Archivi autore: Giorgio Jannis

Un vero reality

Forse già dal 27 luglio Udine avrà lo streaming del Consiglio Comunale. Interesting.
Credo Paolo Coppola, assessore diUdine all’Innovazione e all’e-Government, si meriti una pacca sulla spalla, perché sta facendo un buon lavoro sulla presenza mediatica del Comune (aspetto strumenti più interattivi; senza un po’ di sana e-Democracy l’e-Government suona come una “concessione”), e perché credo abbia dovuto lottare con assessori e consiglieri contrari a mostrare il loro faccione in webdiretta.

Si lavora per far partire il servizio già da lunedì prossimo, 27 luglio
IL CONSIGLIO COMUNALE VA ONLINE
Coppola: “Un segnale di partecipazione, apertura e trasparenza della politica verso tutti i cittadini”.

Due telecamere riprenderanno le sedute e le trasmetteranno in diretta streaming sul sito del Comune

Due telecamere che riprendono i lavori del Consiglio comunale di Udine e che trasmettono le immagini in diretta streaming sul sito del Comune. È l’idea dell’assessore all’Innovazione e alla Trasparenza Paolo Coppola che, probabilmente già dalla prossima seduta del 27 luglio, in via sperimentale, intende offrire a tutti i cittadini la possibilità di seguire in diretta online il consiglio comunale. “In queste ore stiamo cercando di risolvere i problemi tecnici e burocratici – spiega Coppola – per lanciare il servizio in via sperimentale già da questo Consiglio. Credo che coinvolgere i cittadini, attraverso tutti gli strumenti che la tecnologia ci offre, rappresenti un segnale di apertura della politica e delle istituzioni verso una sempre maggiore trasparenza e partecipazione”.
Nella sala del consiglio, oltre alle due telecamere, sarà posizionata una piccola regia, basata su un computer portatile che gestirà le riprese e inserirà i sottotitoli per spiegare chi in quel momento sta parlando.
Collegandosi al sito www.comune.udine.it, dunque, sarà possibile seguire in diretta lo svolgimento della seduta pubblica. Ma non solo. Nei giorni successivi al consiglio, infatti, i video verranno caricati su youtube, sul canale del comune, e suddivisi per i diversi punti all’ordine del giorno, in modo tale da rendere più facile il reperimento di una parte specifica della discussione. “È la prima volta in assoluto che a Udine viene effettuato un servizio del genere – prosegue soddisfatto l’assessore che ha anche la delega ai servizi informativi – e spero vivamente che, dopo la fase sperimentale, si possa partire a pieno regime perché credo sia fondamentale rendere consapevoli e partecipi i cittadini delle decisioni prese per tutta la collettività, riducendo il pericoloso distacco tra politica e vita quotidiana. Vedremo poi – conclude – quali saranno le reazioni da parte del web e, sulla base dei risultati, vedremo se continuare o meno”.
Sta di fatto che, a partire dalla campagna elettorale di Obama fino alle nostre recenti elezioni europee, se da un lato si sta diffondendo sempre più l’uso di internet nella comunicazione politica, è anche vero che dall’altro sono sempre più le persone di tutte le età che cercano in modo diretto le informazioni, possibilmente senza intermediazioni. Ed è proprio in quest’ottica che si inserisce l’idea di far seguire online le discussioni del consiglio comunale udinese.

Udine, 21 luglio 2009 Ufficio stampa

via Facebook (della notizia non ne ho trovato ancora traccia sul sito del Comune di Udine)

Identità digitale, socialità in rete, progettazione di ambienti

L’aula scolastica è l’ambiente dove ha luogo la situazione sociale di apprendimento, e non è un luogo neutro. L’arredamento, la disponibilità di supporti alla didattica, perfino il colore diverso della tinteggiatura delle pareti potrebbe modificare nei partecipanti la percezione dei flussi comunicativi gruppali tramite cui avviene apprendimento. Facebook non è uno strumento, è un ambiente. Non è certamente neutro, non è trasparente, e non è il più indicato per attività didattiche. Non è nemmeno un luogo democratico. Quale messaggio di educazione alla cittadinanza digitale ‘passerebbe’ agli allievi? Dov’è la capacità critica degli insegnanti, nel valutare innanzitutto gli stessi (oggetti, parole, libri, strumenti, situazioni, ambienti) supporti alla conoscenza?

Ok, dopo aver reiterato i miei dubbi per le attività didattiche che certi insegnanti (persone che sono arrivate in Rete ieri, evidentemente, e si comportano come bambini in un negozio di giocattoli) svolgono dentro Facebook, procedo con una di quelle liste di segnalazioni che talvolta metto giù per prendermi degli appunti.

Avete presente quando si dice che il web è un posto caldo, fatto di relazioni? Ne parlava il buon Livraghi anni e anni fa. Beh, siccome il web moderno è definito social web, ecco che un tot di sociologi e antropologi e social designer e media strategist e narratologi specializzati nelle dinamiche affettive delle conversazioni e delle strategie identitarie dei gruppi (ehm) stanno provando a individuare le peculiarità delle nuove forme di socialità su web.
Ad esempio, visto che il passaparola è fondamentale per l’evoluzione della specie umana, quando mi serve qualcosa a chi posso chiedere? Ecco uno schemino per una esplicitazione delle competenze digitali secondo una sorta di prossemica sociale.

L’altro giorno dovevo augurare buon compleanno a un tipo. La domanda era: dove? Si tratta di una mia conoscenza di tipo professionale, ma abbiamo condiviso anche momenti informali con buon feeling interpersonale. Telefonargli a casa, telefonargli al cellulare, sms, facebook, altri social network, strumenti di lifestreaming tipo Friendfeed, mail? In occasione dei rituali più strutturati, la competenza sulla scelta del mezzo e sul tono da tenere risulta decisiva, perché in quei casi la situazione comunicativa dice ben più del messaggio stesso. Non è importante cosa si dice agli sposi o a un funerale, le frasi sono sempre quelle, assai più importante è compredere la grammatica dei tempi e dei modi, per evitare gaffe. Codici, sissignori. Possedere i codici interpretativi della circostanza e delle aspettative altrui, secondo cultura di appartenenza.
Nel caso di ambienti online, queste diventano appunto competenze digitali, che non c’entrano nulla con l’alfabetizzazione informatica, tanto quanto – vecchio parallelo – saper come funziona un motore quattrotempi o come si cambiano le marce (cultura tecnologica, consapevolezza dell’interfaccia) in un’automobile ha poco a che fare con il sapersi comportare in autostrada.
Nel mio caso personale, dovendo anche per lavoro portare in superficie queste grammatiche di socialità digitale inespresse che molti di noi dopo molti anni in rete possiedono senza saperlo, sono riuscito ad appoggiarmi a dei ragionamenti per stabilire quale fosse il giusto media da utilizzare.
Per rifarmi al caso degli insegnanti sopraespresso, non sono sicuro della loro capacità di far chiarezza in se stessi rispetto all’adeguatezza degli ambienti di socialnetworking, soprattutto in relazione alla specificità della didattica e dell’organizzazione scolastica.

Piercesare Rivoltella offre sempre riflessioni interessanti: qui su Medialog ragiona su autonomia e narrazione, in occasione di un seminario dedicato a “Media, storia, cittadinanza”. In particolare, Rivoltella organizza il suo pensiero sulle forme della socialità digitale intorno a tre coppie di termini: sfera pubblica / sfera privata, apprendimento insegnato / apprendimento non insegnato, autonomia / eteronomia.
Sempre su Medialog, in aprile, un bel post provava a “riflettere sulla necessità di dare risposte da parte della scuola agli aspetti che riguardano l’uso sociale dei nuovi media. Tra i tanti, l’economia dell’attenzione che essi comportano (diversa da quella implicata dalel forme più convenzionali di comunicazione) e la pluricollocazione nello spazio e nel tempo dei soggetti”. Interrogandosi sul rapporto esistente nuovi media, educazione e cittadinanza, Rivoltella descrive tre cornici: il frame alfabetico; il frame critico; il frame autoriale. Tre approcci differenti (ma da intendersi forse come sfaccettature della stessa realtà) da tenere in considerazione per una scuola che intenda far ragionare le nuove generazioni sulla partecipazione alle forme di cittadinanza digitale, che va da sé non può essere disgiunta da una seria Media Education.

Ragionando di identità personale, ecco un articolo di Luciano Floridi da “Philosophy of information”

“Who are you online?” is a question with enormous practical implications, and yet, crucially, individuals as well as groups seem to lack a clear, conceptual understanding of who they are in the infosphere and what it means to be an ethically responsible informational agent online.

Qui trovate invece qualcosa per ragionare di integrazione tra network di sensori e network sociali, per meglio provvedere informazioni di contesto. Stiamo già parlando di socialità dentro la Internet delle cose (vedi anche qui e qui per argomenti attinenti).

La Microsoft ci racconta dell’utilizzo di tecnologia per i mercati emergenti: “The research in this group consists of both technical and social-science research. We do work in the areas of ethnography, sociology, political science, and economics, all of which help understand the social context of technology, and we also do technical research in hardware and software to devise solutions that are designed for emerging and underserved markets, both in rural and urban environments.”
Ad esempio, coinvolgere agricoltori in progetti di educazione informale alle tecniche di coltivazione mediante l’utilizzo di video digitale; usare interfacce utente di tipo non testuale, per popolazioni non alfabetizzate, elaborando con supporto di studi etnografici alcuni principi per il design; studiare pc multi-utente; creare reti sociali tra microimprese; avviare interventi di miglioramento in campo sanitario, supportati da utilizzi avanzati di tecnologia a basso costo.

Molte delle riflessioni riguardano la centralità di una progettazione (delle reti informatiche, delle interfacce, dei luoghi di comunicazione pubblica per imprese o pubbliche amministrazioni, delle organizzazioni lavorative, delle architetture di informazioni) che sia in grado di porre l’utente al centro dell’approccio speculativo. Anzi, qui non si tratta più di progettare l’interazione con l’utente, ma proprio di ragionare sulla progettazione dell’esperienza dell’utente, quella che in gergo viene detta UX, ovvero User Experience, l’nsieme dato dalle componenti cognitive e patemiche nella “convergenza tra design digitale e industrial design, tra hardware e software, tra applicazioni e servizi, che a volte sfocia perfino nella progettazione degli spazi (interni ed esterni) in cui l’esperienza avviene. In questo caso la sfida più grossa è quella della multicanalità e della multidimensionalità dell’esperienza, e di quelle che Joel Grossman chiama “esperienze ponte”. Tutto questo lo trovate su questa pagina di UXmagazine.

Cosa vuol dire progettare l’esperienza utente? Ci sono tante risposte. Storicamente è un’attività strettamente connessa allo User Centered Design, da cui ha tratto filosofia di base, metodi e strumenti. Qualcuno la definisce mettendo insieme le competenze o gli ambiti disciplinari che concorrono al progetto (Steve Psomas), oppure elencando cosa non è. Qualche anno fa Peter Morville propose un modello con sette facce che descrivono le qualità dell’esperienza utente . Più recentemente Nathan Shredroff ha proposto un modello simile basato su sei dimensioni.

In realtà, in tempo di socialnetwork, qualcuno sta giustamente pensando di passare da un “user-centered experience design” a un “group-centered experience design”, proprio perché appare sempre più chiaro (per via dell’emergere alla visibilità di questi processi finora immersi nella complessità, grazie ai socialcosi) che le linee dei comportamenti sociali digitali – il marketing virale, la diffusione dei memi, i meccanismi del passaparola, la status-sfera, la folksonomia degli oggetti culturali di qualità, le reti relazionali umane – dipendono dalle dinamiche dei gruppi online, dalla loro capacità di essere organizzatori di senso, o banalmente trend-setter, in grado poi di connotare con la loro sanzione esplicita, positiva o negativa, una configurazione riconoscibile delle conversazioni online con una veste di “accettabilità” o di “novità” o di “sei out se non sai/fai questo o quello”. Per dire, il meccanismo in Facebook è riconoscibilissimo, nella circolazione delle appartenenze ai gruppi e nei dispositivi di condivisione delle informazioni, anche se viene persa la significatività specifica a causa del calderone in cui tutto viene riversato, della cornice onnivora che vampirizza il senso delle singole discussioni, livellandole verso il basso (il famoso cazzeggio).

Qui su Ibridazioni (ne parla anche con buoni esempi Alberto Mucignat) c’è una proposta di riflessione (un bel documento da scaricare) sulla progettazione basata sull’esperienza gruppale, a partire da un design di tipo motivazionale, fondato quindi sugli utenti e non sulle piattaforme, ad esempio per avviare ambienti sociali per le organizzazioni lavorative:

La nostra proposta metodologica si fonda su quattro concetti chiave:
1. Bisogni Funzionali: gli obiettivi di progettazione rivisti in chiave di necessità.
2. Usabilità Sociale: l’usabilità rivista in dinamica sociale (partendo dalla definizione di Nielsen).
3. Motivazioni Relazionali: il concetto di motivazione rivisto in chiave relazionale (one-to-one e sociale).
4. Flusso di Attività Circadiano: ovvero le attività abituali delle persone durante la giornata.

Fra queste, le componenti caratterizzanti sono, come intuibile, Usabilità Sociale e ancora più Motivazioni Relazionali. La prima definisce quattro proprietà RICE: Relazioni interpersonali, Identità, Comunicazione ed Emergenza dei gruppi, mentre la seconda quattro motivazioni CECA: Competizione, Eccellenza, Curiosità, Appartenenza.

Il Design Motivazionale si applica sia ai Sistemi a Social Newtwork presenti nel Web che alle Intranet e Community Aziendali che vogliono sfruttare le nuove prassi collaborative che si sono evolute nel Web 2.0 (l’ormai nota Enterprise 2.0).

I ragionamenti sulla condivisione della conoscenza nelle organizzazioni aziendali (Enterprise 2.0) sono certo fondamentali, ne parla anche RobinGood qui, dove la Torre (gerarchia e verticalità) incontra la Nuvola del bottom up e delle relazioni orizzontali.

Putting People First riporta l’attenzione sul service design, grazie alla segnalazione di un articolo scientifico di Daniela Sangiorgi, dove si prova a ristabilire una prospettiva basata sulla considerazione dell’interfaccia (da intendere come l’intera situazione dove l’esperienza ha luogo), rispetto ai “prodotti” di un’attività di design, nella definizione di servizi, dove soggetti azioni norme ruoli e artefatti vanno tutti considerati senza troppo spezzettare lo sguardo, per una comprensione più ampia dei fenomeni, e soprattutto in ottica groupware.

Alla base di molti approcci scientifici recenti allo studio delle socialità in Rete e della human-computer interaction (qui il link per il blog di Luca Chittaro – direttore dell’HCI Lab dell’Università di Udine – su Nova100 ilSole24ore, vi è indubbiamente quella che viene definita “Activity theory” (vedi Wikipedia)

Activity theory is a psychological meta-theory, paradigm, or framework, with its roots in the Soviet psychologist Vygotsky’s cultural-historical psychology. Its founders were Alexei N. Leont’ev (1903-1979), and Sergei Rubinshtein (1889-1960) who sought to understand human activities as complex, socially situated phenomena and go beyond paradigms of psychoanalysis and behaviorism. It became one of the major psychological approaches in the former USSR, being widely used in both theoretical and applied psychology, in areas such as education, training, ergonomics, and work psychology [1]. Activity theory theorizes that when individuals engage and interact with their environment, production of tools results. These tools are “exteriorized” forms of mental processes, and as these mental processes are manifested in tools, they become more readily accessible and communicable to other people, thereafter becoming useful for social interaction.

Ora metto un paio di fotografie. Si tratta di anziani in casa di riposo che usano la Wii Nintendo.
Ne trovate altre qui: occhio che è un sito che contiene anche robe pornelle :)

Udine stupidina, e sprecata

Ho letto questo post di Gaia, che non conosco, e credo sia più giovane di me.
Sono annoni che non vado a una festa di laurea di qualcuno, e anche l’epoca dei primi matrimoni credo sia finita, nel mio giro di amicizie. Infatti le notizie a distanza uno/due gradi di separazione sono i tradimenti e i secondi matrimoni, e manca poco al “sai che Gino ha avuto un infarto? Stava sniffando una riga di bianca tra le tette di una cubista croata durante un’orgia di scambisti in un club privè” (cit. a memoria di non mi ricordo chi; ndGJ).

Perché Gaia parla di Udine, una città stupidina. E dice cose giuste e appunto letteralmente condivisibili, tant’è che copioincollo qua sotto le sue parole. Qualche volta ci ho provato anch’io, su questo blog, a raccontare degli stereotipi schizoidi di questa città di provincia. Della sua ambigua socialità che vivacchia tra l’indignato perbenismo di facile calco televisivo e i topless lapdance spritz party nei capannoni delle statali, tra le ferrari e le porsche in doppia fila e la mensa dei frati che trabocca di gente in cerca di una minestra. Un territorio che offre iniziative culturali internazionali – Sunsplash, FarEastFilmFestival, VicinoLontano, realtà sorte “dal basso” – offuscato dalla miopia culturale di una classe politica incapace di progettare un’identità e una linea d’azione innovativa e lungimirante, fondata su una lettura semplicissima della modernità fatta di scenari transfrontalieri, consapevolezza ecologica del rispetto del territorio (il FVG è la regione più cementizzata d’italia), nuove forme di socialità, superamento delle logiche economiche di tipo veteroindustriale.
Se c’è una cosa in cui i friulani sono bravi, e dove gli udinesi raggiungono l’eccellenza, è nell’impedire che il vicino di casa faccia qualcosa di innovativo e magari culturalmente ed economicamente redditizio. Siamo specializzati nello sbranarci a vicenda, prima ancora che le cose si muovano. Invidia, rancore, pressione sociale al conformismo, guerra di bande, cattolici vs. massoni, chissà. Piuttosto che lasciarti aprire un negozio sotto casa mia, dò fuoco al condominio dove entrambi abitiamo, ecco.

Ma riprendo qui gli sforzi di Gaia, mi associo e continuo a credere di poter cambiare la mentalità di questa città sprecata.

cosa ci faccio qui?

Luglio 17, 2009 — gaiabaracetti

Ieri ho avuto il piacere di partecipare ad una festa di laurea a Padova. Con i suoi 55,000 studenti (dati del Miur), Padova è decisamente una città universitaria, per cui molto diverente: una delle città in cui sarebbe bello vivere. Ce ne sono tante, in Italia, penso a Torino, Roma, Bologna, per dirne alcune, o le città del sud… per non parlare delle fantastiche metropoli europee: Berlino, Parigi, Barcellona… Invece sono ancora a Udine. Ogni tanto mi chiedo perché, che ci faccio qui, in questa città piccola, sgarbata e conservatrice, quando le alternative sono illimitate e così allettanti

La risposta, oltre che agli ovvi motivi che qui ci sono nata e che qui lavoro, è che io vedo Udine non per quello che è, ma per quello che potrebbe essere -e potrebbe essere veramente una città perfetta. Ogni tanto può nauseare, ma le piccole dimensioni hanno numerosi vantaggi: non ci si sente soli come in una grande città, è facile rimanere in contatto con tutti, e coinvolgere molte persone nelle proprie iniziative. In grandi città, per la mia esperienza, è tutto molto più dispersivo e faticoso.

Udine è una città ricca: se solo gli udinesi spendessero i propri soldi in cose come la cultura, o persino l’artigianato, invece di comprare cose inutili nei centri commerciali, si creerebbero posti di lavoro fantastici che spingerebbero i giovani a restare, e si renderebbe stimolantissima la vita udinese.

Siamo una regione di confine, eppure dell’Austria ci importa poco, e la Slovenia la trattiamo con diffidenza. Se sapessimo sfruttare questa posizione, potremmo essere al centro di scambi culturali unici, invece che una periferia considerata dal resto d’Italia rozza, remota e poco invitante -mentre noi non facciamo altro che ripeterci quanto siamo speciali perché siamo friulani.

Infine, ho deciso di restare in una zona ricca come il Friuli perchè bisogna ridurre guerre e povertà nel mondo, e siccome entrambe queste cose sono sempre più collegate alle disparità nella distribuzione globale di risorse, se agendo qui si potesse spingere la parte ricca del mondo (tutti i friulani, quindi, non solo quelli che noi consideriamo ricchi) a consumare di meno, avremmo già risolto metà del problema. Noi consumiamo più risorse di quante la nostra terra ci fornisca, e per queste risorse ci sono guerre, sfruttamento e fame in parti del mondo che non conosciamo nemmeno.

Udine è strana: tantissimi giovani se ne vogliono andare, però la maggior parte finisce per restare, risucchiata qui da non si capisce cosa… io ora come ora sono tra questi. Ogni tanto anch’io sento le sirene di altre città, o dell’estero, e vivere a Udine, dove è così difficile mettere in pratica idee nuove, può essere frustrante. Però penso che la nostra potrebbe essere davvero una città che riassuma in sè il meglio della nostra era in una dimensione davvero umana… ma siamo lontani da questo obiettivo, e quando mi trovo davanti a gente che si lamenta perché non si parcheggia in centro, o chiede più polizia in borgo stazione, mi chiedo se basteranno i miei sforzi per cambiare la mentalità di questa città sprecata.

Mezzi diversi

Oggi è il giorno in cui bisognerebbe stare zitti per protestare contro l’obbligo di rettifica per la stampa e i siti informatici, contenuto nel disegno di legge alfano sulle intercettazioni.
Massimo rispetto per i promotori e chi aderisce, ma non è la mia posizione, quella che ho più volte espresso in questo blog, la posizione di chi ritiene sia importante dire, ridire, ripetere, sottolineare, argomentare, mostrare i fatti, indicare gli errori, sostenere sempre e comunque la libertà di espressione di pensiero e di parola, e farlo in prima persona in ogni buona occasione e magari anche a sproposito, visto che in italia vengono varate leggi oscurantiste e censorie.
Per tutto il resto, c’è il reato di diffamazione.

Sono ottimista e fiducioso: da domani i blogger smetteranno di pensare a cazzate varie e resteranno per qualche settimana in trincea a scrivere e a commentarsi molto, per difendere con le armi della libera discussione quella poca visione critica della realtà rimasta in questo Stato fondato sulla fiction.

Innovare nonostante. Mario Calabresi

Se devi progettare qualcosa, pensa subito a un sistema con due “motori”: uno serve per l’innovazione che intendi promuovere, l’altro per combattere (la burocrazia, la visione miope, la pochezza culturale, la mancanza di coraggio) tutto ciò che si oppone al tuo progetto.

In questo video il direttore de “La Stampa”, Mario Calabresi, spiega in modo semplice ed efficacissimo quali accortezze siano necessarie per far passare l’innovazione in Italia.


La comunicazione nella Scuola

Qualche premessa.

Innanzitutto, ogni singola Istituzione scolastica va considerata come un’organizzazione lavorativa complessa. Abbiamo ruoli dirigenziali, ruoli amministrativi, docenti, personale tecnico o ATA, gli studenti stessi, le partecipazioni dei genitori. Ci sono organi interni per la consultazione e la rappresentatività democratica, meccanismi pluridecennali di tipo ufficiale (normati da regolamenti legislativi, in quanto Pubblica Amministrazione) per la circolazione delle informazioni e per il cammino dei processi decisionali, nonché responsabilità giuridiche nominali.

Abbiamo più volte visto su questo blog come le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione, secondo le modalità della loro adozione per quanto promosse dagli stessi Ministeri nazionali, siano destinate a scardinare i delicati in quanto soffocanti burocratismi della Pubblica Amministrazione, dove le strutture di ricezione e di produzione documentale risalgono per lo meno a epoche antecedenti la comparsa del telefono cellulare.
Capite bene come la semplice posta elettronica potrebbe essere esplosiva, in un sistema organizzativo della comunicazione basato sul libro del protocollo, dove le singole mail vanno stampate per poter essere archiviate secondo i crismi ottocenteschi dell’ufficialità. E non sono pochi i dirigenti scolastici che si fanno stampare le mail dalla segretaria per la sola semplice lettura. Credo che in questi ultimi mesi le discussioni sulla PEC Posta Elettronica Certificata o sulle mansioni di chi è tenuto a curare la comunicazione da e verso la scuola (“non sono tenuto a farlo!”) abbiano reso incandescenti numerosissimi collegi docenti o assemblee di Consiglio di Istituto.

In realtà, il flusso documentale dell’istituzione scolastica è veramente notevole. Atti, circolari, delibere, comunicazioni, relazioni, valutazioni, permessi viaggiano a decine ogni giorno in ogni singola scuola, dove magari fino a ieri (letteralmente) esisteva una sola casella mail del tipo @libero.it, dove l’architettura del sistema informativo è a dir poco approssimativa.
E bisogna inoltre tener conto che avendo qui a che fare con una Pubblica Amministrazione, esistono da parecchi anni precise indicazioni ministeriali per la qualità della comunicazione sia interna sia esterna della scuola, ovvero sia per l’organizzazione dei sistemi di intranet, sia per l’allestimento di spazi telematici pubblici a sostegno della comunicazione scuola-territorio, a partire dal sito web ben progettato secondo usabilità fino alle newsletter e alla gestione degli spazi interattivi con i genitori degli allievi e con tutti gli operatori culturali che si trovano ad agire dentro la scuola.

E non siate sempre lì a pensare che se il sito web della scuola di vostro figlio assomiglia a una pagina html del 1998 (statica, raramente aggiornata, non interattiva, asettica ovvero poco identitaria) sia perché i dirigenti e gli insegnanti incaricati – per legge, come per legge è prevista l’esistenza di un URP Ufficio Relazioni con il Pubblico in ogni PA – di gestire gli spazi comunicativi siano ignoranti in materia di moderna comunicazione. In realtà, credo sappiano benissimo cosa andrebbe fatto, ma sanno altrettanto bene che tutto questo scardinerebbe appunto equilibri faticosamente raggiunti, intaccherebbe zone di potere personale, esporrebbe alla vista ciò che si preferisce nascondere, mostrerebbe senza filtri la farraginosità e la non-efficienza dell’organizzazione scolastica.

Ma la velocità della posta elettronica, del mondo che ci circonda, è lì che incalza, gli insegnanti sono dei sovversivi rivoluzionari che chiedono di poter usare GoogleMaps per fare didattica oppure di far scrivere i bambini dentro un blog (orrore!) oppure di poter partecipare a corsi di aggiornamento ministeriali in modalità e-learning senza dover usare il computer e la connessione di casa loro, oppure chiederanno che siano allestiti degli ambienti collaborativi a distanza per le progettazioni didattiche, vorranno provare a usare una lavagna interattiva multimediale magari realizzata in proprio con il telecomando della Wii, vorranno mostrare ai bimbi il filmato presente sul server senza dover andare in aula multimediale, vorranno poter disporre di sistemi di videoconferenza per gli scambi culturali con altre scuole magari europee, vorranno poi introdurre in classe diavolerie come twitter o usare dei social network o far scrivere su dei wiki o produrre podcast e videodidattici da pubblicare nelle community professionali degli insegnanti.
E la scuola vecchio stampo collasserà, imploderà silenziosamente perché i bit non fanno rumore, e da cieca muta e sorda diventerà un Luogo ricco di stimoli, normale, adeguato ai tempi e quindi trasparente, dove gli allievi imparano a essere cittadini vivendo in prima persona gli strumenti dell’abitanza digitale e territoriale, i media e i luoghi di espressione personale e gli archivi documentali, e non (quando va bene) semplicemente studiandoli. I dirigenti e gli insegnanti oscurantisti e passatisti vorrebbero star tranquilli dentro una bolla avulsa dal mondo e dalla socialità moderna, e invece si vedranno costretti alla modernità liquida della comunicazione capace di intrufolarsi e di svellere i muri dell’isolamento. E si accorgeranno di quanto la Scuola, come ogni individuo o gruppo o istituzione, possa guadagnare dal confronto e dallo scambio sociale nell’essere attraversata da molte idee e molti diversi atteggiamenti, dalla partecipazione alla vita concreta del territorio su cui abita con precisa responsabilità rispetto all’educazione delle nuove generazioni.

Oggi ci sono aziende con dieci dipendenti che utilizzano vantaggiosamente (per l’organizzazione interna, per la propria efficienza in quanto “macchina” lavorativa, per la gestione del cambiamento indotto dalle innovazioni) strumenti di comunicazione backoffice/frontoffice liberamente e gratuitamente disponibili sul web, mentre ci sono scuole abitate ogni giorno da duemila persone – un qualsiasi grosso istituto tecnico, per esempio, con centinaia di docenti e decine di amministrativi – che si comporta come se vivesse negli anni Settanta.

Bene, proprio da riflessioni sulla comunicazione aziendale – tratte da www.intranetmanagement.it – prendo spunto per provare a fornire alcune indicazioni su come potrebbero essere usati i nuovi strumenti comunicativi all’interno delle organizzazioni scolastiche, secondo i dettami di qiello che viene definito Enterprise 2.0, ovvero l’insieme di approcci organizzativi e tecnologici orientati all’abilitazione di nuovi modelli organizzativi basati sul coinvolgimento diffuso, la collaborazione emergente, la condivisione della conoscenza e lo sviluppo e valorizzazione di reti sociali interne ed esterne all’organizzazione (vedi wikipedia).

Il primo schema riguarda un’articolazione degli ambienti di pubblicazione utilizzabili dalla scuola, secondo gli assi della strutturazione dell’informazione e della sua “ufficialità/informalità”.

Il blog d’Istituto, in particolare se ben progettato e condotto, potrebbe diventare facilmente il principale Luogo pubblico della scuola, capace di connotare in modo originale l’identità della scuola, la sua immagine pubblica, la sua vocazione social senza che venga compromessa l’ufficialità del suo dire nella comunicazione con il territorio.

Il secondo schema rappresenta invece un’analisi della adeguatezza dei singoli ambienti/strumenti di comunicazione rispetto alle necessità tipiche di un’organizzazione lavorativa, dove in un auspicabile futuro prossimo le competenze digitali dei dirigenti e degli insegnanti dovrebbero immediatamente saper suggerire quale strumento specifico utilizzare per veicolare/pubblicare/avere feedback su ogni determinato contenuto, a seconda della sua complessità, della sua articolazione, della sua destinazione.

In questo caso credo che bisognerebbe dare più fiducia ai sistemi di microblogging (Twitter, sempre più in auge) per costruire flussi comunicativi costanti sia all’interno dell’organizzazione scolastica sia rispetto ai portatori d’interesse territoriali, al fine di potenziare l’effetto presenza, la visibilità e lo scambio dialogico.

NuoviAbitanti a Venezia

Sapete, in italia c’è il decreto Pisanu. Nei primi anni di questo secolo, come risposta ai terrorismi mondiali, in italia si è pensato bene di impedire la libera navigazione pubblica sulla rete internet, e così gli internet point per farvi controllare la mail mentre siete in giro per lavoro o per svago devono chiedervi la carta d’identità e ottemperare a precise direttive burocratiche e legislative, le biblioteche idem devono tracciare tutto, e insomma qui da noi nessuno può installare una rete wifi e offrire libera connettività, perché deve tenere un registro e registrare gli utenti e conservare i log per tot mesi. Nessuno, né una biblioteca o un bar o voi a casa vostra. Se lasciate il wifi aperto, e magari sotto casa vostra passa Bin Laden che manda un video minacciando di morte Obama oppure più facilmente aggiorna il suo status su Facebook, siete colpevoli anche voi, perché non gli avete chiesto la carta d’identità.
Poi un giorno camminate per strada praticamente ovunque nel mondo, Oslo o Parigi o Buenos Aires, e il vostro cellulare trova decine di reti aperte per navigare su web. Nelle scuole e nelle biblioteche, nei bar e nei cinema la presenza di connettività è ormai quasi data per scontata.
Ma in italia, solo in italia, questo non succede.
Un semplice ragionamento sulla civiltà potrebbe far comprendere l’assurdità di questa posizione governativa, mostrare l’arretratezza culturale di una scelta che ci condanna a ulteriore arretratezza, visto che qui stiamo parlando proprio di impedimenti all’accesso agli strumenti di comunicazione. Scelte oscurantiste, contrarie alla libera circolazione delle idee e delle informazioni.

I progetti italiani di offerta di connettività gratuita alla cittadinanza da parte delle città italiane devono conseguentemente fare i conti con complicate procedure di autenticazione del fruitore, proprio per evitare di essere fuori legge. Ops, ho già detto che è una legge solo italiana, sciocca e miope? Questo fa sì che in italia le città che garantiscono navigazione mobile su web, in modo gratuito per un banale motivo di civiltà moderna, praticamente si contino con le dita delle mani.

Venerdì 3 luglio Venezia inaugura il proprio wifi cittadino.
Le idee e le parole di questo think tank che è NuoviAbitanti vivono anche sul Canal Grande, facendo io personalmente parte di un tavolo di lavoro (ne parlo qui e qui, su Semioblog) dedicato alla progettazione di nuove forme di abitanza digitale e di nuovi modi di narrare l’esperienza sociale del vivere connessi.
Come far emergere la partecipazione dei cittadini, dei turisti, dei lavoratori e delle imprese nei Luoghi digitali? Quale posizione comunicativa è consigliabile assuma la Pubblica Amministrazione veneziana? E-government, e-democracy? Come impostare i contenitori d’umanità, la socialità in rete, per dare visibiltà alla nuova identità cittadina? Quali ragionamenti si possono affrontare per tracciare approcci di urbanistica digitale, riflessioni sugli spazi e sulle dinamiche dell’abitare connessi, valorizzazioni culturali ed economiche?

Attraverso la segnalazione di Sergio Maistrello su Apogeonline, vediamo cosa succederà a Venezia il 3 luglio, e quale cultura digitale sostiene i prossimi imminenti piani d’intervento.

Venezia, laboratorio digitale d’Italia

di Sergio Maistrello

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29Giu2009

Il 3 luglio in laguna si inaugura il WiFi cittadino, prima tranche di un importante progetto di digitalizzazione delle comunicazioni e delle conoscenze. Un esempio di innovazione di sistema che potrebbe far del bene all’intero paese

Venerdì prossimo Venezia illuminerà ufficialmente col WiFi tutto il Canal Grande e molti altri luoghi strategici per la vita cittadina, comprese alcune zone di Mestre e parte del Lido. È lo snodo fondamentale del progetto di innovazione e digitalizzazione da 10 milioni di euro fortemente voluto dal vice di Massimo Cacciari, Michele Vianello. Da febbraio è attiva la piattaforma Venice Connected per i trasporti e i servizi turistici, mentre in questi giorni prende vita il portale Cittadinanza digitale. Il 3 luglio si festeggerà l’inaugurazione della rete wireless con un barcamp itinerante in battello e con una caccia al tesoro digitale che si snoderà per le calli. «Dedicheremo il 3 luglio alla Corte costituzionale francese, che ha bocciato la legislazione Hadopi perché colpisce i diritti universali dell’uomo alla comunicazione e all’espressione. Internet non è un lusso, è un nuovo grande diritto. Chi avrebbe messo in discussione in passato la costruzione di un asilo o di una scuola elementare? Bene, oggi la rete ha lo stesso valore», spiega Vianello, che che assicura di essere solo all’inizio di un importante ciclo di innovazione e di voler «alzare ancora l’asticella, proponendo la sperimentazione concreta di alcune soluzioni al piano Caio del Governo».

La rete come strategia

Partiamo dalla rete: 10.000 chilometri di fibra ottica già posati tra terraferma, laguna e isole. Non servono soltanto a illuminare la città con l’accesso a internet, sono un patrimonio strategico. «L’asset non è il WiFi, è la fibra ottica. In città arrivano soltanto due cavidotti: uno è di Telecom Italia, l’altro è della Città di Venezia. Questo ci rende molto competitivi sul mercato, possiamo dettare le regole del gioco. E la prima regola che imporremo è la garanzia della neutralità della rete», dice Michele Vianello. L’obiettivo prossimo venturo è ambizioso: non meno di 20 Megabit di banda (ma se possibile anche 100) in tutte le case, per «rimaterializzare tutto ciò che è stato smaterializzato, ma a casa di tutti i cittadini». È il benservito al digitale terrestre: con questa banda la tv passa per il cavo e dal romantico panorama lagunare potranno un giorno sparire le antenne. Il modello di business insegue la sinergia pubblico-privato: l’amministrazione comunale mette la rete e l’appetibilità dei suoi progetti di digitalizzazione di sistema, ai privati spetta il compito di cavalcare l’onda e ripartire i profitti. Porte aperte a tutte le idee, ma non potranno mai venir meno la gratuità dell’accesso in rete o nei servizi di social networking.

La rete WiFi copre le zone più vissute della città, di Mestre e del Lido, ma la rete di hotspot è in espansione. La loro disposizione in alcuni casi è stata concordata coi giovani, affinché coincidesse coi luoghi di ritrovo. Tutti i cittadini veneziani possono connettersi di diritto: è sufficiente registrarsi una volta per tutte sul portale civico. Sono assimilate ai cittadini anche le persone che frequentano con regolarità la città per ragioni di lavoro e studio. La rete sarà aperta anche ai turisti, ma in questo caso a pagamento: non è ancora disponibile un’offerta puntuale, ma i costi sono annunciati di gran lunga inferiori alle pretese fuori mercato tipiche di hotel e locali pubblici. Quanto alla certificazione dell’identità, Venezia si pone tra le più aperte città italiane: una volta soddisfatte le prescrizioni della legge Pisanu (tramite autenticazione su Sim mobile o registrazione con carta d’identità), non impone indirizzi di posta elettronica diversi da quello personale e quanto a identificazione del cittadino in alcuni casi – per esempio le petizioni online, che il Comune promuoverà tramite piattaforma dedicata – si accontenterà addirittura del nickname. «L’esperienza ci insegna che è sufficiente, non mi interessa sapere il nome. L’importante è poter interagire con le persone», spiega il vicesindaco.

Migrazione delle conoscenze

Dal punto di vista della macchina amministrativa, l’amministrazione mette sul piatto un progetto triennale di migrazione in rete delle conoscenze comunali. «Non è un problema di tecnologia, quanto semmai di procedure, di modi di lavorare, di cultura dell’innovazione», dice Vianello, che punzecchia anche il ministro Brunetta per i suoi tentativi di rilegificazione del pubblico impiego: «Io non ho bisogno di regole diverse, ho bisogno di meno regole. Devo poter incentivare l’amministrazione sulla base delle necessità del mio territorio. Io oggi mi trovo nella condizione di incentivare i disubbidienti, quelli che a volte fanno di testa loro con l’obiettivo di far funzionare meglio il sistema». La rete farà da leva anche in questo senso: grazie a postazioni di telepresenza nelle principali sedi comunali, verrà favorito da subito il lavoro nomadico dei dirigenti. «Non è necessario spostarsi ogni volta da Mestre a Venezia solo per una riunione, così come è possibile lavorare anche se non ci si trova fisicamente nel proprio ufficio».

Per Venezia questa è un’opportunità vitale. Venuto meno il traino dell’età industriale, la città cerca una dimensione nella società dei servizi che finora non ha ancora reso quanto sperato. Del resto, «una città che produce servizi ma non ha la rete è destinata a girare la testa all’indietro. Ora che abbiamo la rete, vogliamo creare un sistema in grado di attirare idee, talenti e attività. L’innovazione è cambiare la vita minuta di ogni giorno», dice Vianello. Primo tassello del sistema reticolare di Venezia è naturalmente la cultura: «Stiamo chiudendo un accordo di interconnessione tra la rete del Comune e le reti Garr della ricerca. Stiamo dialogando con tutte le istituzioni culturali pubbliche e private della città, a cui proponiamo di allacciarsi alla nostra rete in fibra ottica. A loro sottoporremo un grande progetto di digitalizzazione del patrimonio culturale veneziano, non tanto per la conservazione quanto per la fruizione delle opere. La cultura deve tornare a essere produzione culturale».

Idee e persone

Infine i cittadini. Il progetto di Venezia si gioca molto sulla capacità di spiegare a chi vive in città che cosa può fare per loro internet. La digitalizzazione dei servizi diventerà nel tempo un richiamo importante, ma l’opportunità che si presenta ai veneziani va molto oltre l’accesso da casa all’anagrafe comunale. Si tratta potenzialmente di reinventare la cittadinanza, di ripensare il rapporto tra le persone e il territorio, di annusare le tendenze che stanno mettendo in discussione le istituzioni culturali, economiche e politiche delle nazioni più reattive. In questo Venezia si fa laboratorio d’Italia, chiamando fin d’ora a raccolta idee e persone. Il primo appuntamento è fissato per ottobre, un grande incontro tra Venezia e il mondo della rete per far conoscere ai cittadini e alle aziende locali le esperienze che fanno sognare il mondo digitale.

L’Io è un format obsoleto

L’Io è un format obsoleto. E anche la presunzione di dotare di senso il nostro fare è romanticamente *fuori luogo*. Qualsiasi affermazione di sé, della autenticità del proprio dire, con conseguenti para-testi dedicati a comprovare l’autenticità del discorso della nostra autenticità nel dire chi siamo (occorre sempre un paradiscorso – autentico? – che dica che il discorso è autentico?) cade e cadrà sempre più in contesti esperienziali su cui non ho controllo e mai ne ho avuto. Si chiama negoziazione del Sé, patteggiamento interpersonale delle posizioni esistenziali espresse dai parlanti nella situazioni di enunciazione. Noi siamo rete, non c’è dentro e fuori, non c’è vero e falso, non c’è identità che non sia identificazione, quindi gioco linguistico, quindi rappresentazione. Siamo agiti, sì, me ne accorgo in ogni piccolo gesto. Configurazioni discorsive di superficie, abitudini innervate, empatie automatiche nei codici degli atteggiamenti. L’identità è opera d’arte sociale (tekne, quindi tecnologia del Sé, Foucault) cerchiamo almeno di essere posteriori a Duchamp o Malevic o Magritte, che quasi un secolo fa indicavano appunto gli aspetti linguistici e i giochi del contesto interpretativo. Questa consapevolezza della natura sociale e oggi tecnologicamente “mediata” della nostra identità come rappresentazione ci è oggi necessaria – ma la parola è già tecnologia, quindi siamo umani *perché* tecnologici… il fuoco non l’ha inventato un sapiens – per poter ri-giocare la realtà, senza nevrosi e ritorno al Medesimo, senza innamorarci della maschera, senza adeguarla, e piuttosto senza mimesi. Cosa posso fare, per aver certezza, se non guardare rapito la mia stessa parola vivere nei lifestreaming e delinearmi a mia insaputa? La verità è sufficiente sia estesa e ritmica come la musica, i segreti della profondità sono uno sgambetto. Tenere la faccia al guinzaglio, la mano che brancola nel buio, la candela che si spegne nella casa che va a fuoco, le solite cose.

ps: viva i suggestivi anni Sessanta

Tracce di maturità 2009

Queste due sono eccezionali.

Internet ed i Social Network.
Alla luce della recente evoluzione dei social network a livello mondiale, ripercorrere l’evoluzione sociologica dei sistemi di comunicazione di massa. Porre l’accento sul cambiamento formale e sostanziale nei rapporti interpersonali: il concetto di privacy mantiene il suo significato originale? E’ richiesto l’apporto di esempi concreti.
[Tema di maturità, 2009]

Oh, che colpo di genio! Magari è la volta buona che si riesce a educare migliaia di docenti in un colpo solo.

Per l’ambito storico-politico, argomento di ampio respiro: “Origini e sviluppo della cultura giovanile”. Con tante, tantissime foto, dagli anni ’50 al Duemila: c’è una immagine della Vespa (applausi), ci sono James Dean, Elvis Presley, Mary Quant, i Beatles, la Beat generation, i pacifisti del ’68 con lo slogan «Make love not war», la «Marianna» del ’68 a Parigi, Jim Morrison, i Punk, i paninari, i Nirvana, il logo di Facebook, i rave party.

Invidia. Quanto tempo ho? Sei ore? Poche. Chiudetemi dentro la scuola, nutritemi a merendine, lasciatemi qui da solo di notte con una candela a scrivere per giorni.

Lavagne Interattive Multimediali: cosa sono, come usarle

Abbiamo già parlato delle LIM auspicandone un utilizzo in aula veramente innovativo, in grado di spezzare alcuni automatismi metodologici non più adeguati ai nuovi contesti dell’apprendimento del gruppo-classe, capace di far leva sugli aspetti “sociali” del suo uso quotidiano in quanto tecnologia abilitante nativamente pensata per essere “finestra” e al contempo “ambiente formativo” rispetto al web (in quanto Oggetto Tecnologico Connesso) e alle reti locali (informatiche e relazionali) disponibili a scuola.

Seguendo un link di Tutor Online Qualificati, giungiamo ad una pagina del sito governativo InnovaScuola, dove risulta possibile seguire un piccolo “corso” sulla Lavagna Interattiva Multimediale, a partire dalla descrizione del suo funzionamento tecnico fino ai possibili utilizzi didattici.

I programmi ministeriali prevedono l’inserimento progressivo della LIM in àmbito scolastico, all’interno del progetto “Scuola Digitale” ovvero “Classe 2.0”: “A partire dal prossimo anno scolastico (2009-2010) saranno installate 16.000 LIM in altrettante classi della scuola secondaria di I grado. Inoltre 50.000 insegnanti saranno coinvolti in percorsi di formazione che interesseranno oltre 350.000 studenti”.

Il numero abbastanza esiguo dei dispositivi consegnati alle scuole, nonché il prezzo piuttosto alto delle LIM commerciali (da 1.500€ fino a 2.500€, con videoproiettore) probabilmente impedirà di verificare immediatamente gli effettivi risvolti innovativi sulla didattica, e viste le difficoltà economiche attuali difficilmente le singole scuole proveranno a dotare almeno un certo numnero di aule con le lavagne interattive.

Vi sono però soluzioni alternative: sempre partendo da InnovaScuola potete arrivare sulla pagina dedicata alla sperimentazione delle WiiBoard denominata Wiidea, ovvero le lavagne interattive realizzate utilizzando il remote controller della console videoludica Wii.
Grazie alle indicazioni fornite qui presso il sito del ProgettoMarconi di una rete di scuole bolognese, è possibile costruirsi una LIM al prezzo di circa 50€, capace di offrire molte delle funzioni tipiche di una Lavagna commerciale.

Mi fermo qui: nei prossimi giorni pubblicherò qualche informazione più approfondita sul progetto WiiBoard, magari provando a chiedervi (soprattutto agli insegnanti in regione friuli Venezia giulia) una partecipazione a un eventuale progetto di ricerca-azione promosso da NuoviAbitanti rispetto all’utilizzo concreto delle lavagne interattive in classe.

Digitale terrestre: una tecnologia cretina

Certo, non è il dispositivo in sé a essere cretino. Semplicemente tutto quello che promette nel frattempo è stato superato dalla rete Internet.
Se dieci anni fa si fosse puntato sulla banda larga (davvero “larga”, fibre ottiche e 100Mb di connessione) invece che sul digitale terrestre, oggi non ci troveremmo nella situazione di spendere soldi per un oggetto morto. Perché la televisione e ogni media non potrà che abitare la Rete, come già sta facendo e come sempre più accadrà nell’immediato futuro.
Un messaggio trae senso dal contesto di enunciazione: il contesto è mutato (e si poteva prevedere) e il “messaggio” del digitale terrestre non significa più molto.

Incollo qui un’analisi di Giglioli, via L’Espresso

Dopo aver usato come cavie viventi i sardi e i valdostani, gli alchimisti del digitale terrestre stanno infierendo sui romani e i loro vicini, con il risultato che – ad ascoltare quello che si dice nei bar o negli autobus – viene da pensare che da queste parti il mitico gradimento del Grande Leader sia destinato a scendere parecchio se non si sbrigano a sistemare i ripetitori, altro che Mills e Noemigate.

Ma aldilà dei disagi e delle incazzature – migliaia di nonnette attaccate al numero verde dall’alba al tramonto – agli alchimisti di cui sopra andrebbero forse poste in questi giorni di caos tre domandine facili facili che meriterebbero risposte altrettanto dirette.

1. non è che per caso questo passaggio coattivo al Dtt è costato un po’ troppo ai contribuenti italiani?Voglio dire: se mettiamo insieme quasi un decennio di agevolazioni statali per i decoder, le mostruose campagne informative e pubblicitarie, gli ulteriori contributi per gli over 65 a basso reddito, i pingui stanziamenti delle regioni, i 700 milioni che la Rai prenderà dal nostro canone, i costi dei vari centralini dei numeri verdi, eccetera eccetera, beh c’è qualcuno che ha fatto un calcolo anche approssimativo di quanto abbiamo speso – in piena recessione – per il switch over in corso? (E per curiosità, a quanti italiani – privati e aziende – si sarebbe potuta fornire banda larga Internet a vita con la medesima cifra?).

2. non è che per caso questo digitale terrestre le cui radiose sorti sono magnificate con migliaia di spot e opuscoli è una tecnologia un filo cretina, visto che permette un’interazione minima, un on demand praticamente nullo e se prova a trasportare immagini in Hd occupa così tanto spazio che diversi altri canali Dtt devono essere sospesi? Ora, se siamo tutti d’accordo che la comunicazione (anche audiovisiva) del futuro sarà interattiva, on demand e ad alta definizione, che ce ne facciamo di una tecnologia che fa malissimo (o non fa) tutte e tre ’ste cose? Non è un po’ come costruire un’autostrada in cui non potranno mai viaggiare auto ecologiche ma solo vecchie macchine a benzina?

3. non è che per caso questo passaggio al Dtt è stato un po’ spinto dall’alto per il fatto che il presidente del consiglio è anche il proprietario del broadcaster che più di tutti gli altri ha puntato sul Dtt, visto che la Rai è parecchio più indietro e (soprattutto) il vero concorente (Sky) va sul satellite? E non è che per caso la tassa italiana sull’Iptv (già del 10 per cento, portata al 20 per cento a gennaio) è una grandissima fesseria in termini di innovazione, raddoppiata proprio in coincidenza con il switch over mentre in Francia l’hanno appena dimezzata al 5 per cento? E non è che tutto questo – insieme alla minacciata fuoriuscita della Rai dal pacchetto Sky e alla costituzione della piattaforma Tivusat in cui Rai e Mediaset vanno a braccetto contro il resto del mondo – è un’incarnazione molto visibile del conflitto d’interessi?

Sano, sicuro, consapevole.

Riprendo Metilparaben per intero. E cosa volete che aggiunga, che siamo nel 2009?

Mentre vi comunico, en passant, che si tratta (anche) di un successo degli Studenti Luca Coscioni (ma ve lo dico solo io, come al solito, ché i giornali non ritengono di menzionarli), mi prendo qualche minuto per dire due paroline ai giovani in ascolto.

Io non so, e non voglio sapere, se scopate, quanto scopate, con chi scopate: però vi consiglio di usarli, i preservativi, in barba ai crociati che vi ammanniscono le loro idiozie sul peccato e la riproduzione naturale, agli imbecilli che vi lusingano a forza di “che vuoi che succeda, ci sto attento io”, ai coglioni che “non ho mai fatto il test ma non sono né gay né tossico, figurati se l’ho preso”.
C’è gente che ha dato il fritto, per fare in modo di mettere quei distributori nella vostra scuola.
Voi che ne dite: è il caso di sprecare tanto lavoro?

Strumenti per la democrazia

Twitter è un servizio di microblogging. Ci si crea un account e in seguito tramite cellulare, email o direttamente via web si possono mandare messaggi di testo (ultimamente, anche cose multimediali) lunghi 140 caratteri, dove si dovrebbe descrivere cosa stiamo facendo in quel preciso momento. Cose tipo “sto mangiando un pizza da Mario”, “sto leggendo l’ultimo libro di Paperoga”, “il sottoscritto va al cinema”.
Poi è possibile iscriversi agli account twitter dei nostri amici o colleghi (decine o migliaia che siano), cosicché si formano delle community di persone che si tengono costantemente in contatto tra loro scambiandosi opinioni e stati d’animo.
Certo, vista la lunghezza limitata del messaggio, più che per alloggiare contenuti articolati e strutturati Twitter serve soprattutto per mantenere il contatto tra le persone, per sostenere le reti relazionali, per restare sintonizzati.
Obama ha fatto largo uso di Twitter durante la sua campagna elettorale, e alle recenti votazioni europee anche i candidati nostrani – a esempio la Serracchiani, che ha puntato decisamente sulle nuove forme di socialità in rete – hanno tenuto i “seguaci” (le migliaia di followers) costantemente aggiornati sui propri spostamenti sul territorio, sulle proprie opinioni lampo sui fatti di cronaca, sulle indicazioni politiche.

Ma Twitter ha mostrato anche funzionalità insospettate: nel caso di calamità naturali, compreso l’ultimo terremoto in Abruzzo, i primi messaggi con le prime notizie sono giunti direttamente dal luogo del disastro, che le fonti giornalistiche istituzionali hanno subito ripreso e propagato. Forme nuove di citizen journalism che sono sostanzialmente rese possibili dal semplice possesso di un cellulare connesso.

In questi giorni pare stia succedendo una rivolta popolare in Iran, in seguito ai presunti brogli elettorali. In questo paese con una scarsa libertà di informazione, tutto viene soffocato e nulla si vorrebbe far trapelare all’estero. Ma Twitter e YouTube sono lì, a mostrare cosa veramente succede nelle piazze e nelle strade, al di là della propaganda di governo sui massmedia tradizionali, cui nessuno crede più. Le persone comunicano disintermediando la comunicazione ufficiale, dando una rappresentazione mediatica diretta della realtà garantita dalla polivocalità e dalla spontaneità delle fonti.

E il Governo statunitense stesso si è mosso per consentire che le migliaia di voci dissidenti iraniane potessero trovare eco sui media mondiali, che da questi nuovi strumenti di democrazia in queste ore attingono per mostrare nei telegiornali cosa stia succedendo.

Il Dipartimento di Stato americano ha chiesto ai titolari di Twitter, il social network sul quale il candidato iraniano Mir Hossein Moussavi ha una pagina personale, di rinviare la manutenzione programmata prevista, in modo da consentire la copertura degli avvenimenti iraniani. Twitter, ha affermato un funzionario che vuole restare anonimo, e’ “un importante mezzo di comunicazione, in Iran in modo orizzontale”. Twitter aveva gia’ posticipato di un giorno la manutenzione, prevedendola per questa notte. Lo stesso Moussavi aveva implorato che fosse tenuto aperto l’unico canale di comunicazione tra la societa’ civile iraniana e il resto del mondo. Sul social network il candidato riformista ha annunciato di essere pronto a spiegare al popolo iraniano le proprie ragioni in diretta televisiva.

link: IRAN: APPELLO USA A TWITTER, “RESTATE APERTI” | News | La Repubblica.it

Venezia naviga

(E’ tutto un lungo delirio pieno di parentesi, ma volevo parlare di Venezia digitale, e di come vedremo emergere nuove forme di socialità e di autocoscienza, di come una parola nuova permetta la nascita di tante nuove idee. E Venezia sta per pronunciare concretamente parole nuove, nel dialogo interumano)

Quando studiavo psicologia, leggevo di come ad un certo punto verso i primi anni Sessanta fosse arrivato il Cognitivismo a rimettere le cose nella giusta prospettiva, rispetto al Comportamentismo, nella considerazione dei processi mentali di acquisizione e gestione delle informazioni, quindi nel dare alcune coordinate improntate a migliori ipotesi sul funzionamento della memoria, dell’apprendimento, della mente e del ruolo attivo dell’individuo.

Nutrito da suggestioni derivanti dalla cibernetica anni Cinquanta, molto cognitivismo (la cosa si riprodusse poi negli anni Ottanta, con i neo-connessionisti) provò a seguire la metafora dell’uomo-macchina, ovvero a spiegare certi fenomeni psicologici con un parallelo basato su un trattamento dell’informazione di tipo “ingegneristico”, o proto-informatico.
Certo, parlare del cervello come hardware e della mente come software viene facile, innesca fughe. C’è la memoria a breve termine (la RAM?) quella a lungo termine (il disco fisso?), le pipeline di collegamento intracraniche, le interfacce (gli organi di senso, con la loro autonoma elaborazione dell’informazione dal percetto al concetto), i driver.

D’altronde, un pensiero vive dentro l’ambiente pensieroso che lo pensa (che è maggiore di una scatola cranica, ed è un ambiente sociale), dentro i tempi che lo vedono emergere come catena significativa di correlazioni di idee e di emozioni, quindi perché stupirsi che l’informatica assomigli alla psicologia cognitivista? E’ la stessa generazione di persone ad aver prodotto quei ragionamenti, gente che al liceo aveva letto gli stessi libri di filosofia.

L’episteme dell’epoca faceva convergere lì, ecco.
Ed è inutile mettersi a discutere se il computer sia un cervello o se la mente lavora come un computer, perché i nostri giudizi vivono dentro quel contenitore della pensabilità, e comprendiamo la realtà da lì dentro. E lì dentro le cose filano fluide, e per nessun bambino di dieci anni il concetto di “cervello elettronico” risulta assolutamente inconoscibile, fatto salvo lo stupore iniziale dell’accostamento dei termini. Ovvero, quel concetto è già nella sua mente, perché la cultura in cui cresce concepisce serenamente quel concetto.
E per dirla tutta, non è più il caso di concepire la mente come individuale, noi siamo multipli e sociali, l’Io nasce dal Tu, la coscienza è una autonarrazione che noi stessi facciamo a noi stessi diuturnamente, smettiamola con l’Io e il non-Io, io sono sono rete.

Ma certamente etica scientifica vuole che la metafora, benché altamente illuminante, vada compresa per quel che è. Una metafora esplicativa. Domani ce ne sarà un’altra, migliore.
Non stiamo parlando della realtà, stiamo parlando delle parole con cui pensiamo la realtà.

Anche studiando la psicologia dei gruppi, nell’individuare un “discorso” soggiacente al “fare” del gruppo, bisogna porre attenzione a non antropomorfizzare troppo, appunto perché il gruppo vive in dimensioni psicologiche (affettive e cognitive) gruppali, pratica altri linguaggi espressivi, è “inumano”, è differentemente cosciente di sé, e occorrono strumenti specifici per individuare prima e analizzare poi i suoi comportamenti, nn si può tic-tac trasporre concezioni di psicologia individuale al nuovo oggetto di studio (il gruppo, “la più grande invenzione del XX secolo”, come disse quel guru vero di Rogers, sottolineando così come il gruppo di per sé non fosse mai stato preso in considerazione né percepito come “oggetto di studio”).
Un altro esempio? Quando Dennett e/o Hofstaedter, trent’anni fa, studiavano cosa fosse la coscienza, dovevano dedicare metà dei loro libri a spiegare come fare per non concepire la coscienza come qualcosa di “individuale” (con tutto il problema della storia del linguaggio della psicologia come retaggio), ma fosse una caratteristica emergente dei sistemi complessi, come nel famoso caso del formicaio, che è cosciente di sé (adotta comportamenti nel suo insieme) benché le formiche non lo siano (forse).

Anche il territorio può essere letto con queste metafore. Ad esempio riuscire a leggere il territorio come un ipertesto, come più volte qui ho fatto, mi è stato reso possibile da un pensiero capace di individuare nodi e collegamenti tra le varie parti che lo compongono, siano essere relative a questioni di produzione e distribuzione di materia, energia o informazione, giusto per usare la nota triade fondamentale per uno studio della Cultura Tecnologica e TecnoTerritoriale (appunto). Quali percorsi legano il rubinetto della vostra cucina alla diga su in montagna? L’ufficio dei servizi sociali del vostro Comune allo schermo del vostro PC? Quanti gradi di separazione tra me e il Sindaco, visto che gli umani sono materia energia (vedi Matrix, il film) e informazione in rete (vedi Internet, tutta), e i linguaggi (le idee, memi) sono virus che si propagano da una testa all’altra?

Ma il territorio può essere benissimo letto con la metafora del sistema operativo, informaticamente inteso. C’è una lunga tradizione. Ci sono appunto i luoghi energetici, le condutture, i processori dedicati all’elaborazione dell’informazione, le banche dati, i sistemi di controllo. Emerge l’amministrazione, la coscienza del territorio che sa di essere territorio e sa cosa non è territorio che può governare, emergono forme di indirizzamento sulle priorità (politiche) di elaborazione amministrativa, ecco la governance come ragionamento sull’efficienza del sistema amministrativo, ecco le interfacce.

Ok, la smetto.

Però indubbiamente connettere tutto un territorio, come la città di Venezia (Mestre compresa) in banda quasi larga (20Mb sono già una cosa dignitosa, su fibra ottica) farà emergere nuove idee di sé, permetterà alla mente collettiva veneziana (cittadini, imprese, amministrazione) di forgiare strutture sociali (di atomi, di bit, come una banca di mattoni che è anche una idea di banca ed è anche un flusso di informazioni) ora difficilmente immaginabili, anche se ieri Michele Vianello, viocesindaco di Venezia, ha provato a suggerire qualcosa, nel corso della presentazione delle iniziative per Veneziadigitale.
Qualcosa di molto bello, detto con parole giuste e concrete, e con coraggio visionario, e sbeffeggiando alcune impostazioni 1.0, ancora lineari e industriali, che molti spacciano per innovazione. Forse è la prima volta che sento un pubblico amministratore parlare di modernità socialweb credendoci, e non per fare il bullo con parole che qualcun’altro a malapena comprende, esponendo concetti di condivisione della conoscenza e di opportunità sociale e di cittadinanza digitale che ti accorgi subito se sotto c’è il vuoto di una prassi mai praticata.
E quelle di Venezia non sono parole futuristiche, le infrastrutture tecnologiche ci sono già, sono anni che mettono fibre ottiche nelle strade ogni volta che devono rifare un allacciamento del gas, e ieri sono state esplicitamente chiamate le imprese e i consorzi e le università a partecipare all’innovazione culturale, a diventare partner di progetto, e smettiamola di parlare della rete come fattore tecnico. C’è un mondo intero da inventare, e da abitare, subito.

Tardivi digitali

Immaginate la frustrazione di chi, come me, da quindici anni prova a raccontare scrivendo parlando o facendo formazione cosa significhi internet per la nostra generazione di “traghettatori” culturali, in previsione del significato che questo cambiamento epocale avrà per le prossime generazioni.

Immaginate i sorrisini di assessori regionali, sindaci, dirigenti scolastici, insegnanti, genitori dinanzi a un fanatico capellone (son sempre io) che si intestardisce nel promuovere Cultura Tecnologica e Digitale, nella convinzione che conoscere il funzionamento delle cose sia la mossa migliore per comprenderle e prevenire gli eventuali problemi che possono sorgere, a partire dalla gestione del territorio quale Oggetto tecnologico di cui siamo ecologicamente responsabili, passando attraverso le considerazioni sul risvolto antropologico dell’abitare, per arrivare alla promozione di consapevolezza rispetto alle nuove dinamiche della socialità in Rete.

Nel frattempo, il mondo è cambiato profondamente. Quindici anni fa cellulari e web praticamente non esistevano. Oggi in italia ci sono più cellulari che abitanti, e 10.000.000 dieci milioni di italiani chiacchierano e scherzano su facebook, molti altri rimpiazzano ormai la tv con youtube (quattro anni fa non esisteva), lavorano dentro la Rete o comunque non riescono più a concepire il proprio lavoro o lo studio senza un pc connesso a portata di mano, partecipano alle politiche locali, ricavano identità personale e collettiva dall’appartenenza a Luoghi digitali, s’informano sugli eventi del mondo e abitano tranquillamente nei nuovi Luoghi della socialità umana.

Le istituzioni stanno (lentamente) modificando sé stesse, per garantire forme di abitanza digitale come e-government ed e-democracy ormai attestate come diritti del cittadino, le imprese e il mondo delle professioni riconoscono l’assoluta centralità delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione per l’ottimizzazione dei sistemi produttivi e distributivi di beni e servizi, la Cultura tutta, fatta di idee e opinioni e rappresentazioni, vive dentro la Rete, perché la Rete è la Cultura umana, che fino a ieri trovava supporto nei media cartacei o di celluloide, e oggi si trova assai più comoda in un ambiente fatto apposta per sostenere la Conoscenza. Le idee si propagano da sempre come virus nella socialità umana, noi abitiamo dentro i linguaggi con cui nominiamo il mondo, e oggi le reti planetarie rendono più facile e potente la comunicazione tra le persone. Tutto qui.

Certo, se i massmedia italiani, diversamente da altre parti d’Europa, continuano a trattare con sufficienza e sorrisini altezzosi o con toni scandalistici le forme di abitanza digitale dentro cui loro stessi sono coinvolti (e i quotidiani e i telegiornali italiani in questi ultimi mesi si sono accorti di dover “cambiare per non morire”, vista l’insostenibilità economica dei modelli tradizionali del fare informazione), risulterà più faticoso mostrare le opportunità civiche di miglioramento qualitativo dell’abitare rese praticabili dai nuovi strumenti della socialità umana.

E non esiste nessun “popolo della Rete”, come dicono i giornali: quelle persone siamo noi, normali cittadini, metà o più della popolazione italiana (e solo la miopia culturale e politica ha impedito e impedisce tuttora la riduzione banalmente tecnica del digital divide, altrimenti saremmo molti di più), che ritengono la frequentazione della Rete una normale pratica quotidiana, ludica o professionale, e soprattutto considerano il web una risorsa preziosa per vivere meglio.

Il tempo è galantuomo, dicono, e già qui intorno ho visto spegnersi molti sorrisini di sufficienza; la frustrazione di non essere compresi svanisce nel vedere il mondo cambiare nelle direzioni prefigurate molti anni fa. Abbiam perso delle occasioni, ma molto lavoro è ancora da fare per costruire la consapevolezza diffusa del nostro abitare biodigitale. Questo è anche il vantaggio di sapere di essere nuoviabitanti, e di poterlo scrivere su un blog intitolato NuoviAbitanti. Già molte volte ho affrontato su questo blog di questi argomenti: per amor di varietà segnalo quindi la prefazione del nuovo libro di Luca Sofri “Nati con la rete” pubblicato da Rizzoli, in uscita in questi giorni.

via Luca Sofri

Tardivi digitali

Le persone non più giovani che si accingano a voler capire com’è il mondo delle generazioni «native» devono innanzitutto liberarsi della solida sensazione di essere i protagonisti del nostro mondo e del nostro tempo: inutile illudersi, non lo sono più. E devono liberarsi dall’inclinazione «entomologica» nei confronti dei fenomeni che riguardano i loro figli (o nipoti): noi non siamo scienziati che studiano gli insetti, siamo insetti che studiano gli scienziati, per quanto insetti curiosi e colti, colti di un’altra vecchia cultura. Le nostre analisi le pubblichiamo ancora sui libri di carta e di centinaia di pagine, come questo. E non ci è facile pensare agli adolescenti e ai ventenni come al mondo che è già: lo consideriamo il mondo che sarà, appena ci toglieremo di torno noialtri. Ma il mondo ci ha già tolto di torno: ne frequentiamo uno che risulta sempre più emarginato, illuso da una grande finzione collettiva tenuta in vita dai mezzi di comunicazione che a loro volta gli appartengono e che con lui se ne stanno andando.

È la fine del mondo come lo conosciamo. O almeno lo sarebbe.

Perché rispetto a questo è interessante fare anche un’altra riflessione, simmetrica a quella sui nativi digitali ospitata in questo libro. Ed è quella sul rapporto con la rete di noi non nativi.

Noialtri non nativi apparteniamo a due distinte categorie (trascuro quelli che con internet non hanno ancora avuto mai a che fare, vuoi per sfortuna geografica e sociale, vuoi per età, vuoi per rarissima ostinazione). Ci sono da una parte quelli vengono chiamati «coloni», o «immigrati», o «ibridi». Io preferisco l’ultimo termine, perché descrive la condizione – che è anche la mia – di persone che sono vecchie abbastanza da aver frequentato il mondo «di prima», ma anche giovani abbastanza da avere abitato da subito il mondo «di dopo». È una categoria umana ridotta, per ragioni anagrafiche, ma centrale nella costruzione della conoscenza, della cultura e delle elaborazioni relative alla rete: perché ne ha seguito nascita e crescita avendo già gli strumenti per capirla e discuterla, e il metro per tenerla in relazione con il mondo «di prima». Ne sono stati protagonisti negli scorsi anni, ma ormai la loro presenza si sta ridimensionando mentre avanzano e si allargano i nativi che bene interpreta e descrive Nati con la rete. Ma c’è un’altra avanzata che ha riversato in rete una popolazione nuova in questi ultimissimi tempi.

La chiamerei quella dei «tardivi» di internet: la seconda categoria di non nativi. Sono coloro che hanno cominciato a occupare e a occuparsi di internet solo da poco, di fatto, e soprattutto grazie alla nuova accessibilità e familiarità di alcuni suoi luoghi e prodotti.

Succede con molti fenomeni nuovi. Ci sono delle avanguardie di esploratori che raggiungono e colonizzano luoghi prima inesistenti o sconosciuti. Il west. Uomini in cerca di qualcosa e con poco da perdere si spingono in là senza sapere cosa troveranno: sparano ai bisonti, trattano con gli indiani, dormono intorno al fuoco acceso sotto le stelle e con un occhio aperto. Si adattano al nuovo mondo e ne scoprono le opportunità, a forza di tentativi e fallimenti. Colonizzano, appunto.

Più tardi, quando gli indiani sono stati allontanati e le praterie sono state liberate dai bisonti, c’è uno sceriffo ed è arrivata la ferrovia, gruppi sempre più numerosi di nuovi coloni cominciano ad arrivare. Arrivano con le carovane, traslocando le loro cose, e trovano già i pozzi e l’acqua corrente. C’è una maestra, un saloon e un bordello. Trovano il loro mondo, solo spostato da un’altra parte. Ma si guardano intorno e dicono «qui è davvero un altro mondo».

Questo sta succedendo con internet, in particolare in Italia. Per anni una piccola comunità di esploratori ha provato – spesso riuscendoci – a inventarsi cose nuove che si potessero fare con la rete, e ha costruito un mondo, anche se era un mondo frequentato da pochi. Altri provavano a trapiantare in rete attività e servizi più tradizionali, ma i clienti più tradizionali non erano ancora arrivati. I lettori dei giornali leggevano ancora i giornali, non i giornali online. Poi però hanno cominciato ad arrivare, ad avvicinarsi, ad affacciarsi guardinghi. E a un certo punto hanno trovato Facebook. E sono entrati.

No, non è solo Facebook. Sono molti i luoghi della rete in cui la differenza dal mondo di prima è praticamente inesistente, quasi invisibile, come quando si va in vacanza in un Paese esotico e diverso e si trova una pizzeria italiana, o un McDonald’s. Un esempio facile e interessante è il successo di un sito di pettegolezzi, voci e rassegna stampa dedicate alle celebrities e ai poteri italiani. Tecnicamente un blog, ovvero una delle forme più moderne e rivoluzionarie della comunicazione online. Ma le opportunità sono tarpate, ignorate, tenute alla larga. Non esistono di fatto link, si tratta di un contenitore di testi, come un giornale tradizionale. Non crea relazioni con altri luoghi della rete, è un posto isolato da internet. E ospita da sempre contenuti familiari, propri dell’establishment dell’informazione italiana, quasi vernacolari. È internet per i navigati direttori della stampa nazionale: gossip, vicende di potere bancario e politico, economico e giornalistico. Aggressività verbale, linguaggio spiccio e burineggiante, e notizie pubblicate con secondi e terzi fini. C’era persino il porno, fino a poco fa (il porno è eterno). Tutta l’Italia più zavorrata nel secolo scorso. E che però ha trovato se stessa su un blog, e si è convinta che quello fosse internet.

Si possono fare altri esempi. Il blog italiano più seguito e pubblicizzato negli ultimi due anni è in realtà un altro esempio di sfruttamento poverissimo e semplificato delle opportunità tecniche e relazionali della rete. Niente più di una rubrica su un giornale, con l’aggiunta dei commenti, ma un’aggiunta assolutamente non esaltata o sfruttata. Una sorta di lunga rubrica delle lettere. E ammesso che l’autore le legga (sono centinaia), non le usa, non risponde. Anche lui non si mette in relazione con la rete, non la sfrutta. Non mi fraintendete: si tratta di un successo di lettori e mediatico formidabile, indiscutibile e ammirevole. Ma è un successo che si deve appunto alla familiarità e accessibilità dell’iniziativa. E che anzi probabilmente non sarebbe stato ottenuto lavorando a un’idea più ricca, creativa, condivisa, più fatta a forma di internet. Il blog più seguito in italia ha attratto i lettori estranei agli altri blog: non solo per l’efficacia di quel che dice, ma anche appunto per la sua forma «accogliente», facile.

E poi è arrivato Facebook. Una consolante rivelazione, per i tardivi digitali. È un luogo della rete del tutto familiare, quasi da film di Pupi Avati: ci si scambiano le fotografie, si ritrovano i vecchi compagni di scuola (si fa molto altro, ma su questi due servizi si è basato il grosso della comunicazione propria del social network). Chi accede alla rete da Facebook non ha bisogno di conoscere i meccanismi con cui la rete funziona o di essere appassionato dell’informazione e delle cose del mondo. Ci trova quelle cose che lo interessano e che conosce. Giovanni Boccia Artieri, studioso della comunicazione, ha individuato nel successo di Facebook «l’ascesa della borghesia» in rete. E questo non solo significa che i meccanismi della rete coinvolgono sempre più persone che prima ne erano estranee, ma ha anche un effetto opposto. Internet si «normalizza». Viene ricolonizzata dal mondo di prima. I suoi nuovi abitanti, meno coraggiosi e attrezzati, vi ricostruiscono i modelli familiari. Il successo di Facebook è un successo di funzioni semplici e tradizionali: relazioni con vecchi compagni di scuola, album di ricordi, piccole conversazioni, campagne per i cani abbandonati, promozioni editoriali.

L’accesso alla rete e la sua colonizzazione da parte dei tardivi non si deve per forza prestare a una valutazione, se sia un bene o un male. È una cosa che sta accadendo, inevitabilmente, e con cui è il caso di fare i conti. Ed è ovviamente una buona cosa, come ogni crescita dell’accesso alla rete e a qualsiasi nuovo mezzo di comunicazione in genere. Ha anche delle controindicazioni, per i modi descritti con cui sta avvenendo. Quello che da parte dei tardivi era una volta un atteggiamento di laica e umile curiosità nei confronti di internet si sta trasformando in una rapida sopravvalutazione della propria esperienza. Tornando agli esempi di cui sopra, è accaduto in molte redazioni di giornali che si siano scambiati siti di gossip per un esempio della nuova informazione online e che si siano presi blog politicizzati per una moderna forma di aggregazione e attività politica in rete. Per molti, la punta dell’iceberg di internet citata dai giornali è diventata la propria idea di internet (quindi aggiungeteci bullismo su YouTube, saccheggi della privacy e tutto il repertorio dell’allarmismo giornalistico: spaventalismo). Fino a che non è arrivato Facebook, che è diventato internet. L’espansione di Facebook dentro la rete è stata molto dibattuta in questi mesi: Facebook si allarga e i suoi meccanismi semplificati sottraggono spazio ai servizi e ai siti più ricchi e promettenti. E molte persone che per la prima volta accedono a Facebook attratte da questa semplificazione sono vittime di una sbornia adolescenziale simile a quella dei nativi quando scoprono un nuovo straordinario e fantascientifico videogame online. Si apre loro un mondo, e lo capiscono. Accumulano amici, reinventano le proprie relazioni e il loro tempo libero, scambiano Facebook per l’universo, e la grande rivoluzione tecnologica di questi decenni gli è improvvisamente chiara nella sua generosità: era Facebook. Questa sopravvalutazione ha un limite, come dicevo: impedire che questo primo e facile accesso alla rete preluda a nuove scoperte e nuove opportunità. Questo è ciò che avviene per i nativi, che allargano col tempo sempre di più gli usi della rete e gli spazi che ne conoscono. I tardivi invece confrontano i misteri della rete con i confortevoli luoghi di cui hanno esperienza, e ne stanno alla larga. Per alcuni di loro, questa ritardata emozionante scoperta si traduce rapidamente in elaborazioni, considerazioni, idee, e persino progetti imprenditoriali in ritardo di anni su quanto la rete ha già discusso e analizzato e creato prima. Ma questo potrebbe non significare niente, perché ormai una cospicua parte degli interlocutori o degli utenti di queste idee è a sua volta tardiva, soprattutto in Italia. E così come la televisione italiana non può che produrre contenuti anacronistici e arretrati dipendenti dal suo tipo di pubblico, anche la rete potrebbe rischiare di essere trascinata indietro da ragioni di mercato nuove. Miss Italia su internet potrebbe diventare un grande successo nel 2011. Magari persino il Festival di Sanremo, o l’edizione online di «Micromega».

Oppure no. Oppure ci salveranno i nativi. Anzi salveranno se stessi. La rete è l’ultimo luogo che ci rimane per tenere le redini del futuro, in un Paese così per vecchi da essere diventato un cliché. Ed è un luogo in cui molti si rammaricano non si trovino dei modelli di business adeguati a sfruttare iniziative anche di grande successo di visite e utenti. E proprio questo potrebbe essere un’opportunità per scongiurarle il melmoso destino in cui si dimena il resto del Paese. L’Italia salvata dai nativi digitali.

SchoolbookCamp, e-book a scuola

Il 22 e il 23 maggio si è svolto a Fosdinovo (MS) un convegno barcamp dedicato al libro di testo scolastico nel suo formato elettronico, ovvero come e-book che da circolare ministeriale di quest’anno è previsto a breve entri stabilmente nella pratica scolastica quotidiana.

Dello SchoolbookCamp ho già parlato diffusamente qui e qui.

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L’altra settimana al convegno di Fosdinovo, usando il cellulare come videocamera, ho fatto delle rapide interviste ad alcuni partecipanti ponendo tre domande tre.

Si trattava di indagare quali cambiamenti tecnologici e socioculturali abbiano reso significativa la proposizione di un evento barcamp dedicato all’e-book e all’editoria scolastica, quali posizioni fossero emerse dagli incontri, quali indicazioni il convegno stesso poteva dare per suggerire le azioni da intraprendere nel futuro, per un utilizzo adeguato dei testi digitali su supporto elettronico negli àmbiti della scuola e della formazione alla persona, per una riflessione tematiche inerenti i modelli economici dell’editoria elettronica, l’introduzione dell’e-book a scuola, le comunità professionali online.

Ho posto queste domande a Noa Carpignano della BBN Edizioni, ad Agostino Quadrino della Garamond, a Mario Guaraldi per la omonima casa editrice, a Marco Guastavigna insegnante e autore di testi sull’apprendimento, a Gianni Marconato quale operatore nel settore della formazione; ne esce certamente un quadro interessante e variopinto.

Il video è lunghetto, 25minuti, però ha un andamento abbastanza rapido.

SchoolbookCamp a Fosdinovo. Videointerviste from Giorgio Jannis on Vimeo.