Archivi autore: Giorgio Jannis

Nuovissimi abitanti

I dispositivi touch hanno modificato completamente la percezione sociale delle interfacce verso gli ambienti digitali, grazie alla loro trasparenza.
Rimuovendo quell’alone tecnico che ancora purtroppo circonda i computer, fatto di cavi visibili e di mouse e di procedure d’uso pseudoingegneristiche (“avvia il sistema”, “pannello di controllo”, scarsa usabilità per connettere due pezzi di hardware), gli schermi tattili recuperano una certa naturalezza immediata dell’interazione, a tutto vantaggio di una fruizione libera e giocosa.
Dell’iPad già si parla come strumento principe per recuperare alla Cultura digitale le fasce d’età anagraficamente avanzata, permettendo loro di immettere le loro esperienze nella Grande conversazione senza essere costretti ad affrontare curve di apprendimento sull’utilizzo degli strumenti e degli ambienti di connettività personale.
Di converso, cliccando sull’immagine sopra potrete vedere la naturalezza con cui avviene l’interazione di una bambina di due anni e mezzo, certamente cresciuta insieme agli iPhone, con un iPad. Non vi è nessun blocco, nessun diaframma cognitivo, nessuna paura.

Cellulare glocale, e senso di communitas.

Del glocale, in un mondo connesso, interessa il locale. Perché diventa subito globale. E come il web è rete di reti (inter-net), così il consorzio umano è una rete di collettività.
Rendo eloquente, promuovo l’espressione di ciò che sento, per intrecciarla con il discorso umano tutto, e ne lascio traccia.
Se il globale è la visione di un orizzonte da cui traiamo indicazioni per orientarci, per non perderci nel girare in tondo in giardino, nel locale c’è l’udito, il tatto, il gusto, il sapore dell’esperienza concreta, il mio risuonare.
Il Cittadino, sappiamo, è tale davanti la Legge. Direi quasi che si tratta di Essere Cittadini, come condizione automatica del nostro riconoscimento e della nostra riconoscibilità dinanzi i diritti e i doveri; ed è una condizione che nasce sulla soglia di casa, guardando la strada.
Ma Fare il Cittadino è Abitare, aver cura dei Luoghi. C’è uno spirito, un sentimento, una partecipazione. Sono Cittadino con la vista, Abito (faccio l’Abitante) con tutti in sensi, in tutti i sensi.
E Granieri segnala una accezione anglofona di communitas, che poi è vicina al significato latino, dove si intende proprio recuperare il sentimento del fare comunità.
E come Cittadino e Abitante, questo sentimento, questo spirito profondo di appartenenza connota questa distinzione tra Cittadinanza (nome collettivo) e Comunità, oltre la community strutturata per cogliere la communitas.
Jeff Jarvis dice che il local lo fa il telefono cellulare, in questo suo articolo Mobile=Local.
Lì dentro, dentro quel dispositivo tecnologico connetti-umani, convivono le anime individuali e collettive, le parole di espressione di sé, la nuvola dell’abitare sociale.
E per questo Google e Nokia e le aziende sono interessatissime a rendere visibili i flussi di abitanza locale, a portare gli ethnoscapes dentro i mediascapes, paesaggi mediatici concreti creati dal nostro agire comunicativo.
Cosa sta succedendo intorno a me? Col cellulare smart posso fare una fotografia del bar all’angolo, e chiedere al web cosa ne sa di quel posto, se ci sono dei miei amici lì in giro, se il posto è piacevole, se ci sono dei dati pubblici governativi su quel luogo, posso vedere il menù e i tipi di birra serviti, posso sapere che gruppetto rock ci suona stasera, ascoltare dei loro pezzi o vedere un loro video, e tutto questo lo dico e lo faccio insieme ai miei amici, tutti connessi nel pensare in modo aumentato, e questo è local.
Per fare tutto questo per bene, Google ha bisogno di due cose: innanzitutto, ha bisogno di avere più dati. Ha bisogno che noi annotiamo il mondo con le nostre informazioni, e se non riesce a trovare queste informazioni, creerà gli strumenti per generarle.
In secondo luogo, Google ha bisogno di sapere più cose di noi, ha bisogno di ulteriori tracce del nostro fare, del nostro abitare fisico e digitale (dentro i social network) nei Luoghi, per offrire dei servizi che possano essere per noi rilevanti.

A Bill of Rights in Cyberspace

  1. Abbiamo il diritto di connetterci.
  2. Abbiamo il diritto di esprimerci.
  3. Abbiamo il diritto di parlare nella nostra lingua.
  4. Abbiamo il diritto di riunirci.
  5. Abbiamo il diritto di agire.
  6. Abbiamo il diritto di controllare i nostri dati.
  7. Abbiamo diritto alla nostra identità.
  8. Ciò che è pubblico è un bene pubblico.
  9. Internet deve essere costruita e deve funzionare in modo aperto

Jeff Jervis propone degli emendamenti alla Dichiarazione d’Indipendenza del Cyberspazio di Barlow.

Due rapide osservazioni, che traggo in parte dai commenti presenti sul blog di Jarvis.
La Dichiarazione di Barlow è un testo eccezionale, lungimirante (è del 1996), filosoficamente intriso di cultura visionaria e al contempo concreto nella sua capacità di identificare i nuovi territori e diritti imprescindibili degli abitanti della Rete. Questi emendamenti di Jarvis, nelle sue stesse parole, più che miglioramenti o correzioni li intenderei come attualizzazioni, avendo a mente i pericoli che la libertà su web oggi corre in più parti del mondo.
Sarebbero da aggiungere il diritto di link (che volendo si può intendere come contenuto nel diritto di riunirci in assemblea, nel nostro organizzarci senza organizzazioni che la Rete permette), e l’affermazione secondo cui nessun governo o gruppo commerciale o individuo può rivendicare sovranità di alcun tipo sopra questi territori digitali, asserzione centrale e fondante in Barlow.
Ma qui si apre uno spazio critico.
Jarvis ragiona di libertà di Internet, Barlow parla di indipendenza.
Tant’è che è possibile far notare a Jarvis che è sbagliato esprimere dei diritti (wrong/right) delle persone in una simile Carta, come se ci fosse un’autorità che li concede, da cui noi elemosiniamo. Noi non abbiamo il diritto di connetterci, noi ci connettiamo, punto. Non voglio il diritto di parola, voglio che non mi venga impedito di parlare, visto che io parlo.
Se proprio devo introdurre degli elementi pro-positivi (affermativi) in una Dichiarazione d’Indipendenza, dovrei soltanto esprimere ciò che non deve essere fatto, a esempio chiarire che i governi non devono fare leggi contro la libertà di espressione.
La distinzione tra libertà e indipendenza influenza profondamente la narrazione del soggetto.
Articolando su un quadrato semiotico i conversi, i contrari e i contraddittori del poter-fare (libertà) si comprende la posizione dell’indipendenza come poter non-fare, che garantisce maggiormente uno spazio di manovra etico per il soggetto. Anche perché c’è sempre una storia dove un’autorità sovrastante riesce a trovare qualcosa con cui manipolare il soggetto, un oggetto di valore o anche una semplice provocazione, trasformando il suo garrulo poter-fare in un angosciante dover-fare, a esempio ridisegnando il contesto narrativo attraverso un soffocante non-poter non-fare, ovvero nella situazione dell’obbedienza.
Meglio l’Indipendenza.

 

I libri ci leggono

Mettiamo il caso specifico delle tecnologie didattiche.
Lavagne interattive, pc in classe, videocamere, registratori. La buona letteratura sull’argomento ci dice che potrebbe essere perfino controproducente rispetto all’apprendimento considerarle come qualcosa di aggiunto al normale flusso comunicativo tipico delle mattinate a scuola.
Per l’insegnante l’utilizzo di edutic in classe dovrebbe essere un gesto fluido, a tempo con il dialogo o multilogo del gruppo classe; se invece devo spostarmi in aula multimediale, oppure collegare lavagna o videoproiettore, trovare le chiavi dell’armadio per tirar fuori la macchina fotografica, spezzo il flusso e va ricostruito l’ambiente mentale dell’apprendimento.
Per questo qui si dice che le tecnologie in classe vanno pensate come ambienti, non come strumenti, in particolare se parliamo di Luoghi di apprendimento digitali come i blog di classe, le piattaforme FAD, le community.
Un insegnante non pensa “adesso uso la lavagna”, “adesso uso il libro”. Per motivi storici, vi è naturalezza nel suo disporre dei sussidi. Lo stesso dovrebbe avvenire con il computer o con la LIM, se quegli strumenti abitassero già, in modo nativo o naturalizzato, nella sua mente e nel suo pensare la propria attività professionale. Gli strumenti ci abitano, noi abitiamo in un ambiente mentale che contempla gli strumenti, quando li usiamo abitiamo le potenzialità che quegli strumenti ci offrono.
“Quando impugno un martello, tutto assomiglia a un chiodo”. L’affermazione spiritosa coglie bene proprio questo aspetto: la relazione tra il mio pensare (percepire, progettare, prevedere, esplorare, predispormi all’azione) e le potenzialità dello strumento. Non vedo nessuna difficoltà a dire “il martello mi abita”, ovvero “io abito il martello”.
Il discorso vale anche per la tecnologia tutta, la quale non va vissuta come corpo estraneo rispetto alla cultura umana, nemmeno l’avessero portata gli alieni, ma va concepita come propria della specie umana. La tecnologia non è uno strumento, è l’ambiente dentro cui /grazie al quale progettiamo le trasformazioni del territorio per sopravvivere come specie.
Per questo dovremmo essere tutti un po’ tecnologi (mica tecnici), essere consapevoli del mondo costruito in cui viviamo, senza bloccarci dinanzi a questi ragionamenti molto umani, e la Scuola dovrebbe riuscire a rendere consapevoli le nuove generazioni della tecnologia che ci abita.
Noi tutti quindi abitiamo nella tecnologia (guardatevi attorno), e con essa dialoghiamo, quotidianamente. E lo facciamo da millenni, e siamo cresciuti insieme, siamo ibridati con la tecnologia, la tecnologia cambia la natura umana, e Frankenstein è un libro del primo Ottocento. “Cambia il modo di fare figli, di allevarli e di educarli. Cambia il modo di comunicare, di apprendere e di insegnare”, dice Giuseppe O. Longo. La tecnologia cambia la nozione di tempo, la percezione dello spazio, il concetto di realtà, e conseguentemente cambiano le forme sociali, i tribunali e gli ospedali e le scuole, le case e le città, i modi con cui ci relazioniamo agli altri.
Ma torniamo nello specifico, parliamo di supporti tecnologici della conoscenza, parliamo di libri.
Sono millenni che ci accompagnano, i libri, cinque secoli in formato a stampa.
Ma adesso ci sono gli e-book, e alla specie umana succederà qualcosa, come sempre accade quando si modifica la forma e le funzionalità degli strumenti base dell’apprendere.
Matureremo nuove modalità di accesso all’informazione, ora che sono cambiate le interfacce. Sì, un libro è un’interfaccia, una porta per lo scibile, visto che ogni libro parla di altri libri. E noi interagiamo con il libro, secondo l’usabilità che l’oggetto tecnologico ci permette. E con gli e-book il libro si fa abitare in modo diverso, e accende scintille nuove nella nostra testa.

E se un e-book è testo elettronico, che appare e scompare, che possiamo manipolare, già oggi è possibile fare un passo in più, se a esempio il libro ci guarda mentre leggiamo.
Se il libro fosse provvisto di una videocamera che segue il movimento dei nostri occhi e modifica ciò che appare mentre leggiamo, aiutandoci a potenziare l’esperienza, mostrandoci immagini o collegamenti ipertestuali, perché il libro (su un tablet, su un iPad) sa dove stiamo puntando lo sguardo, se ci soffermiamo su una parola, ci segue nel nostro ritmo di lettura.
Dialoghiamo con la tecnologia, è cosa tutta umana, non può esserci estranea.

Qui su Wired.com trovate l’articolo (in inglese), qui sotto metto il video.

Google situazionale

Suzuki Maruti aka Enrico Sola forse per primo ha istituzionalizzato il giochino, giustamente nominandolo Anafore, per le sue qualità retoriche. Anafora, come ripetizione, ma soprattutto anafora come un richiamo a risalire il testo, verso qualcosa di precedentemente espresso.
Perché da una ricerca su Google si risale a tutto quello che è stato webpubblicato, e che contiene quelle parole.
Ma l’anafora, a esempio nello studio dei pronomi in quanto forme grammaticali, in quanto funzioni linguistiche, per le loro peculiari implicazioni nella filosofia del linguaggio, richiama spesso la deissi.
Belli, i pronomi. Sono la cerniera tra l’Io e il mondo, quell’interfaccia che si fa carico di rappresentare l’identità del parlante dentro il linguaggio, la voce presenza del corpo che situa il mio stare nella situazione enunciativa o comunque narrativa, quell’essere che è un dire di essere, quel dire che è stabilire “io sono”.
Come i pronomi, la funzione deittica del linguaggio questo fa, lega il testo al contesto, lo situa nel tempo e nello spazio, lo immerge e lo incarna nelle concrete relazioni interpersonali, negli universi del discorso.
E questo a me viene in mente quando vedo i suggerimenti che Google stesso, soglia significante di squisito valore gangherologico, fornisce all’immissione delle parole di ricerca, o di alcune lettere.
Trattandosi presumibilmente delle parole chiave maggiormente digitate in ciascuna lingua, quelle tracce d’aiuto che compaiono d’improvviso non solamente rimandano ai pertinenti contenuti testuali alloggiati in Rete, ma ci permettono uno sguardo quanto alla rilevanza che assumono per le persone che li cercano, per l’istantanea sull’immaginario collettivo, per il risvolto antropologico immediato: i suggerimenti di Google sono una sonda gettata sulla realtà, e l’aleatorietà della contestualizzazione innesca innumerevoli fughe narrative nel lasciarci immaginare deitticamente gli scenari di vita, i drammi e gli affetti di milioni di persone.
Non disdegnerei neanche il valore cogente dei suggerimenti offerti: per essere presenti in seguito all’immissione dei termini di ricerca, quei completamenti sono senza dubbio statisticamente significativi, rappresentando sicuramente ciascuno il risultato di milioni di ricerche già effettuate. Siamo sempre in pars pro toto, metonimia dove la parte sta per il tutto e ci permette di trarre inferenze, ma i numeri in gioco situano il giochino ben al di là del campione rappresentativo: a meno che Google non intevenga nella modalità di presentazione, credo si tratti veramente di una fotografia fedele dei pensieri e degli interessi di metà degli italiani (il che permette anche di comparare nazioni tra loro, e vergognarsi di quello che mediamente gli italiani cercano in Rete, ovvero puttanate televisive).

Qui ho messo un po’ di esempi.

Acqua, treni, km0, fotovoltaico: segnalazioni

In Regione esistono dei Comitati dei Pendolari. Sì, i comitati di quelli che quotidianamente o comunque con notevole frequenza prendono dei treni per recarsi sul posto di lavoro, e ogni giorno possono notare le criticità (pulizia, riscaldamento, puntualità, linee soppresse) delle Ferrovie. Negli anni scorsi, in maniera assolutamente spontanea, molti pendolari han fatto passaparola tra loro, riuscendo in tal modo a essere talvolta ascoltati nelle loro richieste di miglioramento dei servizi ferroviari.
Cercando in Rete, ho trovato il blog del Comitato Pendolari Gemona Udine e quello del Comitato Pendolari FVG: su quest’ultimo trovate, a questo indirizzo, un interessante intervento di Marco Chiandoni intitolato “Acqua e ferrovia” dove con gli opportuni distinguo viene tentato un parallelo tra le reti di distribuzione dell’acqua e le reti di distribuzione di umani, ovvero i binari, e le conseguenze di una loro privatizzazione, come in molte parti è successo.
Contro la spesa a chilometri zero. Certo, il più delle volte ridurre le distanze tra produttori agricoli e consumatori migliora la qualità dell’ambiente, in quanto evita di immettere nell’atmosfera quintali di anidride carbonica prodotta dai necessari trasporti delle derrate.
Ma bisogna porre attenzione: dobbiamo sempre procedere pragmaticamente, senza che una visione ideologica (il km0 è sempre preferibile) condizioni i nostri comportamenti d’acquisto.
Un articolo di Dario Bressanini, nella rubrica “Scienza in cucina” sull’Espresso, spiega che le cose non sono semplici come sembrano. A esempio, metà dell’inquinamento è provocato dal consumatore, non dal produttore e dalla filiera dei trasporti. Se devo fare 20 km in auto per fare il giro dei negozietti alimentari che vendono prodotti a km0, inquino di più di quanto farei se andassi direttamente in un unico luogo di grande distribuzione, dove tutte le merci convergono.
E’ da comprendere un fenomeno che si chiama economia di scala. L’ipotesi che un cibo locale richieda sempre meno energia si è rivelata falsa. Produrre carne d’agnello in una grande fattoria in Nuova Zelanda e portarla ad Amburgo richiede meno energia che l’allevamento in Germania, dove visto il clima dovrebbero essere inclusi nel ragionamento anche gli sprechi dovuti al riscaldamento delle fattorie, i mangimi, la cura.
Se compro pomodori in un Farmer’s Market a febbraio a Udine, sicuramente sto comprando pomodori cresciuti in serra: potrebbe facilmente darsi che il consumo energetico complessivo per produrli in FVG sia superiore a quanto gli stessi pomodori richiederebbero se fossero stati coltivati in SudAfrica, tenendo conto anche del trasporto per portarli sulle nostre tavole.
Il fotovoltaico ha bisogno di una filiera. Per potenza installata l’Italia, dopo il boom degli ultimi due anni, si trova al secondo posto nella classifica in Europa dopo la Germania per potenza installata. Se però allarghiamo lo sguardo allìintera filiera di produzione dei pannelli fotovoltaici le cose purtroppo cambiano decisamente in peggio.
Basti pensare che l’industria italiana delle energie rinnovabili complessivamente deve importare circa i tre quarti della componentistica necessaria. Un problemino che non incide negativamente solo (si fa per dire) sullo sviluppo occupazionale ed economico che invece potrebbe derivarne, ma che fa salire anche i prezzi mettendo a rischio il raggiungimento degli obiettivi che su scala europea toccherebbero all’Italia, ovvero il 17% di produzione da fonti rinnovabili al 2020. E a dirlo è la Commissione europea, che ha già fatto cattivi pronostici per il nostro paese.
Quando invece, secondo uno scenario condotto da Iefe-Bocconi, se l’industria italiana riuscisse a coprire almeno il 70% del fabbisogno interno di componenti per la generazione di energia rinnovabile da qui al 2020, si potrebbero creare almeno 175 mila nuovi posti di lavoro e un fatturato di circa 70 milioni di euro.

Pantalone pagherà

Commedia dell’Arte. Come la Satira, la Commedia è cosa tutta nostra. Tre, quattro secoli di egemonia culturale italiana in tutta Europa, dalle corti rinascimentali alle rappresentazioni per i regnanti francesi, al teatro inglese del Seicento, per tornare a Goldoni e diventare, perdendo le maschere e le acrobazie, l’infinito repertorio compiutamente borghese delle trame e delle situazioni, degli intrecci amorosi, delle complicazioni insolubili e delle soluzioni complicate. E tutti quei personaggi, signora mia, capaci ciascuno di cogliere due o tre caratteristiche al massimo dell’eterna natura umana, il fanfarone la furbetta lo sciocco l’avido l’assennata il lascivo e il brillante, eppure sempre in grado di raccontare su un palcoscenico la grandezza e la miseria in cui ci dibattiamo nell’affannosa ricerca di un senso della Vita, l’Universo e Tutto Quanto.

Insomma, possibile che non si trovino dei Brighella e Arlecchino, una sveglia Colombina capaci di ridicolizzare, smascherare addirittura, questi Pantalone che ammorbano l’italia?

Estremo congedo 2.0 aka Lutto in salsa social

Funeras è il portale dedicato al lutto.
I necrologi con le informazioni sui funerali sono aggiornati quotidianamente.
I defunti , che riposano nel cimitero virtuale, hanno uno spazio riservato alla loro memoria dove parenti,amici e conoscenti condividono il dolore con condoglianze, dediche, messaggi commemorativi, foto e video.
I familiari inoltre possono ringraziare per la partecipazione al lutto e comunicare la data del trigesimo e anniversario in memoria della scomparsa dei loro cari.

Non mi piace punto la locuzione “in salsa social” che talvolta si legge sui media per raccontare qualsiasi sciocchezza riguardi il web attuale. Fisime personali.

Però mi piace Funeras.it. Un portale italiano per i morti, e relativa partecipazione 2.0 al lutto. Oh, mica è il primo, ce ne sono molti, ma questo è italiano e moderno, permette bene interazione con e tra coloro che rimangono..

Ci penserà anche Google, prima o poi, una cosa per i morti e una cosa per i neonati, è impossibile non accada. Basterebbe interfacciarsi con gli uffici anagrafe, se questi buttassero fuori uno straccio di feed ben fatto. Ma anche il magazine digitale cittadino dovrebbe offrire questo servizio, sapere chi (quanti) siamo è la base della self-percezione della comunità locale. Anzi, direi che si tratta proprio di un servizio pubblico, se ne dovrebbe far carico proprio il sito della PA. Cittadinanza digitale, insomma.

Poi le statistiche sarebbero interessanti.

Fino a ieri si misurava, e in italia poi con sua la ritualizzazione estrema dei momenti di passaggio figuriamoci quanta letteratura, la fama di una persona in base al numero di partecipanti al suo funerale, e in seconda battuta con le partecipazioni e le segnalazioni sul quotidiano locale.

Vedremo qui su web chi riesce a superare i mille commenti anche da morto. Voglio le classifiche della mortosfera.

Certo, sarà necessario un controllo a manina su quanto scrivono i familiari e i fans dell’estinto – così scrivono – perché va bene diffamare i vivi e ti chiudo il blog, ma non te la prendere coi morti.

Mi vengono sempre i mente i foglietti di annuncio lutto che nei paesi si vedono ancora attaccati sui muri, nelle bacheche pubbliche e sui pali della luce. Chissà se ci sono nella giurisprudenza dei processi per imbrattamento degli annunci mortuari su carta affissi in giro. Chiaramente lì è più difficile, qui abbiamo l’IP del commentatore, là è tanto se scopri la marca della penna, fatta salva la perizia calligrafica o la flagranza di reato.

Questa qui di Funeras è gente di vicino Padova, sembra. Potrei dire loro di curare maggiormente la grafica, perché quel loro sito lo vedrei bene uguale per vendere olio lubrificante sintetico per motori a due tempi (tempo di Vespa, quasi), solo cambiando le scritte.

Però al sito ci planate sopra e già vi offre i necrologi geotaggati secondo la vostra provenienza geografica, ben fatta.

Saluto qui sotto Clelia, 97 anni, un nome d’altri tempi, le auguro buon viaggio, e che Hermes psicopompo le sia vicino. Non la conoscevo, non conosco i suoi parenti, ma mi è simpatica.

Sto pubblicando una cosa pubblica, con nomi e cognomi, dite che non posso farlo? L’ho trovato qui.

Mi disturba di più quel “scrivi la tua dedica” scritto gigantesco., sembra il fan club di un cantante pop. Sotto coi sinonimi, ragazzi, e stile innanzitutto, nel momento del trapasso. Anche gli sponsor, imprese funebri e marmisti, li terrei un po’ più nascosti.

Le nuove Linee Guida ministeriali per i siti web delle Pubbliche Amministrazioni

Su iniziativa del Ministero per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione, sono state pubblicate le nuove Linee guida per i siti web delle PA, Innovazionepa.gov.it ne parla qui, trovate anche il link per il pdf.
Come al solito, quelli del Formez e le commissioni ministeriali pare abbiano fatto un buon lavoro: sono ben trattati i temi della usabilità, dell’accessibilità, le metodologie e gli stumenti per la progettazione razionale e efficace dei Luoghi web della Pubblica Amministrazione,vengono messe in primo piano le tematiche della qualità della comunicazione (trasparenza, visibilità dei contenuti, policy), viene sottolineata l’importanza dei formati aperti e vengono delineati alcuni criteri per sollecitare l’espressione della valutazione del servizio da parte degli utenti.
Dico come al solito, perché anche la famosa legge Stanca 150 del 2001, sulla comunicazione pubblica, era meritoria in quanto a visione generale, così come le linee guida uscite successivamente, verso il 2004, a cura del Formez, oppure le indicazioni successive ministeriali per la qualità della comunicazione delle Pubbliche Amministrazioni erano perfettamente centrate e aggiornate sulla necessità di fornire al cittadino, in ottica e-government, una praticabilità netta e senza ombre di quanto le PA devono produrre e pubblicare, per legge.
E giustamente, il cittadino era ed è sempre posto al centro del processo comunicativo.
Ma in italia il problema, lo sappiamo, non è certo fare delle leggi, che anzi proliferano senza sosta. Il problema è nella loro applicazione.
Se le PA locali, le Scuole e i Comuni e la Regione adottassero rapidamente queste linee guida, in un’ottica di miglioramento continuo della qualità della comunicazione tra l’Istituzione e i cittadini – l’importante è cominciare, e queste indicazioni vanno già benissimo – già potremmo dire di essere un po’ più civili, nel sentirci convolti come parte attiva nel dialogo sull’amministrazione della cosa pubblica.
Una segnalazione: queste Linee guida escono in “beta”, ovvero come versione preliminare.
Sono stati infatti attivati dei Luoghi di discussione presso i siti ministeriali, dei forum tematici ben articolati, dove tutti possiamo contribuire al miglioramento stesso delle indicazioni, in una concezione collaborativa, un crowdsourcing, delle attività.
E’ un bel segno, sempre che non resti tutto sulla carta*.
* “restare sulla carta” è metafora linguistica risalente all’epoca precedente l’attuale, decisamente inadeguata nella lettera a cogliere le peculiarità di una legge ministeriale pubblicata in formato elettronico su siti governativi, per gestire la comunicazione su web delle Pubbliche Amministrazioni.
Il suo significato metaforico, invece, indica il fatto che poi nulla cambi, nulla si sviluppi in senso concreto, niente si trasformi in azione.
Esattamente il mio timore. Insomma, speriamo queste Linee guida non rimangano sui bit, ma diventino comportamenti concreti e atteggiamenti trasparenti delle PA, del loro voler comunicare bene con i bit.

Cybercensura

Ma quanto può dare fastidio ai Governi che in rete si parli liberamente, al punto da censurare la pubblicazione di contenuti o impedire la navigazione?
Reporters Senza Frontiere ha diffuso un documento che fotografa la situazione mondiale, Stato per Stato, e c’è molto da imparare, molto a cui stare attenti.
Il documento completo è qui, trovate una sintesi presso il Nichilista.

Factchecking a Udine, Quintarelli, Canciani e le antenne dei cellulari

A Udine da qualche settimana si parla molto di antenne per la telefonia. Ne hanno messe un paio un po’ troppo vicino a delle scuole, nel tempo di una mattinata arrivano i tecnici e tirano su un mostro, nessuno nei quartieri ne sa niente, il sindaco Honsell prova a sostenere le ragioni dei cittadini a parole ma poi deve capitolare perché “il Comune ha le mani legate”, ci sono direttive legislative precise che stabiliscono che una volta che i Comuni hanno offerto alle aziende di telefonia le mappe con i luoghi possibili di instalazione delle antenne, parere dell’ARPA favorevole, queste possono procedere senza indugio. 
La Regione FVG ci aveva provato a normare meglio la proliferazione selvaggia delle antenne, ma il TAR bocciò l’iniziativa, vinsero le aziende.
Poi oggi sul Messaggero Veneto prende la parola Mario Canciani, noto medico pneumologo, che cavalcando il malcontento popolare (il dottore è anche consigliere comunale di maggioranza a Udine, un po’ di visibilità non fa mai male) sproloquia su risonanze magnetiche effettuate su persone mentre utilizzano un cellulare, la qual cosa non può semplicemente essere possibile, in termini scientifici. Non può essere presente un pezzo di metallo dentro la camera della Risonanza Magnetica, tutto qui, stop. Uscisse i casi di studio, per cortesia.
Di questo serious fact-checking vengo a conoscenza nientemeno che da Stefano Quintarelli, il quale pubblica oggi sul suo blog le parole di Canciani riportate dal Messaggero Veneto, avendo evidentemente a cuore il controllo delle informazioni pseudoscientifiche, spesso utilizzate pro domo di qualcuno, che vengono qua e là affermate con troppa leggerezza. 
Siam mica tutti allocchi, qui, ognuno sa un pezzetto di qualcosa e tutti insieme in Rete sappiamo tutto, più di quello che qualsiasi enciclopedia potrà mai riportare.
Il dottor Canciani ha anche un sito professionale dignitoso, adesso vado a segnalargli l’articolo di Quintarelli e vediamo cosa risponde, poi vi faccio sapere.
Per la cronaca: qui non stiamo disquisendo di cellulari sì o no, di inquinamento elettromagnetico… sto parlando di etica comunicativa da adottare nel pronunciare parole ai mezzi stampa da parte di un luminare della medicina, che per il fatto della autorevolezza della fonte vengono magari prese per buone da molti, senza che si inneschi una capacità critica nel recepire l’informazione.
Inoltre: chiaro che personalmente sono anche preoccupato dai livelli di inquinamento elettromagnetico, fondamentalmente perché non sappiamo bene con cosa stiamo giocando e perché come al solito qui si fanno le cose tenendo all’oscuro la cittadinanza, senza utilizzare strumenti per la progettazione partecipata di iniziative comunali, a vantaggio di aziende di cui per principio non mi fido.
In ogni caso, meglio avere molte antenne a bassa emissione, che poche molto potenti.

Lessig: l’umiltà dei Governi e il rispetto per le nuove generazioni

Il discorso di Lawrence Lessig alla Camera dei Deputati, su La Stampa

… quando ci rendiamo conto che questa guerra che facciamo a Internet è la guerra che facciamo contro ai nostri figli, dobbiamo essere umili e riconoscere che più poniamo vincoli su come loro usano Internet e più loro si oppongono queste restrizioni e in modo sempre più distruttivo. Non possiamo impedire ai nostri ragazzi di essere creativi in un modo in cui noi non eravamo alla loro età, se facciamo ciò allora non faremo altro che renderli, spingerli a diventare pirati. Nel mio Paese i ragazzi vivono in un’era di proibizione, la loro vita la vivono sempre contro la legge e questo è corrisivo, corrode alle basi la democrazia e lo Stato di Diritto. 

Fondare arrogantemente la democrazia della Rete

Leggo fantascienza da quando ero alle medie, centinaia di Urania comprati usati in un negozietto buio strabordante di carta impilata, gestito da una matrona settantenne vagamente somigliante a Moira Orfei.
Negli anni Ottanta il cyberpunk di Gibson e di Sterling si innesta su Dick e Ballard, e tutto si avvita saldamente nel mio cervello adolescente.
Quando all’università Bifo mi faceva leggere Pierre Levy, prima metà Novanta, le visioni fluivano liberamente, visioni concrete e per nulla sorprendenti di una realtà imminente. Un mondo connesso, biblioteche ubique, intelligenza collettiva, rivoluzioni dei sistemi mediatici, economici, culturali, e quindi sociali.
Sono passati diciotto anni da allora, la stessa distanza che separa Woodstock da We are the World, giusto per parlare degli abissi, e anche perché mi ha sempre colpito che i ventenni fricchettoni del 1970 siano diventati i trentacinquenni cocainomani armani-paninari del 1985.
Quindi, sono decenni che mi girano per la testa certi pensieri, e comunque chiunque abbia letto quei cinque libri sulla Rivoluzione digitale usciti a metà Novanta non può essersi sorpreso poi molto di ciò che è successo nel mondo da allora a oggi, perché là dentro è tutto ben descritto. Bravi certo i guru storici (Kelly, Negroponte, Barlow, Levy, etc.), ma non era difficile prevedere certi sviluppi del web e delle forme culturali e tecnosociali, una volta compresa dall’interno la portata e la forza di quello che stava accadendo.
Quelli che nascevano diciotto anni fa oggi li chiamiamo nativi digitali, e non sono bambini, sono persone che votano.
Oggi alla Camera dei Deputati si è svolto un convegnone, sapete, intitolato “Internet è libertà”.
Dopo diciotto anni di moti carbonari, finalmente la Cultura digitale emerge alla luce del sole, nel riconoscimento ufficiale delle parole pronunciate da cariche istituzionali nei luoghi di Governo di questa italia sempre buon ultima nel prendere sul serio le innovazioni sociali, specie se propagandate da eterni ragazzini che passano il loro tempo attaccati al computer, come vogliono le barzellette che giornali e tv continuano a propinare.
Guardo lo streaming del convegno sulla webtv della Camera (tre anni fa questa sembrava fantascienza), e ascolto Gianfranco Fini, anfitrione dell’evento, parlare di diritto di accesso a internet come diritto di cittadinanza, e penso che forse sì, qualcosa è sgocciolato attraverso la roccia. Poi tutti gli altri raccontano la loro, un po’ mi annoio, un po’ rido per le inevitabili baggianate pronunciate da chi queste cose non le ha imparate vivendole, ma gliele hanno raccontate, poi penso che quello che dice sciocchezze è un viceministro che sta legiferando proprio sulle libertà di internet e già rido meno. Leggete Boccia Artieri per una rapida visione critica dell’evento.
L’ospite d’onore del convegno è Lawrence Lessig, che tiene da par suo una lectio encomiabile di trequarti d’ora. Mi colpisce il suo far riferimento un paio di volte alla generazione futura, alle differenze “antropologiche” che ci separano dai giovani. Tant’è che alla fine del convegno, interpellato per un rapido intervento conclusivo da Riccardo Luna riguardo l’impressione che ha avuto della situazione italiana, Lessig sottolinea come negli States il dibattito politico non abbia ancora preso in carico tutti i risvolti “legislativi” e di diritto personale messi in fibrillazione dai comportamenti su web, come gli sembra invece che gli Stati europei stiano facendo, guarda un po’.
E poi aggiunge qualcosa di importante, secondo me. Parla esplicitamente, dopo i soliti battibecchi italiani sulle leggi e le censure governative, di una nostra generazionale “presunzione di democrazia”, nel voler stabilire oggi per l’oggi quali siano i comportamenti giusti e sbagliati da normare, sempre concentrandoci su un presente ormai sorpassato, quando intorno a noi c’è appunto una nuova generazione che abita altre realtà mentali e culturali, perfettamente indifferente alle regole dei padri in quanto semplicemente non adeguate al loro mondo. Questa generazione non avrà nessun rispetto per la nostra presunzione di voler stabilire una democrazia, se questa democrazia non sarà costruita insieme a loro, che dovranno vivere dentro quelle regole nel loro tempo 
e in un mondo radicalmente differente dal nostro.

Update dopo la provavideo

Lessig, più meno letterale: “vi incoraggio a prendere sul serio la rabbia, riconoscere che la vostra presunzione di democrazia non è una presunzione che si tutela da sola. Si può proteggere quest’idea di democrazia se si ascolta la generazione dei nativi, in un dialogo che rispetti questa generazione”.

Comunicazione, informazione e nuove tecnologie

Giovedì 18 marzo alle 20.45, presso il Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone avrà luogo un incontro pubblico di assoluto rilievo dal titolo “Comunicazione, informazione e nuove tecnologie”, nell’àmbito del festival Dedica 2010 quest’anno centrato sulla Metamorfosi del mondo della conoscenza e sulla figura di Hans Magnus Enzensberger.
La conversazione pubblica, presente lo stesso Enzensberger, prevede la partecipazione di Derrick de Kerckhove, Luca De Biase, Mario Perniola
Imperdibile.

Ulteriori informazioni qui.


Società della conoscenza a Pordenone

Giovedì 18 marzo alle 20.45, presso il Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone avrà luogo un incontro pubblico di assoluto rilievo dal titolo “Comunicazione, informazione e nuove tecnologie”, nell’àmbito del festival Dedica 2010 quest’anno centrato sulla Metamorfosi del mondo della conoscenza e sulla figura di Hans Magnus Enzensberger.
La conversazione pubblica, presente lo stesso Enzensberger, prevede la partecipazione di Derrick de Kerckhove, Luca De Biase, Mario Perniola
Imperdibile.

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I classici italiani su Google

“Un primo passo importante verso la realizzazione del sogno che ha guidato i fondatori di Google: la creazione di una biblioteca universale”. Così Nikesh Arora, presidente Global Sales Operations and Business Development del gigante di Mountain View, ha definito la neonata cooperazione tra Google Books e il ministero per i Beni e le Attività Culturali. In base all’accordo, presentato oggi nella sede del MiBAC, nei prossimi due anni verranno catalogati e poi digitalizzati circa un milione di libri non coperti da copyright conservati nelle Biblioteche Nazionali di Roma e Firenze. Un’operazione che consentirà a chiunque nel mondo di accedere alle opere dei più grandi intellettuali, scrittori e scienziati italiani: il tutto a titolo gratuito e senza esclusive, tanto che i testi saranno disponibili anche sui siti web delle biblioteche stesse e su altre piattaforme, come ad esempio quella del progetto Europeana.

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