Archivi autore: Giorgio Jannis

e-Honsell

Honsell è un informatico old school. Un matematico, in realtà, che poi si è appassionato ai linguaggi di programmazione. Come mi disse una volta in una chiacchierata volante, sa benissimo costruire un sistema operativo usando il blocco note, ma di tutta questa roba di web non ne sa poi molto.

Però oggi via Messaggero Veneto Honsell racconta la sua visione da Sindaco per Udine digitale, e ci sono frasi da cui emerge una certa consapevolezza riguardo le dinamiche dell’abitare online, il momento duepuntozero, le politiche per la riduzione del digital divide come possibilità concreta di partecipazione dei cittadini alla discussione pubblica. Tra le righe, si trovano spiragli di e-government e di e-democracy. Vedremo.
Magari nel frattempo potrebbe aprire un suo personale Luogo disintermediato, per promuovere conversazione.

Cittadino digitale naturalizzato

Io abito in rete, questo voglio dire. E anche se non sono un nativo, ma un cosiddetto immigrato, ormai sono un cittadino naturalizzato delle lande digitali, le ho costruite un po’ anch’io, ho fatto le battaglie per la Cultura digitale, eccetera.

Tutto questo perché ogni tot di tempo riemergono le discussioni sul significato e sulla portata dell’espressione “nativi digitali”, a partire dalla definizione iniziale di Prensky del 2001.
Anche se ho già fatto notare che l’espressione “immigranti” (e quindi “nativi”, per correlazione immediata) sia presente nella Dichiarazione d’indipendenza del Cyberspazio di Barlow, del 1996.

Cercate nativi digitali su Google, io ne ho parlato qui e qui, per non dire di tutte le volte che ho lasciato interventi kilometrici sui blog altrui, soprattutto quelli che trattano di formazione scolastica o in generale di educazione alle nuove generazioni.

La mia idea era che sì, siamo immigrati, i nostri schemi mentali non si sono sviluppati a contatto con gli ipertesti, siamo fatti di libri che ci agitano dentro, siamo meno multitasking, attribuiamo intelligenza e profondità a argomentazioni ipotattiche e diffidiamo un po’ di chi ragiona per paratattiche e costruzioni grammaticali fatte di coordinate, anche se qualche filosofo ha detto che “la verità è in superficie” rimaniamo dubbiosi, l’idea che le cose importanti siano ben nascoste (una cosa rinascimentale-neoplatonica-alchemica, in fondo, come ripresa dei Misteri e della Gnosi) è sempre lì che orienta il nostro sguardo, in fondo non capiremo mai veramente la Cultura digitale, i nativi digitali sviluppano modalità cognitive che non ci apparterranno mai, nessuno abita territori e tutti abitiamo linguaggi (vero) e loro abitano appunto altri linguaggi, lo scarto generazionale è incolmabile, i barbari ci seppelliranno, noi siamo tardivi digitali, siamo traghettatori della Cultura umana nei nuovi Luoghi di Abitanza digitale, siamo esploratori e forse abitanti nomadi ma non siamo i primi coloni stanziali dei nuovi Territori immateriali ecosistemici della Conoscenza, come formatori dobbiamo mediare in noi stessi la nostra inadeguatezza rispetto ai giovani e accordarci ai nuovi contesti educativi, e via andare.
Tutto vero, ma sono pensieri, guarda un po’, binari. O così o cosà, bianco e nero. Le semplificazioni dei pionieri, che han bisogno di capire rapidamente il mondo sennò vanno in confusione, quindi tranciano giudizi frettolosi, e per giunta sulla base di una cultura inadatta a comprendere i nuovi fenomeni.

Ora, io sono nato nel 1967. Al momento, e spero per molto tempo ancora ma dubito, ho 42 anni.
Da bambino vedevo arrivare la tv a colori e la radio FM, avevo una macchina fotografica e una cinepresa in super8 per le mani, mi spiegavano il telex, giocavo a videogames nei bar con Asteroid e PacMan, smontavo oggetti tecnologici fatti di cose elettrotecniche o elettroniche, compravo riviste di elettronica con il kit faidate per costruire allarmi sonori, ragazzino rubavo manciate di led rossi nelle fiere dell’elettronica per costruire impianti di “luci psichedeliche” fatti stagnando condensatori a un filo elettrico collegato all’altoparlante della radiolina, i miei amici avevano lo ZX Spectrum o l’Amiga nei primi Ottanta con cui programmavamo in Basic un gioco della bottiglia che assomigliava tantissimo alla schermata dell’ora esatta in TV, il manuale delle GiovaniMarmotte mi insegnava a scrivere in codice Morse o a costruire una antenna, usavo registratori a quattro piste e facevo i radiogiornali con le colonne sonore, a quattordici anni insieme al rock settantone mi son beccato tutto il synthpop dritto nei neuroni, a diciassette anni smanettavo gli oscillatori del mio defunto synth Poly800 e batterie elettroniche, per ballare da 25 anni preferisco la musica elettronica, ho fatto cose su un palco usando campionatori, sono cresciuto con narrativa o telefilm di fantascienza dove dispositivi elettronici da SHADO a Neuromancer a Avatar sono ubiqui, chattavo con il Videotel nei primi Novanta e guardavo le BBS degli amici informatici, ho imparato a usare il PC per scrivere e giocare, ho un cellulare dal 1998, eccetera eccetera.
Ho 42 anni, credo di essere la “soglia alta”, tutti i miei coetanei e tutti quelli più giovani sono come me cresciuti immersi in un ambiente elettronico, poco da fare. Ci siamo cresciuti dentro.

Non è che per capire la Cultura digitale devo cadere per forza nelle categorie di nativo o di immigrato, che sia chiaro sono uno spartiacque temporale, fondato sull’essere nati prima o dopo il 1990, ma poi perdono significato se indagate secondo le competenze digitali individualmente possedute, nel nostro essere cognitivamente o antropologicamente orientati all’abitare qui dentro.
Internet l’han fatto dei vecchiacci come noi, i giovani ci abitano con modalità loro, i loro figli muteranno ancora il senso dell’abitare indifferentemente in Luoghi biodigitali.

Lo scopo finale dell’educazione è formare cittadini, proattivi attenti critici e consapevoli. E chiaramente penso anche alla Cittadinanza digitale. E i nativi digitali devono essere formati da persone che devono avere anche competenze di cittadinanza digitale nel loro bagaglio culturale, altrimenti non funziona. Non possono insegnare a sé stessi da soli, i ragazzi, come comportarsi nel mondo. Né è ammissibile che gli insegnanti tralascino questo aspetto, molte volte ne ho parlato, perché non si possono tralasciare nell’educazione quegli aspetti di orientamento al mondo concreto dove le giovani generazioni si trovano già a vivere, un mondo fatto di comunicazione istantanea come mai si è visto prima.

E in ogni caso per noi tardivi digitali le cose non vanno viste come se ci fosse stato un BigBang, un evento che pone il prima e il dopo, i nativi e gli immigrati. Io sono cresciuto dentro un mondo elettronico, non ho avuto nessuna difficoltà da bambino a capire il telecomando della televisione o il telex, ragionare con un computer o un videogioco non mi ha creato nessun problema, ero pronto a farlo, mi è venuto naturale, perché evidentemente già abitavo dentro quel linguaggio fatto di display e di sensori e di interfacce e di joystick.

Siamo Cittadini Digitali naturalizzati. E come formatore non è che mi sveglio una mattina e vado nel panico, perché d’un tratto ho compreso una mia ontologica inadeguatezza a insegnare la vita a persone che sono nate con il mouse in mano e l’occhio su YouTube. Sono pronto.
Il compito rimane comunque quello di educare i giovani, educare i nativi digitali alla Cittadinanza digitale, che non è certo in loro nativa. E’ sufficiente ragionare sulle differenze tra alfabetizzazione informatica e competenza digitale, per comprendere l’intero discorso. E’ sufficiente muovere da basi di competenza digitale (privacy, reputazione, rispetto, ascolto, consapevolezza) per arrivare alla Cittadinanza digitale correttamente intesa. Come dico sempre, un conto è il carburatore, un conto è il Codice della Strada.
Io conosco la tecnologia molto meglio degli studenti. Ci sono cresciuto dentro, ho frequentato le tecnologie vivendoci assieme tutta la mia vita, ci ho riflettuto sopra, ho compreso le dimensioni tecnosociali, ho costruito il web, come il solito nano sulle spalle degli altri ho contribuito a delineare alcune norme di buon comportamento civico, continuo a imparare, so insegnare Cultura digitale, so raccontare il mondo, vivo la modernità e la mia performance.
Non sono un immigrato, sono un cittadino digitale, e abito molti linguaggi.

Zitti e ignoranti, dobbiamo stare

Ci risiamo. Come la Chiesa faceva con l’Indice dei libri da pubblicare, come i fascismi e i regimi totalitari han fatto nel ‘900 impedendo la libera circolazione delle idee, come da sempre il Potere cerca di fare riducendo al silenzio non solo la libera espressione dei Cittadini, ma anche il loro diritto universale di accesso all’informazione, ecco un altro tentativo di chiuderci la bocca e le orecchie.
Zitti e ignoranti, non solo non possiamo reagire, ma nemmeno sappiamo di poter reagire: qual miglior garanzia per chi comanda di non trovarsi qualcuno che mette i bastoni tra le ruote?

Ormai da molti anni, da quando è emersa la sua valenza sociopolitica, la rete internet è soggetta a tentativi di controllo “dall’alto” e a proposte di legiferazioni che cercano di limitare le potenzialità di comunicazione offerte dal web a tutti i cittadini.
Motivi tecnici (l’assoluta neutralità dell’infrastruttura della Rete rispetto ai contenuti pubblicati, per cui le mail del Presidente del Consiglio non viaggiano più veloci di quelle che spedisco io) e motivi etici (l’assoluta importanza della condivisione della Conoscenza tra le comunità locali e planetarie) garantiscono su web la libertà di espressione di ognuno di noi, fermo restando che i reati esistenti di diffamazione e di calunnia nei confronti di altre persone già ora permettono ai magistrati di inquisire chi ecceda nelle proprie invettive o chi pubblichi illazioni non comprovate dai fatti, senza bisogno di ricorrere a specifiche “leggi per internet”, che guarda caso finiscono sempre per limitare le nostre libertà personali.

Qualche anno fa provarono a far tacere i blog, equiparandoli alla stampa periodica editoriale, cosa che evidentemente non sono, prescrivendo che per ogni sito web di informazione fosse indicato un direttore responsabile, ovvero un giornalista iscritto all’albo. Non funzionò.
Ma il web si è evoluto, quello che si poteva fare con il testo scritto oggi si può fare direttamente producendo e pubblicando in proprio contenuti di tipo audiovideo, da trasmettere liberamente.
Questo è quanto cerca oggi di regolamentare il decreto Romani, dove tra diritto d’autore e definizioni di broadcasting si indica come “i servizi, anche veicolati mediante siti internet, che comportano la fornitura o la messa a disposizione di immagini animate, sonore o non, nei quali il contenuto audiovisivo non abbia carattere meramente incidentale” debbano essere sottoposti a controllo governativo.
Significa che non possiamo più pubblicare liberamente documentazione video di tipo giornalistico, non possiamo fare più videostreaming inventandoci una nostra webTV (tecnicamente cosa ormai facile da realizzare, utilizzando semplicemente un cellulare connesso alla Rete), le piattaforme pubbliche tipo Youtube potrebbero vedersi oscurate per via di un video incriminato.

Dietro le limitazioni della libertà di espressione personale, si agitano ovviamente anche grossi interessi economici, quelli relativi alla battaglia in corso (il caso Mediaset-Youtube, a esempio) tra l’industria tradizionale degli audiovisivi e le nuove forme di pubblicazione disintermediata permessa dalla rete Internet.

Vi rimando per un’analisi tecnica del decreto Romani all’articolo di Elvira Berlingeri segnalato anche da Vittorio Zambardino su repubblica.it, nonché all’Osservatorio sulle famigerate “leggi di internet” disponibile presso Apogeonline.

In italia c’è pieno di negri

Escludo dal ragionamento gli psicotici, ma per il resto dell’umanità credo fermamente l’ignoranza sia la radice del Male.
Secondo me, tutti sanno di non sapere, ma qui l’umanità si divide in due categorie, quelli che dignitosamente dinanzi ad un argomento sconosciuto tacciono e cercano di imparare, e quelli che timorosi di perdere la faccia, profondamente insicuri di sé, irrigidiscono le proprie posizioni e magari strillano per avere ragione con la forza.
Questo è il peggio del peggio: l’arroganza dell’ignoranza.

Se credo di aver ragione io posso spiegarti perché credo di aver ragione, fondando il mio ragionamento su fatti pubblici documentati di cui sono a conoscenza e posso mostrarti. Tu, arrogante ignorante, non puoi farlo.
Il dialogo si ferma, perché non possiamo opporre una posizione pragmatica a una ideologica.

Da quell’ammasso informe e autocontraddittorio costituito dalle informazioni che passano dentro i media e nelle discussioni con la propria cerchia di conoscenti, ciascuno di noi poi distilla i ragionamenti e i punti di vista che maggiormente confermano la sua visione del mondo. Tranquilli, lo facciamo tutti. Poi il buon senso e la storia stessa delle idee, visto che sono andato a guardare se qualcuno in passato non si sia già fatto le mie domande e abbia compiuto i miei stessi errori, mi suggeriscono di mantenere uno sguardo critico, di tenere vivo il dubbio sulle mie conoscenze e sui modi idiosincratici del mio stesso apprendere, ché spesso siamo bravissimi a farci lo sgambetto da soli.
Quindi il mio comportamento conoscitivo è da molto tempo orientato a cercare di ottenere il maggior numero di informazioni a favore e contro un determinato argomento, per aumentare le probabilità che il mio giudizio sui fatti sia appunto concreto e circostanziato.
Sospendo il giudizio, indago, formulo un’ipotesi che mantengo valida fino a prova contraria. Su, tutti abbiam visto Sherlock Holmes o il Dr.House, o sentito parlare del metodo scientifico.

Il problema è essere sufficientemente onesti con sé stessi da accogliere nel proprio ragionamento anche ciò che mi contraddice, e spesso non è nemmeno questione di onestà, perché la selezione delle informazioni praticata dal mio guardare il mondo avviene senza che io ne sia consapevole.
Ma di certo l’arroganza di voler aver ragione offusca anche il più limpido degli sguardi.
Per questo dicevo di sorvegliare sé stessi, e tenere sempre in fibrillazione proprio le cose che diamo per scontate, quelle che passano in automatico come postulati indiscussi dei nostri ragionamenti.
Questo sembra facile, specie se tra numerosi pilastri che sostengono la nostra cultura personale (la nostra identità a nostri stessi occhi, tutte le cose che abbiamo pensato e pensiamo di noi stessi e del mondo) ce n’è uno che raccomanda di prestare attenzione proprio agli altri pilastri su cui edifichiamo il nostro personale edificio della conoscenza.
Se l’ignorante per definizione possiede una concezione parzialissima della realtà, con i famosi tre concetti in croce che abitano comodamente nella sua testa, dover mettere in dubbio qualcosa di così fondante gli risulterà impossibile, perché è come togliere una gamba a uno sgabello, cade tutta la persona, e questo francamente è insopportabile.
E gli schemi culturali odierni prescrivono che sia meglio tener duro fino alla fine, lottare anche contro l’evidenza, piuttosto che ammettere di essersi sbagliati oppure pronunciare le parole “non ho capito”.

Caso concreto: la massa indifferenziata di nozioni e informazioni che riguardano la presenza di extracomunitari in italia, su cui poi leghisti e razzisti e in generale persone ignoranti fanno leva per costruire slogan trancianti con cui vincere le discussioni, orientare l’opinione pubblica, ottenere il consenso di quelli che preferiscono non farsi domande e che non vanno a controllare i fatti.

Pippo Civati ha messo online un pdf dal titolo “Mandiamoli a casa“, un prontuario di risposte contro il luoghi comuni e i pregiudizi, basato sui dati concreti della realtà sociale italiana.

Quanti sono gli extracomunitari, da dove vengono, il problema della religione, quanto lavorano, quanto delinquono.
Leggiamolo, e poi parliamone. Però basandoci sui fatti.

Naturismo mediatico

Vecchie suggestioni etimologiche.
Osceno vale ob-scena, ovvero qualcosa che si staglia contro e davanti alla scena teatrale, come quando Costanzo in televisione introduceva il suo show parlando per alcuni minuti davanti al sipario chiuso.
Quello non era ancora spettacolo, il sipario è l’interruttore che apre la quarta parete e la dimensione della rappresentazione.
E molti quando parlano di privacy hanno in mente questo teatro della socialità, fatto di pubblico (che è pubblico di sé stesso), di messa in scena e allestimento, di quinte pareti, di luci di riflettori, magari di registi.
Ma insomma, sappiamo quanto vi sia di pornografico nella Società dello Spettacolo, proprio nell’esibizione di sé al di fuori di ogni cornice, di ogni messa in scena.
Da cui le distinzioni famose di pornografia e erotismo a seconda della presenza di un contesto allestito nell’universo del discorso, e non semplice e crudo documentarismo di pratiche sessuali umane.
E chi giudica la libera espressione di sé oggi in questi media dove ognuno di noi può allestire molte messe in scena di sé deve smetterla di pensare a queste cose come a uno spettacolo pornografico, perché è sempre una rappresentazione della nostra identità. E rappresentazione non è né mimesi imitazione né simulazione, che ne son due casi particolari.
Forse una scarsa competenza nella lettura impedisce a certi di vedere le quinte decorate e i costumi che via via indossiamo a seconda del personaggio che vogliamo interpretare, ma sempre meno avremo paura di dare visibilità ai lati della nostra personalità, quelli professionali e quelli ludici, quelli etici e quelli affettivamente connotati.
Una volta chi voleva poi fare l’eremita si sottraeva al mondo, confrontandosi con il deserto per riacquistare chiarezza nella visione della propria vita, visto che un contesto di privazione ti obbliga a leggere te stesso, sei in un posto dove sei indifferente all’ambiente, ovvero dove l’ambiente non agisce su di te, non si occupa di te, dove potresti non esserci ed è uguale.
Se oggi vado in piazza, espongo liberamente la ma faccia alla collettività in luoghi sociali.
Le espressioni del viso, le parole che dico, i gesti che faccio sono percepiti da altre persone, e se urlo “governoladro” in una manifestazione non si dà il caso che questo non sia avvenuto, e tutti quelli che mi han visto possono testimoniare.
Chiaramente, se sono adulto e voto alle elezioni e ho i miei diritti di cittadino, sono tenuto a sapere cosa posso e non posso fare in relazione al bene pubblico e agli altri, e consapevole di certe leggi che prescivono reati (cose che nessuno ci insegna bene, neanche per sommi capi, a Scuola) posso prefigurarmi gli effetti dei miei comportamenti, e regolare di conseguenza la mia idea di etica, e il mio fare.
Quindi: prendiamo per buono il fatto che una persona che si espone in pubblico è consapevole di essere in pubblico, e sorveglia il proprio fare (secondo consapevolezza) adeguandolo a certi codici comportamentali.

Ecco, una ripresa audivideo di una persona in piazza è libera di circolare ovunque, secondo me, al di là del beneplacito del soggetto ripreso, perché è lui che è andato in piazza.
E comesopra presumo sia in possesso delle sue facoltà, è un cittadino libero che può esprimere il suo pensiero e nessuno può impedirglielo.
Se dice qualcosa di illegale, ci sono le leggi.
Se usando la sua immagine, gli si fa dire dentro un media, cioè dentro una rappresentazione, qualcosa che può ledere la sua dignità professionale e di persona, ci sono leggi per procedere.
Se mi fanno una foto in piazza e poi la mettono sui cartelloni pubblicitari per reclamizzare un lassativo, potrei arrabbiarmi, anche se poi dipende da quanti soldi mi darebbero una volta io scoprissi il fatto per non denunciarli per appropriazione di identità. O gli faccio lavare per bene il fango che han gettato sulla mia persona, se questo è un fatto fattualmente contestabile.

E così, ogni nostro apparire in pubblico è cosa pubblica, di tutti.
Comprese televisioni e Facebook, articoli sul blog o battute su un forum, le cose che guardacaso pubblichiamo.
Anche le immagini prese dalle webcam delle banche o del Comune sono pubbliche, quello è suolo pubblico e quello sono io che passeggio, per questo già dicevo che le webcam cittadine devono essere pubblicamente raggiungibili su apposita pagina web istituzionale, cioè di tutti.
E io da casa posso prendere per dire quelle immagini pubbliche, e usarle dentro un documentario che sto facendo e usarle anche per fini commerciali miei, perché andando in piazza io ho firmato la miglior liberatoria di tutte, quella di espormi personalmente e consapevolmente alla socialità.
Se qualcuno chiama un avvocato, si faccia pure un processo, ma per eventuale diffamazione, non per aver utilizzato immagini pubbliche.

Dipende da te, cittadino. E speriamo che si arrivi presto a parlare ufficialmente a scuola di Educazione alla Cittadinanza digitale, perché di questo stiamo parlando, quando ragioniamo di privacy e di copyright e di lifestreaming.
Dipende da te stabilire quanto far conoscere della tua vita online, quante parolacce usare quando parli male del governo in piazza o su Facebook, quante tracce lasci nel tuo vagare sui territori fisici o digitali. Poi quello che hai fatto è pubblico, perché lo hai fatto in luogo pubblico, e tutti sono liberi di commentare quello che vedono accadere.

Pubblicate pure il vostro numero di cellulare in Rete, rendete pubbliche su Flickr le gallerie in cui siete in panciolle in spiaggia con un drink in mano oltre a quelle in cui parlate in giacca e cravatta davanti a una platea, siate fieri del vostro secondo blog (attualmente aperto con pseudonimo) dedicato all’uncinetto o ai fenomeni paranormali e riconducetelo alla vostra identità ufficiale, oppure giocate liberamente con i ruoli e con gli alias, e mettete in scena i vari personaggi che vi sentite di essere.
Fatevi carico di responsabilità, ormai sapete di essere in pubblico.

Sarete giudicati per il vostro stile di personalità, per le parole con cui abitate il mondo, per la vostra capacità di costruire dei contesti in cui il vostro messaggio possa risaltare, per l’abilità con cui riuscirete a mettere narrativamente in scena la vostra vita, e con capacità erotica.
E questo, in quanto rappresentazione consapevole di sé in luogo pubblico, non potrà mai essere osceno.
Facciamo un esempio? Però se non volete vedere copritevi gli occhi come quelli di Star Trek.

Nella foto qui in parte (dove sono presenti genitali, cliccate consapevolmente) cosa volete mai recriminare alle fanciulle che con mille espressioni diverse si divertono in discoteca? Quella foto è pubblica, è un fatto accaduto, e le ragazze erano tutte consapevoli di cosa stava succedendo e di quale significato avrebbe avuto presso l’opinione pubblica la pubblicazione di una fotografia che le ritraeva in quel contesto. Voi come giudicate quelle ragazze?

Il problema vero è che se dovessi assumere come impiegata una di quelle ragazze, il venire a conoscenza di questa foto non pregiudicherebbe poi molto la mia valutazione sulla sua capacità lavorativa. Se fosse un festino di ragazzi con una spogliarellista, per dire, già il mio giudizio sarebbe diverso, e questo vuol dire che ho a che fare con stereotipi di percezione della socialità, moralismi.
Perché una visione puritana della vita mi deve portare a distinguere morbosamente tra privato e pubblico, instillando in me ossessioni e voyerismi, giudizi morali legati all’esibizionismo di sé? Perché devo vivere in un mondo che vuole nascondere tutto, per poi essere attratto dalle cose che non si devono vedere? La vogliamo smettere con questo volo carpiato, che intorcola il desiderio? La vogliamo smettere con l’ipocrisia dei sepolcri imbiancati?
La dialettica del diritto all’anonimato, del mio non far sapere agli altri cosa faccio, contrapposta alla patina di rispettabilità che pretendo veder vedere riconosciuta dagli altri nella visibiltà della mia faccia pubblica, non può reggere ancora a lungo, nella Società dello Spettacolo ora connessa.
Sono tutte messe in scene antiquate, create dal perbenismo borghese dell’Ottocento che cercava il suo stile tra proletari e nobili, tutte cose che non sono più adeguate alla modernità.
Non riescono più a suggerire il giusto contesto interpretativo per il messaggio che intendiamo lanciare di noi stessi, la nostra rappresentazione di noi stessi nei moltiplicati luoghi sociali.
E noi stessi non possiamo più padroneggiare le forme del nostro essere percepiti: se vent’anni fa mi fotografavano mentre entravo in un sexyshop, avrei potuto sempre corrompere il giornalista, oggi se mi filmano dieci telefonini e mettono su YouTube cosa volete che dica?

Il fatto che i parlamentari siano tutti vestiti uguali, per dire, in giacca e cravatta, indistinguibili, mi è inconcepibile.
Prenderne uno col maglione fa già fotografia meritevole di valorizzazione sulle news. Quanti lati hanno, i politici, due? Bidimesionali, nella loro Flatlandia. E prendo i politici così per dire, mi riferisco a tutti quelli che non si fanno domande.
Ci sono personaggi e situazioni che attraversano perpendicolarmente il loro piano di realtà e loro neanche se ne accorgono. Persone vestite in altro modo, con altri colori, con altri pensieri e altre esperienze di vita. E a cui simili dialettiche svelamento/rivelamento soggiacenti alla nostra concezione attuale della privacy risultano estranee, avendo ben differentemente impostato la gestione della propria immagine pubblica, secondo magari anche altri cardini morali. Ecco perché parlare di naturismo al Tg è qualcosa che va sempre un po’ ammantato di pruderie.

Saremo tutti in pubblico, quando saremo in pubblico, molto più di adesso. Una volta su una piazza c’erano tre cameramen con le tv istituzionali, adesso ci sono migliaia di telefonini. Anche molto di quello che era privato fino a ieri può oggi facilmente esser reso pubblico, da me stesso o da altri.
Comportati sapendo che la tua immagine può viaggiare ovunque, e tocca a te starci attento.
Ma quello che è sicuro è che le forme attuali di tutela della privacy cambieranno profondamente, sotto la spinta di questi cambiamenti tecnosociali.

Antropologia e educazione per l’Information Overload

Dice una pagina autorevole in inglese segnalata da Giuseppe Granieri che il problema dell’information overload in realtà va almeno un po’ rivalutato, nel suo porsi stesso.

Infatti, le giaculatorie di filosofi e pensatori che si lamentano della progressiva scarsità di attenzione delle persone esistono dal Cinquecento con il diffondersi dei libri, Diderot in seguito si preoccupava che il numero dei libri è destinato a salire e quindi diventerà per noi difficile (!) apprendere dai troppi libri e bisognerà inventarsi qualcosa, ogni tanto un guru a noi contemporaneo fa notare pensosamente come ci siano sempre più informazioni, sempre più veloci, e sempre minore sia la nostra capacità di attenzione.

Ma questa affermazione contiene una sua tutta sua logica peculiare, che la fa funzionare e in grado di essere giudicanta coerente e di buon senso.
Ci sono degli impliciti, che se indagati non si rivelano poi così lampanti, dice l’autore del pezzo, Stowe Boyd.
A esempio, la cornice di queste argomentazioni presuppone un “c’era una volta, molti anni fa” un mondo in cui l’attenzine non era scarsa, in cuii non soffrivamo di troppa informazione, e tutti avevamo un sacco di tempo per ragionare sul mondo, su qual era il nostro posto, e magari anche prendere decisioni più sagge e ragionate.
Insomma, un tipico meccanismo da “fuga nell’Età dell’Oro”. Un sacco di gente e di gruppi sociali si inventano il mito dell’età dell’Oro, perché narrativamente poi torna molto comodo impostare questa Età dell’Oro in modo che poi venga facile capire dove ci troviamo adesso. E se quella là era l’Età dell’Oro, questa qui è sicuramente qualcosa di peggiore, dove la civiltà è decaduta, i costumi degli antichi sono andati perduti, e le innovazioni moderne minacciano di distruggere tutto ciò che c’era di buono e giusto. Già questa è una credenza poco razionale.

Poi, l’altro classico argomento è che la specie umana non ha proprio la capacità di padroneggiare tutta la massa smisurata di informazioni che si riversa addosso a ogni individuo con la forza di un torrente, nella liquidissima società odierna. L’uomo non è cognitivamente adeguato a fronteggiare tutti questi stimoli.
Ma in realtà cosa ne sappiamo noi nel cervello? delle sue potezialità di attenzione e di selezione del flusso? E non dimentichiamoci di cosa avviene su scala generazionale, e basta guardare i ragazzi e i bambini per vedere come abbiano già diverse nuove competenze (nuove strategie) per gestire i rapidi e multipli flussi informativi veicolati da nuovi strumenti – videocamere e videoregistratori, videogames, web, cellulari propri della loro generazione, ma non di quella adulta. E anche gli adulti di oggi sono a loro volta cognitivamente diversi dai loro genitori, essendo a differenza di loro cresciuti immersi nel flusso televisivo commerciale, molto più rapido.

Pensiamoci: come specie ci siamo sviluppati in un mondo naturale e antropico (manufatti tecnologici) che offre un infinito ammontare di stimoli e informazioni; abbiamo sviluppato utensili concreti e concettuali – la scrittura, la matematica, le mappe e il disegno, il metodo scientifico – per capire meglio il mondo, sviluppando insieme le nostre capacità emotive e cognitive di comprensione; siamo oramai dentro un mondo postindustriale, dove abbiamo creato dei sistemi di supporto all’informazione su scala planetaria in tempo reale, dove il web è diventato tra i più importanti artefatti umani, in quanto sostegno alla comunicazione e alla relazione interpesonale; stiamo costruendo in questo stesso momento artefatti e strumenti ancora più complessi, come la realtà aumentata, Luoghi sociali di massa, dispositivi di connessione mobile ubiquitarii, e al contempo ci inventiamo le nuove norme sociali e le struttre che ci assistano in queste nuove attività umane.

Quindi, non si può in realtà “rispondere” a quelli che parlano di information overload, se non dicendo loro che non possiamo rispondere a qualcosa dentro cui siamo coinvolti personalmente fino al collo, nell’inventarci quotidianamente nuovi usi sociali e nuove possibilità di espressione personale proprio con gli strumenti stessi, che conosciamo forse da cinque anni (web20, videostreaming, socialnetwork): stiamo sperimentando.
E le nuove tecnologie, il web o la scrittura o la stampa o l’invenzione dei soldi e della medicina scientifica sono innanzitutto ponti che ci portano verso qualcosa di nuovo, verso cui siamo socialmente evoluti o di cui perlomeno abbiamo sentito la necessità e operato per rimediare alla mancanza, e non sono delle ruspe con cui demolire il passato.

Non vi è nessun passato dorato da cui siamo decaduti, ed è improbabile che nel nostro futuro raggiungeremo i limiti umani che ci impediscono di cogliere meglio e di comprendere più in profondità il mondo in cui viviamo.
Quello che da sempre l’umanità sta facendo è estendere costantemente la cultura affinché ci aiuti a riformulare il modo in cui percepiamo il mondo e il nostro posto in esso.

Questo il ragionamento espresso in quell’articolo.
Sul breve periodo, ci saranno burrasche notevoli. E’ come un movimento tettonico, dove ampie aree continentali collidono, e si creano catene rocciose. Sto pensando al destino degli organi di informazione tradizionali, ai supporti che veicolano queste ultima (giornali, libri, video), ma anche alle mareggiate subite dall’idea stessa di privacy e di anonimato, di competenze per la gestione cognitiva e affettiva del proprio abitare in un Mondo connesso, un pianeta su cui dall’invenzione del web in qua è possibile comunicare multimedialmente il proprio pensiero a tutti in tutto il mondo, in tempo reale, e l’umanità può ragionare tutta insieme come se fosse un sol’uomo (o donna), dove democraticamente ognuno di noi volendo interviene liberamente nel dibattico pubblico.
Le vecchie logiche non “tengono”, la vecchia crosta raffreddata di consuetudini e costumi obsoleti in quanto non più adeguati, codificati poi in leggi e senso comune non può sostenere un magma che da sotto ribolle, fatto di nuovo ritmo e accresciuta potenza mediatica e smisurato numero di partecipanti. Si proverà un po’ a irrigidire le difese, ma non servirà. Ci han provato l’industria musicale con gli mp3 di Napster, ci han provato i mercati del cinema, ci sta sbattendo contro il mondo della carta stampata oggi, semplicemente all’apparire diffuso di supporti mobili con uno schermo decente, iphone compreso. Ci stanno avendo a che fare la Scuola e le Istituzioni tutte con questo “cambiamento necessario”, e non si accorgono che stanno cambiando.

Quindi: cercare di comprendere a fondo le dinamiche di quanto sta avvenendo, tenendo sempre presenti il carattere ipoteticissimo attuale delle nostre interpretazioni a causa della rapidità dei cambiamenti attuali, e fiducia nella conversazione, perché con molta probabilità molti che ragionano tutti insieme vedono meglio il problema rispetto a una persona sola.

E poi: l’eterno unico strumento per migliorare l’ambiente di vita futuro, visto che è nel futuro che vogliamo agire, ovvero l’Educazione.
Una Educazione che sappia anche raccontare innanzitutto come funzionano le cose di oggi, le autostrade e i bancomat e le Istituzioni e le filiere economiche concrete di un territorio, per meglio lasciar libere le nuove generazioni di vivere nel loro mondo, dove non vincolati possano cercare a loro volta di seguire il loro ideale di Benessere, senza essere costretti a vivere male a cause di nostre scelte sbagliate, magari radicali e indelebili.
Se così faremo, quando i nostri figli si guarderanno indietro ci giudicheranno per i nostri valori e pratiche di possibilistica apertura al nuovo, cioè al mondo che loro abiteranno, piuttosto che per nostre stolte scelte di un pensiero unico e troppo schematico in cui loro un domani si troveranno impacciati a doversi dibattere per liberarsene.

Dameleneide atto terzo (o quarto, boh)

Che poi dici: perché non posso stare tranquillo, anziché vedermi passare davanti parole insulse? Oppure: la gente ti giudica dai nemici che hai. O anche: non ti curar di loro, ma guarda e passa (non ci riesco, c’è un limite). E poi: occhio a non metterla sul personale (certo che no, qui si è educati alla dialettica onorevole, si attaccano gli argomenti e non la persona. Ma se ti incaponisci, cosa devo pensare di te?)

Insomma, mi tocca riprendere in mano la Dameleneide e seguitare a raccontare senz’indugio delle gloriose gesta del personaggio pubblico Daniele Damele (già Presidente del Corecom regionale FVG, dirigente funzionario alla Provincia di Udine, docente universitario, giornalista e anchor-man televisivo sulla tv locale) di cui purtroppo già fui costretto a commentare in passato le miopi o disinformate proposte per una legiferazione alquanto censoria sulle cose di Internet, oppure le sue indicazioni fumose sulla sicurezza in rete per i minori da ottenere con filtri software alla navigazione, promossi questi ultimi da un prete piuttosto ambiguo. Vi rimando a questo mio post e a questo articolo pubblicato su Bora.la, per le puntate recenti della Dameleneide.
Io passerei volentieri i miei sabati pomeriggio a leggere qualcosuccia sulle correnti filosofiche neoplatoniche cabalistiche e alchemiche di Pico, Francesco Giorgi da Venezia e di Cornelio Agrippa, e del loro influsso sulla letteratura inglese pre e post scespiriana, ma poi càpitano cose a cui non so resistere, come un’amatriciana ben fatta.

Cos’avrà combinato questa volta, il nostro eroe, che ormai nei miei pensieri pongo narrativamente tra DonChisciotte e Bertoldo? Come al solito, coglie una notizia di cronaca e ci ricama su i suoi ragionamenti riguardo l’assoluta impellente necessità di normare i comportamenti digitali di metà degli italiani con delle nuove leggi, tagliate specificatamente per questi nuovi ambienti online dove ci sono le bande sovversive e il Male alligna nell’ombra.
Ecco qui il collegamento per il suo articolo “Occorre legiferare sul web” (qui lo screenshot, per sicurezza), e stavolta mi tocca proprio linkarlo. Leggetelo.
A molti di voi potrebbe in seguito venire in mente un ragionamento, e qui non c’entra molto avere competenza personale sugli ambienti digitali, è sufficiente avere del buon senso.
Infatti, perché mai dopo un articolo che mi racconta di come magistrati e polizia sono riusciti a ottenere una “vittoria” per alcune inchieste e denunce (i fatti Youtube-Mediaset e il caso PirateBay sono l’oggetto del contendere) Damele propugna nuove leggi?
Il suo articolo stesso dimostra che le leggi e le indicazioni del codice civile e penale per questi reati già ci sono, funzionano perfettamente, e le parti offese dei processi ottengono risultati a proprio favore.

Quindi Damele parla a vànvera, quello che gli preme è semplicemente sostenere le sue personalissime tesi al di là dell’evidenza (e si tratta di un giornalista che all’Università di Udine insegna Etica e Comunicazione, eh), foss’anche portando a loro sostegno argomentazioni e fatti che di per sé dicono proprio il contrario di ciò che lui vorrebbe farci credere.

Ma non è mica finita, cosa credete.
L’articolo che Damele ha firmato sul suo blog, non è farina del suo sacco.
Vedete, Internet è nata e cresciuta anche copiaincollando informazioni e opinioni, e non vi è niente di male in questo, purché secondo prassi scientifica o semplicemente per dignità venga riportato anche il nome dell’autore, e un link per poter accedere ai documenti originari.
Ma Damele firma come suo un articolo del Sole24ore di Giovanni Negri, dopo averlo copiato per il 95%. Non linka, non cita la fonte (e si tratta di un giornalista che all’Università di Udine insegna Etica e Comunicazione, eh).
Per aiutarvi nella spassosa analisi, vi ho preparato l‘articolo del nostro eroe paragonato con il testo originale a fronte, cliccate sull’immagine. In rosso, tutti i paragrafi uguali.

E pazienza, se nelle prime righe l’articolo originale dice “Una nuova legislazione del web per ora manca. E forse (…) non se ne sente neppure il bisogno perché la magistratura sta dimostrando di essere in grado di utilizzare le norme attuali per rispondere alle diverse sollecitazioni della cronaca”, Damele prende il tutto e senza avvedersi dello strafalcione trasforma i contenuti del pezzo di cronaca del Sole24ore in argomenti buoni per una delle sue malfondate perorazioni, concludendo come al solito che adesso tocca al Parlamento fare la sua parte.
E giù a lamentarsi dei reati di internet, tipo la diffamazione, quando in questo stesso momento non so se tutta questa sua manovra sia da considerarsi plagio o falso letterario o cos’altro.

Ultima annotazione di colore, prima di lasciarvi ridere liberamente.
Guardate come nelle prime righe dell’articolo originale la frase “[la sentenza] ammette che il sito “incriminato” possa essere sequestrato” diventi ora “ammette che il sito “incriminato” debba essere sequestrato“.
C’è tutto un mondo in questa trasformazione del verbo modale, c’è tutto un richiamo a un differente universo valoriale all’interno del racconto.
Tra il potere e il dovere, c’è di mezzo il volere di Damele, a quanto pare.

Due note sul diario

L’ultima cattiva notizia del 2009 è che con il Milleproroghe hanno allungato per un altro anno il decreto Pisanu, quello del wifi inchiavardato che abbiamo in italia. Certo, è imbarazzante scegliere una cattiva notizia nel mucchio, e sì, c’è gente che lavora il 31 dicembre in Parlamento.

Ne parlammo in molti una cinquantina di giorni fa, Gilioli pubblicandola sull’Espresso ne diede investitura mainstream, di quella Carta per il libero wifi firmata da cento persone, tra cui me medesimo. Non se ne fa nulla, per ora. Figuriamoci.

Maistrello per primo ha dato notizia della proroga, e poi se volete cercate altri commenti da Scorza, da DeBiase, oppure in giro sulle news.

La prima buona notizia del 2010 invece non è una notizia, è un buon umore. Mi riferisco all’oramai canonico punto della situazione redatto da Giuseppe Granieri, su Apogeonline, dove l’autore prova a gettare uno sguardo in prospettiva su quello che potrebbe accadere in questo nuovo anno, sulla scorta di quello che abbiamo visto succedere nei dodici mesi appena trascorsi, tra Facebook, telefonini connessi e risvolti sociopolitici.
E l’articolo è simpatico, perché punta dritto alla delineazione degli evidenti cambiamenti sociali avvenuti in italia e nel mondo, nei massmedia e nei bar, riguardo i punti di non-ritorno raggiunti nell’opinione pubblica e nei discorsi popolari dalle cose della Rete, visto che ormai Internet nutre con le proprie tematiche tutta la conversazione di una nazione, infilandosi perfino nelle parole di chi il web non l’ha mai visto, come i novantenni in casa di riposo e i politici in Parlamento.

Granieri è ottimista, ma non è certo ingenuo. Segnala adeguatamente le magagne del 2009, ma poi con belle parole ci fa ben sperare per il 2010. E mi ha messo di buon umore, appunto, nel confidare in un Mondo 2.0, connesso e sociale, maggiore di un Mondo 1.0, un po’ come dicevo qua sotto, ma meglio.

Il discorso di Capodanno 2010

Il Discorso di Capodanno 2010 del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
Giusto per segnalare quel “giovani”, in un discorso necessariamente istituzionale, eppur forse meno retoricamente ingessato e più concreto rispetto ai precedenti.

Qui sotto, il Discorso per il 2009.


Metto anche quello del 2008, per la bellezza di fare comparazioni (prendete il solito granello di sale con voi).

2010 – L’anno del contatto

Abbiate fiducia, e occhi aperti.

Miglioreranno le tecnologie relazionali, dentro questi ambienti online e nella portabilità personale di tracce di affettività interpesonale, e proprio grazie a questo ci incontreremo di più, a bere e a mangiare e a ballare e a chiacchierare e a imparare gli uni dagli altri.

Negli ultimi dieci anni il web è diventato per prove ed errori quello che si riprometteva di essere fin dalla sua nascita, un Luogo esplicitamente sociale.
Fatti gli ambienti sociali, bisogna fare la socialità.

Molti devono imparare a dialogare, molti devono ancora comprendere che conversare significa donare senza impoverirsi, molti non si sono accorti di niente e pensano di vivere ancora nell’altro secolo, e spero che questi ultimi vadano serenamente quanto velocemente in pensione, per godersi un mondo che non capiscono.
La frase più comune del prossimo decennio sarà “Eh, ai miei tempi non era così che funzionavano le cose”, ed è importante appunto che questi vecchi dinosauri non abbiano nessun potere per imporre nuovamente agli individui e alle collettività rituali e comportamenti seppelliti dai recenti cambiamenti sociali.

Mi auguro che la Rete arrivi dappertutto rapidamente, in ogni angolo del pianeta, perché lo scambio di opinioni e la libertà di espressione sono l’arma migliore contro il fanatismo e l’ignoranza, e chi vuole il pensiero unico potrà controllare i flussi televisivi – e i giornalisti tornino a fare seriamente il loro mestiere – ma non potrà fermare le voci che innumerevoli si sentono risuonare ovunque.
E cambierà tutto, qui in giro. Giornali, scuole, industrie, meccanismi politici, e la forma delle istituzioni, e gli ammenicoli che abbiamo per le tasche o in giro per casa, le forme economiche, l’agricoltura, il nostro corpo bionico, e tutto cambierà così velocemente che il libro di fantascienza che stiamo leggendo sarà sorpassato mentre lo leggiamo. E non vedo l’ora.

Per me, chiedo la forza e la passione di continuare a suonare la batteria e tutte le altre cosette, e non importa nemmeno poi fare musica, ma solo suonare con altri e per altri, sentendo scorrere emozioni e sintonia. Risuonare il mondo, e raccontarlo in molti linguaggi diversi.

We didn’t start the fire

Antefatto.
Pranzo di Natale in famiglia, qualche giorno fa.
Tipici discorsi da pranzo di Natale, infatti mia madre si informa presso noi figli di quanta cocaina giri in centro a Udine, perché ha letto su qualche rivista che ormai è più facile procurarsi la bianca che il fumo. Non è che fosse preoccupata per noi figli, eh, ormai c’abbiamo tutti una certa età e siamo tranquilli a vista d’occhio (io faccio ancora il ribelle, ma solo perché son tenuto per contratto in quanto primogenito). E’ che veramente stava conducendo un suo sondaggio personale sulla realtà sociale giovanile odierna. Le abbiam detto le solite cose, che si trova nei bar e chiedendo agli amici degli amici, abbiam fatto balenare immagini di festicciole con avvocati e dentisti e donnine ridanciane, ragazzotti dei quartieri che arrivano in centro tutti in tiro, operai e cuochi e autisti di autobus che devono tenersi un po’ su quando rimangono da soli come cani nelle birrerie con la serranda abbassata delle quattro di notte.
Poi mia sorella butta il discorso sulle pastiglie, a sua volta dice di aver letto un articoletto su Ibiza (nel 2009, neh) e di tutta questa anfetamina che circola nelle discoteche. Stavo per raccontare loro la meravigliosa storia dei Fratelli Righeira di venticinque anni fa, quando mio padre, uomo del ’35 nonché lontano anni luce da sostanze psicotrope che non siano due whisketti ogni tanto, ci informa sobriamente che anche lui prendeva Metedrina, durante un’estate di fine anni Cinquanta, quando faceva l’impiegato presso una agenzia turistica a Lignano Sabbiadoro. Mio padre prendeva metanfetamina, capite; Metedrina era il nome commerciale del farmaco. Faceva il bullo con il ciuffo e i vestiti su misura comprati con i primi stipendi (provo a raffigurarmelo, sono tutte immagini in bianco e nero, come nelle sue foto dell’epoca), noleggiava una spider con altri quattro amici vitelloni e andava a ballare nelle rotonde sul mare, fino alle cinque di mattina. Poi dormiva un paio d’ore, si alzava presumibilmente gnogno coi postumi, passava in farmacia a comprare un po’ di metanfetamina e quindi andava in ufficio dove, parole sue, era lucidissimo e sfoggiava una buona parlantina con i clienti, chi l’avrebbe mai detto.
Perché simili farmaci erano legali e in libera vendita in Italia fino a metà degli anni Settanta in quanto semplici stimolanti, e fino a metà anni ’80 era facile procurarsi anfetamina venduta come anoressizzante (come Vasco rossi con le Plegine), era sufficiente avere una zia un po’ sovrappeso e spedirla a farsi fare opportuna ricetta.

Ante-antefatto
Nei primi/metà anni Ottanta, da ragazzo, dopo il blues e il rocchettone dei ’70 e David Bowie e la new-wave, per un po’ mi tuffai negli anni Cinquanta, per vedere cos’era il be-bop in musica e il beat in letteratura. Mia madre infatti chissà perché mi teneva nascosti i libri di Harold Robbins, ma mi passava “On the Road” di Kerouak e perfino Henry Miller dei Tropici. D’altronde sua madre, la mia nonna danubiana sposata con un siciliano, a sua volta le nascondeva “I peccatori di Peyton Place” ma le permetteva di leggere “L’amante di Lady Chatterley” e il Moravia peccaminoso. Mah.
Uno di quei libri per me fondamentali della beat generation, pubblicato più tardi ma ambientato a metà anni ’50, è “Ultima fermata: Brooklin” di Hubert Selby Jr.
La Bibbia dei miei diciassette anni. Non l’avete letto? Leggetelo. E’ turpe, pulp, cinico, bastardissimo, violento, vero, e scritto in un modo unico, un flusso di coscienza in un discorso indiretto, ma non c’è nessuna velleità letteraria (l’artificio, se c’è, è ben nascosto), solo immagini e narrazione in presa diretta sulla realtà giovanile dei bassifondi di NewYork di quegli anni. Stupri, troie, risse, vagabondare per i bar, tragedie, droga. Un libro di culto, bannato in Italia e in molte parti del mondo per anni.
E la droga costante in quel libro (l’eroina del be-bop compare a tratti, roba da ricchi) è costituita da pastiglie di efedrina, benzedrina, metedrina. E’ sempre la stessa sostanza, al di là dei nomi commerciali, anfetamina dura e veloce, che ti cambia le giornate e le prospettive, i giudizi sulle persone e insomma ti illude benissimo nel farti galleggiare sopra la merda.
Guardate le foto dei Beatles quando avevano le giacche di cuoio, ad Amburgo nel 1960. I Beatles non hanno mai fumato erba fino al 1964, quando Bob Dylan rollò una canna per loro, in un albergo. Fino ad allora, solo alcool e anfetamine. Dopo allora, tutta un’altra musica.
Le anfetamine hanno creato tutta l’energia corporea alla base della rivoluzione giovanile e quindi sociale dei fine Cinquanta/primi Sessanta, tra il rock’n’roll e i tiratissimi Mods londinesi delle Purple Heart. Poi sostanze più cerebrali come l’erba e l’acido avrebbero dato le direzione da far prendere ai pensieri, rallentando e introvertendo le generazioni fino al punk. Degli ultimi trent’anni parliamo un’altra volta.

Conclusioni
Ecco, pensavo che quei due universi di realtà e di discorso, la vita vissuta di mio padre e di mia madre e le storie di quello che andavo scoprendo nelle letture di quei miei anni giovanili non potessero avere punti di contatto. E invece.
Certo lo squallore delle lamiere e dei marciapiedi lerci di Brooklin del ’57 dava sicuramente un giro di pensieri e di emozioni diverso a quei ragazzi di quei libri rispetto al paesaggio incontaminato di un Friuli negli stessi anni ancora pre-industriale, verdissimo e contadino, con le strade bianche. Ma il ritmo dell’esistenza era lo stesso, l’ansia giovanile per la velocità non conosce distanze di tempo e luogo, e perfino le droghe erano le stesse, pensa un po’.

Turning-point

Bene, siamo arrivati alle battaglie, quelle serie, ché di mezzo ora ci sono soldi veri e non giochetti per ragazzi. Il caso Napster scoppiò subito, perché il traffico di mp3 è tecnologicamente più semplice del trasferire video, non fosse altro per il diverso peso dei file, e perché riguardava un target preciso, le generazioni più giovani, ovvero il mercato musicale pop.
Ma quello era oldweb, dove era ancora importante il possesso “fisico” dell’oggetto culturale. Poi è venuto questo web qui, dove la fruizione e la produzione dei contenuti avviene direttamente online, e sono nate le piattaforme video.
Quelli che NON abitano in Rete, ovvero quelli che ci sono ma non vogliono rendersi conto dei diversi meccanismi e dei diversi presupposti culturali nativi e connaturati alla Rete stessa, hanno vinto in questi giorni delle battaglie, mostrando forse buona tattica ma certamente cattiva strategia.Mediaset ha vinto la causa contro Youtube, la quale dovrà rimuovere i contenuti televisivi caricati dagli utenti (soprattutto puntate del Grande Fratello, e capite come il cerchio si chiuda).
EMI GB ha avviato una causa legale contro Vimeo, una piattaforma video come Youtube, per far rimuovere i video di gente normale che canticchia le canzoni del momento, ovvero fa lip dubbing.

I grandi quotidiani italiani (vedi articolo su Repubblica) pagano dei giornalisti per scrivere delle riflessioni sui comportamenti mediatici degli adolescenti che gli adolescenti stessi avrebbero pudore di inserire nei loro temi scolastici, e questi articoli sono scritti sempre con lo stesso tono colorito, da pezzullo di colore e scandalismo da chiacchiere al bar, contro il quale cerchiamo da anni di lottare, consapevoli dei danni provocati nella pubblica opinione italiana da questo modo di fare giornalismo riguardo la comprensione, da metà anni Novanta, dei nuovi cambiamenti sociali indotti dalle nuove tecnologie (nuove, quella volta).

Giornalisti locali che sono anche funzionari pubblici suonano la grancassa della propaganda governativa pubblicando garruli sui loro blog – non linko niente, qui il pudore è il mio, oltre che ad altri ovvi motivi, ma il nome in questione lo trovate in qualche mio post dei giorni scorsi – delle argomentazioni alle quali per trovare aggettivi adeguati dovrei ricorrere ai sinonimi offerti dalla lingua italiana per significare “spazzatura” in tutte le sue accezioni, e ovviamente si tratta di sciocchezze (cose senza sale, che quindi marciranno rapidamente) relative alle recentissime notizie sull’imminente legiferazione su cosucce che Internet oggi permette a tutti, quali la libertà di espressione, senza la quale nessuna democrazia è possibile. Ah già, è proprio la democrazia a essere in gioco, un impaccio di cui disfarsi rapidamente, a giudicare dai comportamenti di chi ci governa. Quanta ignoranza, a essere ottimisti.
Ignoranza che va affrontata, come ho sempre cercato di fare qui e come continuerò a fare, puntualmente. Aspetto solo che Maroni e la Carlucci (bella coppia, vero?) partoriscano i loro decreti o quel che sarà.
Leggete Anna Masera sulla Stampa, per formarvi un’opinione su come il governo stia effettivamente cercando di controllare Internet. Vorrete mica che i cittadini nell’epoca della disintermediazione siano liberi di cercare le notizie dove gli aggrada maggiormente, magari frequentando siti di dubbia moralità? Anche per guardare il Grande Fratello, vi dicono loro come e dove dovete farlo.

Le città intelligenti

Le citta intelligenti – e un po’ “spione” – del futuro
di Federico Cella

Da circa un paio d’anni Ibm ci ha abituato a travestirsi da chiromante e fare previsioni sul nostro futuro. “Next Five in Five” è il nome del progetto – le cinque innovazioni per i prossimi cinque anni – che quest’anno Big Blue ha focalizzato su come si trasformeranno le città in cui viviamo. Dal miglioramento del sistema sanitario agli edifici intelligenti alle automobili a emissioni zero, tutti progetti affascinanti, in cui è ovviamente attiva la multinazionale americana.

Continua a leggere sul Corriere della Sera.

Guardarsi

… Però, il rimpatrio dell’antropologia non può fermarsi qui. In effetti, fatto il sacrificio dell’esotismo, l’etnologo ha perso quello che rendeva originali le sue ricerche rispetto a quelle disperse dei sociologi, degli economisti, degli psicologi sociali e degli storici.
Sotto il sole dei tropici l’antropologia non si accontenterebbe di studiare i margini delle altre culture. Anche se resta marginale per vocazione e per metodo, è comunque il loro centro che vuole ricostituire, il sistema di credenze, le tecnologie, le etnoscienze, i giochi di potere, le economie, insomma la totalità della loro esistenza.
Se ritorna al suo Paese si accontenta di studiare gli aspetti marginali della sua cultura, finisce col perdere tutti i vantaggi dell’antropologia, tanto faticosamente conquistati. […]
Un Marc Augé simmetrico studierebbe non solo qualche graffito sui muri delle stazioni del metrò, ma la rete socio-tecnica del metrò stesso, i suoi ingegneri e conducenti, i suoi dirigenti e i suoi utenti, lo Stato proprietario e gestore, e via discorrendo.
Molto semplicemente, continuerebbe a fare nel suo Pese quello che ha sempre fatto laggiù. Ritornando, gli etnologi non dovrebbero limitarsi alla periferia, altrimenti, restando asimmetrici, dimostrerebbero coraggio verso gli altri e timidezza nei propri confronti.
(Bruno Latour, Non siamo mai stati moderni. Saggio di antropologia simmetrica, Elèuthera, 1995, pp. 123)

Berlusclone #9

L’ultimo dubbio sollevato dai complottisti dietrologi ha fatto emergere in me prepotente la visione complessiva dell’intera questione, ha acclarato trentecinque anni e più di storia italiana dove come tutti sappiamo non solo i pezzi del puzzle non combaciano, ma ti accorgi che ogni singola tessera è a sua volta un puzzle.
Berlusconi è un clone.
Cioè, Berlusconi è molti cloni, avendo la CIA provveduto nel corso degli anni a sostituire via via l’ometto iniziale con personaggi versati nell’una o nell’altra materia. Certo, in Matrix ti connetti con lo spinotto a un software che ti passa tutto quel che ti serve sapere sul kungfu o sulle ricette di alta cucina francese a base di senape di Digione, ma la tecnologia non è ancora arrivata a quel punto, quindi per il momento, come si è peraltro sempre fatto, si sostituiscono le persone dando giusto loro una ritoccatina all’interfaccia. Cioè alla faccia.
Per fatti ancora ignoti, Berlusconi è stato scelto durante la seconda guerra mondiale quale bambino da clonare, colui che avrebbe costituito l’arma segreta degli americani per fronteggiare l’avanzata dei comunisti rossi in Occidente.
Ne han fatti una decina o forse più, di Berluschini, e li han tenuti lì in frigo a vari stadi di sviluppo, pronti a subentrare all’originale quando i tempi avessero richiesto un Berlusconi 2.0, poi il 3.0 e così via, e oggi siamo almeno arrivati al numero nove. Per distinguerli, i servizi segreti americani appellano differentemente il clone, cambiando la prima lettera del nome di battesimo del Nostro. Quindi, abbiamo avuto Ailvio, poi Bilvio, in seguito Cilvio, Dilvio e Eilvio. Il particolare sembra insignificante, ma lascia intuire la cura meticolosa e la maniacale organizzazione con cui negli anni è stata portata avanti la cosiddetta operazione S.I.L.V.I.O, ovvero la Super Intelligence Lifelong Vengeance Italian Operation.
Con altissima probabilità, il vero Berlusconi era quello che strimpellava sulle navi insieme a Confalonieri, quello della spider in giro per Milano, il paninaro del ’59.
Ma i tempi stringevano, arrivavano i turbolenti anni Sessanta, sarebbero nate le contestazioni giovanili, i movimenti operai, il sogno del boom economico italiano si sarebbe infranto, serviva un Berlusconi ferrato in cose di legge fin dalla laurea (secondo alcuni, già qui il vero Berlusconi sarebbe stato rimpiazzato con Ailvio, cresciuto con una educazione specifica in giurisprudenza), ed in seguito sicuramente entrò in gioco Bilvio, il clone imprenditore, quello con il fiuto degli affari che trova i soldi sugli alberi e inventa cittadine nuove di zecca, abilissimo in traffici finanziari.
Per la svolta mediatica dei fine Settanta è evidente ai più come sia stato convocato Cilvio, il terzo clone, quello cresciuto a letture forzate di McLuhan, Debord e Baudrillard, capace di comprendere il potere mediatico nella formazione e nel mantenimento del consenso delle masse, per stabilire sotto l’apparenza dell’innovazione sociale un piano politico conservatore, al fine di contrastare le balzane idee di lotta comunista che andavano prendendo eccessivamente piede in Italia. Eroina e TV han fatto finire l’epoca dei movimenti di piazza, come sappiamo, dove da una parte la mafia e dall’altra un clone eccellente quanto determinante, appunto Cilvio, erano in effetti entrambe realtà pilotate dagli americani, come la stessa loggia massonica P2 cui il clone prontamente aderì.
Cilvio aveva inoltre gusti sessuali più forti, era più intraprendente, più combattivo, pare a causa di una esposizione casuale quanto imprevista a fotografie di Little Tony e chansons e film francesi con Yves Montand durante la giovinezza in laboratorio: si innamora di una donna appariscente, e questo quasi compromette i delicati meccanismi di una pianificazione certosina… ma rapidamente tutto viene riportato nell’alveo della progettazione, cogliendo qualche anno dopo l’occasione di sostituire Cilvio con un quarto clone, quello preparato a puntino per fare i maneggi politici con i socialisti. Molto probabilmente l’acquisto del Milan e la famosa discesa su SanSiro con l’elicottero fu affidata ad un quinto clone, mentre dati sicuri trapelati da intercettazioni telefoniche di George Bush padre con il Gabibbo confermano l’ennesima sostituzione di quel Berlusconi con Filvio, il clone successivamente promotore di Forza Italia, nel corso dei primi mesi del 1993.
Negli ultimi anni le tracce si confondono, forse i tecnici di laboratorio americani, figli di quegli stessi inventori dei cloni negli anni Quaranta, non sono all’altezza della situazione, che sfugge loro di mano.
Filvio impersona quasi sicuramente sicuramente Berlusconi per tutti gli anni Novanta e i primi anni di questo secolo, mentre l’episodio della bandana nell’estate 2004 nasconde e rivela senza dubbio un’ulteriore sostituzione di clone. Entra in scena Gilvio, il quale però essendo stato tenuto in frigorifero per molti anni come embrione è effettivamente più giovane dell’ultimo clone: questo costringe i medici a operare su di lui delle operazioni chirurgico-estetiche di invecchiamento, a sostituirgli i capelli ancora tutti sani con camuffamenti atti a suggerire la giovinezza di un vecchio che si vuole giovane, ma dove nessuno deve sapere che si tratta veramente di un quarantaduenne.
Certo, le naturali pulsioni all’accoppiamento di un corpo ancora forte non possono essere trattenute, e Gilvio non può essere rimproverato per questo, tenendo conto che è stato allevato praticamente in solitudine per decenni, rincuorato solo da vallette del DriveIn misteriosamente scomparse nel corso degli anni Ottanta, ma in realtà rapite dalla CIA.
Pare chiaro a tutti, a questo punto, che sulla scorta delle insinuazioni di quei circoli complottisti e dietrologi cui più sopra facevo riferimento, l’occasione dell’ultimo grave attentato di piazza Duomo a Milano, quello della statuetta scagliata, non sia altro che l’abile mossa con cui coprire l’ulteriore scambio di persona. In quella macchina è entrato Gilvio, ma ne è uscito Hilvio.
Chissà per cosa l’han programmato, Hilvio, il Berlusclone #8.
Finora in tutto dovrebbero essere nove Berlusconi: a me vengono solo in mente i Beatles di Revolution #9, o forse i Clovers di Love Potion #9. Speriamo la seconda, delle due canzoni. L’amore vince sull’odio, ha detto Hilvio (la svolta mistica francescana? Ecco in cosa l’han programmato)

27 milioni di dubbi

L’articolo che trovate qui a fianco è stato pubblicato dal Messaggero Veneto verso la fine di settembre.
L’argomento trattato riguarda il finanziamento di 27 milioni di euro per la progettazione e la realizzazione dei primi cantieri di una viabilità alternativa all’esistente, che sia in grado di collegare Udine e Pordenone in 35 minuti di automobile.

Innanzitutto, oltre ad utilizzare strade già esistenti come descritto nell’articolo, verranno anche creati nuovi svincoli e “tangenziali” di paesi lungo il percorso, un tunnel, nonché verranno ex-novo tracciate nuove direttrici nel mezzo di una campagna friulana ancora intatta, quale quella in prossimità di Barbeano e Tauriano, e quella splendida nelle vicinanze di Plasencis e di Mereto di Tomba.

Ora, potrebbero essere fatti dei ragionamenti sulla cultura passatista che porta sempre a individuare come soluzione al problema del traffico la creazione di nuove strade, come se lo spazio fisico fosse infinito. Come se queste infrastrutture non avessero un impatto ambientale notevole sul territorio, anche in termini ecologici. Come se anni di ragionamenti non suggerissero l’impiego di sistemi alternativi di trasporto di persone e cose, come ad esempio una sana progettazione della rete dei treni locali.

Ma pragmaticamente, quello che mi preme dire è questo: per andare attualmente da Udine a Pordenone lungo la statale, 50km in automobile, si impiegano dai 40 ai 60 minuti, a seconda delle condizioni del traffico. Da venticinque anni, da quando ho la patente, so che se devo andare a Pordenone in macchina per un appuntamento parto un’ora prima.
Questa nuova opera mi permetterà di risparmiare (forse, perché sappiamo che poi il problema del traffico si ripresenterà anche sulle nuove strade) un quarto d’ora, venti minuti.
E tutto questo vale 27 milioni di euro, che a opera finita saranno diventati 40 (quaranta)?

Non si potrebbero utilizzare parte di quei soldi per ottimizzare il tracciato esistente, e per potenziare alternative maggiormente sostenibili?