Archivi autore: Giorgio Jannis

taaaAAC! Trovato un segno sospetto

E’ giusto per fare i bastardelli, perché può facilmente venir ricusato, giustificato, spiegato, ma a me cosa me ne cale?
Qualche mese fa il Ministero per l’Innovazione ha pubblicato delle Linee Guida per i siti web della Pubbliche Amministrazioni (ne parlavo qui) in formato beta, suscettibili di miglioramento da parte della community dei portatori d’interesse, tramite webforum e gruppi di discussione. Benissimo. Oggi sono uscite le versioni definitive,  cioè quelle linee guida in progress di marzo scorso integrate e arricchite con gli apporti dei cittadini che han voluto partecipare al processo.
Nella paginetta di presentazione odierna sul sito governativo troviamo: 

Le Linee guida per i siti web delle PA si collocano a pieno titolo nell’ambito delle iniziative di innovazione delle amministrazioni pubbliche promosse dal Ministro Renato Brunetta per realizzare un rapporto aperto e trasparente con i propri clienti e avviano, per la prima volta in Italia, un processo di “miglioramento continuo” della qualità dei siti web pubblici.

Ora ditemi. Perché “clienti”? Perché?
Ti è scappato così, redattore del comunicato stampa? Peggio, è un lapis calami che uso per leggere la tua mente come uno scanner. 
Oppure Brunetta ritiene sia la parola giusta da utilizzare per appellare il suo interlocutore (tutti noi cittadini) mentre illustra la novità di un progetto di comunicazione istituzionale che dovrebbe riuscire finalmente a stabilire un piano di comunicazione orizzontale con il cittadino, coinvolgendo entrambi (Istituzione e Cittadinanza) in una conversazione utile e rispettosa? E tanto per cominciare mi chiami “cliente”? Figata.
L’etimo di Cliente dice alcune cose molto suggestive, e non abbiamo ancora parlato del significato “commerciale” del termine, nelle azioni di compravendita.
PS: Che poi basta con questa visione dell’Istituzione e della Cittadinanza, l’una contrapposta all’altra.Roba vecchia. Noi siamo una collettività, ognuno di noi, nei gruppi di appartenenza, elabora una propria visione degli “strati sociali”, di flussi di informazioni e di relazioni orientate, di prossemica fisica e digitale, poi abitando diamo parola e rappresentazione al nostro dire, e si crea una pubblica opinione, da cui emerge diciamo una forma di coscienza di sé della collettività. 
Le Istituzioni pubbliche devono semplicemente essere il Luogo della consapevolezza di un territorio, emersa per conversazione pubblica, dove si progettano e si realizzano servizi per la collettività in maniera partecipata.

Socialità in Rete

Come funziona la socialità in Rete?
Internet ha reso insignificante il concetto di distanza geografica, e gruppi di persone da tutto il pianeta, accomunati dall’interesse per tematiche specifiche, convergono sugli stessi Luoghi digitali e scambiano informazioni e opinioni e costruiscono oggetti culturali da re-immettere nel circuito della comunicazione.
O di converso, teniamo in considerazione anche una comunità locale che prende coscienza di sé, specchiandosi nei paesaggi mediatici che emergono dal proprio ininterrotto produrre comunicazione e contenuti, e che si scopre molto più ricca e variegata grazie alla coralità di voci che ora possono partecipare alla pubblica discussione.
Già da qualche decennio discipline quali la sociologia della comunicazione, la psicologia sociale, l’antropologia provano a illustrare i meccanismi tramite i quali si viene strutturando una forma sociale in una data collettività, i rituali e i cerimoniali, le tribù e i clan, la propaganda e la creazione del consenso, la nascita di tematiche condivise capaci di alimentare l’agenda collettiva, e la loro distribuzione presso i gruppi sociali, di cui spesso abbiam detto conviene darsi una rappresentazione di tipo ecosistemico, partendo a esempio dal modello delle nicchie ecologiche.
La nostra appartenenza a deteminati gruppi sociali e la relativa esposizione a determinati argomenti e punti di vista, la nostra frequentazione di determinate cerchie amicali o professionali costituisce un “filtro” attraverso cui percepiamo il mondo, dando senso agli accadimenti; in Rete avvengono gli stessi identici fenomeni di socialità, partecipiamo a conversazioni nei vari ambienti digitali, maturiamo la nostra opinione sui fatti in un confronto continuo con persone selezionate serendipicamente, di cui apprezziamo la competenza e lo stile.
Galatea ha scritto una riflessione su queste dinamiche sociali in Rete: ora io la incollo qui, ma cliccando qui la leggete direttamente sul suo blog.

Internet, il branco, il villaggio e l’utilità della fantesca globale

Stamattina, sulla Stampa, è apparso un bell’articolo di Ethan Zuckerman, traduttore e attivista della rete di Voci Globali. È un pezzo denso, di cui mi ha colpito però la riflessione riguardante l’apertura e la “chiusura” della rete. Posto che internet è ormai aperta a tutti, dice Zuckerman, e quindi tramite i social network persone di ogni parte del mondo possono entrare velocemente e spontaneamente in contatto le une con le altre, resta però un fatto che si tenda ad aggregarsi in “gruppi” che poi risultano abbastanza chiusi ed impermeabili fra loro: dei “branchi”, li chiama lui, in cui si ritrovano persone con interessi, cultura e provenienza razziale o culturale simile. Il risultato è che fra loro questi gruppi tendano a parlare solo di determinate cose (quelle che interessano loro) e rimanere sordi, anzi non entrare proprio in contatto con tutto il resto. Tanto che se una notizia o un tormentone vengono lanciati in internet all’interno di un determinato gruppo, persino molto numeroso, può addirittura accadere che il resto dell’universo dei navigatori nemmeno se ne accorga, o, se se ne accorge, non sia minimamente in grado di capire di che cosa stiano parlando gli altri.

Trovo l’osservazione di Zuckerman profondamente azzeccata. Internet, come tutti i prodotti dell’uomo, riflette la logica secondo cui è strutturata la società che l’ha prodotta. E la società umana si organizza, dalla tribù al globo, secondo logiche di appartenenza e di cooptazione. Ognuno di noi costruisce attorno a sé, sia nelle rete che nella vita, una cerchia che è il suo punto di riferimento fisso e che contribuisce a definire la sua identità: in sostanza ha un circolo ben definito di “conoscenti” di cui si fida o che frequenta per motivi di lavoro e di contatti sociali. Tutte le informazioni con cui l’individuo entra in contatto sono in un certo senso “filtrate” dalla sua cerchia: o perché gli arrivano indirettamente dai racconti di membri di essa o perché, anche se sono cose che vede succedere di persona, senza apparenti mediazioni, i fatti vengono interpretati attraverso i modelli culturali della cerchia di appartenenza, che determina cosa debba essere considerato “positivo” o “negativo”, “bello” o “brutto”, importate o trascurabile.

La novità di internet, semmai, è rappresentata dalla possibilità di allargare e rendere trasversali o multiple le nostre “cerchie”. Per secoli lo sviluppo del pensiero umano e del talento singolo erano molto vincolati non solo al tempo in cui l’individuo si trovava a vivere, ma dalla sua posizione geografica. In un mondo in cui gli spostamenti erano lunghi e difficili, la cerchia di amici con cui si poteva rimanere in contatto e scambiare idee era forzatamente ridotta a coloro che vivevano vicini. Lo scambio di idee e di informazioni, che è il presupposto per ogni crescita intellettuale, è legato alla creazione di una rete efficiente e veloce. Gli intellettuali hanno sempre costruito “reti” di questo tipo (dal reticolo di monasteri in continuo scambio epistolare del medioevo alle accademie di letterati nei secoli seriori): è impossibile diventare intelligenti se si passa il tempo a conversare solo con citrulli o si possono leggere quattro libri, magari neppure eccelsi. Ma finché non si è avuta la possibilità di una diffusione capillare ed immediata della parola “scritta” lo scambio intellettuale era patrimonio esclusivo di una élite: quella che si poteva spostare per viaggi e convegni, spedirsi lettere e scambiarsi tomi.

Oggi internet (con i social network, i forum, etc.) permette invece anche a persone “normali” di crearsi una propria rete di frequentazioni e conoscenze transnazionali, anche se non ci si può muovere da casa o lo si fa di rado. Resta però il problema, ma questo è un portato naturale, che queste cerchie si “costruiranno” in maniera spontanea cercando coloro che hanno interessi simili ai nostri. Gli appassionati di pesca cercheranno appassionati di pesca dall’altra parte del globo, ma sempre di pesca parleranno.

La logica con cui sono costruiti i social network, in realtà, favorisce l’incontro di chi ti è simile: si legge coloro cui si è concessa l’amicizia e l’accesso alle nostre pagine o thread, quindi a persone che già conosciamo o ci vengono segnalate da altri amici (o da algoritimi pensati per questo) perché hanno interessi comuni a noi. Per questo alcuni gruppi possono essere del tutto impermeabili a notizie che sono propagate al di fuori del gruppo stesso: esistono, sulla rete come nel mondo, delle nicchie, ed alcune sono particolarmente chiuse. Ciò che la rete però permette è quello di gestire più cerchie in contemporanea e in tempo reale. Chi ha esperienza di social sa che, dopo un certo numero di contatti, tutti dividono gli “amici” in liste, determinate sulla base degli interessi specifici e differenti dei vari membri che vengono là inseriti: la lista dei “maniaci” di internet distinta dagli “amici d’infanzia”, i compagni di calcetto divisi da quelli di partito o dai colleghi, e così via. Siccome l’individuo non è mai un monolite, internet permette di gestire contemporaneamente ed in tempo reale comunicazioni con più cerchie costituite da membri con interessi in parte diversi, e legati magari solo dall’avere tutte un contatto con x in comune. Il passaggio di informazioni (modi di dire, trend) sulla rete è garantita da questi individui-ponte, che possono mettere in contatto, casualmente, persone di provenienza ed interessi diversissimi fra loro.

Un tempo l’informazione “generalista” era affidata alla stampa generalista, appunto: uno comprava il giornale al mattino e leggeva un po’ di tutto nella prima pagina, poi approfondiva solo le notizie che gli interessavano, sulla base del proprio carattere, lavoro, formazione o bisogno. L’avvento di servizi specifici come Google News e Allert ha in parte ridotto l’apporto di informazioni generaliste, nel senso che uno può anche scegliere che gli vengano inviate a priori solo alcuni tipi di notizie, e beatamente ignorare il resto. Sui social network, in un certo senso, si è creato naturalmente lo stesso tipo di filto: ricevo twit ed aggiornamenti solo dalle persone che ho preselezionato e che quindi, nel 90% dei casi, parlano di cose che abbiamo in comune. Divengono perciò importanti, sulla rete, ai fini della diffusione dell’informazione, quegli individui che hanno molteplici interessi, molti contatti e in qualche modo partecipano a molte cerchie trasversali. Questi possono permettere che informazioni presenti solo nella cerchia A passino anche alla cerchia B, che, altrimenti, potrebbe bellamente ignorarle. Non necessariamente costoro sono i cosiddetti “guru” del web, o blogstar: anzi, di solito l’autore di un sito o di un blog tende a crearsi una personalità ben riconoscibile, e affrontare quindi solo determinati argomenti. Questi “ponti” fra le cerchie possono essere anche personaggi molto anonimi: basta che la loro rete trasversale di contatti permetta di innescare, per effetto domino, una specie di tam tam in ambienti che solitamente non sono in contatto. Un po’ come la vecchia fantesca del villaggio, che nessuno considerava un personaggio importante, ma, andando di casa in casa, finiva col diffondere in tutti gli strati sociali le novità del giorno. Internet è un villaggio globale. In tutti i sensi.

Bambini e social network

Da una discussione interessante su Friendfeed: “Papà, ma non c’è un coso tipo facebook dove parlare ma per bambini?”, ecco un problema che se ci impegniamo potremmo risolvere per tempo.
Purché nei commenti, qui come là, non arrivi qualcuno a dire che i bambini devono correre in bicicletta e giocare con gli amici, non essendo gli ambienti sociali digitali qualcosa che possa loro interessare, o essere addirittura deleterii per la loro formazione individuale.
Tanto per cominciare, i bambini sanno cosa fare su internet. Guardano Youtube, hanno i loro siti preferiti per giocare, vanno a cercare informazioni sui cartoni animati preferiti o su Harry Potter o Lady Gaga, conoscono Wikipedia. 
A partire dalle scuole medie, o anche per quelli di quarta e quinta elementare, il riferimento nei loro discorsi a cose viste in Rete è costante, il web è un Luogo abitato, e tanto quanto a quell’età espandono il loro orizzonte verso il vicinato e i gruppi di amici, così esplorano territori indifferentemente fisici o digitali.
Poi, non vorrei mai che per colpa di quelli che dicono che Internet non è per i bambini, e quindi proibiscono anziché educare, si ricadesse nella stessa situazione che abbiam già vissuto con la televisione prima e con i videogame poi, realtà vivissime nel mondo esperienziale dei minori eppure colpevolemente tralasciate dai sistemi formativi, senza che a scuola oppure in modo informale in famiglia e nelle agenzie educative territoriali si prendesse seriamente una certa Media Education capace di far riflettere insegnanti e allievi sulle grammatiche e sugli effetti sociali dei mezzi di comunicazione di massa.
Inoltre: i bambini a scuola usano il web per attività didattiche, e chissà quante maestre han già provato (o avrebbero voluto) a creare degli ambienti formativi digitali, usando Moodle o piccole community di classe web-based, dove poter alloggiare presentazioni powerpoint, caricare video fatti a scuola con la macchina fotografica, allestire gallerie di immagini della gita scolastica o dell’uscita presso il Museo, pubblicare documenti di scrittura collaborativa nati e cresciuti magari nel corso di attività con altre classi o altre scuole, nazionali o internazionali. 
Sappiamo da anni che l’introduzione del computer in classe genera una forte spinta motivazionale, e sappiamo anche che il modo migliore per apprendere in modo significativo (radicando le conoscenze in noi) è raccontare a qualcun altro ciò che si è imparato: ecco perché potrebbe essere interessante allestire le classi scolastiche anche dentro ambienti digitali – la classe non è un’aula, i muri scompaiono, abitiamo dappertutto, osmosi scuola-territorio – dove poter innescare conversazioni proprio sulle tematiche didattiche, tramite gli strumenti di chat e forum e bacheche e commenti.
Se in quinta elementare i bambini oggidì ricevono in regalo il cellulare, io ne approfitterei per dar loro ufficialmente e istituzionalmente anche una bella casella di posta elettronica, e intendo nome.cognome@, e anzi trasformerei questo rito di passaggio, fondato sull’acquisizione di strumenti che inaugurano la dimensione della socialità personale, in un vero cerimoniale da celebrarsi alla fine dell’anno scolastico. Sancendo il loro ingresso nell’età della socialità allargata, coglierei l’occasione per raccontare ai piccoli i lati positivi e quelli negativi relativi all’utilizzo di quegli strumenti.
Ci sono sedici (16) milioni di italiani su Facebook, considerando la fascia tra i 25 e i 50 anni ci sono in Italia milioni di genitori che in questi giorni si sentono chiedere “Papà, ma non c’è un coso tipo facebook dove parlare ma per bambini?” da una personcina di nove anni che è naturalmente incuriosito da cosa fanno papà e mamma quando arrivano a casa e si collegano (tralasciando il fatto che la gente usa facebook sul lavoro, dall’ufficio), e vedono schermi con foto di parenti e amici di famiglia, e auguri di compleanno, e chiacchiere di botta e risposta nei commenti.
Certo, esistono anche molti ambienti social per i minori, e sono anche frequentati. A esempio, credo che un nuovo rito di passaggio adolescenziale, praticato e vissuto in modo mediatico, sia il “cambio di social network”, quando cioè un ragazzino/a di diciassette anni sente ormai limitante il proprio abitare su Luoghi sociali (Badoo e altri) progettati per un target d’età inferiore, e compie il grande passo di andare magari su Facebook, “dove ci sono i grandi”.
Tra parentesi questo significa che i diciottenni che ora trovate su Facebook fanno social da tre/quattro anni su piattaforme dedicate, dove chissà che cosa han visto, come lo han vissuto, quali criteri di giudizio si sono formati in perfetta autonomia, visto che i genitori non capivano/capiscono cosa significhi chattare e scambiarsi foto in posizioni ambigue o semplicemente ludiche nella ricerca per prove e errori di una propria identità digitale, o comunque rappresentazione e proiezione mediatica di come vogliamo apparire e essere riconosciuti online.
Ma fino a quando la scuola primaria, dove si seminano i buoni comportamenti, non provvederà delle competenze digitali agli allievi per renderli Abitanti anche del nuovo mondo immateriale, il web in cui vivono a pieno diritto (a esempio: saper gestire il proprio profilo su un socialnetwork, aver cura della password, adottare comportamenti di buon senso nella protezione della privacy, conoscere i propri diritti di accesso all’informazione e di libera espressione di sé, possedere grammatiche e conoscenze aggiornate per decodificare la complessità tecnologica e comunicativa dei nuovi strumenti, aver maturato approcci etici rispetti agli altri fondati sui valori dell’accrescimento della conoscenza collettiva e sullo scambio interpersonale, aver compreso l’importanza di una riflessione sugli aspetti digitali di reputazione e fiducia incentrati sulla nostra persona e sul nostro fare pubblico in Rete, aver appreso le regole socialmente negoziate per condurre conversazioni civili e quindi consapevolezza di un fare diffamatorio, calunnioso, oltraggioso), indubbiamente il problema rimane il controllo di questi ambienti da parte di un supervisore adulto, genitore o tutore responsabile.
I bambini devono essere lasciati liberi di giocare tra loro, tanto quanto si lasciano giocare con altri bambini nei parchi senza impicciarsi troppo, o quando nella prima adolescenza allargano i loro giri in bicicletta frequentando gruppi di amici sul muretto, senza più essere sotto l’occhio attento e apprensivo della mamma.
Mettiamo un bambino di dieci anni. In classe a scuola ci si potrebbe scambiare l’indirizzo di posta elettronica, la maestra si fa scrivere una mail da ciascun bambino dal suo account personale nome.cognome@, poi ri-spedisce a tutti i bambini una mail con tutti gli indirizzi in chiaro, cosicché tutti abbiano quello degli altri.
Oltre a tornar utile per motivi scolastici, i genitori sarebbero sicuri che le comunicazioni avvengono sempre con persone certe. 
Ed è anche legittimo che i genitori controllino il cellulare e la mail dei figli, anche se farlo con un quattordicenne diventa questione spinosa, per la sua sacrosanta esigenza di privacy. Ma in ogni caso sapere che il genitore *potrebbe* controllare è già deterrente sufficiente affinché il minore rifletta su quello che sta facendo online (poi ovviamente il ragazzo o la ragazza un minimo scafati, imparando da amici o da fratelli grandi, si creano altri account e altri indirizzi di posta e altri nickname e vivono felicemente le loro mille identità digitali, come palestra di adultità).
Sui social network c’è il problema del “chiedere amicizia”, che può essere fatto indistintamente e rapidamente verso tutti quelli che incontriamo. Inoltre vi è la possibilità di cercare le persone in molti modi diversi, e i risultati appaiono pubblici.
Forse su questi aspetti si potrebbe far qualcosa, sicuramente dal lato educativo, ma anche ponendo attenzione agli aspetti tecnici con cui le comunità digitali vengono progettate e realizzate.
Come già Facebook (ufficialmente riservato ai maggiori di 13 anni, ma abitato da molti bambini di età inferiore) sta cercando di fare su richiesta corale di fruitori preoccupati, la ricerca su persone minorenni a esempio dovrebbe essere inibita, come pure dovrebbe essere presente in maniera ben evidente un bottone PANICO che i minori potrebbero sempre rapidamente cliccare per segnalare comportamenti sessualmente sospetti.
I bambini, nuovi abitanti nativi, hanno tutto il diritto di avere una cerchia sociale digitale, e di praticare forme di socialità ormai comuni nel mondo (chat, commenti botta-e-risposta, videoconferenze, scambio mail) con i propri amici, comportandosi con proprietà nei Luoghi sociali, conversando civilmente, ascoltando gli altri e esprimendo liberamente sé stessi e per questo stesso fatto crescere come persone.
Ormai una generazione intera, quelli nati dopo il 1990, è giunta all’età della maturità (e del voto, e della responsabilità civile, e della patente, e dell’impiego professionale) vivendo tutta la vita circondata da computer e Internet e oggetti digitali e comunicazione istantanea, senza che nessuno abbia loro raccontato niente di cosa stava succedendo
Cerchiamo per quanto ci è possibile di ragionare su queste tematiche, auspicabilmente con cognizione diretta  dei nuovi comportamenti sociali mediati: a noi, come genitori o insegnanti, rimane come sempre da comprendere come poter garantire qualità educativa agli ambienti di crescita dei minori, fossero anche ambienti digitali.

Antiproibizionismo

Che cosa succederebbe se un bel mattino gli italiani che consumano stupefacenti si autodenunciassero tutti insieme?

Il giorno della grande catastrofe, sulla quale i sociologi e gli antropologi ancora si accapigliano, fu il 28 giugno del 2011. Per motivi tuttora imprecisati – qualcuno parla di suggestione collettiva, qualcun altro di un’iniziativa politica i cui promotori non sono mai stati individuati- tutti i consumatori di droghe italiani decisero di mettersi in fila davanti alle questure e chiesero di parlare con un poliziotto che potesse raccogliere una denuncia.

Leggi Alessandro Capriccioli su L’Espresso

De Biase su Soru, Caio e Gentiloni

Francesco Caio e Renato Soru. Insieme per discutere dell’internet all’italiana, tra banda larga che non si allarga e politica che si restringe. L’occasione è stata ieri, sul finire di unagiornata dedicata al tema, a Roma, organizzata da Paolo Gentiloni

Non era la serata per ritornare a parlare dei dettagli del piano per la banda larga, per vedere le possibili configurazioni tecnologiche, per ritornare sulle polemiche tra gli operatori… Era la serata per ascoltare due protagonisti veri che, con il cuore e il cervello, hanno fatto molto per l’infrastruttura dell’internet italiana. Ed era la serata per cercare di comprendere come si può sparigliare, come si può sbloccare il processo che serve a migliorare la connettività in questo paese, chi se ne deve occupare.
Entrambi hanno scelto di partire dalla visione. Per Caio è dimostrato che l’allargamento della banda è pienamente connesso allo sviluppo economico. Per Soru è chiaro che, come dice l’Europa, la rete è competitività e inclusione. Per entrambi è speranza di crescita culturale, sociale, economica. 
[…]

Bambino down e straniero, arrangiati

La notizia mi arriva via Giornalettismo. Nei prossimi giorni leggerò sui giornali le smentite, i distinguo, le prese di posizione, nel frattempo continuo a evitare di sprecare tempo articolando ragionamenti: l’espressione “sono delle merde”, già altre volte qui utilizzata, riassume perfettamente il mio pensiero.
Governatore Tondo, vedi di fare qualcosa di dignitoso. E non intendo dare un assegno a un caso isolato, ma garantire agli abitanti di questa Regione di vivere ancora in un posto civile, impedendo che queste cose avvengano.

Dover fare il Fatto Quotidiano

Che strana perorazione, proclama, forma di coinvolgimento, interpellazione diretta, esposizione, annuncio di cooptazione ha pubblicato Il Fatto Quotidiano. A firma di Gomez e Travaglio. Un testo fattitivo, prescrittivo, di quelli impostati sul far-fare qualcosa al destinatario. Qui il link.
Vuole tamtam, partecipazione, opera di diffusione, coinvolgimento nostro personale e dei nostri Luoghi web. Una crociata imposta, per come viene emanata.

Del titolo, lasciate perdere “sbarca sul web”, so nineties, e guardate quel chiedere aiuto, che stabilisce la cornice dell’atto comunicativo, connotandolo. Già abbiamo l’azione, e le posizioni attoriali, dove pescando nell’enciclopedia comune ciascuno di noi si sente coinvolto nel rispondere, come prestiamo attenzione appunto a una esplicita invocazione d’aiuto. Qualcuno è in difficoltà, deve superare una prova, e come puoi non prodigarti. Catturata l’attenzione in quel modo, sei affettivamente preso.

Però poi il testo insiste fortemente sul nostro dovere aiutare (“tutti … devono dare una mano”, nel sottotitolo), pubblicare, alimentare, insomma fare cose. Chi mi chiede aiuto mi impone di farlo, portando l’accento sull’obbligo? Sul mio dover fare? Curioso. Anzi, sul mio dover poter fare, quindi secondo una figura di manipolazione affine all’Intimidazione.
Si potrebbe parlare dello stile con cui la comunicazione è stata redatta, stringato e “concreto” (compreso un berlusconismo come “siamo al lavoro”), spezzettato e operativo.
Poi si ribadisce un “dovrà avere tantissimi visitatori”, e questo dovere viene sostenuto dal valore della sopravvivenza del sito stesso, e anche qui siamo dentro una manipolazione che qualcuno potrebbe definire “ricatto morale”.

Lentamente, un “dobbiamo” diventa un “vogliamo”, e cambia la manovra e la strategia retorica.

“Vogliamo che tutti, ma proprio tutti, sappiano che il nuovo sito de il Fatto Quotidiano sta venendo alla luce”. Qui cambia la figura della manipolazione sul destinatario, si cerca di far leva sul far sapere, ovvero tra la Seduzione e la Provocazione, per come veniamo coinvolti nel nostro volere/dovere sapere.

L’eroe ci chiede di essere suoi aiutanti, brandisce la libertà di informazione come Oggetto di Valore, manipola la nostra coscienza e i nostri affetti (argomenti e richiami “morali”, il tono/stile prescelto), il nostro essere e il nostro fare, con una comunicazione ben specifica.
Ci concede un “se siete disposti a ospitare” banner e elementi di rimando ipertestuale verso il sito de Il Fatto, e qui ci innesca come attori performativi, visto che in seguito alla nostra scelta cosciente e all’azione concreta di ospitare e aiutare diventiamo personalmente promotori dell’iniziativa, ovvero secondo la figura della Tentazione veniamo coinvolti a questo punto nel nostro voler poter fare.

E quindi, tra dichiarazioni esplicite e richiami a universi di discorso sottointesi, il Fatto le prova tutte. Corre su tutto il quadrato (vedi immagine). Cerca in tutti i modi persuasivi, con schiettezza, di renderci attivi nell’aiutarlo.

Tutti quei “ci siamo” iniziali, “lavoriamo”, “vedremo ascolteremo lanceremo”, insomma quel noi che è sempre un io che si riferisce soltanto al personaggio multiplo (la redazione) rappresentato da il Fatto e che parla soltanto di sé, non comprende in realtà il destinatario nel discorso. Lo tiene distinto.

Solo dopo averci circuìto in tutti i modi, instillando ri-orientamenti morali e facendo leva su precisi valori, solo dopo averci costretti nel dover fare, appare un vero Noi interpersonale nel discorso che riesce a includere l’intelocutore in modo collaborativo e rispettoso, scegliendo come verbo modale un poter fare, lì dove dice “Perché l’informazione libera è un bene di tutti e solo tutti assieme possiamo difenderla”.

Uno che chiede aiuto, e fa richieste dettagliate e circostanziate. C’è il richiamo all’Oggetto di Valore, e poi la difesa, la minaccia, l’urgenza morale, la delineatura di un contesto guerrigliero, la chiamata nel coinvolgimento, il dover comportarmi così e cosà.
Chissà se Gomez e Travaglio l’hanno progettata, una simile strategia enunciativa, o se gli è venuta così di getto, essendo loro stessi coinvolti affettivamente nella nascita del nuovo contenitore giornalistico. Mettetevi nei loro panni, capirete tutti quei “dovete dovete dovete”.

Ma non mi piace. Questione di stile, eh. Si può far di meglio, nel motivare la blogosfera e quelli che posseggono e gestiscono spazi web personali di informazione e opinione, confidando maggiormente nella Conversazione, senza quei toni impositivi.

Insegnare il buonsenso

Sergio Maistrello prova a riflettere sulla consapevolezza dei comportamenti online, sull’etica della condivisione, sui cambiamenti sociali avvenuti negli ultimi due anni, da quando 15 milioni di italiani si sono iscritti a Facebook, “persone, là fuori, che pensano di guidare un triciclo al parco giochi e non si rendono conto di essere invece al volante di un bolide in autostrada”.
Queste riflessioni prendono poi la forma di un decalogo, lo incollo qui, ma voi cliccate e andate a leggere il post da Sergio, che vi conduce benissimo ad approfondire il ragionamento.
En passant, faccio notare come tre ore di un anno scolastico, in terza media, dovrebbero essere dedicate a riflettere sopra un simile decalogo, per condurre seriamente a scuola delle iniziative di educazione civica, Educazione alla Cittadinanza. 
Insegnanti che leggete, siate NuoviAbitanti.


  1. Sii consapevole che tutto quello che scrivi e che condividi riguardo a te e ai tuoi amici potrebbe sfuggire al tuo controllo. Dentro ambienti come Facebook, il tuo controllo sui contenuti finisce sostanzialmente nel momento in cui pubblichi un contenuto. Non è sempre così, ma sii preparato al fatto che potrebbe anche essere così.

  2. Sii consapevole che potresti essere chiamato a rispondere di qualunque cosa tu abbia scritto o condiviso, anche molto tempo dopo che l’hai pubblicata. I reati esistono anche dentro internet e sono gli stessi che regolano qualunque convivenza sociale: passato lo spaesamento per la novità dell’ambiente, le querele aumenteranno.

  3. E nel caso ti rimanesse il dubbio: no, anche se non ti firmi con nome e cognome dentro internet non sei mai del tutto anonimo. Ogni tua azione lascia tracce a qualche livello. Se necessario, può essere più facile di quanto tu creda risalire alla tua identità.

  4. La differenza tra l’espressione legittima delle tue idee e l’ingiuria o la diffamazione è spesso soltanto una questione di formulazione del pensiero e di stile nel confezionarlo. Puoi pensare che Tizio sia un cretino, ma non puoi dargli semplicemente del cretino. La libertà di opinione e di espressione non implica la libertà di insulto. Questa non è educazione a internet, questa è educazione civica.

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  9. Sei nodo in una rete, anello in una catena. Ogni tua azione ha una conseguenza, seppur minima, a livello di sistema. Sei libero di pensare, esprimere e condividere quello che ti pare: quello che ci si aspetta da te è che sia quanto meno un’azione consapevole e ponderata.

  10. È troppo facile esprimersi per lo più contro qualcosa o contro qualcuno, a maggior ragione oggi che tutti possono diffondere con facilità le proprie idee. Costringiti a discutere sempre e soltanto le idee, mai le persone. Costringiti a essere positivo, propositivo. Da grandi abilità derivano grandi responsabilità. Oggi non hai più scuse per non contribuire a migliorare il mondo. Comincia migliorando le tue idee, il modo in cui le presenti e l’impatto che possono avere nella tua rete sociale.

Cretinerie a Trento

Ho perso la pazienza, non sono più nell’umore “ci vuole pazienza”, sono quindici anni che paziento, non ce la faccio più. Però segnalo.
Volevo riportare su altri blog su cui scrivo un articolo riguardo le parole del premier del Bhutan Jigmi Y. Thinley “Oltre il PIL, il Bhutan sceglie la felicità”, visto che una riflessione sul Prodotto Interno Lordo contrapposto al FIL, ovvero alla Felicità Interna Lorda, è sempre suggestiva. Parole pronunciate al Festival dell’Economia che in questi giorni si tiene a Trento.
L’articolo è disponibile infatti sul sito della Provincia di Trento, e intendevo copiaincollarlo, ovviamente linkando autore e fonte originale. 
Per scrupolo, e occupandomi professionalmente di queste cosucce, butto un occhio sulle “note legali” del sito della Provincia trentina, qui, e trasecolo: a chiare lettere, c’è scritto che bisogna chiedere permesso alla Provincia per linkare i loro articoli, figuriamoci fare i copiaincolla selvaggi che a me piacciono tanto, sempre però con i rimandi alla fonte.
Hanno provato a farlo alcuni quotidiani, altre piattaforme mondiali per la distribuzione di news: la cosa è comprensibile (si tratta di aziende che cercano di proteggere i loro prodotti), ma molte di queste in passato han fatto poi marcia indietro, comprendendo che proprio la spreadability dei contenuti, il loro potenziale di diffusione, non può essere bloccato da una visione chiusa delle concrete pratiche del web, ovvero l’ipertestualità su cui il web è fondato, ovvero banalmente il poter sempre linkare qualunque cosa si trovi ovunque. Non sto mica rubando, anzi ti sto aiutando a far circolare il tuo nome e la tua intelligenza, e non ne traggo nessun lucro.
Anni che parliamo di OpenCulture, di etica della condivisione, di ecosistema della conoscenza, di Cultura digitale, di adeguamenti del concetto di copyright alle mutate condizioni “ambientali” offerte dal web, di magnifiche sorti e progressive dell’Umanità finalmente tutta connessa, e poi trovo sciocchezze simili.
Su un sito di una Pubblica Amministrazione, poi.
Chi l’ha fatto quel sito, uno che fino a ieri faceva il falegname dentro una grotta senza l’elettricità? A quale funzionario pubblico della Provincia, quelli che “a me nessuno mi frega”, è venuto in mente di applicare i suoi ben poco circostanziati ragionamenti burolegislativi per tutelare in modo assolutamente anacronistico e controproducente per i suoi stessi interessi i contenuti alloggiati su un sito governativo, pubblico?
Mi verrebbe da dire “quei cretini dell’Ufficio Stampa del sito provinciale di Trento”, ma sapete, il web blablabla, la diffamazione blablabla. Diciamo così: “il sito della Provincia di Trento è cretino”.
Ovviamente, questo è il link dell’articolo che intendevo riportare, e per il quale dovrei chiedere permesso e autorizzazione…
Ufficio Stampa del sito provinciale, se mi leggi e ti scoccia, dimmelo, e lo tolgo. Però scriverei immantinente un altro post, ironizzando sulla vicenda e ridicolizzando ulteriormente il tutto. E diffondo. E giochiamo a tira e molla, e io non mollo, perché vedo il presente e il futuro molto meglio di voi.

Critica dell’automobile

Daniel Cohn-Bendit, europarlamentare verde e leader di Europe écologie, propone nel suo ultimo lavoro “Osare di più” riflessioni sul futuro della politica e sull’economia ecologica. Avanzando proposte radicali.
“Osare di più. Morte e rinascita della politica” è l’ultima fatica  di Daniel Cohn-Bendit, in uscita per i tipi “I libri necessari” della neonata “edizioni dell’Asino”, un progetto editoriale frutto della collaborazione tra Lunaria e Lo Straniero con la partnerschip di Redattore Sociale. Ne pubblichiamo una anticipazione con la cortese autorizzazione dell’editore. E’ possibile acquistare il libro anche dal sito www.asinoedizioni.it La sintesi del testo che segue – a cura di Gianpaolo Silvestri – è parte del capitolo “Per una nuova ecologia politica” raccolto da Giulio Marcon e rivisto dall’autore. 
Innanzitutto dobbiamo ricordare un dato fondamentale, da cui partire: oggi abbiamo raggiunto un livello impressionante di sovrapproduzione dell’automobile. Per l’Unione Europea la produzione di automobili è certamente un fatto importante: in Europa si concentra quasi il 35% della produzione automobilistica mondiale. Ogni anno si producono più di 19 milioni di automobili e l’industria automobilistica coinvolge oltre 12 milioni di famiglie. È un fatto importante. C’è un però. C’è una crisi di sovrapproduzione. ..Produciamo molte più automobili di quelle di cui abbiamo bisogno: questo il dato di fatto. Perciò, non è vero che oggi sia possibile salvare contemporaneamente le industrie della Fiat, dell’Opel, della Peugeot, della Mercedes e altre ancora…Oggi abbiamo una sovrapproduzione del 30% di automobili in Europa: non è possibile mantenere questi livelli di produzione e non è possibile salvare contemporaneamente tutte le fabbriche di automobili europee. È impensabile, a meno che di non mettere in campo una politica assistenzialista di stato per la produzione di merci di cui non abbiamo bisogno e che fanno male al nostro ambiente. Il tutto a carico dei cittadini.
Ma, purtroppo, il discorso economico prevalente sull’automobile nella sinistra tradizionale e nella destra è sempre lo stesso: bisogna salvare l’industria automobilistica, è necessario rilanciarla e svilupparla, bisogna dare nuovi e sempre più consistenti incentivi, eccetera. È un discorso vecchio e sbagliato; ed è lo stesso discorso che si faceva vent’anni fa sulla siderurgia, di fronte alla crisi evidente di una produzione che – oltre a essere dannosa per l’ambiente – era condannata a essere ridotta e limitata…Si trattava di un settore produttivo indifendibile: si è tentato l’impossibile, sono stati spesi un sacco di soldi e l’obiettivo non è stato raggiunto. Lo stesso discorso si può fare per l’industria automobilistica. Dobbiamo avere il coraggio di dire a tutti noi, alla politica, alle imprese, ai sindacati, ai lavoratori, alla società: l’era dell’automobile è finita e dobbiamo pensare a come gestire la sua riduzione e limitazione, non a come salvarla e rilanciarla. Dobbiamo porre fine a questa illusione e all’idea che si possa rilanciare l’economia attraverso la produzione automobilistica, un settore produttivo che non ha futuro. Dobbiamo chiedere alla politica europea di assumersi la responsabilità di un nuovo modello di sviluppo e di una nuova mobilità che non sia più fondata sull’uso privato dell’automobile. In questo senso sarebbe necessario creare una sorta di Agenzia europea per la trasformazione dell’economia e utilizzare il Fondo europeo per lo sviluppo regionale per favorire iniziative di riconversione e cambiamento delle produzioni. Perché più in generale dobbiamo essere consapevoli che una parte della attività industriale (oltre alla siderurgia e a quella automobilistica) del’900 è condannata inesorabilmente a scomparire. Per questo dobbiamo essere in grado di anticipare il più possibile i tempi, evitando un assistenzialismo che non serve a nulla, e avere il coraggio di investire in altre produzioni, compatibili con la crisi ecologica che stiamo vivendo.
Giustamente si dice che tra qualche anno, quando tutte le famiglie cinesi e indiane avranno una automobile, o più di una come succede da noi, (e anche magari un condizionatore d’aria, un frigorifero, una lavatrice, una lavastoviglie, eccetera) il nostro mondo andrà in rovina: l’inquinamento sarà insostenibile e il consumo di energia oltre ogni livello accettabile. Ma c’è una considerazione in più da fare, ed è questa. Se pensiamo che questa richiesta di beni dei cinesi e degli indiani possa essere soddisfatta dalle nostre industrie, ci illudiamo. I cinesi e gli indiani non compreranno certo le nostre automobili, se non in minima misura, perché se le produrranno – e già se le producono – nel loro paese con le loro industrie (e naturalmente a prezzi inferiori dei nostri). È un’illusione che i nostri mercati e le nostre industrie (e questo vale anche per gli altri settori produttivi) possano produrre per la Cina, per la l’India e magari anche per la luna. Questa è – appunto – una pura illusione, generata da una visione economica, quella del produttivismo illimitato, che non ha alcun futuro nel mondo globalizzato.
Analizziamo ad esempio le misure – come la rottamazione – che molti paesi europei hanno preso in questi mesi per far fronte alla crisi dell’automobile: una misura che alcuni di questi paesi prendono in realtà normalmente, anche in periodi in cui non c’è crisi economica. Si tratta di una misura assistenzialistica, ormai, ordinaria e continuativa. La rottamazione è una misura inutile e dannosa. È una misura che non serve a nulla. È una boccata d’ossigeno per un sistema economico e produttivo insostenibile e che non ha futuro. Lo stato dà questi soldi per niente, sono soldi buttati al vento…. 
Per dare un futuro all’industria automobilistica – per farla sopravvivere ancora per un po’ – l’unico modo sarebbe quello di costringere le persone a cambiare sempre più velocemente la vecchia macchina con una nuova: oggi, magari, cambiandola ogni tre-quattro anni, e poi domani ogni due, e dopodomani una volta l’anno. Ma questa è una vera follia e ci porterà al disastro ecologico e sociale. È vero che nel’900 l’automobile è stata un simbolo di modernizzazione, di stile di vita, anche di libertà e di democrazia, di avanzamento ed emancipazione sociale, ma oggi non è più così. Dobbiamo avere il coraggio di dire alle persone: è ora di cambiare totalmente e radicalmente il sistema della mobilità esistente. Quello dello sviluppo illimitato della produzione delle automobili ci porta al disastro ambientale e sociale. Il futuro non è dell’automobile… 
Dobbiamo porre fine a un sistema della mobilità fondato sull’automobile privata e a un modello di sviluppo economico fondato sulla produzione di automobili. Le automobili vanno certamente rottamate, ma definitivamente, non per farne delle altre.
Fonte: Terra

La privacy a scuola

E’ stato pubblicato sul sito del Garante per la Protezione dei dati personali www.garanteprivacy.it il vademecum “La Privacy tra i banchi di scuola”, un opuscolo in .pdf abbellito graficamente e dal linguaggio abbastanza chiaro e sintetico (non si tratta della solita circolare ministeriale, per capirci). Provate questo link, oppure cercatela sul sito governativo.
Traccio giusto uno spunto, ma l’argomento della privacy a scuola meriterebbe ben più profonde e articolate riflessioni: a me sembra di imbattermi in un contraddizione, o per meglio dire un “doppio legame” di batesoniana memoria, nel modo in cui si allestisce complessivamente la comunicazione su queste tematiche.
Mi ricorda quando il genitore urla “non bisogna picchiare gli altri” rifilando una sberla al figlio, oppure quando si attuano campagne sociali per la “purezza della razza padana” e le classi scolastiche sono invece tutte bianche e nere come le scacchiere e i pianoforti, come quando il bambino vede che si applicano due pesi e due misure, come quando i messaggi che giungono da varie fonti non fotografano bene la realtà e si comprende la distanza abissale che intercorre tra il mondo com’è, come lo vediamo,  e come vorremmo che fosse, come lo raccontiamo.

Perché l’opuscolo del Garante della Privacy per la scuola mi sembra piuttosto normativo, certo intriso di buon senso; le limitazioni alla pubblicazione di documenti scolastici, di momenti di vita sociale, di opere didattiche sono abbastanza stringenti.
Mentre il mondo sta vivendo una metamorfosi dei propri valori etici, riguardo l’accettazione sociale dei comportamenti “esibizionistici” delle persone nei Luoghi digitali.
Tra l’altro, la stessa morale puritana che mi porta a definire “esibizionistica” o impudica la narrazione di sé a cui siamo quotidianamente chiamati a giocare grazie all’esplosione di ambienti digitali personali o sociali (blog o socialnetwork), suona oggi anacronistica, decisamente non adeguata a giudicare.
Fino a vent’anni fa giudicavo le persone incontrandole per strada, dai loro vestiti e dalla loro automobile, dallo stile dei gesti nell’atteggiarsi in pubblico, dalla profondità del loro ragionare in quei rari casi (solo migliaia) in cui alcune di queste persone riuscivano ad accedere a giornali, editoria, cinema, televisione, diventando scrittori o giornalisti o registi e quindi riuscivano a moltiplicare la risonanza del loro pensiero grazie ai supporti tradizionali che storicamente sostengono la cultura umana.
Oggi in milioni diventiamo editori di noi stessi, ognuno di noi può allestire la propria vita pubblica negli ambienti digitali, pubblicando articoli e saggi e opere d’arte e barzellette sciocche. Con la stessa potenza mediatica una volta riservata a realtà imprenditoriali strutturate, oggi riusciamo a arredare gli spazi della conversazione pubblica, dando immagine di noi e costruendo nel tempo, come linea di facce o memoria degli atteggiamenti, la nostra identità digitale.
Il mondo tutto di oggi ci chiama a mettere in scena noi stessi, a raccontarci, a scambiare opinioni e giudizi gli uni con altri, a partecipare alla conversazione, perché sotto c’è un’altra morale rispetto a quella puritana del nascondere tutto, e oggi la trasparenza, la condivisione delle conoscenze e l’agire collettivo sono molto più facili tecnicamente e apprezzati eticamente.
Oggi sono abituato a, mi aspetto, voglio che l’Azienda o il Comune o la Scuola comunichino molto. Gli individui possono giocare con la loro identità, mettere in scena sé stessi sbagliando o innovando (e tutto concorre a ridefinire e modernizzare quei concetti e valori socialmenti accettati di “esibizione” di sé suddetti, oggi in rapido mutamento), la Scuola deve in quanto pubblica rendere trasparente sé stessa, deve permettermi di conoscerla, deve abitare la conversazione sociale contribuendo con il suo discorso di attore sociale istituzionale alla costruzione collettiva e collaborativa del senso e delle pratiche di una buona Cittadinanza.
Perché la Scuola insegna la Cittadinanza, a fare e a essere cittadini, e lei stessa non può, pena una contraddizione nel suo stesso dire, rifiutarsi di partecipare alla vita sociale, consegnare e educare le giovani generazioni al “silenzio mediatico” quando quegli stessi ragazzi su Facebook o nelle loro pratiche comunitative quotidiane vivono una situazione ben diversa, e capiscono subito che come al solito la Scuola è inattendibile perché ancorata ai valori obsoleti di forme di socialità che non abitano più nei nostri tempi, una scuola scollata dalla realtà concreta (non puoi dilungarti sul Risorgimento e tralasciare la Guerra del Golfo e il Muro di Berlino, non puoi non raccontare cosa sono la televisione e il web e quello che abbiamo intorno, crisi e conomica e ambientale e culturale).
Un ragazzino nell’adolescenza alza lo sguardo, si confronta con la socialità ampia dei gruppi e della collettività, e il messaggio contradditorio che gli arriva è quello di un mondo adulto che a voce parla di regole e proibizioni e censure e norme, mentre negli atteggiamenti e nei comportamenti, ovvero nel vivace calderone della socialità mediatica oggi moltiplicata e universalizzata dalle tecnologie connettive, ci sguazza contento, com’è giusto che sia secondo i nuovi valori sociali orientati alla visibilità pubblica del proprio abitare.
Quindi, ben vengano i manuali governativi di privacy, quando la loro funzione storica è pur sempre indicare a negativo la devianza, quei comportamenti individuali e sociali che danneggiano la persona o gli altri: imparo cosa posso fare studiando cosa non posso fare.
Ma il discorso complessivo della Scuola riguardo la privacy dovrebbe essere al contrario orientato a praticare l’espressione di sé, a progettare la propria postura comunicativa e quindi identitaria negli spazi pubblici della conversazione collettiva, e dal fare concreto con gli altri ricavare quella consapevolezza del proprio dire (consapevolezza della distinzione tra personale e pubblico, quindi privacy) da trasformare in posizione etica, per innervare la propria missione educativa.

Eco-sistema unopuntozero

Io gli voglio bene, a Umberto Eco.
Mi diede dei bei voti all’università, ci chiacchierai affabilmente un paio di volte passeggiando sotto i portici di Bologna. A imbatterti nei suoi libri di semiotica al momento giusto, quando un amatissimo corso di studi già orienta il tuo sguardo sulle problematiche della significazione e della comunicazione, potrebbero accaderti degli sconvolgimenti radicali, sconquassi cognitivi, e da quel momento in poi ti trovi costretto a leggere il mondo in un certo modo, perché l’eleganza e la potenza di quei metalinguaggi rivelano i meccanismi profondi del nostro dare senso agli eventi, con le parole e con i segni. La semiotica è un punto di vista. Una disciplina, non una scienza. E poi Eco scrive bene, poco da fare, ti fa ridere anche quando ti racconta la filosofia medievale.
Inoltre, non gli si può nemmeno rimproverare di non conoscere i computer, perché saranno almeno quarant’anni che si occupa di logica computazionale e negli anni Sessanta la cibernetica che si intrecciava con la linguistica era dignitosissimo campo di interessi accademici.
Tant’è che da lì sarebbero giunte numerose suggestioni per i linguaggi informatici di programmazione, di cui sicuramente Eco si occupava attivamente tra fine anni ’70 e primi ’80, tra i suoi studi sulle teorie sociologiche della ricezione dell’opera e il successivo interesse per la “lingua perfetta”, naturale o artificiale che fosse, e tutti gli esempi storici che possono venire in mente a essa collegata, da Adamo (in che lingua parlò, quando Dio gli chiese di nominare il Creato?) a Raimondo Lullo a Athanasius Kircher all’esperanto ai linguaggi formalizzati.
Ma di web a quanto pare Eco non ci capisce. 
Noi tutti qui ormai traguardiamo i computer e i dispositivi, e puntiamo l’attenzione sulla digital life, sulla socialità in Rete, parliamo di Cultura digitale e non di Cultura informatica. Nel solito parallelo con le strade e le automobili, ci interessiamo dei comportamenti umani negli spazi sociali digitali, non di tecnologia del motore a scoppio (il pc) e della tecnologia della carreggiata autostradale (le reti).
Abbiamo in quindici anni di frequentazione di mondi digitali compreso quanto l’hardware influenzi il software, sappiam fare la tara e applicare le giuste categorie di giudizio valutando a esempio le diverse nicchie ecologiche in cui abitano un blog e un quotidiano online o l’enciclopedia cartacea e wikipedia, conosciamo per esperienza concreta di vita la portata “epistemologica” dei singoli strumenti e ambienti, e soprattutto confidiamo nella conversazione continua e incessante che agisce il web, dove le cose importanti sono i valori in circolazione, la reputazione, la fiducia, il pluralismo delle voci.
Ma di queste cose Eco non sembra accorgersi. Dice che manca il “filtro sociale”, ma la Rete tutta è filtro sociale. Credo per lui il web sia ancora una sorta di biblioteca giusto al di là dello schermo, quella finestra di pixel che io non vedo più.
Lui cerca parole ferme, testi come libri, io guardo i flussi di conversazione e la costruzione sociale della conoscenza e quindi della realtà, cose che peraltro Eco conosce bene, essendo coetaneo di Searle e Fodor, avendo con essi spesso dialogato tramite carteggi e botta-e-risposta nei convegni o nelle prefazioni dei libri, vero Luogo conversazionale dell’epoca dei supporti cartacei, e per aver lui stesso promosso teorizzazioni basate sulla condivisione del valore semiotico dei segni nell’universo dei parlanti (la nozione echiana di “enciclopedia”).
Se Eco vede i blog come libri, forse gli viene in mente una collana, una progressione, una serialità, una linea. E ogni testo è una perla di cui conoscere autore, paratesto, storia editoriale. Ma sono sempre perle in fila.
Per me un blog è un nodo nella Rete, è una parola in un discorso collettivo. Ne valuto la fondatezza e la novità in sé, per quanto posso fare con le mie conoscenze, e poi possiedo strumenti, appresi in anni di frequentazione e di relazioni interpersonali, per misurare nella Rete dei mille intrecci e delle mille voci il valore di quella parola, di quell’articolo giornalistico, di quel post su blog, di quell’affermazione in una chat o su un social network, per come rimbalza, per come viene ripreso e da molti commentato, per le discussioni che riesce a generare nell’ecosistema digitale e poi magari esondare sui media tradizionali, dove spesso viene frainteso in quanto non compreso nel giusto contesto. E il contesto è la chiave interpretativa, sempre. 
Dei molti significati di una parola, il contesto seleziona quello pertinente, e la parola assume senso. Qui e ora, storicamente, necessariamente.
Consideriamo dato il valore di uno scritto. Il suo significato storico, contingente, viene da noi misurato secondo relazioni sfondo-figura. La figura, l’elemento figurativo, il segno, trae il suo senso dallo sfondo su cui si staglia. E oggi lo sfondo è cambiato, e non è più fatto di collane secolari di libri che richiamano altri libri, di biblioteche borgesiane o come quelle de “Il Nome della Rosa”, ma è uno spazio vivo, di vive conversazioni.
E la stessa idea di “enciclopedia” di Eco, come cultura che vive nella mente di una comunità di parlanti (e che garantisce il reciproco comprendersi) ha forse cambiato forma, proprio nel senso di “forma del contenuto” su cui Eco rifletteva filosoficamente a fine anni Sessanta, quando stava ancora maturando quelle posizioni che lo avrebbero portato a definire il segno come “funzione segnica” che correla piano dell’espressione e piano del contenuto. E’ cambiata la forma dello sfondo, e dobbiamo modificare il modo in cui attribuiamo senso agli elementi significativi. Oggi la forma dell’enciclopedia è la Rete, non la biblioteca. Già in Eco abbiamo il rizoma quale riferimento figurativo, ma oggi noi tutti abitiamo nello scibile, non solo le opere chiuse (per quanto sempre aperte). Le persone abitano direttamente i Luoghi della conoscenza, e le relazioni tra di loro sono elementi sintattici imprescindibili per la comprensione del testo, della sua semantica misurata nella conversazione.
Con il solito parallelo, potrei anche dire che Eco vede gli alberi, ma non vede il bosco, dove gli alberi vivono come entità collettiva ecosistemica, in dialogo perenne.
E quindi una volta di più, come dice Mantellini riportando una sua intervista a un giornale spagnolo, quando parla di web Eco dice baggianate (vedi anche Downloadblog). 
Cose magari giuste, ma di quando il web appunto era pensato e vissuto ancora come una biblioteca, fatta di editori/blogger senza alcuna autorevolezza (ma l’autorevolezza se la sarebbero conquistata con le migliaia di interazioni direttamente intrattenute con migliaia o milioni di utenti). 
Cose magari giuste, se prese in modo isolato, ma giudicate in un modo terribilmente inadeguato rispetto all’attuale funzionamento dell’ecosistema della conoscenza.
Ragionamenti magari giusti, se intrapresi in solitudine da chi usa il web solo per leggere, senza coinvolgersi personalmente nelle conversazioni su un social network, nei commenti di un blog, in quelle palestre di socialità dentro cui noi ci siamo fatti le ossa, maturando nuove posizioni interpretative e financo etiche sulla portata comunicativa di quanto viene affermato nelle vocianti piazze della Rete, e non solo nei silenti saloni dei conventi del Sapere.
Ahimè, Eco è un tipo unopuntozero.
Poco male, ci penseremo noi a traghettare rispettosamente e creativamente le sue squisite intuizioni sul funzionamento concreto della comunicazione umana nel mondo della Cultura digitale. Un po’ per ciascuno, tutti insieme.

Update: Mantellini approfondisce sul Post

WWW mi piaci tu (disse Facebook)

Facebook ha fatto una mossa notevole. Ora è possibile mettere il bottonetto “Like” ovunque sul web, e quando lo cliccate, a esempio su un blog, questo vostro “Mi piace” viene riportato dentro Facebook, e la vostra cerchia di amici ne viene a conoscenza.
Questo porta il web dentro FB, con facilità. E non soltanto linkando o feedando pagine, ma garantendo ovunque  l’emozione di un piacere. Web affettivo, questo è.
E non pensate sia mossa da poco: tanto quanto il bottone “commenti” di un blog racchiude in sé l’universo conversazionale (che proprio i blog hanno storicamente abilitato), così il cliccare “Like” dentro e ora anche fuori Facebook è l’interruttore della propagazione, la funzione minima della socialità in Rete, la polla d’acqua che segnala in superficie lo scorrere profondo di relazioni interpersonali.
Facebook ne ricaverà molto, in termini di conoscenza, da questa nuova possibilità, avrà modo di tracciare meglio un sacco di cosette, e di costruire dei social graph molto più accurati, osservando la tessitura della socialità online. Tra l’altro, ci sono state delle modifiche nelle politiche di privacy abbastanza profonde.
Su tutto questo, leggete Dario Salvelli e Vincenzo Cosenza.
NB La foto sopra mi serve per dirvi che è ricominciata la Vespa Season: oggi ho cambiato l’olio al motore, poi con la stessa benzina che era rimasta nel serbatoio cinque mesi fa l’ho rimessa in moto, al secondo colpo di pedivella. Al secondo colpo di pedivella. E ho fatto anche un giretto in città.

Voglio trovare un senso a questa news

Tra ieri e oggi sul web italiano sono apparse due novità, entrambe legate al mondo dell’informazione giornalistica. Luca Sofri ha varato il Post, Gianluca Neri Blognation.
Il primo assomiglia più a un “giornale online” (virgolette perché lo stesso autore dice quelle parole e subito se ne distanzia) con redazione e blog d’autore ospitati, il secondo è più un aggregatore, e Neri dice che funziona praticamente in automatico.
Grosse conversazioni in giro in Rete, ovvio, sull’evento, tra detrattori e entusiasti, consiglieri e critici.
Segnalo Giuseppe Granieri, che dice che manca un colpo d’occhio generale su quale sia la linea del Post (e un giornale online deve appunto saperla comunicare, sennò si anonimizza e somiglia a un aggregatore), e Andrea Beggi, che dice che non sa più leggere, che ormai è abituato alla serialità dei feed e ritrovare homepage (in entrambe le novità) che ricalcano l’impostazione di un quotidiano cartaceo risulta faticoso.
E ci sarebbero anche da linkare le discussioni su Friendfeed, dove si è dibattuto e sviscerato.
Ma in entrambi i commenti sottolineano credo il problema dell’interfaccia.
C’è un modello percettivo soggiacente alla strutturazione delle homepage dei quotidiani online (anche loro, Repubblica e Corriere a esempio, in fase di restyling grafico dei siti, proprio in questi giorni), dove ovviamente il riferimento corre alla prima pagina dei giornali cartacei.
Andando online, le redazioni giornalistiche hanno ricreato quello a cui eravamo abituati a incontrare tenendo in mano i quotidiani. E tralasciamo gli anni che hanno perso nel non dotarsi subito di webredazioni con professionalità specifiche. Poi è anche possibile, e sarebbe uno studio da fare, seguire come le homepage dei giornali nazionali si siano modificate nel tempo, forma e contenuti. Migliori impaginazioni, scelta degli argomenti da portare in evidenza, possibilità interattive, boxini morbosi e via dicendo. Che poi, non è che la prima pagina dei giornali sia stabile, ma cambia appunto anch’essa, e magari anche un po’ dal web ha imparato.
Ma a me interessa tornare su quella semantica dello spazio su cui si costruisce l’homepage di un quotidiano online.
Perché se dico che sotto c’è un modello percettivo, frutto del dialogo ormai secolare tra quotidiani e pubblico, dialogo dentro cui io sono nato e cresciuto, automaticamente mi trovo a parlare di aspettative del lettore.
E abbiamo il caso di un fruitore nuovo della Rete, che non resterà poi tanto disorientato dinanzi a Rep.it o al Post di Sofri, perché conosce quella grammatica.
Grandezza dei titoli, gerarchia d’importanza, occhielli, rimandi intratestuali, uso del colore, segni grafici originali, quadrati più o meno stondati, aree tematiche, uso di multimedialità.
Ma come dicono Granieri e soprattutto Beggi, se sei uno che in Rete ci vive da anni tutta quell’impostazione grafica è pesante. Quel modello percettivo, che vive dentro la testa e nella cultura di chi quel giornale lo fa come in chi lo legge, presuppone un certo atteggiamento cognitivo del lettore, ne pre-ordina lo sguardo, le traiettorie del senso, ne gestisce il tempo dell’esperienza, suggerisce affettività con un font aggraziato o con un ritmo di scrittura o con gli strilli dei titoli. Faticoso, pesante, autoriale, industriale, forse inconsapevolmente addirittura impositivo, nel dover fornire un sacco di coordinate. Non ne ho bisogno, ho altre fonti, ho altre aspettative.
Tenete presente: quando leggo il Messaggero Veneto, ogni mattina, mi sembra ogni volta di aver tra le mani un numero vecchio di giorni. Sono venuto a conoscenza ieri di tutte le news urlate nei titoli dell’edizione di oggi del quotidiano, e in ventiquattrore abitando in Rete quella notizia l’ho letta decine di volte, e magari ci ho letto sopra centinaia di commenti, io stesso ci ho ragionato a mia volta commentandola su un blog, e restando sintonizzato via feed via aggregatori via socialmedia.
Quindi: i quotidiani tradizionali si stanno impegnando a colonizzare il web, si stanno arrabattando (e molti stanno sbagliando, secondo Cultura digitale) a trovare nuove forme di remunerazione, è una questione di sopravvivenza. Hanno traslato nell’immateriale il loro modello di impaginazione, e stiamo oggi vedendo le modificazioni progressive di quest’ultimo, per meglio adattarsi a un diverso ecosistema della conoscenza, quello della Rete.
Ma chi nasce nuovo oggi, veramente non può fare altro che ripercorrere gli stessi modelli? Perché mi costringono a riattivare in me gli stessi codici comportamentali che automaticamente richiamo quando sono davanti a un pezzo di carta formato tabloid, nel momento in cui sono davanti a uno schermo? Davanti a quest’ultimo, ho altre abitudini. Il mio occhio, la mia mano sanno fare ormai quasi naturalmente cose che con la carta non posso fare. Seguo diversi percorsi di lettura, sono fruitore attivo, clicco e girovago e poi torno, segnalo e commento, ho dieci schede del browser aperte, abito un flusso, non sono al tavolino del caffè a leggere il giornale come accadeva nel 1907.
Se fai un aggregatore, fallo essenziale.
Se fai un giornale online, dammi una colonna di opinioni redazionali o autoriali, linka il resto, ma sii sempre essenziale.
Non dovrei neanche scrollare la pagina, per dire. E le pubblicità stringate anche quelle, in una colonna tutta per loro. Tanto nessuno in Rete le guarda, nessuno le clicca, e di chi le clicca non ho buona opinione.
Forse c’è di mezzo anche una questione legata a un approccio maggiormente visivo, rispetto a una strettamente testuale. Ma parlando di news, faccio due esempi di aggregatori: Eufeeds e Popurl. Uno basato proprio sui quotidiani nazionali, l’altro su quanto pubblicano le principali piattaforme di contenuto tipicamente web-based. Personalizzabili.
Il giornale che vorrei io aggiungerebbe semplicemente, mettendola in evidenza,  una colonna con i contenuti originali sviluppati dalla redazione, troverebbe un buon titolista per le proprie e per le altrui notizie e relativi commenti, farebbe emergere come assolutamente significativo il proprio stile giornalistico, la propria personalità, il proprio punto di vista. Per il resto, lasciatemi libero di abitare a modo mio.
Update: costituisce novità odierna anche Paperblog, localizzazione italiana di realtà francese, più focalizzata sui blog.

Tentacoli

Non serve invocare entità esterne, magari trascendenti.
Semplicemente, il complicato oltre un certo punto di complicatezza diventa complesso.
Certo, le formiche diventano formicaio, gli alberi diventano bosco. Olismo, che dire?
Un fascio di nervi diventa cervello (hardware) e sviluppa coscienza (software), un applicativo utile per far funzionare meglio il sistema.
E sembra la coscienza abbia una sua volontà, magari non ne è cosciente, che la porta a voler replicare il processo anche fuori dalla scatola cranica, adoperandosi per connettere altre coscienze.
La meta del percorso appare lampante.
Innanzitutto la coscienza ha lavorato sui gruppi di umani (hardware) per farci girare sopra linguaggi e comunicazione (software). Ha lavorato sull’empatia, per stabilire sintonia affettiva.
E con tutto un bel dialogo tra tecnologia e conversazioni, ha via via messo in scena la scrittura per darsi memoria e potenziarsi, poi ha sviluppato migliori supporti, pietra papiro argilla pergamena carta, poi la stampa, poi i quotidiani, la nascita dell’opinione pubblica mediatica, il teleascolto e la televisione, i codici digitali, la Rete dove tutti facciamo tutto con tutti insieme e contemporaneamente.
Abbiamo ora la coscienza collettiva, l’Umanità che pensa e si guarda pensare. One man, one world, one people, one net.
E senza nessun ansia omologante, ché qui ci servono molti pensieri diversi in differenti linguaggi.
Perché la coscienza fa così? Cosa vuole, da millenni? E’ una rincorsa per spiccare un salto? Bah, teleologia.
Però questa del connettersi è qualcosa di profondamente wired nel sistema, che ne facciamo?
Un processo sorto per ottimizzare le risorse e garantire maggiori probabilità di sopravvivenza (cervello-mente, individui-gruppi, olismo delle reti) rimane sempre pro life, indipendentemente dalla scala di applicazione?
Siamo agiti da pulsioni cieche, coazioni, che reiterano lo schema automaticamente, indipendentemente dalla qualità del risultato?
Ecco, la parola “qualità” porta con sé un punto di vista, su questo farsi automatico delle connessioni tra umani e mondo e delle relazioni. Etica, morale, giudizio, direzione, storia, cammino, progressione e progresso, finalità, scopo, prendere in mano il volante e decidere dove andare, ora che sappiamo di sapere.
Un mondo migliore, una coscienza planetaria. Siamo costretti a decidere, anche facendo spallucce.

Opinioni cretine

Nel cimitero di una frazione di Udine c’è un’area dedicata alle persone di fede islamica, dove le sepolture sono rivolte verso la Mecca.
Già al tempo dell’istituzione ufficiale di questa sezione cimiteriale ci furono fiaccolate di protesta e incontri pubblici, organizzati da Lega e PDL, per protestare contro l’iniziativa. 
L’altro giorno all’Ospedale di Udine è morta una neonata, e i genitori musulmani han deciso di seppellirla qui, come la legge consente. 
Ora in quel cimitero c’è un cumulo di terra a segnare la sepoltura, senza lapide, senza insegne religiose, proprio come vorrei per me, anzi io vorrei non ci fosse nemmeno il cumulo di terra, vorrei tutto ben livellato con il prato che ci cresce sopra, o meglio ancora vorrei divenire cenere per sparpagliarmi in giro.
Sul Messaggero Veneto di ieri il capogruppo del PDL in Consiglio regionale Loris Michelini si esprime così (è un virgolettato, dovrebbero essere realmente le sue parole): “Sia da vivi che da morti gli islamici dovrebbero seguire le nostre regole, solo così riescono a integrarsi” e “Dal punto di vista cristiano, ci sconvolge questo modo di iniziare un’epoca all’insegna dell’integrazione con sepolture diverse dentro un cimitero
Da morti? Integrazione? Non è possibile rispondere a queste affermazioni. Non trovo nessuna logica in quelle parole, non posso articolare nulla per ribattere. E’ al di là di me, quel pensiero, non ci posso arrivare. E come se arrivasse uno e mi dicesse “ho mangiato una mela, domani grandina”, oppure “ecco le chiavi della macchina, ma ricordati che la radice quadrata di 2 è un numero irrazionale”.
Cos’è, teatro dell’assurdo? 
Fosse possibile, la cosa più semplice sarebbe estrarre il cervello di Michelini dalla scatola cranica, procedere con un bel tagliando come per le automobili, se fosse un computer si dovrebbe aggiornarlo con gli ultimi driver  disponibili per garantirsi una compatibilità aggiornata delle interfacce con la realtà, perché evidentemente c’è qualcosa che non funziona, là dentro.
Aggiornamento: sul giornale di oggi ci sono i commenti dei politici locali su quelle frasi di Michelini, e per fortuna vedo che sia la Destra sia ovviamente la Sinistra ne prendono le distanze.