Archivi autore: Giorgio Jannis

Accade a Udine

Due rapide notizie di cronaca locale, su fatti che riguardano la Rete.
Marco Belviso, tenutario del blog udinese Il Perbenista, è stato querelato dal coordinatore locale PdL Massimo Blasoni per 1,5 milioni di euro. Anche qui in periferia abbiamo qualcosa da raccontarci, eccheccazzo :)
Il bello è che Belviso è a sua volta “animale politico” del centrodestra, quindi abbiamo a che fare con faide interne. Il Perbenista è blog dichiaratamente “irriverente”, a volte satirico, ma la cosa buffa è che gli viene imputato un realto di diffamazione a partire dai commenti, spesso anonimi, lasciati dai frequentatori.
Già la lettera di diffida dell’avvocato parte lesa, denominando Belviso quale “direttore responsabile” del blog, fa chiaramente capire che chi ha mosso la causa non ne capisce poi molto di internette, visto che un blog non è testata editoriale registrata e non ha quindi né obblighi né tutele simili a quelle della stampa cartacea. 
Il giudice non sarà vincolato, certo, ma esistono già sentenze in italia, Cassazione compresa, che stabiliscono nettamente gli àmbiti e la portata della libera espressione personale su web.
Il politico sensibilone chiederà e otterrà di veder rimossi i commenti ritenuti lesivi, ma si arriverà facile alla remissione della querela, e non ci farà una bella figura.
Qui la notizia sul Messaggero Veneto, qui e qui il blog di Belviso.
La seconda notizia riguarda il lancio da parte dell’Amministrazione pubblica del Comune di Udine di un vero e proprio giornale online, denominato Udinè, lo trovate qui www.udin-e.it.
L’ho aggregato, l’ho “sfogliato”, mi sembra un giornale-vetrina, una cassa di risonanza delle comunicazione istituzionale, modello broadcast uno-a-molti, come al solito.
Il che è strano, perché Udine si sta muovendo abbastanza bene nell’interpretare correttamente e dar Luogo a strumenti di comunicazione verso la cittadinanza, utilizza i feed rss, possiede un canale youtube per alcune dirette di webtv, abita su facebook, offre siti istituzionali abbastanza ben disegnati, promuove innovazione nel backoffice utilizzando redazioni interne basate su applicativi web20 e GoogleApps, tanto per dire.
Ma qui c’è il problema: se i contenuti della comunicazione del giornale Udinè spesso ricalcano quelli già pubblicati sul sito del Comune di Udine e sul “portale Cultura“, quale bisogno c’era di questo nuovo Luogo web istituzionale?
Certo, è stato appena lanciato, auspicabilmente nel futuro vedrà meglio implementate delle aree dedicate all’interazione diretta con la cittadinanza (blog urbani, forum, bacheche interattive, mappe), vedremo.
Ne parla un consigliere comunale di Udine, Fabrizio Anzolini, uno che sta con l’Unione di Centro di Casini e di cui spesso non condivido i contenuti, mentre sul piano della forma gli potrei consigliare di scrivere sul suo blog in prima persona, con tono conversazionale e non sempre tramite dei comunicati-stampa… ne guadagnerebbe la qualità del dialogo con i cittadini.
Ma questa volta devo dire che ha perfettamente ragione nell’interrogarsi sul significato di questo nuovo strumento comunicativo dell’Ente locale.

Cucinare la democrazia

Come sapete, i cuochi studiano le tecniche di cucina. E un ragionamento di culinaria è da ascrivere al pensiero tecnologico.
C’è un progetto, ovvero uno sguardo sul futuro, e c’è la modificazione dell’ambiente, ovvero la trasformazione di materie prime in un manufatto, mettiamo sia una torta.
C’è l’acqua, la farina e le uova, e tutto sommato conviene conoscere le loro caratteristiche fisiche e chimiche per saper come si comporteranno in certi frangenti, tipo dentro un forno. Una questione di prevedibilità in relazione al contesto, questione squisitamente tecnologica tanto quanto progettare una diga senza che crolli dopo due giorni.
C’è il forno, ovvero il calore che innesca le reazioni trasformative.
E c’è la ricetta, le istruzioni procedurali, quell’informazione che costituisce il terzo elemento della famosa triade tecnologica, insieme appunto a materia e energia.
Bene, inventarsi un sistema di governo assomiglia al cucinare una torta.
Perché come più volte qui detto, la democrazia è una tecnica, e ragionare di forme di governo è una sorta di riflessione tecnologica. Poi nel parlare comune identifichiamo la forma con i contenuti, la democrazia con i valori, ma la prima è uno schema, una struttura, una procedura, un sistema, un meccanismo che garantisce l’esistenza dei secondi, e quindi traslatamente diventa valore in sé, in quanto desiderabile.
Più di duemila anni fa la Storia per come viene descritta nei sussidiari vuole che a Atene qualcuno si sia posto la fatidica domanda: ma quale forma di governo riteniamo migliore, per la nostra collettività, che soddisfi le nostre esigenze etiche di convivenza civile?
I valori sono già tutti presenti: giustizia sociale, libertà della persona e di espressione, rappresentatività delle classi sociali. Altri secoli aggiungono riflessioni, il Rinascimento italiano, il Seicento inglese, la Rivoluzione francese, gli statuti ottocenteschi, le Carte universali del Novecento.
Quali meccanismi, che tecniche, quali procedure adottare per garantire la democrazia? Separazione dei poteri, organi di controllo, una serie di leggi che dicono come fare le cose per farle nel rispetto dei valori che a esempio una Costituzione esprime.
Il rispetto formale delle procedure è una questione sostanziale della democrazia, perché le regole sono la democrazia.
In un tribunale, anche se l’imputato è stato considerato colpevole, una virgola sbagliata su un verbale può annullare il processo, che va ripetuto nel rispetto delle procedure e delle formalità. Ed è giusto così, se ci pensate, perché simili cose non possono essere arbitrarie.
Dati i valori individuali e delle collettività (la materia), dato il forno e il calore della dinamica realtà sociale, devo seguire le istruzioni (lle procedure, le tecniche di rappresentatività democratica, le forme di governo) per riuscire a cuocere per bene, nel modo che abbiamo tutti stabilito come desiderabile, questa torta che si chiama Società e convivenza civile.
Il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky nell’intervista oggi su Repubblica (da qui)

“Il diritto di tutti è perfettamente garantito dalla legge. Naturalmente, chi intende partecipare all’elezione deve sottostare ad alcuni ovvi adempimenti circa la presentazione delle candidature. Qualcuno non ha rispettato le regole. L’esclusione non è dovuta alla legge ma al suo mancato rispetto. È ovvio che la più ampia “offerta elettorale” è un bene per la democrazia. Ma se qualcuno, per colpa sua, non ne approfitta, con chi bisogna prendersela: con la legge o con chi ha sbagliato? Ora, il decreto del governo dice: dobbiamo prendercela con la legge e non con chi ha sbagliato”.

Chi si indigna?

Benissimo, egregio elettore di destra, dopo questa cosa incivile del decreto interpretativo per la riammissione delle liste escluse dalle Regionali non ti restano molti alibi.

O hai la testa, o hai la coscienza, o nessuna delle due.
Se hai testa e coscienza, è già un bel po’ che non voti questa destra.
Se hai la testa ma non hai la coscienza, opportunista mascalzone, voterai comunque destra per qualche tuo infimo e egoistico tornaconto personale.
Se hai una coscienza ma usi poco la testa, confido stavolta non voterai destra, perché anche un bambino di otto anni conosce l’importanza del rispetto delle regole del gioco. Puoi farcela, puoi astenerti.
Se non hai né testa né coscienza sei un animale da cortile, continuerai a votare come hai sempre fatto senza farti domande, quasi certamente voterai destra perché ti sfuggono i ragionamenti più lunghi di venticinque sillabe e questa cosa complicata che chiamano democrazia, a te che ti aspetti di essere comandato, in fondo ha sempre dato fastidio.

Non potendo quindi per certe personali scelte di vita porre le mie speranze di miglioramento sociale nella stupidità imprevedibile e incontrollabile di cui molti italiani danno segno quotidianamente, non mi resta che aver fiducia nel senso di nausea che i comportamenti degli attuali governanti auspicabilmente suscitano nei loro stessi elettori.
“Aver fiducia nella nausea” è esattamente la misura dell’inciviltà in cui ci dibattiamo.

Internet è libertà, perchè dobbiamo difendere la rete

Giovedì 11 alle 15 alla Sala della Regina, Montecitorio.
Lectio magistralis di Lessig.
Diretta in streaming sulla webtv diMontecitorio.Giovedì 11 marzo alle 15, presso la Sala della Regina di Palazzo Montecitorio, si terrà il convegno “Internet è libertà, perchè dobbiamo difendere la rete”. I lavori saranno aperti da un intervento del presidente della Camera, Gianfranco Fini. Seguirà la Lectio magistralis su “Il web e la trasparenza tra ideali e realtà” di Lawrence Lessig dell’Università di Harvard.

Successivamente, interverranno Franco Bernabè, Amministratore delegato di Telecom Italia, Umberto Croppi, Assessore alle Politiche culturali e della comunicazione del Comune di Roma, Fiorello Cortiana, Responsabile Innovazione della Provincia di Milano, Juan Carlos De Martin, Responsabile Creative Commons Italia, Paolo Gentiloni, Deputato del Partito Democratico, Stefano Quintarelli, Presidente di Reeplay, Paolo Romani, Viceministro allo Sviluppo economico.

Moderatore sarà Riccardo Luna, Direttore di Wired. Il convegno sarà trasmesso in diretta sulla webtv di Montecitorio http://webtv.camera.it/.

Il sondaggio è mio, lo gestisco io. Anzi, lo cancello.

C’è questo sito del Club della Libertà, uno di quei siti col sorrisone di Berlusconi nella testata, che io spero scompaia come lo Stregatto e rimanga solo il sorriso e poi sparisca anche quello.
Su quel sito, la segnalazione correva in rete ieri e stamattina, avevano pubblicato un sondaggio che diceva “Trovi giusto impedire ai lettori del centrodestra di votare i loro candidati per formalità burocratiche?” e tralascio le considerazioni sul modo di porre la domanda.
La risposta più votata, da subito, era stata “Sì, le regole sono regole”. 
Ora, io non credo che tutti i “comunisti eversivi” d’italia passino il loro tempo a frequentare i siti berlusconiani per sfotterlo; con buona probabilità chi ha espresso il proprio giudizio nel sondaggio è un elettore del Popolo della Libertà che con buon senso considera il rispetto della forma e delle regole una delle caratteristiche fondanti della democrazia, a differenza degli eletti in quello stesso partito e altri affini che non temono invece di delirare nel definire vuota burocrazia l’attenersi alle procedure.
Stamattina rileggo la notizia in questione da Sofri: il 97 percento dei votanti diciamo che non segue quello che i promotori del sondaggio si aspettavano in termini di sostegno alla versione “ci vogliono impedire di votare”. Clicco e vado a controllare anch’io il sondaggio. Mi accorgo che è cambiata la data di scadenza delle votazioni, anticipata dal 7 marzo al 4, come si può vedere nell’immagine sopra. Il tutto è successo verso mezzogiorno di oggi.
Poi il sito ha cominciato ad avere problemi ahi ahi ahi di visualizzazione, non risultava raggiungibile, fino a quando intorno alle 14.00 il sondaggio risultava terminato (!), e le percentuali indicate erano ferme all’86% a favore di chi riteneva giusto impedire di votare dei cialtroni che non solo non sanno consegnare le firme ma soprattutto non si vergognano di aprire bocca in seguito ai loro insostenibili errori. Qui su Friendfeed la discussione minuto per minuto.
Ulteriore colpo di scena: il sondaggio alle 17.00 risultava cancellato, come pure gli oltre 400 relativi commenti. Percentuali azzerate.
Ma che belle personcine. Che stile. Vabbè, è un sondaggio loro, su un loro sito, possono fare ciò che vogliono. Ma che non sanno comportarsi nel comunicare, glielo voglio proprio dire.

Update: Metilparaben illustra lo svolgersi della vicenda.

Inverosimile come la realtà

Ci sarebbe da delineare la differenza tra immaginazione e fantasia, prima di andare avanti a scrivere cose taglienti come un coltello per il burro che però ciurla nel manico, e il manico sarebbe questo blog.
Wikipedia non aiuta, [fantasia] rimanda a [Fantasia_(filosofia)] la quale altro non è che la voce [immaginazione] con un altro titolo, e qui si trovano un po’ di solite cosette filosofiche, trattate con leggerezza. 
Ma io volevo parlare dell’oramai proverbiale frase “la realtà supera l’immaginazione”, che ricorrendo alla nota diatriba “è la Natura che imita l’Arte, o viceversa?” può essere in buona misura ridimensionata sottolineando che la realtà se ne frega di essere verosimile.
Infatti, quando un bimbo di 4 anni inventa una storia per nascondere una marachella o un omicida di qualunque età inventa una storia per nascondere una maraca (che immagino essere il non-vezzeggiativo di marachella), cercherà comunque di tessere una trama verosimile, perché ne va di mezzo la credibilità. 
Questo mi porterebbe a indagare la correlazione tra verosomiglianza e credibilità, e quindi a discettare di universi di discorso, attese del lettore, orizzonti di senso, contesti narrativi, disgiunzioni isotopiche e enciclopedie echiane, sociologie della ricezione, dell’interpretazione come negoziazione tra i parlanti, ma in questo momento ho in mente solo il panino speck e stracchino che sto mangiando.
Il fatto è che quando raccontiamo una storia, o ci immaginiamo qualcosa che possa accadere o essere accaduto, cerchiamo di essere verosimili. Pensiamo già da dentro un’orizzonte di verosomiglianza, ci diamo delle regole e siamo creativi dentro le regole del vero. Che poi non è vero per niente, essendo pur sempre una storia che ci raccontiamo a noi stessi. 
Roba vecchia, eh, ci pensò quello scettico insuperabile di Cartesio col suo dubbio radicale quattrocento anni fa a stabilire che noi possiamo avere certezza di quello che pensiamo, ma nessuna verità di come il mondo là fuori sia messo.
Poi arriva la Natura che ci mostra un ornitorinco, e la reazione fu è incredibile, perché è inverosimile che un’animale faccia le uova e allatti i piccoli eccetera eccetera. 
Ahimè, la Natura, la Realtà se ne sbatte altamente le chiappe con una zampa palmata di ornitorinco femmina della nostra incredulità. 
La realtà non ha bisogno di essere verosimile, tutto qui. 
Il verosimile è cosa umana, la realtà no, ahah. Evviva gli universi del discorso. “Realtà” e “verosimiglianza” abitano in posti diversi, sia fuori di noi sia dentro i linguaggi che usiamo. E cerchiamo di uscire da questi angusti pensieri antropocentrici, suvvia.
Prendiamo spunto dalla cronaca, invece, per allargare il nostro concetto di realtà possibile.
Dice Metilparaben: “Per un attimo ho avuto la tentazione di fare un altro generatore automatico, ma l’idea del capo del Consiglio superiore dei lavori pubblici arrestato per corruzione nell’ambito di un’inchiesta sul G8 che organizza incontri omosessuali occasionali avvalendosi della collaborazione di un nigeriano appartenente al coro San Pietro è praticamente inarrivabile anche adoperando tutta la fantasia possibile.
Mi sa che per questa volta passo.”

A inventarla, ti direbbero non è credibile, è inverosimile. E invece.
Essì, è proprio bella la realtà quando ti fa inciampare, e sbatti il ginocchio contro la credenza.

Pubbliche Amministrazioni reticenti, ovvero “I furbetti della trasparenza”

Non intendo indignarmi, né rincorrere scandalismi.
Ma alla base c’è un fatto: i siti istituzionali governativi nascondono informazioni ai motori di ricerca. Ah, italietta.
PA – Certo che abbiamo pubblicato i dati!
GJ – Ma con Google non trovo niente!
PA – Certo, li abbiamo resi difficilissimi da trovare!!
GJ – …
E tenete presente che proprio l’Operazione Trasparenza promossa da Brunetta prescrive che certi dati debbano essere pubblicati sui siti delle Pubbliche Amministrazioni:
La legge n. 69 del 18 giugno 2009 (“Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile”) impone, all’art. 21, comma 1, che tutte le pubbliche amministrazioni debbano rendere note, attraverso i propri siti internet, alcune informazioni relative ai dirigenti (curriculum vitae, retribuzione, recapiti istituzionali) e i tassi di assenza e di presenza del personale, aggregati per ciascun ufficio dirigenziale.

Pubblicati sì, ma non rintracciabili. Se seguite il link sopra per l’Operazione Trasparenza, trovate che nella stessa pagina del sito innovazione.gov vi è un collegamento per un file in .pdf intitolato “Accorgimenti tecnici per impedire l’indicizzazione nei motori di ricerca”.

E’ sufficiente modificare il file robots.txt del sito, e tutto diventa impermeabile. Che ridere.

Trovate la notizia da Vittorio Pasteris, da .mau., su Noisefromamerika, leggete anche i commenti.
I furbetti della trasparenza, sì, abbiamo.
Chiramente, ho provato subito a vedere quanto dell’attuale sito della Regione Friuli Venezia Giulia sia “oscurato” all’indicizzazione da parte dei motori di ricerca.
Beh, praticamente tutto. http://www.regione.fvg.it/robots.txt
Metto anche uno screenshot, ‘spetta.
UPDATE: smanettando un po’ con le opzioni di ricerca di Google, sono infine riuscito a trovare le retribuzioni dei dirigenti regionali FVG. Evidentemente la directory “amministrazione” non è tra quelle inibite all’indicizzazione. Beh, meno male.
Resterebbe da sapere il motivo di quel file robots.txt che vedete qui sopra, ma posso capire che ci possano essere motivi di privacy, di qua o di là.

UPDATE 2 – 19 marzo
Il sito governativo mostra modifiche nell’architettura, gli indirizzi url sono cambiati. Leggete i commenti.

Zambardino: la narrazione del cambiamento

Lo scorso 15 febbraio si è tenuto a Milano un incontro pubblico con Vittorio Zambardino, Massimo Russo e Marco Pratellesi, nell’ambito di Meet the Media Guru.
I temi affrontati – la crisi del giornalismo tradizionale, i molti pericoli che corre il web, il contrasto tra apologeti della rete e neo-luddisti – hanno contribuito a fare emergere alcune delle aree grigie disseminate all’interno della rete e a evidenziare i dogmi e gli stereotipi per combattere i quali Zambardino e Russo pensano siano necessarie le nuove eresie raccontate nel progetto Eretici Digitali: un manifesto, un blog e un libro edito da Apogeo. (da MeettheMediaGuru)
Era possibile inviare delle brevi domande da porre ai relatori, in formato video, cosa che ho prontamente fatto. Non penserete mica che un cellulare serva solo per telefonare, oggidì.
Comprensibilmente, per chi legge questo blog, il focus del mio intervento riguardava la narrazione del cambiamento, quindi le possibili strategie comunicative (le retoriche, le argomentazioni, lo stile) da adottare per veicolare una promozione della Cultura digitale nella società italiana, al di là di quelle solite banalizzazioni e dei soliti toni scandalistici o terroristici utilizzati nel passato e ancor oggi dai media tradizionali che di fatto impediscono la diffusione nell’opinione pubblica di una serena presa di coscienza rispetto alle potenzialità offerte da questa nostra Era digitale.
E Vittorio Zambardino mi ha anche rapidamente risposto, qui trovate i video, proprio sottolineando come questo sia il momento di tener duro, per evitare che vecchie logiche di potere, vecchie narrazioni molto interessate tentino di mettere un loro sigillo, soffocante e normativo e paralizzante, al rapido fluire delle nuove forme di Cittadinanza digitale.
Dopo aver visto i video, date con calma un’occhiata a Eretici digitali: credo veramente si tratti di uno dei luoghi eccellenti italiani nell’elaborazione di una consapevolezza riguardo alla Transizione digitale.

Alfabetizzazione e competenze per il XXI secolo

Premessa
Oltre infatti a definire una capacità di base skill dell’individuo, ovvero l’acquisizione di una padronanza su un codice semiotico riferito in questo caso alla lingua scritta (l’alfabeto, la produzione linguistica base), literacy in inglese reca con sé delle indicazioni sulle competenze del parlante, ovvero sul suo saper trasferire quelle abilità in altri campi di applicazione, sul suo saper astrarre da quella conoscenza delle regole di funzionamento grammaticale più ampie: oltre a un fare la parola “alfabetizzazione” andrebbe anche in italiano compresa per la sua capacità di denotare un certo saper fare del parlante.
Tant’è che in inglese questo insieme di abilità e competenze (marcato dal suffisso -acy) quando è riferito alla lingua scritta e parlata può essere denominato appunto literacy, e restando dentro questa concezione può essere esteso a altri campi dello scibile: ragionando di abilità e competenze di tipo matematico può essere coniata e utilizzata la parola numeracy, mentre dovendosi riferire all’insieme “grammaticale” della Tecnologia (dagli artefatti ai sistemi, dal martello agli impianti industriali) ci si può riferire al termine Technacy.
In italiano, a meno di non voler coniare dei neologismi, dobbiamo aggiungere degli aggettivi: abbiamo l’alfabetizzazione letteraria, l’alfabetizzazione matematica, l’alfabetizzazione tecnologica (e si potrebbe continuare ragionando di Media Literacy, Emotional Literacy, Visual Literacy).
Interessante inoltre notare come il parallelo con la secolare articolazione della grammatica linguistica e letteraria permetta anche nel caso della Cultura tecnologica la descrizione di determinati Generi tecnologici (altra voce di Wikipedia che ho ritenuto utile tradurre dall’inglese), sulla falsariga di quanto ragionando di lettere viene fatto con i Generi letterari.
Agli occhi di un semiotico, non vi è nessuna differenza tra la grammatica di una lingua e la “grammatica” di un territorio: si tratta sempre di testi scritti dalle collettività umane, di cui bisogna individuare gli elementi semantici, sintattici e morfologici di base, e comprendere i codici di funzionamento linguistico.
Alfabetizzazione e competenze per gli abitanti del XXI secolo
Partendo da una segnalazione di Granieri, torniamo a parlare di come la Scuola o comunque i sistemi formali dell’Educazione alle nuove generazioni debbano farsi carico del fornire agli alunni alcune coordinate per la comprensione del mondo in cui si troveranno a vivere.
Granieri è notoriamente scettico sulle possibilità del sistema-Scuola di assolvere a questo compito, in quanto la struttura e l’organizzazione stessa scolastica (a partire dalla forma fisica stessa delle aule, dalla ripartizione storica in obsoleti curricoli delle conoscenze, dai ruoli e dalle competenze dei formatori, dalla notoria lentezza burocratica dell’Istituzione) impedisce nei fatti di preparare i giovanissimi a essere fruitori critici e consapevoli di questa nostra realtà sociale liquida, in rapido cambiamento.
La Scuola, così come è fatta oggi, “non ce la fa a star dietro” alla velocità del mondo moderno, e ovviamente questo si nota maggiormente nel caso della Cultura Tecnologica e Digitale, e nei modi in cui oggi viene promossa una seria Educazione alla Cittadinanza Digitale.
Molte volte ne abbiam parlato su questo stesso blog.
Certo, la “postura mentale” della Scuola, eccessivamente focalizzata sulla cosiddetta “alfabetizzazione informatica” spicciola alle TIC (il solito pacchetto Office, e non invece le mappe satellitari da abitare, i Luoghi di socialità in rete, i Luoghi della comunicazione Scuola-Territorio) e sulla dotazione di hardware come intervento risolutorio (i magniloquenti discorsi sulle LIM, o sul pc in classe, quando mancano connessioni veloci, wifi, competenze aggiornate negli insegnanti a essere innanzitutto Cittadini digitali per essere proficuamente Docenti digitali), impedisce di scorgere chiaramente quali siano gli obbiettivi formativi della persona (e non solo curricolari) che vanno rapidamente tenuti in considerazione, per evitare di dover riconsegnare alla società una volta maggiorenni degli individui pronti per vivere nel Novecento, e non dentro questo XXI secolo radicalmente diverso da ciò che lo ha preceduto.
Ecco alcune indicazioni per le competenze da possedere (non solo abilità!), per chi abita nella modernità e per lavoro si occupa di Educazione. Si tratta di una rapida traduzione di quanto trovato da Granieri qui.
Alfabetizzazioni e competenze del XXI secolo
In questa nostra epoca digitale, gli educatori devono padroneggiare alcune abilità conoscitive cruciali. Quali? Il teorico dei media, nonché concreto professionista, Howard Rheingold ha parlato di quattro “Alfabetizzazioni del Ventunesimo secolo” – attenzione, partecipazione, collaborazione e consapevolezza della rete – a cui dobbiamo orientarci, che dobbiamo comprendere e coltivare nell’era digitale (vedi qui). Tutti conosciamo le tre alfabetizzazioni standard del “leggere, scrivere, far di conto”. Che altro è richiesto nella nostra era digitale? Il futurista Alvin Toffler sostiene che, nel ventunesimo secolo, dobbiamo conoscere non solo quelle tre, ma anche come imparare, disimparare e re-imparare. Ragionando su queste suggestioni, ecco qui dieci alfabetizzazioni che sembrano cruciali per la nostra era digitale. Nessuna di queste è rintracciabile nella “metrica” normale del nostro sistema educativo, tuttavia tutte sono abilità cruciali per il nostro tempo.
Attenzione:  Quali sono i nuovi modi con cui prestiamo attenzione nell’era digitale?  Come dobbiamo cambiare i nostri concetti e pratiche dell’attenzione per una nuova era?  Come impariamo e pratichiamo nuove forme di attenzione nell’era digitale?
Partecipazione:  Soltanto una piccola percentuale di coloro che usano i nuovi media partecipativi contribuisce realmente. Come incoraggiamo l’interazione e la partecipazione significativa?  Con quale obiettivo, a livello culturale, sociale, o civico?
Collaborazione:   Come incoraggiamo forme di collaborazione significative e innovative?  Gli studi indicano che la collaborazione può riconfermare semplicemente il consenso, agendo più come pressione esercitata dal gruppo dei pari piuttosto che come una leva al vero pensiero originale.  Andrebbe forse coltivata una metodologia di “collaborazione per differenza” per potenziare e orientare in modo più significativo e efficace l’apporto che i diversi gruppi possono fornire.
Consapevolezza della rete:  Che cosa possiamo fare per meglio capire sia in che modo prosperiamo come individui creativi sia per comprendere appieno il nostro contributo all’interno di una rete fatta di altre persone?  Come avere una comprensione adeguata di cosa sia una rete allargata, e ciò che possiamo da essa ottenere?
Disegno e progettazione:  In che modo l’informazione è convogliata nelle diverse forme digitali? In che modo capiamo e pratichiamo gli elementi di una buona progettazione in quanto parte delle nostra comunicazione e delle nostre pratiche interazionali?
Descrizione, narrazione:  In che modo gli elementi narrativi modellano le informazioni che desideriamo trasferire, aiutandole ad avere forza in un mondo fatto di flussi informativi moltiplicati e tra loro in competizione?
Consumo critico dell’informazione:  Senza un filtro (quali i redattori, gli esperti ed i professionisti), molte informazioni sul Internet possono essere inesatte, ingannevoli, o inadeguate.  Anche i media tradizionali, naturalmente, risentono di questi difetti che però oggi sono esacerbati dalla diffusione digitale.  Come impariamo a essere critici?  Quali sono gli standard della credibilità?
Digital Divide, partecipazione digitale:  Quali divisioni ancora permangono nella cultura digitale?  Vi sono aspetti basilari dell’economia, della cultura, e dei livelli di alfabetizzazione che dettano non solo chi può partecipare all’era digitale ma anche come partecipiamo?
Etica e tutela:  In che modo etico e responsabile possiamo muovere partendo da partecipazione, scambio, collaborazione e dalla comunicazione in direzione di una maggiore qualità sociale del vivere, grazie agli strumenti digitali?
Apprendere, disimparare e re-imparare:   Alvin Toffler ha detto che, nel mondo in evoluzione rapida del ventunesimo secolo, l’abilità più importante è avere la capacità di fermarsi, vedere che cosa non sta funzionando e conseguentemente scoprire i modi per disimparare i vecchi modelli e reimparare a imparare.  Questo richiede il coinvolgimento di tutte altre abilità, ma si tratta forse della singola capacità che è più importante insegnare.  Significa che, ogni volta che qualcuno pensa in maniera nostalgica, domandandosi se “i bei vecchi tempi” torneranno, un riflesso “disimparante” possa rapidamente forzare quelle persone a pensare che cosa realmente significa una tal comparazione, che vantaggio ci porta, e cosa di buono possa fare provare a invertire il pensiero stesso. Cosa possono portare “questi nei nuovi giorni”?  Proprio in quanto esperimento di pensiero gedanken experiment – il tentativo di disimparare le nostre risposte irriflesse, automatiche, alla situazione del cambiamento è l’unico modo di riflettere veramente sulle nostre abitudini nel resistere al cambiamento.

La Scuola? Ha un futuro alle spalle

Avrei voluto ancora una volta mostrare agli insegnanti la bellezza di una didattica moderna, in grado di utilizzare sapientemente gli strumenti tecnologici già oggi disponibili (e-book, i nuovi tablet come iPad, le LIM); trovate alcune suggestioni qui e qui, in inglese, e molto altro in italiano usando Google appropriatamente. 
Come abbiam capito nel corso degli anni, una singola tecnologia in classe rivoluziona l’intero modo di fare scuola, se intesa e utilizzata in maniera “immersiva”, e non semplicemente come strumento succedaneo di qualcosa già esistente.
Se usiamo una lavagna elettronica come quella in ardesia, nulla cambia, e nemmeno l’insegnante è motivato a indagare (lo imporrebbe la sua professionalità) nuove possibilità per moltiplicare l’efficacia della didattica, avendo come riferimento l’apprendimento.
Ma appunto tutto ciò che ruota intorno a quella specifica tecnologia riceve delle spinte al cambiamento, per adeguarsi alle nuove potenzialità permesse dal dispositivo.
Questo significa che intorno per esempio a “un iPad per ogni studente” avverrà una riprogettazione dell’editoria scolastica, del testo scolastico stesso (modulare, ipermediale), dei flussi conversazionali dentro cui avviene l’apprendimento nelle singole classi ormai connesse,  delle competenze degli insegnanti chiamati a produrre i propri libri di testo da distribuire agli studenti, dell’edilizia scolastica che deve rapidamente adeguarsi alle odierne necessità offrendo connessioni wireless ubique, perfino delle aziende che producono gli zainetti, le quali dovranno mettere sul mercato prodotti pensati per ospitare comodamente un tablet di un chilo, e non più quindici chili di libri.

Poi tutto si blocca, davanti a un dirigente miope, a insegnanti timorosi ignoranti e arroganti, a riforme scolastiche indegne.
Ecco Maragliano, come commento a una discussione sulle LIM:

La fortuna delle LIM è di chiamarsi lavagne. Se venissero usate da individui e individue con buona familiarità con la comunicazione di rete si potrebbe capire che LIM sta a lavagna d’ardesia come cavallo sta ad auto. Nella mia auto ci sono cavalli, che però non nitriscono. Nelle aule italiane ci sono LIM che nitriscono, perché restano lavagne. Come uscirne? In un altro paese, in un’altra cultura, anzi in un’altra antropologia si potrebbe sostenere che il problema non è scolastico o pedagogico, ma civile. Insomma, invece che perdere tempo dietro a diatribe interessate (vedi i paginoni di ieri, domenica 7 febbraio 10, sul Corriere, con i soliti allarmi su Internet che disinsegna a leggere e scrivere) si dovrebbero rendere sempre più attivi e vicolanti i servizi civili sul web (pagamenti, atti amministrativi e burocreatici, fonti di informazione), sempre più vantaggiose le offerte di connessione da qualsivoglia attrezzo, sempre meno eccezionale il ricorso alla rete come luogo di incontro e condivisione. In un altro paese. Diverso dal nostro. 
Allargando giustamente il punto di vista, Maragliano sottolinea come la mancata comprensione dello strumento dipenda dalla mancanza di un retroterra culturale, di una cornice interpretativa dentro la mente degli insegnanti e dei pubblici decisori che permetta di inquadrare appieno le potenzialità offerte in questo caso dalla lavagna multimediale interattiva.
Perché gli insegnanti digitali devono essere innanzitutto cittadini digitali, per poter anche solo concepire la propria professionalità. Ma purtroppo in italia tutto quello che riguarda la Cultura Digitale (dall’alfabetizzazione informatica, alle dotazioni tecniche per sopperire al digital divide, alle competenze digitali da disseminare tra i cittadini e a scuola, all’Educazione alla Cittadinaza Digitale) è stato raccontato dai media tradizionali sempre con toni scandalistici, o terroristici, o aneddotici, incapaci di costruire una adeguata comprensione dei cambiamenti tecnosociali degli ultimi vent’anni, né d’altra parte le politiche governative hanno saputo introdurre innovazione concreta, nei banali processi di funzionamento della Pubblica Amministrazione.
Quindi: volevo parlarvi del magnifico futuro che attende la Scuola e il fare scuola moderno, e invece mi accorgo che nel 2010 non viene nemmeno garantita la possibilità di aver cura delle nuove generazioni con gli stessi livelli qualitativi del secolo scorso.
Le ragioni di tanto magone? Ho visto la puntata di “Presa diretta”, la trasmissione Rai di Riccardo Iacona dedicata alla Scuola, e ho letto questo commento di Mauro Biani. 
E’ disponibile sul sito Rai.tv, oppure su YouTube, nel canale della Rai.
La Scuola per definizione agisce sul futuro: sarà perfettamente inutile lamentarsi nel 2025, quando vedremo ovunque i danni sociali causati dalle miopi scelte odierne.

Buzz, privacy, ecologia relazionale

Oggi ne parla anche DeBiase: “La dimensione pubblica è il grande territorio nel quale emergono i materiali di idee e informazioni con i quali si formano le decisioni collettive ed è bellissimo che si allarghi – con i media sociali – al contributo attivo di molte più persone. Ma quelle persone devono poter scegliere che cosa delle loro idee e personalità è pubblico e che cosa è privato. E questo avviene soltanto grazie alla loro consapevolezza.”

Questo perché Buzz ha osato molto. Rende visibili le cerchie sociali basandosi sui contatti frequenti della Gmail, dimodoché tutti possono a partire dal mio profilo venire a conoscenza di chi frequento, e la gente ti giudica a seconda di chi frequenti. Metti che scambi mail con uno zoppo, molti penseranno che il tuo vero nome sia Claudio.

Ma il pensiero della privacy non mi preoccupa, di certo già ora non può più essere normato dall’alto stabilendo la legittimità di utilizzare immagine pubbliche di cose e persone, proprio perché il concetto di pubblico (una piazza, un social network) è radicalmente cambiato. Giustamente, serve consapevolezza. So di essere in pubblico, e agisco di conseguenza: il mio fare e il mio dire sono pubblici, se compiuti in pubblico, e non mi appartengono più.

Quindi Buzz rendendo percepibili le reti relazionali, innazitutto a me stesso, le ha fatte emergere dal calderone ambiguo su cui pensavo di avere magari un certo controllo, e ci obbliga lateralmente a diventare consapevoli. Induce segmentazione nell’indifferenziato. A me spetta decidere quanto voglio far trapelare di me in pubblico. Buzz ci costringe a esplicitare a noi stessi le nicchie ecologiche mentali e operative dentro cui posizioniamo i contatti amicali o professionali, quindi sta svolgendo una funzione educativa, poco da fare, come già Facebook e relativi scandaletti di pubblicazione di materiale inopportuno ci insegnano, e tutti ci siamo affrettati a comprendere le opzioni di privacy permesse dall’ambiente social specifico, dove i progettisti del software lasciano tutto aperto (in fondo, son luoghi pubblici, no?) e a noi spetta decidere quanto chiudere.
Per una volta, un’Etica della responsabilità di stampo nordico, che significa avere consapevolezza delle conseguenze delle nostre azioni, piuttosto che un’Etica mammona molto latina, dove tutto è strettamente regolato e agli utenti visti come adolescenti ribelli non resta che infrangere limiti per divenir soggetti adulti.
Qui non c’entra il senso di Colpa, roba da confessionale cattolico, privato, qui siamo in ambienti sociali, qui quello che funziona è la Vergogna, da espiare in pubblico.

#Buzz

Così, Google l’ha fatto. Parlavo l’altro giorno di dispositivi che rendessero visibili i flussi relazionali, auspicando una reperibilità dei contenuti e dei contesti di enunciazione che andasse oltre il semplice tracciare i link tra le persone, ma fosse in grado di mostrare le reti di affinità, l’alone identitario.

Dice Jeff Jarvis che Google ha fondamentalmente sempre fallito nei suoi tentativi di costruire strumenti che insistessero sulla triade Social, Local e Live.
GoogleBuzz interagisce con le reti sociali cui già apparteniamo, tramite la rilevazione dei contatti dalla mail, da GTalk, dal GReader, da Youtube, dalle condivisioni che operiamo con Twitter e Friendfeed (clicca qui per la tua Cerchia Sociale), via GProfile.
GoogleBuzz reca traccia geotaggata dei propri messaggi, funziona interagendo con GMaps installato sul cellulare, ovvero con Latitude.
GoogleBuzz è flusso vivo di conversazione, anche se a mio parere non c’entra molto con GWave o con Friendfeed, vivendo molto più sulla nuvola che ora chiamerei CrowdCloud, e la nuvola tocca terra (e molti paventano diventi nebbia, cioè confusione) dentro la mia GMail, non dentro una pagina web, e un domani anche dentro l’aggregatore GReader, il che mi pare più pertinente per nutrire la nuvola di contenuti che vadano oltre il ciaociao, qui c’è il sole.
Che l’abbiano messo dentro la mail, non è cosa che viene ben vista. si tratta di invasione di luogo privato, per come la casella di posta viene percepita.
C’è da comprendere come funzioni GoogleVoice, come si intende interfacciare l’eloquente territorio (le segnalazioni anche commerciali dentro GMaps) con le reti sociali, nei flussi di lifestreaming.

Vi dirò: l’idea mi piace. Dobbiamo acquisire competenze sul suo significato e sul suo utilizzo concreto, superare l’impressione di caoticità del condividere “tutto con tutti ovunque sempre” (il mio primo buzz), ma si tratta di una porta verso la status-sfera e oltre indipendente dagli “stabilimenti d’umanità” (Facebook e similia), indifferente ai Luoghi, che ci porta ad abitare direttamente la Rete come nuvola relazionale, senza creare account su socialnetwork, ma semplicemente accedendo alla Grande Conversazione con la nostra googleidentità.

Linko giusto Jarvis su BuzzMachine (un precog), un articolo su TechCrunch che prende le mosse dalle reazioni a Buzz di Buchheit, inventore di GMail e Friendfeed, un altro articolo su TechCrunch dedicato agli aspetti social, i Googlisti, una discussione su Friendfeed.

Tecnologie appropriate all’ambiente naturale

Incollo qui uno scritto di Giulio Ripa (addirittura in copyleft, ma linkare la fonte non costa nulla) dove viene proposta un’analisi comparativa tra ecosistema e tecnosistema, per definire le caratteristiche delle tecnologie appropriate all’ambiente naturale.

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I principi dell’ecologia ci inducono a pensare di avere, come necessario punto di riferimento, la struttura e le funzioni di un ecosistema, nella progettazione dei sistemi territoriali fisici costruiti dall’uomo (sistemi tecnologici).

L’unità funzionale nello studio dell’ambiente naturale è l’ecosistema, cercheremo allora di considerare nello studio dei sistemi tecnologici, per facilitarne l’analisi, delle unità funzionali che chiameremo tecnosistema.
Il tecnosistema può essere considerato alla stessa maniera dell’ecosistema in quanto sia nell’uno che nell’altro sistema possono definirsi le funzioni di produzione, consumo, decomposizione.

Le somiglianze tra questi due sistemi ambientali quello naturale e quello tecnologico sono ovvie e possono essere studiate e valutate allo stesso modo, anche perché non bisogna dimenticare che il tecnosistema è in effetti esso stesso una parte dell’ecosistema.
La successione (sviluppo) di un ecosistema tende al suo culmine ad un ecosistema maturo (climax), che denota il massimo grado di equilibrio con l’habitat fisico in cui per unità di flusso energetico disponibile viene raggiunto il mantenimento massimo della complessa struttura della biomassa (es. foreste tropicale, barriere coralline, etc).
Partendo quindi dalle caratteristiche prevedibili dell’adattamento e sviluppo di un ecosistema maturo, possiamo definire parallelamente le caratteristiche che dovrebbe avere un tecnosistema “maturo”, considerato come un “ambiente dove l’energia fluendo in un insieme di componenti tecnologici interdipendenti, trasforma e ricicla la materia”.

Dal confronto seguente possiamo delineare una strategia per scegliere le tecnologie appropriate all’ambiente naturale in cui i sistemi ambientali tecnologici (tecnosistemi) siano organizzati in modo analogo ai sistemi ambientali naturali (ecosistemi), integrandoli nella struttura e funzionamento della natura.

Stabilità produttiva

  • Ecosistema: nei sistemi maturi si tende alla stabilità produttiva, l’energia fissata tende ad essere bilanciata dal costo di mantenimento e controllo della comunità biotica. Si dimensiona il tutto sull’imput costante dell’energia solare.
  • Tecnosistema: un tecnosistema maturo si dimensiona sull’imput di fonti energetiche e risorse rinnovabili (biomasse, sole, vento, etc.). Il sistema produttivo deve raggiungere una condizione di “crescita zero” almeno per quanto riguarda l’accumulo dei mezzi di produzione e i prodotti che ne derivano. L’unica crescita è dedicata al controllo ed al mantenimento della qualità del sistema (conservazione dell’energia, efficienza energetica, riciclaggio, etc).

Specializzazione

  • Ecosistema: la distribuzione spaziale delle specie componenti l’ecosistema è ottimizzata in funzione della specializzazione. Ogni specie vivente ha la sua nicchia ecologica per svolgere caratteristiche funzioni biologiche adattate al proprio habitat.
  • Tecnosistema: distribuzione territoriale delle attività del sistema tecnologico, facendo uso di tecnologie appropriate agli scopi finali in modo da migliorare il rendimento del secondo ordine nelle trasformazioni energetiche; usare quindi tecnologie che devono essere coerenti all’uso finale di energia anche nel suo aspetto qualitativo.

Biodiversità

  • Ecosistema: la diversità di specie è alta. Lo sviluppo della biodiversità, insieme alla distribuzione spaziale delle specie favorisce l’uso delle risorse del territorio dando origine ad un sistema complesso ben equilibrato e stabile, con maggiori possibilità di controllo.
  • Tecnosistema: uso del concetto di bacino idrografico che unisce attributi naturali ed attributi culturali. Questo favorisce soluzioni tecnologiche diversificate, corrispondenti per scala e distribuzione geografica ai bisogni dei consumatori finali, grazie alla reperibilità della maggior parte dei flussi energetici rinnovabili, in modo tale che l’offerta di energia è in realtà un insieme di singoli e limitati apporti, ciascuno dei quali in grado di assicurare l’optimum di efficienza in circostanze definite in rapporto all’utilizzo finale (es. aerogeneratori, biocarburanti, pannelli solari, celle fotovoltaiche, celle a combustibile, etc).

Riciclo della materia

  • Ecosistema: i sistemi maturi presentano, una maggiore capacità di trattenere la materia, riciclandola attraverso la chiusura dei cicli biogeochimici. Mediante la decomposizione dei residui organici si riciclano i nutrienti inorganici come fonte di approvvigionamento per le piante. E’ rispettato così l’equilibrio tra la velocità di produzione e la velocità di decomposizione.
  • Tecnosistema: riciclo dei prodotti di scarto, attraverso la raccolta differenziata dei rifiuti, il recupero o la trasformazione (decomposizione) dei rifiuti mediante digestione e fermentazione anaerobica, compostaggio in prodotti collaterali (es.compost, biogas, idrogeno, metano, etanolo, etc). Nei sistemi maturi è necessario l’uso di materiali biodegradabili che permettono il ritorno dei residui nella fase di produzione, in modo che ogni prodotto di scarto del passaggio precedente nella catena di produzione, distribuzione e consumo sia l’input di quello successivo. Il processo tende così alla ciclicità. In particolare l’utilizzazione delle biomasse per fini energetici non contribuisce all’effetto serra, poiché la quantità di anidride carbonica rilasciata durante la decomposizione, sia che essa avvenga naturalmente, sia per effetto della conversione energetica, è equivalente a quella assorbita durante la crescita della biomassa stessa; non vi è, quindi, alcun contributo netto all’aumento del livello di CO2 nell’atmosfera.

Autoregolazione

  • Ecosistema: se il sistema viene in qualche modo alterato dall’esterno, tende a modificarsi fino a raggiungere una condizione di stabilità attraverso meccanismi di autoregolazione (omeostasi). Per cui le funzioni di ogni organismo vengono integrate rispetto alle altre funzioni dell’ecosistema, di conseguenza viene privilegiata la qualità a discapito della quantità massima della produzione che può essere mantenuta.
  • Tecnosistema: impiegare tecnologie integrate in modo tale da mettere l’accento su criteri qualitativi riguardante il tecnosistema come un tutt’uno. Le tecnologie integrate fanno ricorso, da un lato, all’uso di diverse fonti energetiche rinnovabili e, dall’altro, a sistemi di cogenerazione atti a migliorare i rendimenti dei vari processi (es. sistemi di cogenerazione di energia elettrica e calore).

Rallentamento entropia

  • Ecosistema: nell’ecosistema maturo la degradazione dell’energia con la conseguente crescita nel tempo dell’entropia viene ritardata dalla disponibilità di informazione ecologica. L’ecosistema tende ad avere energia più disponibile nelle reti alimentari, utilizzando l’energia solare per la produzione di materia organica (fotosintesi clorofilliana), ma anche altri flussi energetici non propriamente solari (vento, maree, etc) e tutta una gamma di flussi di informazione ecologica che ottimizzano l’impiego di energia, rallentando la dispersione dell’energia fissata dai vegetali.
  • Tecnosistema: il rallentamento della crescita dell’entropia, si ottiene con un sistema di tecnologie integrate, usando tecnologie a bassa intensità d’energia, dimensionando il sistema sull’imput di fonti energetiche e risorse rinnovabili, utilizzando in “cascata” gli stessi flussi energetici a crescenti entropie per utenze differenziate in base agli scopi finali, tenendo anche conto nelle pianificazioni territoriali, per la conservazione dell’energia, delle condizioni fisiche esistenti come clima, terreno, etc, (es. bioarchitettura, sistemi passivi).

Autosostentamento

  • Ecosistema: il sistema tende ad organizzarsi in modo tale da provvedere autonomamente a tutti i suoi bisogni. Utilizzando al meglio tutti gli elementi interni al sistema e minimizzando gli scambi di energia e materia con l’esterno, il fine ultimo del sistema è l’autosufficienza, dove la qualità prevale sulla quantità.
  • Tecnosistema: un tecnosistema maturo tende all’autosufficienza utilizzando nel modo migliore fonti energetiche e risorse locali. In esso viene privilegiato il principio seguente “la produttività ottimale che tiene conto della qualità del sistema (conservazione dell’energia, riciclo della materia, efficienza energetica, minimo impatto ambientale, sicurezza sul lavoro, etc) è sempre minore della produttività massima raggiungibile”. Ciò è giustificato dal fatto che un qualsiasi aumento della produttività avviene sempre a spese del mantenimento e del controllo del sistema stesso. In conclusione possiamo constatare da questa analogia tra ecosistema e tecnosistema che il problema critico è come l’uomo progetta e controlla lo spazio vitale trasformando energia e materia nel rispetto della natura. Dunque, scegliere tecnologie appropriate all’ambiente naturale, guidate dai principi dell’ecologia, avendo come obiettivo sia il risparmio energetico sia la salubrità dei processi produttivi per una migliore qualità della vita.

Giulio Ripa

AveMaria, lavami il cervello

Che schifezza. Guardavo e stavo male. Minuti interi, su Telechiara, decine di bambini che recitavano l’Avemaria, e poi di nuovo, e poi di nuovo, sarà andato avanti per venti minuti, ossessivamente. Ogni giorno, ovunque nel mondo, migliaia di bambini stuprati nella mente, costretti a litanie di cui non capiscono il significato sotto lo sguardo severo della suora, gli incubi per il timore di impappinarsi davanti a tutti e pure in televisione (ma questi saranno stati scelti per la loro bravura), una sacralità inculcata a forza nella ripetizione ipnotica, nella mancanza di senso critico per via dell’età sempre minore dei fanciulli su cui intervenire.
E una televisione oscena, magari pagata con i soldi ambigui dell’8×1000 e con inserzioni pubblicitarie, che di questo nutre i propri palinsesti, del gloriarsi dell’efficacia con cui agisce la religione cattolica – e lo stesso orrore provo per tutte quelle così inumane da rivolgersi ai bambini – nel plagiare le menti.
Il reato di plagio non esiste più in italia, ma abbiamo quello di circonvenzione d’incapace. A mio parere, si attaglia perfettamente.



Art. 643 Codice Penale – Circonvenzione di persone incapaci
Chiunque, per procurare a se’ o ad altri un profitto, abusando dei bisogni, delle passioni o della inesperienza di una persona minore, ovvero abusando dello stato d’infermita’ o deficienza psichica di una persona, anche se non interdetta o inabilitata, la induce a compiere un atto, che importi qualsiasi effetto giuridico per lei o per altri dannoso, e’ punito con la reclusione da due a sei anni e con la multa da 206 euro a 2065 euro.

Libri, e-book reader, Garamond

Leggere su schermo è realtà.
La tecnologia della stampa e l’industria tipografica hanno accompagnato l’umanità negli ultimi cinquecento anni, forgiando profondamente la forma delle società, consentendo la diffusione della Conoscenza e del pubblico dibattito in modi mai visti precedentemente. Biblioteche, quotidiani, manuali professionali, enciclopedie, testi scolastici. Il libro stampato di carta è tuttora il simbolo del Sapere per come le nostre generazioni hanno avuto accesso allo Scibile, e oggi il suo monopolio in quanto supporto alla Conoscenza viene insidiato dal testo in formato elettronico.

Sappiamo che le tecnologia si integrano, non si sostituiscono l’una con l’altra – il cinema non ha fatto scomparire il teatro, la tv non ha fatto scomparire la radio – e conseguentemente non è il caso di parlare di morte del libro, perché si tratta solo di prendere atto di una modificazione tecnologica del supporto. Dalla carta e dall’inchiostro ora si passa a pixel e bit.
Il libro diventa un e-libro, un libro elettronico, un e-book.

Già da molti anni leggiamo i testi scritti sullo schermo, ma rimaniamo vincolati ad un hardware piuttosto ingombrante, il computer; non va sottovalutata inoltre la difficoltà che l’occhio umano incontra nel procedere per lunghe ore alla lettura su uno schermo retroilluminato, come quello che probabilmente ora avete davanti agli occhi, con tecnologia tipo tubo catodico oppure LCD.
Gli e-book, da intendere come testi correttamente impaginati, esistono da molti anni, ma ciò che ultimamente ha messo in fibrillazione il mondo editoriale e i lettori è la commercializzazione di dispositivi di lettura dei libri elettronici, gli e-book reader, basati su una tecnologia completamente diversa, riassumibile nella locuzione e-paper, ovvero la carta elettronica.
Il Kindle o lo Cybook e i molti altri dispositivi che si cominciano a vedere nei negozi e in vendita nelle librerie offrono un’esperienza di lettura perfettamente paragonabile a quella del libro tradizionale, dove le lettere spiccano distinte sulla pagina anche se siete in spiaggia sotto il sole, cosa notoriamente complicata se utilizzate a esempio un pc portatile.

Sono evidenti le motivazioni economiche della pubblicazione di un libro in formato elettronico, legate al costo della carta e della stampa e della distribuzione fisica di un oggetto materiale, e non vanno sottovalutate le potenzialità insite del testo elettronico, relative alla sua facile manipolazione (copiaincolla, commento, inoltro, organizzazione modulare) da parte del fruitore, nonché la sua ubiquità, in quanto indifferente al supporto fisico: potete leggere lo stesso contenuto sul pc, sul cellulare, sull’ebook reader, sui nuovi tablet come l’iPad, e potete anche stamparlo, ma perché consumare carta?
Su un e-book reader potete archiviare e mantenere sempre disponibili migliaia di libri, le batterie durano per giorni, è spesso presente la connessione wifi con cui potete rapidamente aggiornare la vostra libreria elettronica, acquistando direttamente i libri dall’editore oppure scaricando le migliaia di testi anche gratuiti già ora disponibili, oppure ottimizzando i vostri documenti per la lettura su questi dispositivi.

Ci sarebbe da fare tutto un bel discorso sui cambiamenti che l’introduzione che il libro in formato elettronico porterà nel mondo scolastico, che mi riporometto di affrontare meglio in futuro.
Il malloppo cartaceo, le antologie e i libri di testo che ora gli studenti mettono nello zaino non avrà più motivo di esistere, visto che con un semplice lettore porteranno con sé tutto ciò che serve loro.
Sarà facile per gli insegnanti costruire i propri libri di testo, organizzando e rendendo disponibili immediatamente le proprie dispense alla classe.
Gli stessi libri di testo frutto di progettazione editoriale vedranno radicalmente cambiare la propria forma, in direzione di una maggiore modularità (in quanto studente potrò acquistare e scaricare solo quelle parti del testo pertinenti al programma scolastico) e di una impaginazione nativamente pensata per sfruttare le potenzialità offerte dai collegamenti ipertestuali e dalla facilità di accludere materiale multimediale (filmati, fotografie, clip audio) nel corpo dell’opera.

Se volete, trovate qualche ragionamento qui su SchoolBookcamp, una community dedicata al futuro dei testi scolastici in formato elettronico.
Segnalo anche questo articolo di Granieri che prova a indagare i cambiamenti culturali dal punto di vista editoriale, come pure questo articolo sul Sole24ore sugli e-book.
Si è inoltre tenuto recentemente presso la casa editrice Apogeo a Milano un incontro pubblico, e cliccando qui potrete accedere alla pagina dove sono stati resi disponibili i materiali e i video delle relazioni.

L’ultimissima novità è poi costituita dalla pubblicazione da parte di Garamond di questo e-book dedicato agli insegnanti, intitolato “Insegnare e apprendere con gli e-book“, a cura di Mario Rotta, Michela Bini e Paola Zamperlin.
Si tratta di un e-book regolarmente in vendita, ma il prezzo potete farlo voi, letteralmente, decidendo quanto pagare l’opera.
Curioso? No, è semplicemente il mondo che sta cambiando, e certi vecchi meccanismi economici, ormai inadeguati ai tempi, possono essere tranquillamente accantonati.

… what we have been waiting for, da mo’

Ne ho parlato molte volte, ma non ho nessuna voglia né mi piace autolinkarmi: usate il motore qui a fianco, sul blog. Venite a trovarmi. Parole chiave come websocialità, tecnologia tracciante, l’emergere e la visibilità delle reti sociali, prossemica digitale, abitanza… ecco, cercate “blogroll” e troverete dei nuclei di ragionamento pertinenti.

Perché nei blog, primi Luoghi conversazionali identitariamente connotati, i blogroll erano le boe di segnalazione delle reti sociali di partecipazione, erano cotesto che provvedevano contesto, legittimamente rientravano nell’interpretazione degli scritti e del loro autore.
L’elenco dei blog seguiti delineava conseguentemente la nostra appartenenza a determinati cerchi di affinità tematica o stilistica, permettendo in chi ci leggeva di raffigurarsi la nuvola di socialità digitale dove collocarci. Nasceva la percezione di un ecosistema, nicchie e habitat, come da sempre l’umanità è fatta di gruppi che si intersecano, e una volta bisognava essere un gruppo grande per avere la forza di diventare visibili (costruire torri, fondare partiti politici).
Ma quei blogroll erano espressione della nostra volontà di dare immagine della nostra nicchia ecologica, erano segnaletica negoziata e patteggiata nello scambio link, erano frutto di frequentazione assidua e duratura di altri blog, quando non c’erano i feed, non c’erano aggregatori automatici, bisognava recarsi di persona fin dai nostri a mici e andare a trovarli a casa loro, insomma era tutto romanticamente unopuntozero, e saper mettere un
al posto giusto ti salvava tutta la grafica sbilenca.

Poi, sappiamo, ci fu la grande esplosione del web sociale, di cui i blog sono primissima espressione grazie a quel bottone “Commenti” che abilita il dialogo; un blog con i commenti chiusi non è considerato un blog nell’accezione comune, ma una pagina di espressione personale, quando i blog erano ancora web-log, senza scintille di socialità. Peraltro credo che le grammatiche della socialità allora sancite (esistevano da prima, alla base ci sono i valori diffusi della condivisione e dell’orizzontalità del web stesso) dai blog facciano tuttora sentire il loro effetto sulla conversazione in Rete, tant’è che in giro ci sono guerricciole tra chi vorrebbe rimanere vicino a quegli stili comunicativi, e chi invece formatosi già dentro i social network pratica differenti approcci alla conversazione online, adotta diversi atteggiamenti rispetto a esempio alla necessità di provvedere contenuti articolati, di provare a fornire apporti originali, di aver cura degli spazi interpersonali al fine di offrire ospitalità e garantire apertura al dialogo.
Non che questo oggi non avvenga, ma i barbari hanno il loro stile, tutto qui. Nuove forme di civiltà nasceranno, perché siamo sempre dentro un dialogo tra le esigenze di espressione personale, strumenti per comunicare, e ambienti sociali dove una innovazione tecnologica o una modificazione minima dei comportamenti induce cambiamenti negli altri componenti e quindi nell’intero ecosistema. Chi per primo ha colonizzato questi Luoghi antropici digitali, acquisendo autorevolezza agli occhi degli altri per la propria capacità di aver saputo individuare e abitare ben arredandola una precisa nicchia conversazionale, si trova un po’ a disagio ora che tutto sta cambiando in direzione di una socialità talmente ampia e esplosa da non poter essere inquadrata e governata con un semplice blogroll.

Il problema è la visibilità ovvero la percezione delle reti sociali digitali, dicevo.
Il blogroll era un segno (un sintomo, per la precisione, in quanto segno “fisicamente” connesso con ciò che era da riportare) della mia rete sociale, ma con l’esplosione dei Luoghi digitali abitati quali communities, stabilimenti di umanità come i socialnetwork planetarii, gli ambienti di lifestreaming, con milioni di nuove persone che accedono al web e con il moltiplicarsi del mio dire in decine di discussioni e posti diversi, come tenere traccia della mia partecipazione alla Grande Conversazione, come riuscire a avere una rappresentazione adeguata della mia identità sociale, come poter indagare le reti relazionali su web? Come si propagano le idee?
Teniamo presente che un mucchio di gente è interessatissima a questa cose, sociologi e psicologi e webantropologi, microinterazionisti, analisti conversazionali dei social media, professionisti del marketing attenti alle profilature degli utenti e ai loro comportamenti più o meno nomadi o stanziali, giornalisti, animatori di communities ludiche o professionali, designer di software per dispositivi mobili connessi, operatori dell’industria culturale consapevoli del valore odierno del passaparola e del virale e della disintermediazione, economisti e pedagogisti e formatori, progettisti della pianificazione territoriale e delle nuove forme urbanistiche.

Beh, figuratevi, ci han sempre provato a costruire queste rappresentazioni della socialità online. Classifiche di blog che emergevano da algoritmi per il calcolo della notorietà fondati su analisi dei link in ingresso e in uscita, dei click effettuati, rimandi su rimandi intertestuali da organizzare magari graficamente per meglio comprendere a colpo d’occhio l’intersecarsi delle galassie conversazionali, troppo complesse per essere descritte.

In ordine di tempo, spetta a Vincenzo Cosenza aka Vincos l’ultimo tentativo nell’aver provato a rendere visibili le reti sociali digitali, realizzando una buona mappa della blogosfera e affini con strumenti specifici per l’analisi di “strutture di comunità”. Oltre alla rappresentazione quantitativa offerta dal numero dei collegamenti, in grado comunque di far emergere i maggiori hub della Rete italiana, Vincenzo sta curando la pubblicazione di ulteriori post in cui prendere in considerazione i “naturali” raggruppamenti dei blog analizzati secondo cluster capaci di mostrare appunto le affinità tematiche.
In realtà, come facevo parlando di tecnologie traccianti, a me interesserebbe avere strumenti per poter percepire le nebulose della partecipazione, poter raffigurare i commenti e gli interventi ovunque essi appaiano, che potessero mostrare il mio abitare attivo e le intersezioni con persone e gruppi.

Vi è poi un’altra possibilità di analisi, per l’emersione delle reti sociali a cui partecipiamo. Ne parlavo anche di questo, cercate Connect su in alto, quando qualche mese fa sono comparsi dei widget (Google Friend Connect, Google Profile, Facebook Connect) da mettere o da sottoscrivere qui e là sui nostri luoghi di frequentazione.
Google deve averli fatti un po’ girare, e questi dispositivi cominciano a dare dei frutti, permettendo di cogliere la cerchia sociale dentro cui sguazziamo. Ma si può fare decisamente di meglio.