Archivi autore: Giorgio Jannis

Del marketing moderno

– Che lavoro fai?
– Beh, lavoro in un’agenzia pubblicitaria di quelle moderne… ci inventiamo delle campagne di comunicazione per promuovere certi libri, per conto degli editori.
– Il pubblicitario insomma… perché dici moderno?
– Beh, se metti vicino digital e social hai già capito.
C’è questa pagina che si presenta un po’ come un comunicato, un po’ come una presentazione aziendale. Una pagina ponderata, scritta da gente che se ne intende, dove a ogni capoverso vedi e apprezzi il lavoro di lima per raccontare (sinteticamente, professionalmente, tecnicamente, suggestivamente) uno di quei lavori che cinque anni fa non molti intravedevano, e dieci anni fa pochi pensavano potesse esistere nel futuro.
Un servizio di comunicazione virale dedicato al mondo dell’editoria.
Gente che si mette in mezzo tra editori e bookstore, e fa in modo che un titolo della casa editrice venga conversato. “Quel libro è stato conversato abilmente” si dirà in qualche modo un domani.
Ci sono un paio di frasette un po’ roboanti, tenete presente a chi la comunicazione è rivolta, lì dove dice “esponenziale”, a esempio, oppure dove parla di social media massivi (intendendo dire molto frequentati? di massa? lol), ma prima dello stile guardiamo di cosa parla, visto che a me interessa qui sottolineare una di queste cose nuove che appaiono nel mondo connesso.
Le campagne pubblicitarie moderne già da anni non si concentrano più sul prodotto. C’è da costruire un mondo narrativo che si incastri con i memi circolanti in una data sottocultura in un dato momento, e provvedere gambe alle idee affinché queste possano circolare negli ambienti sociali digitali. C’è da capire quali caratteristiche dell’oggetto possano fornire spunti alla sua spreadability, bisogna confezionare un’acconcia veste di racconto, prevedere i flussi imprevedibili del passaparola. Non si tratta quindi solo di favorire la situazione di vendita online, molto del lavoro ovviamente riguarda l’edificazione del contesto, alla luce del quale assumerà senso quel testo, quel messaggio costituito dal singolo libro di cui fare marketing virale.
Interessantissima appunto la Digital Identity Building, dove si tratta di costruire e mantenere “l’immagine dell’editore sulle diverse piattaforme di social media”, usando come grancassa 15 pagine di Facebook e dieci accounts (sic), gestite direttamente dall’agenzia, insieme a quindici account su Twitter e 3 canali YouTube.
Guardiamo i verbi: quali sono le azioni, i servizi che vendo? Creare, catturare, coinvolgere, conversare, collaborare. Perfetto, son le cose da fare in questo social dove abitiamo.
Serve modernità nelle forme di racconto e di interpellazione del destinatario, che viene dipinto come un “pubblico diverso, nomade, trasversale, molto frazionato”, e quindi chi offre queste consulenze viene specularmente connotato dal punto di vista narrativo dal suo proporre (aver le competenze per) una comunicazione “innovativa, interattiva, relazionale, virale, user generated ed esperienziale”.
Abbiamo questo Eroe (questa Agenzia) che si presenta al Re, ovvero alle case editrici, in qualità di Aiutante, e dice di avere competenze (un saper-fare, un poter-fare) per dissodare i terreni sociali, per pettinare i flussi, per innescare passaparola, per costruire situazioni mediatiche che poi tornano utili al programma narrativo del Mandante, ovvero vendere libri.
Ci sono anche testualmente espressi gli strumenti che l’Aiutante utilizzerà per raggiungere il suo scopo, ovvero Social, Buzz, Viral, Guerrilla e Ambient.
Vedete, una volta la gente lavorava molto di più su cose concrete, legno ferro e pietra, e una minoranza campava maneggiando concetti. Oggi, postindustriale e blabla, la maggior parte di noi per lavoro gestisce informazioni, dati, o cose che non posso toccare. E certe avanguardie professionali (che sono sempre esistite, sono quelle “sulla frontiera”) paradossalmente riescono oggi a mettere le mani dove fino a ieri non si pensava di poter arrivare, nella gestione del consenso, nell’illuminare di desiderio certi oggetti materiali, nel progettare lo stile di vita dei personaggi, nel ricavare informazioni e tendenze di collettività ampie, nel tracciare i flussi della pubblica opinione, nel costruire e far circolare valori come la fiducia e la reputazione, nella conversazione connessa e nel passaparola degli ambienti sociali digitali. 
Stiamo osservando in tempo reale, per prove e errori, la nascita di nuovi strumenti capaci di operare su nuovi oggetti culturali, prima mai pertinentizzati da un pensiero riflessivo in quanto né percepiti né forse percepibili. 

Voglio le webtv

Neanche il tempo di rallegrarci a metà per la mezza liberazione del wifi in italia, e ecco che arriva un’altra cretinata: la regolamentazione delle webtv. Migliaia di persone che parlavano davanti a una webcam, siti come Youtube e altre piattaforme per contenuti user-generated, oppure strutture più organizzate ma non “aziendali” né commerciali che magari cercavano di fare informazione locale, citizen jounalism e “territori eloquenti” bloccati sul nascere a causa dei vincoli strettissimi descritti in questo decreto Romani.
Quel Paolo Romani noto per le articolate vicende delle sue attività imprenditoriali proprio in campo televisivo. Quel Paolo Romani noto per la sua incapacità di comprendere lo spirito della Rete – come nel suo intervento pubblico alla Camera in occasione della lectio magistralis di Lessig – eppure guardacaso efficacissimo nel legiferare contro la Rete stessa.
Dài, che voglio l’italia sia un paese normale come gli altri, dove si smetta di dover lottare contro cretinate, per affrontare i veri problemi (con un doppio turno alla francese, a esempio, o con un proporzionale serio).
Nel frattempo, anche qui, disobbedienza civile.

Capire l’ebook, laicarlo scerarlo e spredarlo

Spammare e taggare credo siano ormai sdoganati. Hanno anche un forma linguistica che s’incastra bene con le regole del Sistema Fonologico della lingua italiana, si declinano normalmente, potrebbero essere parole italiane “ben formate”. 
Laicare è un problemuccio. In italiano abbiamo /laico/, sostantivo, di tutt’altra area semantica generalmente poco intersecata con quella del “piacere”. “Ho laicato il tuo status”, una di quelle frasi che senti al bancone del bar, che cinque anni fa non esistevano, e oggi non potrebbero non esistere, nel loro identificare pratiche sociali comuni, comportamenti diffusi.
Scerare può essere reso con condividi, non dà tanti problemi. Anche la parola share è diffusa in italiano, pensate allo share televisivo o ai dividendi finanziari.
Spredare, da spread, di nuovo si intreccia con una /preda/ con cui solitamente non ha niente a che fare. Usiamo diffondere, ok. Mi piace spredare perché ha un suono più esplosivo, con quel spr, mi sembra una molla che scatta, e rende maggiormente la dinamicità della diffusione di un contenuto sulla Rete.
Comunque, io la vedo così.
C’è da capire cosa sia questo benedetto ebook.
Il modo migliore è fare sperimentazioni, immergersi nell’esperienza, parlarne, reintrodurre il feedback nel processo di progettazione, e via andare.
Parlarne in modi diversi, su mezzi diversi, in tv ai Saloni del libro, nei forum e sui blog, sui social, come interviste e come saggi teorici, nei convegni. 
Nei convegni si mettono in moto delle macchine che producono idee, e queste sono semplicemente costituite dai capannelli di persone che si creano negli interstizi del tempospazio convegnistico, ragion per cui insisto sempre nel progettare bene gli spazi informali dove la chiacchiera scorre limpida, mentre gli spazi formali delle relazioni verbali degli oratori hanno già in sé una struttura che ne prganizza la fruizione da parte dello spettatore. Lo spettatore nei convegni è ancora troppo passivo, vi è tecnologia in giro che potrebbe far brillare questi simposi di umanità di una luce nuova, dove con hashtag di twitter o con gli sms o con blog collaborativi georeferenziati verrebbero moltiplicati canali e le possibilità comunicative tra tutti gli attori della situazione. E finalmente che luoghi dell’invenzione collettiva di tematiche e opinioni, quelle chiacchiere veloci che si intrattengono tra un relatore e l’altro, oppure nei coffe-break, potrebbero trovare una dignità di solidità, venendo sostanziati nei flussi elettronici, scerati e spredati, senza rimanere soltanto voce senza memoria.
Non è che tutto deve diventare superipermediale, eh. Gli strumenti e le tecnologie abitano dentro nicchie ecologiche precise, col passare del tempo i linguaggi che vi girano come software, gli usi che ne facciamo, modificano la loro portata comunicativa, ma un criterio valido per il loro utilizzo e giudizio è sempre l’adeguatezza. La corrispondenza tra tipo di contenuto che intendo veicolare e la forma con cui lo rivesto. Un romanzo sta comodo (sono cresciuti insieme) in un libro dalla forma lineare, è una storia che si dipana, mentre un’enciclopedia sequenziale un po’ soffre, è costretta, non può allargare le braccia e accogliere con immediatezza i rimandi. Un sinolo, direbbe Aristotele, e una visione romantica moderna guarda con una lacrima di commozione quel momento magico in cui l’urgenza di un contenuto nuovo da esprimere precipita in una forma mai vista, una parola un testo un linguaggio, capace di significare appieno come significante i significati che intende significare. O perlomeno che incontra diffusi nella cultura già quei codici innovativi-ma-non-troppo che permettono ai lettori di impossessarsi di quella forma, comprenderla nella sua novità, e quindi di accedere al contenuto veicolato.
Quindi: un convegno è una forma storica, potrebbe modificarsi, ma far incontrare umani è essenziale, perché lo strumento “chiacchiera libera” è fondamentale, è brainstorming, produce semi di idee che nascono tra gli intelocutori e cominciano a germogliare a narrativizzarsi e a diffondersi: l’idea stessa di capannello di persone come supporto alla Conoscenza va potenziata tecnologicamente, mettendo dentro i cellulari dispositivi per intrecciare automaticamente le persone, scambiando rapidamente biglietti da visita elettronici che rechino seco tutta la cerchia sociale di ciascuno dei presenti, le reti relazionali che abbiamo sui social, i nostri luoghi di produzione e di conversazione, che permettano di solidificare giusto un po’ i flussi di ideazione libera, per poterli poi concretamente maneggiare e reintrodurre all’elaborazione collaborativa.
Sull’ebook nei prossimi sei mesi si parlerà molto. Sono nate molte piattaforme italiane per la distribuzione, gli editori si organizzano per il digitale, si stanno facendo molti sbagli perché chi pensa queste cose pensa ancora alla televisione e alla stampa come modelli economici di funzionamento del mercato, tra poco è Natale e speriamo si vendano milioni di ebookreader, nasceranno iniziative convegni e premi letterari e riviste specializzate.
Due mesi fa abbiamo fatto l’Ebookfest a Fosdinovo, tra poco vedremo di mettere in circolazione un ebook con le riflessioni dei partecipanti, c’è qualche video.
L’EbookFest è per definizione la festa dell’editoria digitale in Italia. Con tutti quei significati di festa che la parola festa intende. Si svolge a Fosdinovo in una castello di un accogliente piccolo paese medievale, si crea un clima relazionale caldo e tranquillo, ottimo per le chiacchiere. Editori, autori, e-tipografi, insegnanti (c’è sempre protagonista l’evento dedicato all’editoria scolastica) si incontrano e passeggiano per il castello o per il paese, assistono a relazioni piuttosto destrutturate tenute in un cortile, seduti in cerchio. 
Al Palacongressi di Rimini il 5 marzo 2011 avrà luogo Ebook Lab Italia, mostra-convegno per tutti i professionisti dell’editoria digitale sul mercato italiano. Nel palinsesto dei Luoghi italiani in cui verrà nel tempo sviscerato e approfondito il significato degli ebook, potrebbe senza dubbio candidarsi a diventare l’evento ufficiale, dove vengono sancite nel corso dei lavori convegnistici le posizioni dei parlanti, le aziende e gli editori, dove prende forma e concretezza il discorso degli ebook in Italia, dove le interpretazioni del fenomeno  vengono fissate, fino a quando nuove idee e nuovi approcci e nuove pratiche non richiederanno a convegni ulteriori (la progressione del “discorso pubblico sugli ebook”) di aggiornare le parole con cui pensiamo l’ebook e tutto quello che gli sta attorno.
Come quando il linguaggio si fa carico con la deissi di significare dentro le frasi anche quei pezzi di contesto che sono a tutti gli effetti attori della situazione enunciativa, così i convegni sull’ebook sono quel tipo di atto linguistico dove la partecipazione di molti portatori d’interesse è ratificata (proprio da quel con-venire nel con-gresso, nell’incontrarsi del meeting) e dà immagine di sé nel testo che produce, dove tematicamente si provano a tracciare interpretazioni e senso del fenomeno ebook.
Di cui oggi non si può non parlare, in modo creativo o in modo economico: vi è una certa urgenza.
Per EbookLab ho scritto un post, hanno intenzione di dar libera voce a quelli che provano a capire qualcosa di questa rivoluzione, e confusi dal delirio mi han ritenuto meritevole.

Ebook scolastici e pateracchi

Questo è il governo del fare business, nessuna meraviglia.
Ma qualunque imprenditore serio sa che la sua scommessa riguarda il futuro, e le aziende virtuose sono quelle che innovano, quelle che fanno ricerca.
Ma gli imprenditori che abbiamo al governo pensano all’oggi.
I fondi per ricerca, formazione e istruzione vengono inesorabilmente tagliati, viene seriamente compromessa la qualità dell’insegnamento e degli ambienti formativi.
Non solo: le cose pubbliche come la scuola vengono gestite come pretesti per fare affari, intrallazzi poco chiari.

La vicenda che racconta Agostino Quadrino di Garamond in questa nota su Facebook riguarda a esempio il mercato della didattica digitale, degli ebook e dei learning-object, dove curiose amicizie tra Telecom e Mondadori si spiegano alla luce dei 750 milioni di euro che ogni anno le famiglie italiane spendono in editoria scolastica.

La deriva (pilotata) dell’innovazione digitale nella scuola italiana.


Eccomi qui di nuovo per condividere alcune considerazioni sullo stato dei progetti di innovazione nella scuola italiana, che considero molto preoccupante, e non solo per Garamond. Purtroppo non riuscirò ad essere breve, e me ne scuso, ma la materia è tale e tanta che non è possibile sintetizzare con la consueta stringatezza.

Lo faccio con indignazione, perché è davvero inaccettabile la situazione di difficoltà in cui si trovano attualmente aziende serie e oneste come Garamond, impegnate da molti anni nell’innovazione a scuola, strette fra una pubblica amministrazione che riduce sempre di più le risorse per l’innovazione e in generale per la formazione e l’istruzione, e le lobbies delle grandi aziende editoriali, che vivono delle rendite di mercati chiusi e protetti, come quelli del libro di testo, che le inducono a restare allineate e coperte, cercando di protrarre più possibile la vita di un sistema molto redditizio (750 milioni di euro all’anno), magari fino alla pensione dei suoi anziani manager da 2-300 mila euro di compenso annuale, e alle spalle dei tanti giovani collaboratori precari, che lavorano 10-12 ore nelle loro redazioni per 8-900 euro al mese?

Partiamo dalla pubblica amministrazione e dalle responsabilità di chi ci governa.
Accennavo sopra all’indignazione e la ragione sta nel fatto che la pubblica amministrazione italiana non paga più. La società che dirigo vanta crediti con diversi soggetti della P.A. per svariate centinaia di migliaia di Euro, in sospeso da mesi o da anni, derivanti da forniture di beni (immateriali e anche materiali) e servizi (formazione e contenuti online) regolarmente acquistati e mai pagati, fino ad oggi.

Ciò inevitabilmente comporta una incapacità per Garamond di onorare a sua volta gli impegni economici con i suoi fornitori, con i tanti autori, consulenti, formatori, tutor ecc. che hanno lavorato per noi – magnificamente – in questi mesi/anni e che sono (più o meno pazientemente) in attesa di ricevere i loro legittimi compensi. Ce ne saranno certamente non pochi fra coloro che leggono questa newsletter, ai quali sono grato per la paziente attesa e – nella maggior parte dei casi – la fiducia e la comprensione che ci riservano, ben sapendo che hanno a che fare con una società seria e con gente onesta che ha sempre onorato i suoi impegni.

Però tutto ha un limite.
Non è più accettabile, ad esempio, che la Regione Lazio non eroghi i versamenti degli “acconti” (!?!) di quanto dovuto per un progetto da noi sostenuto – anche forniture hardware di centinaia di computer, lavagne interattive e videoproiettori – iniziato addirittura nell’ottobre 2008 e concluso nella scorsa primavera.
Non è accettabile che la Presidenza del Consiglio, per il tramite del Dipartimento Innovazione e Tecnologie per il progetto “Innovascuola”, non versi alle scuole i fondi stanziati da due anni per l’acquisto di contenuti digitali da noi forniti da quasi un anno, e di conseguenza le scuole non siano in grado di pagare noi.

La realtà e la ragione di questi “ritardi” è oramai evidente: il governo centrale, per ragioni politiche a tutti evidenti, ha deciso di non erogare più alcun finanziamento e fondo alle amministrazioni locali come le Regioni e ai singoli ministeri, come recentemente denunciato anche da un ministro in carica (“Le ricostruzioni del Tesoro sono assurde e fantasiose. C’è la fila di ministri davanti alla porta di Tremonti e tutti chiedono di poter spendere i fondi stanziati, ma bloccati con mille tecnicismi.” (S. Prestigiacomo). Il Ministro dell’Economia intende così mantenere artificiosamente l’equilibro finanziario dello Stato facendo una cosa veramente geniale: bloccando le uscite. Peccato che, così facendo, il peso del dissesto finanziario dello Stato sia scaricato sulle aziende come la nostra, sui suoi collaboratori e i suoi dipendenti, che non vedono riconosciuti i propri diritti ad essere regolarmente pagate e sono condannate a ricorrere a tutte le risorse possibili ed impossibili per restare in vita e non buttare a mare decenni di lavoro e di impegno.
Naturalmente, con l’attuale governo, i tagli più forti e inderogabili sono proprio ai settori della formazione, dell’istruzione, della ricerca, della cultura, e questo chiude il cerchio che soffoca tutti coloro che vi sono impegnati – insegnanti, formatori, ricercatori, operatori della cultura in tutte le sue forme – incluse le aziende che vivono di questo, come la nostra. Si tolgono fondi per i progetti di innovazione, non si paga più il pregresso, e si riducono sempre più gli investimenti in conoscenza e tecnologia: da qui al naufragio complessivo della nostra economia il passo è breve, anzi forse è già stato compiuto.

In questo contesto non è accettabile che capi-dipartimento, dirigenti e funzionari del Ministero della Pubblica Istruzione responsabili del progetto “Cl@ssi 2.0” (30 mila euro a scuola per le 156 medie selezionate lo scorso anno, 15 mila per le altre 250 elementari e superiori che saranno selezionate ora) dichiarino per due anni che tali fondi non possono essere spesi per i contenuti digitali perché beni immateriali “non inventariabili” (sic! ma non stiamo parlando di 2.0, di digitale e di rete? e ci venite a raccontare che può essere acquistato solo ciò che è materiale? surreale…) e poi fanno accordi con grande risonanza e firme in diretta a reti unificate fra MIUR e Telecom Italia sui progetti “Scuola digitale” – incluso “Cl@ssi 2.0” – in cui sono compresi anche “materiali didattici e contenuti digitali a integrazione e supporto della didattica e della formazione in servizio degli insegnanti impegnati nei processi di innovazione”.

Ah sì? Se i contenuti sono proposti da Garamond non vanno bene, mentre se è Telecom (ma che competenze e titolarità editoriale ha un’azienda di telecomunicazioni? non le si dovrebbe chiedere molto più semplicemente e correttamente di far arrivare la banda larga dove ancora manca, e in tutte le scuole?) allora la cosa è lecita, opportuna e benedetta dal Ministro in persona, con tutti i dirigenti in prima fila sorridenti e soddisfatti per l’ottimo lavoro svolto?

E che dire del fatto che la stessa Telecom Italia, con cui il MIUR firma accordi e protocolli d’intesa, ha appena lanciato “Biblet”, una piattaforma di E-Book http://ebook.telecomitalia.it/ quando sta per entrare in vigore la normativa sull’adozione obbligatoria di libri digitali come testi scolastici? Interessante coincidenza, no?

E vogliamo aggiungere anche che – guarda il caso – il partner editoriale di Telecom Italia per la medesima piattaforma di libri digitali è il principale produttore di libri di testo per la scuola in Italia (insieme a Rcs), ovvero la casa editrice Mondadori, la cui titolarità è notoriamente del Capo del Governo?

Che fare? Rimanere in silenzio o andare con il cappello in mano presso qualche dirigente ministeriale troppo preso da ben altre occupazioni per dare udienza ad una piccola realtà non sempre docile e accomodante? No, non lo faremo. Ora basta.

Ovviamente, sulle questioni qui sollevate abbiamo posto domande e quesiti per iscritto ai responsabili del MIUR, ovvero al capo dipartimento Giovanni Biondi, al direttore Fidora e alla dirigente Schietroma: siamo ancora in attesa di una pur minima replica, essendo il silenzio – da sempre – l’unico modo di reagire di un certo tipo di funzionari pubblici.

Da ultimo, su questo fronte: ho partecipato come membro della FIDARE, Associazione degli Editori Indipendenti, ad un incontro al Ministero in cui ci è stato prospettato un nuovo progetto, dotato di un finanziamento di 3 milioni di Euro, destinato proprio ai contenuti digitali. Tralascio in questa sede le nostre osservazioni sulle Linee Guida fornite in quella sede, concentrandomi su un punto capitale. Si hanno a disposizione 3 milioni di Euro per i contenuti didattici digitali e su che cosa punta il Ministero? Ebook, learning object per lavagne interattive (fornite in gran quantità, ma attualmente prive di contenuti disciplinari, quindi sostanzialmente vuote e dunque inutili). Nossignori: viene promosso un progetto che finanzia 30 “prototipi” (sic!) da 100 mila euro ciascuno, per contenuti realizzati sotto forma di “ambienti immersivi integrati anche tridimensionali”, sotto forma di videogiochi educativi di seconda generazione (?). Ma perdinci, come si fa ad assegnare fondi così cospicui (con cui ci si potrebbero acquistare migliaia di interi nostri cataloghi di E-book e Learning Object, nuovi, dignitosi e pronti per l’uso in classe) destinati ovviamente solo a grosse società di produzione di videogames, magari estere, parlando di “seconda o terza generazione”, quando nelle nostre scuole non si è vista nemmeno l’immacolata concezione dei contenuti digitali?

Ma questi dirigenti del Ministero sono mai andati in una scuola a vedere l’effetto che fa su insegnanti e studenti un semplice ma efficace learning object di matematica, di scienze o di inglese, eseguito su una lavagna interattiva? Hanno mai visto come si avvicini alla tecnologia e all’innovazione anche il docente più riottoso, quando gli si fa vedere un pezzo della sua lezione di domani o di ieri in seconda C, interattivo, multimediale e ricco di test e verifiche online e offline? Questi docenti sentono davvero l’esigenza di “ambienti immersivi tridimensionali” per dare un senso alle LIM che hanno sulla parete delle loro classi? Non sarebbe bene, prima di arrivare alle seconde e terze generazioni, far prendere contatto e familiarità con quello che già c’è, per tutte le materie e i gradi di scuola, realizzato da docenti per docenti, a basso costo e di grande spendibilità didattica, assegnando ad ogni singola scuola qualche centinaio di euro da impiegare su un mercato libero? Chiediamo troppo?
Forse il fatto che solo Garamond abbia investito in questo settore in questi anni, producendo più di seicento learning object e 45 Ebook di testo, ultimando i suoi cataloghi proprio ora con prodotti nuovissimi (del tutto innovativi quelli ad esempio per la scuola primaria), non fa piacere a qualcuno che invece è rimasto fermo? Diversamente non si spiega, visto che dovrebbe essere interesse della pubblica amministrazione dotare le scuole del grado iniziale dei contenuti didattici digitali, visto che ci sono e qualcuno ci ha speso anni di impegno per realizzarli.

Credo che questo stato di cose complessivo imponga moralmente una reazione, che spero sia compresa dai tanti colleghi che ci seguono da venti anni e più, e che voglio sperare non ci lasceranno da soli in questa dura battaglia. Ci batteremo con ogni mezzo lecito per difendere il lavoro di chi collabora con noi attualmente, di chi ha lavorato in passato con professionalità e passione per Garamond e ancora attende di essere compensato per quello che ha fatto, di chi si rivolge a noi augurandosi di trovare un futuro per le sue competenze e conoscenze.

Come sempre, tutti i nostri canali di interazione sono aperti, sul nostro Blog, sui nostri forum, su facebook e ogni altro ambiente di rete e non,per raccogliere le impressioni, le critiche e le proposte di chi come noi ha la ferma volontà a reagire a questo degrado di cultura, professionalità, dignità e iniziativa imprenditoriale libera e indipendente.

Dài, che cade la Pisanu e il prossimo anno bloggo dal bar

Lo dice Maroni, questo pessimo decreto Pisanu sarà modificato e si potrà navigare liberamente anche nei wifi italiani. Oddio, liberamente è parola grossa, ci sono delle complicazioni, ma non si sa ancora bene niente. Leggete Zambardino o Maistrello per altre info e considerazioni.
E’ molto tempo che ne parliamo, l’altr’anno firmammo anche una Carta dei Cento per il Libero Wifi.
Quello che vorrei dire io è che l’atteggiamento di Maroni mi sembra quello di chi fa una concessione, e la qual cosa mi sta sommamente e pesantemente sui coglioni.
Hanno bloccato la società per cinque anni, siamo terribilmente indietro, e lui con l’aria di chi dice “Comunque controllare è giusto, eh? Dobbiam sapere tutto. Alleggeriamo giusto un po’ i vincoli.” elargisce il giocattolo.
E quindi, tagliamo la fuffa: io vorrei sapere quante indagini di polizia o di un magistrato su questioni di terrorismo sono state impostate in italia negli ultimi cinque anni, che abbiano riguardato o consultato i tabulati delle connessioni pubbliche. Voglio i fatti, i numeri, le quantità. Voglio sapere se questo pateracchio tutto itaiano ha fatto del bene al paese, oppure voglio sapere se negli altri Paesi europei o negli Stati Uniti, dove non si dà il caso che il wifi sia disponibile solo dopo autenticazione, sono cretini a non averlo fatto.
Eppure i proverbi parlan chiaro: “se sembra che tutti ti vengano addosso, sei tu che sei in contromano”.

Del simulare e del dissimulare

Aspettavamo tutti la catastrofe.
Il disappunto di Berlusconi alla risposta della signorina da molti è stato notato come luogo narrativo interessantissimo, una figuratività perfetta per significare in un gesto tutto quel mondo che ci sta dietro, la psicologia del personaggio, la sua linea attoriale.
Per la psicologia della persona, qualche indicazione potete ricavarla da una lettura della voce “Disturbo istrionico della personalità” su wikipedia. Ma non mi interessa la persona, è cosa noiosa.
Restiamo sulla psicologia del personaggio, quello che vive in vestaglia con in casa venticinque fanciulle, il drago, come narrativizzò Veronica. Quel ruolo del cummenda un po’ smargiasso con le radici nella fine anni ’50, l’ingenuità, la stolidità. In realtà, ci sono stati sviluppi nella psicologia del nostro protagonista, nel corso dei decenni. Ma è anche stufo di cambiare, di adattarsi come un venditore, adesso lui lì è e lì sta, nel suo stile di vita che gli piace, come ha detto l’altro giorno nella prime balbettanti risposte.
Gli schemi di comportamento tengono? La parte attoriale di B. riesce a rimanere integra, nonostante fatti su fatti contraddicano quella visione del mondo? Quante incrinature ha già subito, quella corazza, quante volte il mondo è apparso per quello che è prima di essere rapidamente rivestito di fiction?
Gilioli coglie ottimamente quell’attimo, l’irruzione della realtà.

Ma anche qui secondo me il dettaglio forte – il punctum- è la reazione indispettita e quasi rabbiosa del premier quando a una sua domanda di maniera («Che cosa fai nella vita?») la ragazza un po’ ciucca risponde con splendida genuinità: «Faccio marchette, presidente».

E lì, appunto, Silvio s’incazza.

Voleva una risposta qualsiasi, purché fasulla: la musicista, la cavallerizza, l’astronauta. Tutto fuori che l’evidentissima, prevedibilissima, scontatissima verità: se si trovava lì, a 28 anni, bella e disponibile davanti a un ultrasettantenne, era perché nella vita fa le marchette.

Una cosa talmente ovvia da essere del tutto insopportabile per un uomo che ha sempre ricoperto la realtà – e la sua crudezza – sotto una coperta e di cerone, di photoshop, di nylon davanti alle telecamere e di cieli azzurri cartonati. L’uomo che prima del G8 di Genova ha fatto togliere i panni stesi nei caruggi, insopportabile traccia di vita autentica.

L’uomo dell’eterna rappresentazione fasulla messa in scena per gli altri – talmente avvolgente e ripetuta che forse alla fine ci crede anche lui – non può essere messo improvvisamente di fronte alla realtà.

Sarebbe da rendere Storia quel momento, se avremo la fortuna di assistere alla presa di coscienza del personaggio, l’istante fatale, la frattura narrativa, come in Dostoevskij.

Strano e terribile: perché non mi è mai passato per la mente, per tutto l’inverno, che lei potesse disprezzarmi? Ero convinto al massimo grado del contrario, fino a quell’istante in cui lei mi guardò “con severo stupore”.

(Dostoevskij, La mite)

Le tecnologie nella scuola

Un articolo di Mario Fierli, su Educationduepuntozero, dove si prova a fare il punto sulla situazione delle tecnologie didattiche. 
C’è anche un link a un documento in .pdf  Le tecnologie nella scuola: una piccola antologia di contributi di vari autori – Francesco Bailo, Elena Serventi, Stefano Merlo, Maria Altieri, Lucia Ferlino, Luigi Oliva, Giovanni Paolo Caruso, Andrea Mameli, Fabrizio Emer, Roberto Maragliano, Gino Roncaglia, Paolo Ferri, Daniele Pauletto, Immacolata Nappi, Fiorella Operto, Carlo Infante.

Le tecnologie nella scuola: che cosa si dice e che cosa succede davvero

di Mario Fierli

Dai contributi teorici, dalle analisi dei singoli media e dal racconto di esperienze emerge il problema di sempre: le nuove tecnologie cambiano o no il modo di fare scuola? Le risposte a questa domanda nello speciale di Education 2.0 scaricabile in PDF.

È successo per l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione nella scuola quello che avviene per tutte le nuove tecnologie che entrano con forza nella società. Si passa da una fase d’avanguardia, accompagnata da teorizzazioni, esercizi di immaginazione, utopie (positive e negative), a una fase di più silenziosa pratica effettiva. In qualche modo le TIC sono oramai nelle mani degli studenti e dei docenti. Per la verità molto di più nel lavoro e nella vita di ciascuno di loro che nel loro comune lavoro a scuola. È quindi necessario continuare a produrre studi, suggerimenti e modelli, ma è oramai possibile fare analisi di quello che succede veramente. I contributi di esperti e gli interventi nella Community di Education 2.0, a oggi, non sono di per sé la base di una indagine sistematica, ma la loro lettura permette di riflettere.

I contributi sono rivolti essenzialmente a tecnologie o applicazioni più “calde” e recenti: e-book, social network, LIM, ma con una rivisitazione del rapporto fra immagini (cinema), musica e testi e con l’interessante crescita della ormai classica robotica. Di temi che ci hanno appassionato per anni (Come incide la videoscrittura nella concezione del testo? Come si crea una cultura della ricerca di informazioni in Internet? È vero che l’uso del calcolo automatico è dannoso? E così via) non c’è traccia. Probabilmente quando alcune cose oramai si praticano di fatto se ne parla meno e ci si preoccupa meno dei risvolti. Se ne può avere una verifica in molti interventi (per esempio in quelli del convegno di aprile di Education 2.0), classificati in vari temi, nei quali l’uso delle tecnologie c’è di fatto, ma non viene enfatizzato. In conclusione solo una parte di quello che succede davvero emerge nel dibattito specifico sulle TIC.

Dai contributi teorici, dalle analisi dei singoli media e dal racconto di esperienze emerge il problema di sempre: le nuove tecnologie cambiano o no il modo di fare scuola? Molti anni fa una corrente di pensiero aveva concepito l’idea che l’uso delle tecnologie, di per sé, dovesse per forza provocare l’innovazione didattica. Se le tecnologie hanno cambiato il modo di lavorare, viaggiare, produrre cultura e leggere, perché non dovrebbero cambiare il modo di fare scuola? Quindi l’idea delle tecnologie come “leva”: visto che l’innovazione non viene dalle riforme istituzionali e dal dibattito su metodi didattici, saranno i nuovi mezzi che la promuoveranno. Sarà che la scuola è il più coriaceo sistema sociale, capace di resistere a qualsiasi provocazione (a volte, intendiamoci, a fin di bene). Fatto sta che all’automatismo tecnologie-innovazione didattica non ci credono più in molti. Si può ragionare su qualsiasi medium, ma il caso delle LIM è particolarmente chiaro, come si ricava da alcuni interventi: è ovvio che questi congegni si possono usare in tanti modi diversi al servizio di altrettanti modelli della lezione in classe e, fra questi, dei modelli più antichi. Il problema è che una lavagna interattiva non garantisce una lezione interattiva. L’interattività didattica consiste nel far interagire continuamente quello che l’insegnate dice, mostra e, soprattutto, chiede, con quello che gli studenti pensano, capiscono, hanno la possibilità di rispondere e di domandare. È imbarazzante costatare che è possibile fare lezioni interattive con la lavagna tradizionale e lezioni non interattive con la lavagna interattiva.

E allora cosa se ne deve concludere: che le nuove tecnologie non servono a niente? Certamente no. Esse sono potenzialmente rivoluzionarie perché possono rafforzare enormemente i modelli più avanzati di didattica. Ma non lo fanno gratis. Non c’è bisogno di meno, ma di molto più studio e di ricerca sui metodi, sui linguaggi, sui saperi.

La libertà e il sentimento delle masse

Prendo una frase da un post di Zambardino.

Ecco il problema che si pone per la rete: la libertà è indisponibile, non è regolata dal “sentimento delle masse”.

La qual cosa agita in me questa idea: se continuiamo a parlare di quanto la Cultura digitale cambierà il mondo, cominciamo a pensare seriamente che tutto cambierà. Compresi ideali platonici come il concetto di libertà, che poi sono sempre pratiche concrete del vivere, situate, materiali. C’è sempre un contratto originario nella narrazione, che innesca l’eroe e l’azione senza la quale non c’è storia. Qui parlavo di come fosse da preferire piuttosto l’indipendenza alla libertà, ma è un’altra storia.
Ma il senso delle cose è dato da coloro che quelle cose le vivono. Attraverso le epoche.
E allora vediamo che le idee e i concetti, anche i più basilari per la nostra cultura, sono sempre storici e storicizzabili. E quindi mutano nel tempo.
Fino a ieri c’erano dei valori – reputazione, decoro, libertà, proprietà – resi stabili nel tempo, in quanto nati in una conversazione lenta e secolare fatta da poche persone con strumenti pesanti, i libri e le riviste accademiche e i quotidiani, i motori comunicativi che agitano il calderone della pubblica opinione di una data collettività.
Occorrevano pensatori e produttori di opere eccezionali, per smuovere la solidità di quei concetti, forzarne l’aggiornamento ai tempi correnti, diffondere le nuove accezioni nella società.
Il discorso dei poeti come avanguardia della specie, insomma.
Ma già da qualche decennio i poeti erano copywriter, o registi, o dj o giornalisti, gente che pubblica veloce. E già il calderone cominciava a ribollire. 
Ora noi siamo il web, che non è quotidiano, è istantaneo, continuo. Dove tutto viene ripreso e traghettato e riconsiderato, e non da mille intellettuali sparsi per il pianeta, come nel 1952, ma da centinaia di milioni di persone.
E siamo destinati a attraversare la peggiore interpretazione possibile di “power to the people”, perché avverranno cose aberranti. Una risacca emozionale può scuotere una collettività intera, un’indignazione o l’onda di uno scandalo qualsiasi, e ecco che milioni di persone negano o permettono qualcosa che fino a ieri non poteva essere facilmente toccata, come un valore. Proprio grazie a quel tasto Like di Facebook, come racconta Zambardino.
E cosa dovremmo fare? Indicare alcune stelle fisse del firmamento etico, e pretendere che milioni di persone ne facciano punto fermo della propria rotta, nel proprio lifestreaming? L’educazione, che sola può agire in questi casi, è un processo generazionale.
Dovremmo fare un wiki ufficiale, magari garantito dall’ONU o trovate voi un’autorità autorevole planetaria, dove sono esposti i cardini della civiltà occidentale? Dai Greci al Rinascimento all’Illuminismo al pensiero contemporaneo? Capisaldi del pensiero che ora vivono in forma scritta dentro supporti della Conoscenza offline, esterni alla Rete della socialità?
Se tutti fossimo connessi e partecipi, il senso di un valore è dato dal suo essere vissuto dalla collettività. Punto per punto, attimo per attimo. L’esperienza è valore di chi vive quell’esperienza, nel suo modo unico e originale.
E ora dobbiamo fare i conti con la sanzione sociale. Il fatto che noi tutti sanciamo il significato di un concetto, abitandolo quotidianamente, valorizzando e mettendo in luce un lato piuttosto che un altro, conferendogli senso situato in un qui e ora. Un qualsiasi fatto di cronaca che ci obbiga a schierarci; e stiamo ragionando di quei concetti che sono valori. Reputazione, per esempio.
Il fatto che blocchi alla circolazione delle idee avvengano dentro Facebook, che è un luogo privato, accentua il problema. Perché poi avvengono dei pateracchi tra la Polizia di uno Stato (l’Italia, in questo caso) e un’azienda commerciale (vedi Gilioli, che però sbaglia appunto a considerarlo uno spazio pubblico) che decisamente non sono rispettosi della collettività, e sono mossi da valori non più accettabili (il fare subdolo).
Se qualcuno su FB (e anche in altri posti) segnala inappropriato un contenuto, questo scompare. Quanta gente ci vuole per far sparire un qualcosa? La libertà di espressione dipende dal numero, o dall’umore della collettività? Quello che oggi è no domani potrebbe essere sì. 
Serve, come su Wikipedia, una “proposta di cancellazione”, a cui fa seguito discussione e votazione corale? Per ogni potenziale contenuto della Rete? Cioè, dovrebbe essere possibile segnalare ogni contenuto della Rete, e sottoporlo a valutazione di tutti?
Ma Facebook è un luogo privato, è un salotto e non una piazza. E ci sono cose che non dici a casa di altri, se sei accorto e consapevole, perché il padrone di casa delle tue parole può fare ciò che vuole.
Per dire, se esistesse il social network di Stato, l’ambiente online governativo (a scala e portata diversa, georeferenziata) per la socialità digitale della collettività italiana e portatori d’interesse annessi, non è che mi piacerebbe tanto se due persone che dicono “Non mi piace” facessero sparire un contenuto che io ho pubblicato in quanto cittadino digitale che partecipa alla pubblica conversazione.
E se le persone che dicono nonmipiace fossero milioni?
Non vedo soluzione, vedo sprazzi di comportamenti futuri, un’infosfera continuamente spazzata da venti emotivi, click di pancia, fuffa mediatica, guerre tra verità locali, meccanismi di attacco-fuga. 
Lentamente, e a guardar dal punto di vista dell’oggi in modo ineffabile, sorgeranno nuove opinioni, insieme ai nuovi contenitori d’opinione.
Tra una generazione tutto questo traghettamento sarà metabolizzato: i valori civili forgiati pre-Internet saranno adeguati ai nuovi ambienti di socialità e di espressione di sé, la maggior parte delle persone ci sarà cresciuta dentro, maturando altre posture esistenziali, altre gerarchie di valori, diversi orientamenti.
Insomma: credo proprio che il “sentimento delle masse” inciderà sull’idea di libertà, senza dubbio. E siccome viviamo tempi di pancia, potrebbero avvenire cose brutte, riguardo la pratica della libertà, se qualche Principe nel suo pensare lo Stato ritiene lecito manipolare l’opinione pubblica a proprio vantaggio.
Ma sono ottimista: non posso certo irrigidire i concetti e i valori storici, perché non sopravviveranno in quella forma dall’essere maneggiati da milioni di persone, ma confido che i mutamenti dell’ambiente tutto che contiene quei concetti (la socialità digitale) saprà inventare nuovi modi e garanzie per vivere la libertà di espressione, per difenderla e farsene vanto in quanto segno di civiltà.

Maledetta pareidolia

Leggevo quest’articolo del Gazzettino, e ovviamente guardavo le facce dei due tipi.
Favorevole anch’io a tenere pulito il brand Dolomiti, mi ero già fatto un filmone in testa sull’educato competente asettico propositivo giovane altoatesino e sul loffio mafiosetto exdemocristiano veneto bellunese, e mi dicevo “toh, vedi che Lombroso qualche volta ci piglia”.
E invece ho googlato il nome del tipo, e ho scoperto che quelli nella foto erano il contrario di quello che io pensavo. Quello della foto di destra è quello che io pensavo fosse il cattivo, e invece era il buono, e viceversa.
Ho proiettato tutto il film, chiaro, fino alla fine. Fino alla manata sulla fronte che mi sono dato.
Fino a questo post.
Tag: apofenia, pareidolia, automatismi, credenza, profezia autoverificantesi, proiezione, codici interpretativi, isotopia

Lovvo laikare

Rapidamente, ma voglio bloggarlo.

Cosa piace ai vostri amici? http://www.friendshuffle.com

E ribadisco come non si tratti solo di un “portare a conoscenza”, qui stiamo condividendo reti di affettività, mood e desideri e sensibilità, dentro una pratica sociale mediata. Ci stiamo sintonizzando tutti gli uni con gli altri, in modo molto più rapido di quanto succedeva un tempo, e ci stiamo sintonizzando anche con la pancia. Mi piace, dice il bottone.

Sul fatto che la testa sappia cosa la pancia sente, misuriamo le distonie della personalità. Degli individui, dei gruppi, delle collettività ampie. E di qualcuno che amorevolmente ci dice “ti voglio bene, caro” mentre fa il gesto dell’ombrello,  tendiamo guarda un po’ a dubitare. Quella distanza tra body language e parole pronunciate marca un’incongruenza, lui non se ne rende conto, forse neanche noi, ma ne ricaviamo un’impressione se proviamo a empatizzare, e una simile contraddittoria espressione di sé non viene valutata in termini positivi.

Chi pubblica foto di gattini poi scioglie il proprio dire in lunghe pucciose tirate di amor cortese, oppure è più probabile metta sul profilo un pezzo durissimo di death-metal brutale, con immagini raccappriccianti?

Come rilevare il tono emozionale di una rete sociale, a esempio geograficamente delimitata, oppure di una community tematica? Evasione o impegno, nel tempo, al mutare dell’umore, nella relazione tra il cognitivo e affettivo, con grammatiche raffinate e sottili decodifiche.

E’ possibile sentire il polso di un gruppo sociale mediato, e poi analizzare il detto dal punto di vista dei contenuti, per ricavare una buona fotografia della personalità? e continuare a osservare il processo nel tempo, fare le infografiche del vivere online, per come i sentimenti e le prese di coscienza evolvono, sotto spinta di elaborazioni interne o di riflesso dietro gli accadimenti sociali degni di menzione, fatti di cronaca.

Misurare olisticamente la personalità di una collettività, nella sua comunicazione tutta.

Va da sé, la temperatura non è il calore, la mappa non è il territorio.

Figura e sfondo: il libro e la società connessa

Un mese fa, durante l’Ebookfest 2010 a Fosdinovo, a un certo punto come già scrivevo ero dentro una tavola rotonda, a discettare fantasiosamente di web filosofia, il mio argomento psichedelico preferito.
Tra il pubblico c’era Lucia Montauti, che non conosco personalmente, la quale qualche giorno fa mi ha scritto una mail dove mi raccontava le sue impressioni positive sul convegno, e al contempo mi chiedeva una articoletto sulle tematiche di quella tavola rotonda, da mettere in un ebook di immediata pubblicazione tutto dedicato ai ragionamenti intorno all’ebook come oggetto tecnico e come nuovo nodo del sapere in quanto supporto digitale che modificherà la forma stessa della conoscenza e del conoscere, come sempre le tecnologie fanno.
En passant, faccio notare come nei primi cinquant’anni dall’invenzione di Gutemberg siano stati stampati circa 30.000 titoli (una fonte qua) in qualche milione di copie complessive, e non è difficile notare come l’enorme ruota della comunicazione umana abbia da queste innovazioni ricevuto una spinta notevole, a giudicare dai sommovimenti rilevabili da una storia delle idee: in parallelo stavano succedendo cose che ora identifichiamo come nascita della modernità. In italia oggi si stampano circa 60.000 libri all’anno.
Ebbene, Lucia aveva sicuramente in mano un indice del suo libro, una traccia dell’impostazione della pubblicazione 2010 che è solita curare, credo di aver capito, per Data Manager.
Questa pubblicazione, in formato .pdf, è stata presentata da Lucia Montauti oggi nel corso di Innovation Festival a Milano. E’ un bel libro, ci sono un sacco di interventi di vari personaggi coinvolti nel mondo dell’editoria digitale, ci sono buone riflessioni.
E mi fa impressione pensare che Lucia abbia potuto organizzare la proposta e la raccolta dei contributi in pochissimi giorni, costruendo rapidamente il suo libro, rendendolo disponibile per il download gratuito.
Un’opera collettiva che magari qualche secolo fa per banali motivi lgistici avrebbe richiesto un anno per essere realizzata, è stata dignitosissimamente confezionata in poche ore.
Cioè, il discorso che intendevo riguarda la rapidità con cui qui verrà giù di tutto, nel giro di pochi anni. Le solite secolari prassi sociali, i meccanismi industriali, il modo di muovere il mondo, le cose e le persone e le idee. Pensavamo queste cose fossero montagne solide, e invece sono le montagne fatte coi Lego che ci costruiamo per arredare la vita. Un piccolo rigagnolo, un’infiltrazione liquida smuove il terreno secolare, inizia la frana. Guardate quante teste si girano di scatto.

Narrazioni di comunità, visioni condivise, scorci di futuro

Ho sete di narrazioni territoriali. Ma di  più: le collettività hanno sete, vogliono abbeverarsi con le rappresentazioni di sé allestite sul mediascape, il paesaggio mediatico.
Riassunto delle puntate precedenti:
  • c’è stato un cambiamento nei technoscape, nei paesaggi tecnologici. Abbiamo tutti per le mani strumenti di espressione nuovi, potenti e raffinati, abitiamo in Rete. E’ un momento aurorale, perché stanno nascendo nuovi format, nuove nicchie e flussi dentro l’ecosistema della conoscenza (fino a ieri biblioteche e quotidiani come imperi costruiti sulla carta, sulla pesantezza; seguiva maturazione dell’opinione pubblica lenta, partecipazione limitata, broadcast ineluttabile)
  • le collettività producono senso vivendo, e lo mostrano nello specchio della letteratura e nelle arti (come fare riflessivo, guarda un po’), tanto quanto nell’urbanistica, o nei modelli economici praticati, nella progettazione della logistica territoriale, e aggiungiamo le possibilità odierne di mostrare dinamicamente in tempo reale i comportamenti delle persone e dei gruppi tramite georeferenzialità e dispositivi connessi ubiqui… risulta oggi facile e semplice darne rappresentazione mediatica adeguata, di tutte ‘ste cose e flussi di persone e idee. Tutto nutre i mediascape, l’insieme degli atti comunicativi, la nuvola del dire di una comunità
  • nei momenti di crisi, conviene avere un serbatoio di possibilità differenti da giocarsi, per meglio adeguarsi al mutato contesto ambientale. Solito parallelo con il dialogo della selezione naturale, e al fatto che siamo tutti mutanti: succedesse qualcosa guarda caso ci sarebbe qualcuno che porta in sé una mutazione fino a quel momento ininfluente, ma che ora potrebbe diventare decisiva per far sopravvivere la specie (sto parlando di sperimentalismo, sì, in ogni settore sociale produttivo e socioculturale, nei format con cui pensiamo e storicamente realizziamo il nostro abitare). Idee per sopravvivere.
  • per potenziare l’efficacia di questo auto-pensarsi delle collettività, costruire contenitori di visioni e di progettazioni sociali, Luoghi partecipativi dove tutti possano esprimere la loro percezione e le loro linee direttrici del desiderio rispetto al futuro del territorio, alla qualità del Ben-stare su di esso come collettività in modo consapevole dell’impronta ecologica e dell’ottimizzazione delle risorse (materia energia e informazione, produzione e distribuzione), all’organizzazione sociale, alla costruzione condivisa di Grandi Narrazioni capaci di dare identità alle comunità locali, per come quele emergono dal calderone della Grande Conversazione, sotto cui abbiamo alzato il fuoco (tecnologie connettive) causando un più rapido rimescolarsi dei contenuti, nella comunicazione
  • ci sarebbe da raccontare come sulla superficie del pentolone si stiano formando aggregazioni di senso imprevedibili, cluster di memi capaci di tessere nuove forme significanti, come isole nei fiumi, luoghi di regolarità nel frattale della pubblica opinione. Non c’è più nessuno (ok, dài, i giornali potrebbero fare molto, se nativamente ripensati) a dirci quali sono gli argomenti importanti, ciò di cui val la pena parlare viene a galla nella Rete.
  • e-Government e e-Democracy non vivono nei pensieri, hanno bisogno di ambienti dove poter depositare e far maturare approcci e metodologie, tematiche e partecipazione
  • c’è di mezzo un aspetto civico del problema, che mi fa pensare che simili Luoghi di elaborazione del sentimento di appartenenza a una collettività (nel senso di aver-cura), i luoghi riflessivi autopoietici, dovrebbero essere pubblici, ovvero appartenere alla collettività. Come cittadini vogliamo che l’amministrazione pubblica renda disponibili piazze e parchi e biblioteche e spazi sociali per il pubblico dibattito e faciliti la circolazione delle opinioni. Poi le idee possono nascere dappertutto, nei caffè o su Facebook, ma là dentro dovrebbero assumere forma organizzata, orientata esplicitamente a costruire nel tempo l’archivio delle narrazioni autodirette di una comunità. Là dentro il ribollire dei punti di vista, delle consultazioni, potrebbe assumere aspetti concreti di promozione territoriale, come proposizione di linee e politiche d’intervento. L’alambicco che distilla.
Dicevo. Di simili Luoghi del “fare identità” territoriali e darne rappresentazione mediatica ne stanno nascendo un po’ ovunque, io stesso sto collaborando per realizzare qualcosa di simile, di cui racconterò più avanti. Gli Urban Center (Torino; Milano, Bologna, altre info) possono essere visti come gangli nervosi per l’elaborazione dei flussi informativi territoriali, gli esperimenti di Urban Experience danno visibilità alle nuove forme dell’abitare e del fruire gli spazi sociali.
A esempio, la Camera di Commercio di Udine ha messo giù un progettone per raccogliere le idee e le visioni della collettività friulana, si chiama Friuli Future Forum, lo trovate descritto anche qui, date una letta.
“L’ambizione è comunicare un progetto che contribuisca a trovare una nuova idea di Friuli. Ricostruiamo il concetto della nostra regione mattone dopo mattone, idea dopo idea, partendo dalle radici culturali e territoriali e individuando i valori di base sui quali poggiare le fondamenta per sostenere i sogni e le aspettative del futuro dei friulani” dicono i due professionisti coinvolti, l’uno più pubblicitario (annusare tendenze sociali e stili mediatici) e l’altro più tecnologo, docente universitario specializzato in location awareness e strumenti per rendere eloquenti le collettività.
E se la questione gira intorno al rendere visibili i flussi partecipativi dei cittadini, a organizzare e e distillare narrazioni centrate sul territorio e la qualità dell’abitare create dagli abitanti stessi, forse servirebbe anche una sorta di agenzia territoriale capace di offrire consulenze ai singoli o alle istituzioni o comunque agli attori sociali per costruire la propria narrazione, il proprio apporto alla Grande Conversazione.
Servirebbero dei Centri per la Narrazione gestiti con professionalità e orientati a progettare format di racconto per le collettività, capaci di fornire soluzioni comunicative adeguate con moderni strumenti di espressione (mappe e geotagging e blog urbani e reti civiche e mediateche e sensori ambientali e internet delle cose e teatri sociali di elaborazione, consultazione e decisione).
E quando le tematiche riguardano il fare civico, queste Agenzie di comunicazione potrebbero tranquillamente essere uno dei servizi offerti alla Cittadinanza da quegli Urban Center di cui parlavo più sopra.
Son dieci anni e più che unendo le mie competenze sulle conversazioni e sui media al mio interesse per la qualità dell’abitare sui territori provo a progettare e allestire community territoriali. Con tutto questo fiorire di ambienti per la socialità aumentata, chissà mai che non possa trovare un lavoro decente.

 

Voglio Carosello sulla webtv

Certo, il claim di GoogleTV ci promette che andremo dritti ai nostri canali preferiti. Qualsiasi essi siano. Tenete presente il punto. E quindi la battaglia sarà da parte dei propositori di contenuto quella di riuscire a essere i preferiti più preferiti degli altri, quelle pagine web che riescono a essere in homepage sul televisore.

Anzi, magari riuscire a sapere quali sono le pagine che milioni di persone mettono in home, per le metriche.

Il fatto è che i broadcaster storici non hanno più il potere di mettere raiuno sull’uno, raidue sul due, e canalecinque sul cinque.

Nella mia homepage di GoogleTV, ci metterei un po’ di bei tumblr, per dire.

E ne approfitto anche per fare il discorso contrario: per cosa pagherei? Perché seguo lui e lei e non altri? Ognuno di noi che abita anche qui dentro vede centinaia di fonti e di notizie e di nuclei narrativi, tutto in un sol giorno. E quello che lo colpisce lo riblogga, da cui il suo lifestreaming.

Quindi ecco emergere un personaggio.

Siccome ognuno di noi potrebbe aver la sorte di essere al posto giusto al momento giusto con in mano qualcosa di connesso, ecco l’occasione.

Ognuno in futuro avrà l’occasione di essere il lifestreaming più seguito, per quindici minuti.

Vediamola come un lavoro del futuro, conquistare l’attenzione, riuscire a vendere il proprio stile, la linea. Che possiamo distinguere nella capacità di rendere leggibile la propria idiosincratica isotopia interpretativa degli eventi (l’orizzonte di senso che ognuno proietta sul testo degli accadimenti, il fil rouge che ciascuno di noi tesse vivendo e leggendo il mondo, ciascuno a modo suo, originale e irripetibile) insieme alla capacità di confezionare il messaggio in uscita in un certo modo, spontaneamente o con arte, e risultare chiaro e distinto nel calderone della conversazione. Un giornale, un giornalista, un blogger, gente che parla. Spero sia finita l’epoca del “guardatemi, sono più cinico di un cane”, c’è un mucchio di bella gente in giro che legge molto, metabolizza, ripropone arricchendo del proprio punto di vista.

E anche lo stile, sì, è una posa da uccidere. Più volte. Pugnalarsi. Ma anche questo è uno stile. Come fregarsene dello stile. Insomma, vediamo di trasformare l’agire in fare.