecnologia del Sé, Foucault) cerchiamo almeno di essere posteriori a Duchamp o Malevic o Magritte, che quasi un secolo fa indicavano appunto gli aspetti linguistici e i giochi del contesto interpretativo. Questa consapevolezza della natura sociale e oggi tecnologicamente “mediata” della nostra identità come rappresentazione ci è oggi necessaria – ma la parola è già tecnologia, quindi siamo umani *perché* tecnologici… il fuoco non l’ha inventato un sapiens – per poter ri-giocare la realtà, senza nevrosi e ritorno al Medesimo, senza innamorarci della maschera, senza adeguarla, e piuttosto senza mimesi. Cosa posso fare, per aver certezza, se non guardare rapito la mia stessa parola vivere nei lifestreaming e delinearmi a mia insaputa? La verità è sufficiente sia estesa e ritmica come la musica, i segreti della profondità sono uno sgambetto. Tenere la faccia al guinzaglio, la mano che brancola nel buio, la candela che si spegne nella casa che va a fuoco, le solite cose.

ps: viva i suggestivi anni Sessanta

Tracce di maturità 2009

Queste due sono eccezionali.

Internet ed i Social Network.
Alla luce della recente evoluzione dei social network a livello mondiale, ripercorrere l’evoluzione sociologica dei sistemi di comunicazione di massa. Porre l’accento sul cambiamento formale e sostanziale nei rapporti interpersonali: il concetto di privacy mantiene il suo significato originale? E’ richiesto l’apporto di esempi concreti.
[Tema di maturità, 2009]

Oh, che colpo di genio! Magari è la volta buona che si riesce a educare migliaia di docenti in un colpo solo.

Per l’ambito storico-politico, argomento di ampio respiro: “Origini e sviluppo della cultura giovanile”. Con tante, tantissime foto, dagli anni ’50 al Duemila: c’è una immagine della Vespa (applausi), ci sono James Dean, Elvis Presley, Mary Quant, i Beatles, la Beat generation, i pacifisti del ’68 con lo slogan «Make love not war», la «Marianna» del ’68 a Parigi, Jim Morrison, i Punk, i paninari, i Nirvana, il logo di Facebook, i rave party.

Invidia. Quanto tempo ho? Sei ore? Poche. Chiudetemi dentro la scuola, nutritemi a merendine, lasciatemi qui da solo di notte con una candela a scrivere per giorni.

Lavagne Interattive Multimediali: cosa sono, come usarle

Abbiamo già parlato delle LIM auspicandone un utilizzo in aula veramente innovativo, in grado di spezzare alcuni automatismi metodologici non più adeguati ai nuovi contesti dell’apprendimento del gruppo-classe, capace di far leva sugli aspetti “sociali” del suo uso quotidiano in quanto tecnologia abilitante nativamente pensata per essere “finestra” e al contempo “ambiente formativo” rispetto al web (in quanto Oggetto Tecnologico Connesso) e alle reti locali (informatiche e relazionali) disponibili a scuola.

Seguendo un link di Tutor Online Qualificati, giungiamo ad una pagina del sito governativo InnovaScuola, dove risulta possibile seguire un piccolo “corso” sulla Lavagna Interattiva Multimediale, a partire dalla descrizione del suo funzionamento tecnico fino ai possibili utilizzi didattici.

I programmi ministeriali prevedono l’inserimento progressivo della LIM in àmbito scolastico, all’interno del progetto “Scuola Digitale” ovvero “Classe 2.0”: “A partire dal prossimo anno scolastico (2009-2010) saranno installate 16.000 LIM in altrettante classi della scuola secondaria di I grado. Inoltre 50.000 insegnanti saranno coinvolti in percorsi di formazione che interesseranno oltre 350.000 studenti”.

Il numero abbastanza esiguo dei dispositivi consegnati alle scuole, nonché il prezzo piuttosto alto delle LIM commerciali (da 1.500€ fino a 2.500€, con videoproiettore) probabilmente impedirà di verificare immediatamente gli effettivi risvolti innovativi sulla didattica, e viste le difficoltà economiche attuali difficilmente le singole scuole proveranno a dotare almeno un certo numnero di aule con le lavagne interattive.

Vi sono però soluzioni alternative: sempre partendo da InnovaScuola potete arrivare sulla pagina dedicata alla sperimentazione delle WiiBoard denominata Wiidea, ovvero le lavagne interattive realizzate utilizzando il remote controller della console videoludica Wii.
Grazie alle indicazioni fornite qui presso il sito del ProgettoMarconi di una rete di scuole bolognese, è possibile costruirsi una LIM al prezzo di circa 50€, capace di offrire molte delle funzioni tipiche di una Lavagna commerciale.

Mi fermo qui: nei prossimi giorni pubblicherò qualche informazione più approfondita sul progetto WiiBoard, magari provando a chiedervi (soprattutto agli insegnanti in regione friuli Venezia giulia) una partecipazione a un eventuale progetto di ricerca-azione promosso da NuoviAbitanti rispetto all’utilizzo concreto delle lavagne interattive in classe.

Digitale terrestre: una tecnologia cretina

Certo, non è il dispositivo in sé a essere cretino. Semplicemente tutto quello che promette nel frattempo è stato superato dalla rete Internet.
Se dieci anni fa si fosse puntato sulla banda larga (davvero “larga”, fibre ottiche e 100Mb di connessione) invece che sul digitale terrestre, oggi non ci troveremmo nella situazione di spendere soldi per un oggetto morto. Perché la televisione e ogni media non potrà che abitare la Rete, come già sta facendo e come sempre più accadrà nell’immediato futuro.
Un messaggio trae senso dal contesto di enunciazione: il contesto è mutato (e si poteva prevedere) e il “messaggio” del digitale terrestre non significa più molto.

Incollo qui un’analisi di Giglioli, via L’Espresso

Dopo aver usato come cavie viventi i sardi e i valdostani, gli alchimisti del digitale terrestre stanno infierendo sui romani e i loro vicini, con il risultato che – ad ascoltare quello che si dice nei bar o negli autobus – viene da pensare che da queste parti il mitico gradimento del Grande Leader sia destinato a scendere parecchio se non si sbrigano a sistemare i ripetitori, altro che Mills e Noemigate.

Ma aldilà dei disagi e delle incazzature – migliaia di nonnette attaccate al numero verde dall’alba al tramonto – agli alchimisti di cui sopra andrebbero forse poste in questi giorni di caos tre domandine facili facili che meriterebbero risposte altrettanto dirette.

1. non è che per caso questo passaggio coattivo al Dtt è costato un po’ troppo ai contribuenti italiani?Voglio dire: se mettiamo insieme quasi un decennio di agevolazioni statali per i decoder, le mostruose campagne informative e pubblicitarie, gli ulteriori contributi per gli over 65 a basso reddito, i pingui stanziamenti delle regioni, i 700 milioni che la Rai prenderà dal nostro canone, i costi dei vari centralini dei numeri verdi, eccetera eccetera, beh c’è qualcuno che ha fatto un calcolo anche approssimativo di quanto abbiamo speso – in piena recessione – per il switch over in corso? (E per curiosità, a quanti italiani – privati e aziende – si sarebbe potuta fornire banda larga Internet a vita con la medesima cifra?).

2. non è che per caso questo digitale terrestre le cui radiose sorti sono magnificate con migliaia di spot e opuscoli è una tecnologia un filo cretina, visto che permette un’interazione minima, un on demand praticamente nullo e se prova a trasportare immagini in Hd occupa così tanto spazio che diversi altri canali Dtt devono essere sospesi? Ora, se siamo tutti d’accordo che la comunicazione (anche audiovisiva) del futuro sarà interattiva, on demand e ad alta definizione, che ce ne facciamo di una tecnologia che fa malissimo (o non fa) tutte e tre ’ste cose? Non è un po’ come costruire un’autostrada in cui non potranno mai viaggiare auto ecologiche ma solo vecchie macchine a benzina?

3. non è che per caso questo passaggio al Dtt è stato un po’ spinto dall’alto per il fatto che il presidente del consiglio è anche il proprietario del broadcaster che più di tutti gli altri ha puntato sul Dtt, visto che la Rai è parecchio più indietro e (soprattutto) il vero concorente (Sky) va sul satellite? E non è che per caso la tassa italiana sull’Iptv (già del 10 per cento, portata al 20 per cento a gennaio) è una grandissima fesseria in termini di innovazione, raddoppiata proprio in coincidenza con il switch over mentre in Francia l’hanno appena dimezzata al 5 per cento? E non è che tutto questo – insieme alla minacciata fuoriuscita della Rai dal pacchetto Sky e alla costituzione della piattaforma Tivusat in cui Rai e Mediaset vanno a braccetto contro il resto del mondo – è un’incarnazione molto visibile del conflitto d’interessi?

Sano, sicuro, consapevole.

Riprendo Metilparaben per intero. E cosa volete che aggiunga, che siamo nel 2009?

Mentre vi comunico, en passant, che si tratta (anche) di un successo degli Studenti Luca Coscioni (ma ve lo dico solo io, come al solito, ché i giornali non ritengono di menzionarli), mi prendo qualche minuto per dire due paroline ai giovani in ascolto.

Io non so, e non voglio sapere, se scopate, quanto scopate, con chi scopate: però vi consiglio di usarli, i preservativi, in barba ai crociati che vi ammanniscono le loro idiozie sul peccato e la riproduzione naturale, agli imbecilli che vi lusingano a forza di “che vuoi che succeda, ci sto attento io”, ai coglioni che “non ho mai fatto il test ma non sono né gay né tossico, figurati se l’ho preso”.
C’è gente che ha dato il fritto, per fare in modo di mettere quei distributori nella vostra scuola.
Voi che ne dite: è il caso di sprecare tanto lavoro?

Strumenti per la democrazia

Twitter è un servizio di microblogging. Ci si crea un account e in seguito tramite cellulare, email o direttamente via web si possono mandare messaggi di testo (ultimamente, anche cose multimediali) lunghi 140 caratteri, dove si dovrebbe descrivere cosa stiamo facendo in quel preciso momento. Cose tipo “sto mangiando un pizza da Mario”, “sto leggendo l’ultimo libro di Paperoga”, “il sottoscritto va al cinema”.
Poi è possibile iscriversi agli account twitter dei nostri amici o colleghi (decine o migliaia che siano), cosicché si formano delle community di persone che si tengono costantemente in contatto tra loro scambiandosi opinioni e stati d’animo.
Certo, vista la lunghezza limitata del messaggio, più che per alloggiare contenuti articolati e strutturati Twitter serve soprattutto per mantenere il contatto tra le persone, per sostenere le reti relazionali, per restare sintonizzati.
Obama ha fatto largo uso di Twitter durante la sua campagna elettorale, e alle recenti votazioni europee anche i candidati nostrani – a esempio la Serracchiani, che ha puntato decisamente sulle nuove forme di socialità in rete – hanno tenuto i “seguaci” (le migliaia di followers) costantemente aggiornati sui propri spostamenti sul territorio, sulle proprie opinioni lampo sui fatti di cronaca, sulle indicazioni politiche.

Ma Twitter ha mostrato anche funzionalità insospettate: nel caso di calamità naturali, compreso l’ultimo terremoto in Abruzzo, i primi messaggi con le prime notizie sono giunti direttamente dal luogo del disastro, che le fonti giornalistiche istituzionali hanno subito ripreso e propagato. Forme nuove di citizen journalism che sono sostanzialmente rese possibili dal semplice possesso di un cellulare connesso.

In questi giorni pare stia succedendo una rivolta popolare in Iran, in seguito ai presunti brogli elettorali. In questo paese con una scarsa libertà di informazione, tutto viene soffocato e nulla si vorrebbe far trapelare all’estero. Ma Twitter e YouTube sono lì, a mostrare cosa veramente succede nelle piazze e nelle strade, al di là della propaganda di governo sui massmedia tradizionali, cui nessuno crede più. Le persone comunicano disintermediando la comunicazione ufficiale, dando una rappresentazione mediatica diretta della realtà garantita dalla polivocalità e dalla spontaneità delle fonti.

E il Governo statunitense stesso si è mosso per consentire che le migliaia di voci dissidenti iraniane potessero trovare eco sui media mondiali, che da questi nuovi strumenti di democrazia in queste ore attingono per mostrare nei telegiornali cosa stia succedendo.

Il Dipartimento di Stato americano ha chiesto ai titolari di Twitter, il social network sul quale il candidato iraniano Mir Hossein Moussavi ha una pagina personale, di rinviare la manutenzione programmata prevista, in modo da consentire la copertura degli avvenimenti iraniani. Twitter, ha affermato un funzionario che vuole restare anonimo, e’ “un importante mezzo di comunicazione, in Iran in modo orizzontale”. Twitter aveva gia’ posticipato di un giorno la manutenzione, prevedendola per questa notte. Lo stesso Moussavi aveva implorato che fosse tenuto aperto l’unico canale di comunicazione tra la societa’ civile iraniana e il resto del mondo. Sul social network il candidato riformista ha annunciato di essere pronto a spiegare al popolo iraniano le proprie ragioni in diretta televisiva.

link: IRAN: APPELLO USA A TWITTER, “RESTATE APERTI” | News | La Repubblica.it