Archivi autore: Giorgio Jannis

Figura e sfondo – reloaded

Un pezzo lungo, che scrissi tempo fa per un ebook di Datamanager. Ne parlavo qui.

_____

Figura e sfondo: il libro e la società connessa
Un secolo dopo le avanguardia artistiche del Novecento, abitiamo ancora dentro modelli di pensiero che non solo concepiscono l’opera come romanticamente formata in modo compiuto dentro la scatola cranica del suo autore, ma hanno in sé una propensione a leggere comunque il fare espressivo come svincolato dal contesto culturale in cui esso appare. Senza voler esasperare i termini, senza voler estremizzare le affermazioni di cui sopra – in fin dei conti i percorsi storici dei linguaggi espressivi più o meno “artistici” appartengono alla cultura generale della nostra epoca – rimane comunque viva l’idea di un “oggetto culturale” in sé conchiuso, capace di veicolare il proprio significato contando solo sulle proprie forze, sulla propria capacità di mettere in scena le circostanze di enunciazione e la relazione comunicativa con il fruitore, che sarebbe meglio da subito chiamare interlocutore.
Nella storia del ‘900 troviamo esplicite delle riflessioni teoriche e delle pratiche progettuali e realizzative che minano profondamente questa nostra fiducia piuttosto ingenua nella solitudine dell’opera: l’ideologia romantica perde molto del suo significato in un mondo dove molti possono accedere alla fruizione e alla produzione di immaginario nelle forme codificate – abbiamo quindi una democratizzazione dell’autore. Inoltre, l’industria culturale nel suo frammentare e rimescolare i processi produttivi e espositivi delle storie giunge (o permette al nostro pensiero critico di giungere) alla considerazione merceologica del nostro abitare riti e miti che però trovano format di divulgazione mediati dall’intelligenza di chi ragiona in termini di marketing, dando luogo a una Società dello Spettacolo, del simulacro. Ancor di più, l’analisi testuale ha mostrato come il testo in realtà sia sempre molti testi, e stiamo parlando proprio del punto di vista autoriale e della sua capacità di riorganizzare il contesto narrativo, piuttosto che concentrare la propria attenzione sul semplice messaggio.
Lungi dall’essere isolato, il testo è nativamente permeabile, attraversato da altre narrazioni, da libri che richiamano altri libri, e in fin dei conti in una biblioteca tutto si tiene con tutto, e tutte le biblioteche del mondo concepite come luoghi del sapere statico riecheggiano le une con le altre, nel tessere le forme stabili della Conoscenza. Ma il modello biblioteca, tanto quanto quello di opera autonoma, oggi non sono più sufficienti.
Oggi possiamo letteralmente vedere il farsi della cultura, nei processi dinamici dell’emergere della Conoscenza in Rete, su web, o su quelle nuove pratiche fisiche rese possibili dall’esistenza della Rete. Rete che va ribadito è sempre esistita, come legame tra le persone, tra le collettività, tra i libri e i depositi di conoscenza (memoria interne o esterna a noi) che tra loro tessono trame, e che le tecnologie dell’informazione e della comunicazione hanno potenziato, facendone emergere gli strati osservabili, il fare concreto umano di condivisione e scambio, il fare cultura che è sempre intercultura.
Di un testo oggidì immateriale, slegato dal suo storico supporto e veicolo cartaceo, anzi in grado di abitare indifferentemente la nuvola dei dispositivi di lettura oggi disponibili o nelle reti di visibilità elettroniche, comprendiamo la sua capacità di ri-giocare la relazione tra la figura e lo sfondo, relazione da cui orginariamente sgorga il senso dell’opera, nonché il senso del nostro fruire l’opera, nell’interazione. Anche ragionare al di là della figura dell’Autore, della sua intenzionalità, ci riesce facile nel provare a insistere con lo sguardo su paesaggi di pratiche culturali assolutamente innovative, quali quelle che vediamo a esempio per prove e errori sperimentare dall’industria editoriale, alla ricerca di nuovi equilibri e modelli economici di funzionamento, nell’epoca in cui non tanto l’informazione quanto l’attenzione è un bene prezioso, da contendersi.
Proprio questo è il posto dove ci troviamo: non più circoli di intellettuali dell’antica Grecia o cenacoli rinascimentali o avanguardie culturali tratteggiano il valore e la forma degli oggetti della conoscenza, ma in maniera condivisa e collaborativa tutti insieme nella Grande Conversazione stiamo patteggiando tra noi il modello di pensiero con cui pensiamo lo sfondo, il contesto da cui sappiamo dipende il senso enunciato dei messaggi, dei testi, delle opere d’ingegno.
E anche noi procediamo per prove e errori, congetture e confutazioni nel negoziare un concetto stabile (una credenza, sempre ipotetica e fallibile) di come sia da rappresentare lo sfondo, utilizzando metafore della Rete tecnosociale che richiamano rizomi, città di testi, viabilità delle idee, ambienti artificiali connessi in cui le collettività vivono, la mente che abita dentro e fuori di noi, l’ecosistema della conoscenza, il bosco delle narrazioni; da questo calderone un giorno nasceranno modelli maggiormente attagliati alla complessità attuale, nativi, e non banali adeguamenti di modi di fare obsoleti.
Agli albori del cinema, i Lumiere cercavano di rendere una realtà teatrale, mentre Georges Melies già sperimentava narrazioni nuove, avendo compreso il montaggio come proprium del linguaggio cinematografico. Inizialmente abbiamo sempre adeguamenti di vecchi format dentro i nuovi linguaggi, ma dovremmo ormai anche aver compreso che proprio in simili situazioni conviene osare qualcosa in più, per avere fiducia poi nella “pubblicazione” del nostro fare, rendere pubblico tramite la Rete, quale garanzia etica di controllo intersoggettivo, di trasparenza, di dialogo e pluralità.
I libri quindi, ma in realtà ogni porzione di contenuto di qualsiasi lunghezza o argomento, su molti media differenti, insomma qualsiasi testo, abita da sempre in Rete. Oggi in più si muove rapidamente su scala planetaria, innesca conversazioni in tempo reale, connota di sé relazioni e situazioni.
E il supporto tecnologico che lo veicola, passando dalla lenta carta all’interattivo ebook reader, diventa come una polla d’acqua nelle terre di risorgiva, dove affiorano in superficie brani di contenuti che circolano comunque in Rete. Il testo che leggiamo su un dispositivo connesso diventa segno e metonimia dello Scibile tutto, segno non solo letterario ma anche concreto in quanto permanentemente connesso con l’insieme, metonimia da interpretare dinamicamente, come capacità dell’opera di restare sintonizzata con il contesto di riferimento (l’ambito del discorso), e magari di cangiar forma e contenuti su pulsione di quello.
Quello che potremmo vedere in poco tempo, e che mi piacerebbe osservare, sarebbe la possibilità per il dispositivo di lettura di “campionare” e di riportare quel contesto unico e originale dato dal nostro personale interagire con il testo, la vera situazione di fruizione, riuscendo a tracciare dentro il flusso delle conversazioni in Rete alcune caratteristiche di questa relazione, quali i suoni ambientali, il ritmo e i tempi di lettura, l’insieme delle annotazioni e dei commenti e delle sottolineature del testo… qualcosa di simile già accade con i nuovi ebook reader, dove un manuale o un saggio di studio, vivi e cangianti, si modificano sotto i nostri occhi, per mostrarci come altri hanno letto quel testo, come lo hanno sottolineato, in una piena concezione socialdella tecnologia e della condivisione culturale.
In ogni caso, io ho paura delle idee vecchie, non di quelle nuove.

PA e comunicazione 2.0 – Bergamo

Oggi vado a Bergamo, domani ho una docenza per IDM presso l’Università. Qui trovate il corso specifico, rivolto a amministratori di Enti locali, sindaci assessori e quant’altro.

Comunicazione su web, strumenti per l’ascolto del territorio, e-democracy e e-government, Codice dell’Amministrazione Digitale, backoffice e frontoffice, quelle cose lì.

Qui sotto la presentazione per organizzarmi il preambolo.

Enzo Rullani: territori e valori

Rullani mette in luce alcuni risvolti dell’economia globalizzata, e indica vie da prediligere per comprendere il territorio e la sua collettività, come progetto identitario e conversazione.

Qui una sintesi per punti fatta da Dario Salvelli

  • In un economia della conoscenza se tu sei uguale ad un altro non porti un piffero, il tuo valore aggiunto è zero
  • Una buona idea che rimane confinata in un ambito ristretto vale poco non diventa una forza trainante, una motrice, una spinta di business. Il valore si crea moltiplicando l’idea.
  • Le aziende più o meno se la cavano sempre ma chi rischia con la globalizzazione sono i territori, che non si possono spostare, ed i lavoratori che dovranno giustificare la differenza di reddito con altri mercati, oggi scontata, ma tra 3-4 anni assurda ed indifendibile.
  • Dobbiamo avere una diversa economia della conoscenza nelle fabbriche usando in maniera diversa le idee, i significati, il valore che si dà al prodotto che ha valore perchè si inserisce in una filiera che gli dà qualità, moltiplicatori. E’ l’intelligenza che sta nella testa delle persone che conta non nelle macchine.
  • Il nostro sistema industriale non ha mai presidiato le filiere, nessuno ha mai controllato e organizzato il valore che c’è a valle delle filiere.
  • Il territorio è una delle reti, non il contrario. Il territorio deve dare delle reti importanti locali basati sulla prossimità e l’accesso alle reti grandi e aperte.
  • Il territorio è l’identità costruita non quella storica. Bisogna interrogarsi su cosa il territorio vuole diventare. Dobbiamo imparare a raccontare e a raccontarsi: il racconto è fatto di arte, letteratura, di film, esperienze, del creare una città viva, del fare in modo che emergano idee condivise da una popolazione.
  • Dobbiamo cominciare a costruire lo spazio metropolitano, lo spazio di quelli che lavorano con noi in idee di mercato e servizi rari, importanti.
  • Il territorio non è affidato al Comune, alla Provincia, alla Regione, al federalismo. E’ una idea sbagliata: il territorio è dei cittadini che si muovono nello spazio e vanno a cercare ciò che gli serve.
  • E’ l’apertura della Rete delle persone che fa i moltiplicatori.

Social media monitoring, content curation

Post di servizio, mi prendo due appunti.
Partendo da una segnalazione di Pierluca Santoro su FF, arrivo a una discussione su Quora – sì, il nuovo giocattolone per farsi domande e darsi una risposta, però serio (finora) – dove ci si pone il problema di quali siano i sistemi migliori per pettinare i flussi (già qui parlavo di strumenti webbased per reimpaginare i flussi di twitter o facebook).
Bisogna monitorare centinaia di fonti, selezionare, organizzare tematicamente, reinoltrare su propri spazi web con pertinenza, facendo tutto con efficienza (cliccare il meno possibile: con un bottone sulla barra o altrove devo poter prendere qualsiasi cosa e metterla dove voglio), e magari anche in modo collaborativo, se pensiamo a gruppi di lavoro tipo delle Redazioni, nelle aziende o nelle PA o dovunque una fetta di lavoro quotidiano riguardi questo controllare e pubblicare.
Controllare e rispondere ai post sul proprio blog, scartabellare nell’aggregatore per trovare articoli o blog interessanti, scrivere dei twit o delle cose come rilanci e aggiornamenti, schedularne la pubblicazione nel corso della giornata, fare un giro sui socialcosi twitter facebook linkedin per vedere reazioni e commenti e nel caso replicare, controllare la posta e gli alert per ricavarne ulteriori segnalazioni o prendere appunti per le bozze dei post futuri, fare un giretto sui servizi webbased di monitoraggio feed e tematiche calde, controllare le statistiche e gli strumenti di feedback per aggiornare il proprio flusso. In fondo, tutti noi siamo i social media manager del nostro lifestreaming, siamo al centro della nostra community, e se queste cose le fa qualcuno per lavoro dentro una Redazione magari ha bisogno di strumenti più performanti.
Alla buona, ma con buona efficienza, queste funzioni di ascolto e (ri)pubblicazione possono essere svolte utilizzando bene il proprio aggregatore (ma in GReader è difficile avere feed in uscita ben differenziati), Tumblr, Delicious o comunque servizi di bookmarking che poi emettono un feed, qualcuno usa una stanza di Friendfeed per raccogliere feed e ottenerne uno solo in uscita, qualcuno fa lo stesso smanettando con Pipes. Un certo numero di bookmarklet sulla barra non può mancare. 
Ripeto: non bisogna ragionare soltanto sul social media manager isolato (la figura professionale che rivestiamo noi stessi per il nostro lifestreaming, o che immaginiamo nelle sue mansioni lavorative dentro un’organizzazione che conversa su web), ma anche sull’insieme dei collaboratori che dentro un’organizzazione lavorativa devono poter facilmente segnalare un feed, in modo da farlo arrivare al social media manager già un po’ confezionato, magari aggiungendo due righe di contesto. 
Ogni collaboratore dovrebbe avere i propri luoghi social dove inoltrare segnalazioni pertinenti, e il responsabile della pubblicazione dovrebbe feedarsi a queste fonti per poi compiere l’atto finale del pubblicare sulle piattaforme.
Oppure certi software di pubblicazione di contenuto (anche WordPress) offrono la possibilità di creare a esempio dei blog multiautore, e facendo mettere un relativo bookmarklet sulla barra ai collaboratori questi ultimi possono facilmente mettere in bozza una pubblicazione, da rivedere e pubblicare a cura del responsabile di redazione.
E poi c’è il sottoinsieme degli strumenti che servono per monitorare sé stessi, il proprio brand.
Da quella discussione su Quora emergono le indicazioni degli strumenti per curare il contenuto (content curation tools) che vanno per la maggiore. Strumenti che devono permettere di segnalare news o feed, che devono permetterne di scoprire fonti nuove per tag o categorie o parole chiave, che organizzino bene il tutto, che offrano la possibilità di feed separati in uscita, che permettano di stabilire i tempi e i modi di pubblicazione.
Quei professionisti su Quora parlano di pearltrees, di curated.by, di paper.li, di scoop.it, di trunk.ly, di pinboard.in, di mysyndicaat.com, di amplify.com, di storify.com (e il verbo “storificare” mi piace, ma se volete anche storiare, storieggiare, ovvero creare storie), di feedly.com, di diigo.com; qualcuno di questi è un servizio di bookmark che si è espanso alla pubblicazione, qualcuno è più un aggregatore ripensato social, qualcuno è un servizio di pubblicazione che però è stato progettato per ascoltare e reinoltrare.
Su Pearltrees c’è anche una mappa di dove si parla di Content curation, qui.
Poi arriva il solito Robin Good, e mette giù una megamappona fatta con Mindmeister, rimandandoci a un suo post accurato intitolato “Real-time news curation – the complete guide”, dove si trovano altrettanti begli spunti per strumenti e buone pratiche (insieme all’indicazione che proprio Robin Good aveva parlato di newsradar nel 2004, precorrendo le esigenze dei tempi)
Qui e qui ci sono due articoli interessanti, sulla Social media strategy e sullì’rganizzazione di una redazione web di tipo corporate per ottimizzare la propria presenza sui social, con riflessioni sulla valutazione.

Qui c’è una presentazione su come organizzare social marketing.

Ora vado a provare tutto, chissà cosa scoprirò.

UPDATE da un thread su Quora, alcune indicazioni di Scoble

There are the paginator approaches:
Flipboard
Paper.li
Instapaper
The Shared Web
LazyScope

There are the algorithmic approaches:
My6Sense
Genieo
Ellerdale Project (will show up in Flipboard next year)
SkyGrid

There are the filtering/sifting approaches:
DataSift
Research.ly

There are the curation approaches:
Pearltrees
Curated.by
Storify

The aggregator approaches:
Techmeme
Google News
Huffington Post
etc etc

Mick Karn R.I.P.

Avevo sedici anni, e quelle linee melodiche cantabili e strane suonate con il basso fretless, quei borbottii inquieti dentro le canzoni dei Japan erano come un pugno dentro la testa e nello stomaco. Erano un groove nervoso, un funky freddo e obliquo, nuova epoca e nuova onda e nuova estetica. Un nuovo atteggiamento.
Qui sotto trovate un’intervista che insieme a Paolo Corberi ho fatto a Mick Karn intorno al 1992 durante il Bestial Cluster Tour, per un giornaletto locale sul quale al tempo scrivevamo.
MICK KARN

In occasione del Bestial cluster Tour, intervista a Mick Karn, che con Steve Jensen, Richard Barbieri e David Torn, sta girando il mondo.
La musica che suono è molto influenzata dal viaggiare, dalle sensazioni che si provano nel vedere posti prima sconosciuti, e queste sensazioni – già così con i Japan –  l’impatto visivo con questi nuovi orizzonti è quello che voglio esprimere con la mia musica. E’ di questo che parlo con i  musicisti con cui collaboro: dell’atmosfera, del respiro, dell’immagine che mi propongo di rappresentare.
Con queste parole Mick Karn ci introduce alla sua concezione della musica, ai suoi propositi, il resto lo raccontano i suoi dischi. Produzioni diradate, contrassegnate da preziosi intrecci di strumenti (spesso da lui stesso suonati), dove l’intento di un impatto globale, orchestrale, che ai solismi dedica uno spazio proporzionale al vantaggio che ne trae l’insieme, spicca.
Potrei definire la mia musica, o comunque l’obiettivo che mi propongo, e che in certa misura guida la mia ricerca, come una sorta di visual music, una picture music. Quando provavamo i pezzi per l’ultimo album, Bestial cluster, facevo sentire a Steve a Rick e a David i demo che avevo realizzato; cerco di lasciare la massima libertà ai musicisti, a patto che il loro contributo non si discosti dall’atmosfera che voglio rendere. L’idea di riferimento è pur sempre l’impressione visuale che intendo trasmettere. Devo dire che la tourne sta andando abbastanza bene. In realtà è un po’ strana come tourne: siamo stati in Germania, poi ci siamo fermati per un mese circa, poi in Giappone, e ora siamo qui in Italia e capita spesso che tra le tourne nei vari paesi passi del tempo, cosicché ogni volta che riprendiamo ci vuole qualche giorno prima di ingranare. Sì, lo so, sembra strano da parte di musicisti professionisti, ma è così. D’altronde i pezzi, la musica che suoniamo è complessa, bisogna contare, ricordarsi tutto…

Jensen e Barbieri (batteria e sintetizzatori) suonano con Karn dai tempi dei Japan, mentre con Torn (chitarra) la collaborazione è nata più di recente.
Con Rick e Steve sono ormai vent’anni che suoniamo insieme, siamo come fratelli oramai. Con David c’è stato un feeling immediato quando ci siamo conosciuti, siamo diventati subito molto amici. Anche musicalmente ci troviamo molto bene, infatti collaboriamo volentieri. C’è molto affiatamento tra noi, ci divertiamo molto a suonare.

Una parentesi nella carriera di Mick è il progetto Dali’s car, insieme ad un Peter Murphy al meglio delle sue produzioni post-Bauhaus.
La collaborazione con Peter Murphy è nata per una coincidenza di intenti: io avrei voluto realizzare un disco interamente strumentale, ma la casa discografica faceva pressione affinché vi fossero dei pezzi cantati; in quel periodo incontrai Peter Murphy che avrebbe voluto cantare e che non era interessato a comporre le musiche. Sembrava essere il binomio perfetto, il progetto Dali’s car avrebbe soddisfatto i desideri di entrambi. Il problema era che non ci conoscevamo come persone, incompatibili; ciò ha reso il lavoro alquanto faticoso, lavorare con Peter è molto difficile, quasi impossibile, e penso che lui pensi lo stesso di me… una questione di caratteri, di personalità che non collimano.
Ma il primo LP solista precede i Dali’s car, ed è Titles.

Titles è un disco che ho realizzato in breve tempo, se penso alle lunghe sedute in studio con i Japan… C’eravamo appena sciolti e io volevo realizzare un disco  molto spontaneo, ..volevo rompere con quell’accuratissimo modo di concepire la realizzazione di un album.

 A Titles seguono Dreams of reason produce monsters e quest’ultimo Bestial cluster.

Un motivo per il quale Bestial cluster è risultato un disco più caldo del precedente Dreams of reason, è il fatto che mi sono avvalso della collaborazione di più musicisti. In effetti, il fatto che lo stesso musicista suoni tutti gli strumenti influisce in modo assai particolare sul risultato finale; non si tratta solo di essere più o meno “caldi”, questo è solo uno dei fattori, non l’unico…

Sono cresciuto ascoltando molto i dischi della Tamla Mowtown, ho anche desiderato scrivere canzoni in quello stile, e ci ho provato ma non fa per me, non me lo sento dentro, anche se mi piacciono molto, ma il mio spirito musicale diverso …non capisco il country-western, non mi dice nulla… Alla radio, quando per caso mi sintonizzo su una di quelle frequenze dove trasmettono quelle interminabili quanto inutili ballate RnB sento un’irresistibile compulsione a cambiar stazione: non sopporto quella loro piattezza, tu sei lì che aspetti che accada qualcosa e invece… niente!
Cerco di prestare un po’ di attenzione al modo in cui la musica verrà ricevuta, cerco con quel tipo al mixer di studiare l’ambiente… quando sono in studio miro a ottenere certe sonorità, lavoro con un’intenzione diversa… “sentire” le persone, questo è suonare live.

Social personal / Scenari digitali 2011

Ciao 2011.
Ho pubblicato una cosa sul blog collettivo Scenari digitali 2011, la trovate a questo indirizzo insieme a molte altre riflessioni di persone in gamba, su argomenti ovviamente inerenti lo sviluppo prossimo venturo dei mondi digitali. Lo metto anche qui, ma voi andate a leggere seguendo il link, per dar modo alla serendipita’ di farvi incrociare qualcosa che state cercando senza volerla cercare.

Giorgio Jannis – Social personal

Partendo da un’osservazione, quelle cose che noti mentre fai dei gesti. Come scambiarsi i dati personali al termine di una riunione di lavoro, o condividere documenti o dei giochi tra amici, in gruppo. 
Faticoso, macchinoso. Perché per farlo usiamo “macchine” vecchie – carta e penna! e la lista dei partecipanti con le mail scritte a mano – oppure cellulari o dispositivi elettronici dove immettere manualmente le informazioni, nomicognomi e numeri e indirizzi. 
Mentre credo dovrebbero essere molto più social, i gingilli connessi personali. Usate il bluetooth, il wifi, la rete telefonica, ma fate in modo che il mio cellulare al premere di un tasto invii a tutti quelli che voglio nel raggio di dieci metri i miei dati personali, quello che io deciderò di trasmettere e mettere in compartecipazione, foto indirizzo URL del blog e LinkedIn e socialcoso preferito. E i dati che ricevo dagli altri già sul mio dispositivo si legano ai miei e tra loro, creando la rete delle cerchie sociali, dandomene rappresentazione in una rubrica aumentata capace di contenere l’albero dei contatti, dove le foglie sono i profili oggidì coloratissimi di suggestioni e tracce, e al contempo in grado di mostrare il giardino tutto delle reti sociali in cui siamo coinvolti, le geografie relazionali, l’intersecarsi dei gruppi sociali di appartenenza, la condivisione dei gusti personali e le scie dei nostri lifestreaming.
Con la potenza di calcolo che la tecnologia informatica offre oggi alla statistica applicata, potrebbero poi venir fuori delle cose interessanti da tutti questi dati che riguardano le profilature degli umani. I comportamenti social del nostro abitare in Rete possono trovare visibilità e rappresentazione, si rende necessario inventare delle parole (o modificare vecchi significati) che siano adeguate al nuovo contesto, dove appaiono degli oggetti e degli atti che prima semplicemente non erano percepibili, un po’ come quando era difficile parlare del comportamento delle particelle dei gas, senza aver ancora inventato il linguaggio della termodinamica.
Parlare oggi della Nuvola elettronica in cui abitiamo, dove nascono nuove interpretazioni della socialità, nuove possibilità di azione collettiva, nuovi riconoscimenti identitari di gruppi sociali che individuano sé stessi per affinità tematiche svincolate dalla distanza geografica. O che di converso in quanto rete nervosa dotata di organi di senso – display, sensori, luoghi di socialità iperlocale – ci permetta di percepire dimensioni territoriali prima invisibili, processi e flussi di persone e cose che girano intorno a noi in questo momento, geotaggate e
organizzate dentro narrazioni per render conto del senso dell’abitare, delle parole che pronunciamo vivendo qui e ora in questi territori fisici e digitali.
Esseri umani come router, che reindirizzano il pacchetto dati pertinente alla giusta rete sociale, e questo nostro costruire e scambiare informazione, opinione e conoscenza provvede a rimescolare continuamente il calderone della collettività, nelle cose pensate e nel modo di pensarle. 
Moltiplicare l’efficienza e l’efficacia delle situazioni sociali in presenza, questo sì alzerebbe la fiamma sotto il calderone, velocizzando i processi. Perché nei gruppi si condivide l’opinione, ci si confronta, vengono prese decisioni. Il capannello di persone che chiacchiera è da sempre un Luogo della Conoscenza, dove si formano e circolano i punti di vista sui fatti del mondo.
La fisicità dei corpi salda con più forza le parole ai contesti emozionali, crea sintonie e affettività extraverbali, su cui come umani ci appoggiamo per sostenere relazioni di lunga durata, dar vita a realtà sociali come i matrimoni e le imprese e i governi di cui già concepiamo l’estendersi nel tempo, negli anni a venire.
Scambiarsi il profilo della rubrica premendo un bottone, ma appunto condividere i lifestreaming, e anche moltiplicare gli strumenti di produzione e distribuzione delle informazioni, questo vorrei dai dispositi portatili. Poter registrare l’esperienza, aggiungere contesto ai messaggi, facilitare la collaborazione tra le persone presenti in quella situazione, poter mentre si parla lasciare traccia del dire, e poter tutti insieme al contempo intervenire su quella storia, “modificare il documento”, disegnare in tanti sulla stessa lavagna, giocare tutti insieme a un videogioco in 3D e magari partecipare a attività civiche, aumentare la realtà del gruppo supportandola con appunto display e sensori, per potenziarla e cogliere della situazione interpersonale sfumature che altrimenti andrebbero perdute, o che non sarebbero nemmeno percepibili.
Ecco il 2011 cosa potrebbe portare: cellulari o comunque gingilli connessi migliori. Vogliamo tecnologia allo stato dell’arte, con dentro software sociali migliori, dispositivi che costino meno, tariffe di connettività molto più economiche: non si tratta mica di giocattoli futili, qui stiam parlando del progresso della specie umana, della qualità dell’abitare in tutti i luoghi fisici o digitali, degli strumenti con cui tessiamo la socialità, poffarbacco.

Per evolverci rapidamente

Sono decenni che ci prendono in giro. Ci han fatto pagare dei pc assemblati delle cifre folli, e dopo un anno lo stesso computer costava la metà. Hanno pronti dispositivi più performanti, schermi migliori, memorie più capienti da anni e anni, e tengono queste cose in magazzino; sgranano nel marketing certe millantate novità tecnologiche che avrebbero potuto vedere la luce anni fa, c’è tutta una filiera che deve arricchirsi, e quindi centellinano i prodotti, per monetizzare al massimo il nostro voler possedere dispositivi. Aggeggi di elettronica che a prodursi costano un ventesimo del prezzo di vendita attuale, le cui spese per ricerca sono state abbondantemente ammortizzate.

Un pad o un notebook dovrebbero costare 150 euro, un netbook o un tab 100, uno smartphone touch 80 euro, un ebookreader 50 euro. Fattibilissimo.
Ne venderebbero miliardi di questi dispositivi, le aziende di hardware sarebbero comunque ricche uguale.
Ma loro vogliono fare i soldi subito, vendendoti una scatoletta. Mentre il business dovrebbe piuttosto essere orientato al software, a progettare produrre distribuire oggetti culturali e applicativi di fruizione, e questi sarebbero i servizi per cui le persone pagherebbero volentieri.

E noi tutti vivremmo dentro un tsunami culturale meraviglioso, sostenuto da dispositivi elettronici ubiqui e economici, e con facilità moltiplicheremmo le fonti da cui imparare e i luoghi su cui esprimerci.

Lolita, massmedia, società

Dieci anni fa entravo nelle scuole elementari per lavoro, e a ricreazione vedevo i maschi che si rincorrevano come al solito, oppure giocavano con le carte dei Pokemon, oppure si sfidavano sul GameBoy o quel che era. Mi dicono sia ancora così.
Le femmine invece a ricreazione si mettono in quadriglia, e provano gli stacchetti delle veline nel corridoio. Serissime. La disciplina delle professioniste, gli sguardi di riprovazione, la capetta che dà i tempi e la coreografa che spiega puntigliosamente i passi da eseguire.
Mia nipote ha otto anni, è una biondina sveglia con un faccino simpatico, un po’ robusta di costituzione, e il suo pensiero fisso è ballare WakaWaka, con tutte le mosse giuste. Quando vede in tv le veline dice – che belle! che magre! che belle! – e sospira.
Si potrebbero fare delle considerazioni sulle forme di ballo popolare, osservare come per lungo tempo mostrare eleganza e stile nei movimenti ritmati e organizzati del corpo femminile significasse cercare di allontanarsi dalla bestialità, ovvero dalla mimesi dell’atto copulatorio. Penso ai balli classici, quelle mosse suggerite da grammatiche formali assai strette nelle polke e nei valzer e nelle furlane – cose a loro tempo già peccaminose – e poi mi viene in mente il rocknroll degli anni Cinquanta, lo strofinarsi dei corpi, quei balli “da negri” che l’America bacchettona di allora censurava, mentre già nasceva nelle nuove generazioni una consapevolezza sociale di sé, nascevano “i giovani” che prima degli anni Cinquanta non erano mai esistiti, come attore sociale distinto nei propri valori e atteggiamenti. Il twist o lo shake mantenevano ancora un atteggiamento ironico rispetto all’allusione sessuale, spezzare il corpo come marionette disarticolate, evitare i gesti caldi e rotondi del bacino. Poi è venuta la discomusic torrida di Moroder, poi gli anni Ottanta, con quell’aria da “guardare e non toccare”, complice l’Aids. Esibizione, vallette scosciate, tutte quelle cose che noi fortunelli in italia abbiam respirato a dosi massicce, visto che tuttora la tv italiana, pubblica è privata, è famosa nel mondo per la quantità di centimetri quadrati di chiappe o tette che riusciamo a far stare dentro un’inquadratura.
Oltre al ballo, il discorso sulla sessualizzazione delle pratiche sociali riguardanti l’apparire del corpo può essere fatto anche in altri settori, come la moda femminile (fino a dieci anni fa in televisione non ci si vestiva da sera anche nel corso dei talkshow pomeridiani, e soprattutto la moda nella categoria “vestito da sera” non faceva rientrare reggiseni in vista e minigonne giropassera) oppure l’utilizzo in pubblicità.
Insomma, il solito discorso “signora mia, dove andremo a finire”. Semplice, andremo a finire che i prossimi vent’anni vivremo in un posto tragico, ipocrita e pedofilo.
Tragico, perché viviamo in un dialogo tra il voler svelare, giungere al nucleo solido di me e del mondo, e il voler moltiplicare le rappresentazioni della realtà, nei media, nei ruoli sociali. Come un eroe novecentesco classico, nel suo voler sapere e trovare sempre dinanzi a sé nuovi infingimenti, nuovi strati nella buccia della cipolla, nuovi nonsense del suo essere, fino all’afasia e all’annuncio di una sconfitta. Dopo gli intorcolamenti del pensiero, ogni tanto si ritorna al corpo, per riprendere contatto con la verità nella pancia. Ma il corpo nel frattempo è stato risucchiato e rivestito e rivelato nelle rappresentazioni mediatiche, desacralizzato gli si può buttare addosso qualsiasi forma, e metterlo in scena. La qual cosa, essendo nativamente falsa, impedisce di seguire l’altro corno del ragionamento, la comprensione. Come si sarebbe detto una volta, non attingo più all’esperienza autentica della relazione con l’Altro, ma rimango prigioniero di sbarre che tragicamente forse nemmeno vedo, gli stili di una messa in scena del corpo e delle situazioni, una simulazione che nel tempo ha sempre di più mirato a mettere in evidenza segni esplicitamente sessualizzati di comportamenti e atteggiamenti stereotipati, pronti a diventare estetica condivisa della nostra epoca, per la quale una donna allusiva è bella, e soltanto quella allusiva è bella (la morte per noia della fantasia).
Anni ipocriti, quelli che verranno, perché tutta questa dinamica esibizionistica viene occultata. Le vecchie ideologie perbeniste, vittoriane, cattoliche, popolari, del “fare e non far vedere”, del salvaguardare l’apparenza, dei sepolcri imbiancati, troveranno forza nella morale massmediatica, nel costruire ruoli e situazioni, valori e atteggiamenti fondati sulla spettacolarizzazione, e anche la tv-verità è fiction.
Lolita in tv va bene, è il tuo sguardo che è malizioso, anche se si tratta di una bambina mezza nuda che si dimena oscenamente (e i bambini in tv sono sempre osceni, perché bucano continuamente la quarta parete, indifferenti allo spazio della rappresentazione, alla scena). Si negherà questa maschera gettata sui corpi, oppure la si dipingerà come socialmente accettabile, facendo in modo che le vittime stesse la richiedano a gran voce. E tutti noi presi a quel punto a dover recitare le parti corrispondenti, antagonisti e aiutanti, in questo immaginario impoverito di ruoli sociali suggeriti e non vissuti.
E questo immaginario sgocciola verso il basso, verso giovani generazioni cresciute senza pietà dentro rappresentazioni mediatiche sempre connotate dalla sessualità esplicita, nei cartoni animati e nelle serie televisive giovanili pomeridiane, nella bambole di oggi che sono vestite come zoccolette, nelle popstar adolescenti, nei balli da imparare e nelle veline da ammirare. Cerchiamo di capirci: tutte le donne sculettano, ma è l’educazione dei tempi che dice loro quando e come sculettare; oggidì le bambine capiscono che devono sculettare sempre o che per essere eleganti bisogna vestirsi da troie di strada proprio come in tv: siamo decisamente agli estremi della gamma, sempre sullo stesso registro, monotematici.
E quindi i prossimi anni saranno anni pedofili, nel senso che metterà sempre più i bambini al centro del palcoscenico, che mettono così allegria a una popolazione fatta al 40% di ultrasessantenni, e li spingerà a rivestirsi dei valori e degli abiti del mondo degli adulti, a impersonare qualcosa o qualcuno. O a ballare, proprio secondo l’estetica esibizionista e erotica di questi nostri anni.
E bambine di 10 anni si trovano a dover imitare i movimenti di una cubista, con posture di profferta sessuale, perché questo impone il codice mediatico.
Mi viene da pensare che il progressivo abbassarsi dell’età dello sviluppo sessuale in tutto il mondo sia un sintomo di qualcosa. Cento anni fa si diventava signorine e signorini a sedici anni, oggi a undici o dieci o anche otto anni. Ci sono statistiche chiarissime. D’altronde, perché negare la possibilità che in un mondo che ti chiede continuamente di pensare al sesso l’avvio del programma “pubertà” nei corpi possa avvenire sempre prima, messo in moto dall’esposizione continua a stimoli erotici?
E questo, guarda caso, si sposa benissimo con la pulsione pedofila presente nei massmedia, dal programma per bambini in tv al pomeriggio ai siti porno dove le categorie “Old & young” e “Teen” furoreggiano nel guadagnarsi le posizioni alte in classifica e la maggior visibilità sul layout della pagina web.
Un futuro di lolite ammiccanti e di finti giovani di sessant’anni, questo ci aspetta. Vediamo almeno di togliere di mezzo l’ipocrisia, per cominciare a riportare al centro la barra del timone.

Pettino i flussi, ascolto territori, semino conversazioni

Siamo sempre nel settore Aggregatori, ma qui si aggiunge la reimpaginazione. Costruire quindi un contesto grafico e situazionale, arredare gli spazi di enunciazione, e chiaramente per farlo si ricorre a codici espressivi tipici di una certa stilistica. Quella degli oggetti culturali che storicamente pettinano i flussi, le news e gli eventi, ovvero i giornali.
Di tutte queste onde di feed e status e conversazioni che lambiscono le sponde della nostra isola digitale personale, tutte le chiacchiere dei nostri amici su facebook o twitter o il socialcoso che preferite, cosa ne facciamo? Che poi isole non c’entra niente, era per restare nella metafora delle onde, e scrivere che le onde lambiscono la nuvola mi sembrava troppo surreale così d’acchito, ma invece ci sta tutto, ora che me lo riguardo, e mi immagino i flussi che a ogni giro di server si fan notare nella casella di posta o sul reader o nei numerini in alto a sinistra di facebook, reclamando attenzione, spostando la nuvola del mio abitare in rete, luoghi e azioni e dire e ascoltarela nuvola del mio Io con i suoi sensori e i suoi display.
Insomma, servizi web che prendono i vostri flussi di conversazione sui social, e ve li presentano bene, organizzati e abbelliti.
Partendo da Twitter, potete costruirvi un Paper, usando il vostro account come fonte delle notizie (e quindi la vostra cerchia sociale) oppure un hashtag specifico, attorno cui il servizio arrotola le news e le dispone sulla pagina.
Le ridispone. In-forma le informazioni. Re-in-forma. Ri-veste, riconfeziona.
E qui ci starebbe tutto il discorso di come forse il recupero di certi stili, di certi codici per noi non problematici (come una pagina di giornale) possa costituire la cornice rassicurante dentro cui provare a organizzare la complessità, secondo criteri di pertinenza nostri idiosincratici. Tengo bassa la quota d’ansia, reimpaginando. Distillo, e riorganizzo l’oggetto. Curation. Che poi re-immetto nel flusso, arricchendo e fornendo contesto ulteriore a quella selezione di notizie filtrate dalle mie reti amicali.
E lo stesso si può fare con Facebook, usando http://www.wowd.com, da usare proprio come una pagina per riorganizzarsi il flusso fb. C’è tutto un calderone sotto di scambi, parolechiave, memi che girano, commenti di amici, chi ha detto che il modo che ha facebook di mostrarci tutto sia quello migliore?
Per pettinare i flussi secondo parolechiave, va bene anche PostPost.
Anche di Diaspora si parlerà, magari più avanti, quando usciranno dall’alpha, come dicevo.
Il socialnetwork opensource, quello dove nessuno mi può chiudere l’account, dove i miei dati sono miei, quel socialnetwork che vive lui stesso sulla nuvola, nell’insieme dei nodi: potrei metterlo sul mio spazio web, farlo girare sul mio database, poi lui si sincronizza con tutti gli altri Diaspora della rete, e nessuno può chiuderlo, mancando il centro (e la circonferenza è ovunque).
Si stanno creando le reti sociali lì dentro, intanto. Per chiamata diretta, non ci sono ancora strumenti per vedere gli amici degli amici. E anche questa cosa qui ricade sempre più dentro codici comportamentali che pian piano stanno diventando competenze. Non è la prima volta che migriamo tra socialnetwork, sono annoni che rifacciamo le stesse azioni, ricreiamo cerchie sociali, abbiamo liste che risalgono ai forum e a MySpace, ogni volta ripopoliamo i nostri Luoghi e ogni volta selezioniamo e edifichiamo reti con maggior esperienza, con maggior perizia.
Senza chiudersi troppo, ché conosciamo la bellezza della serendipità e l’incontro con l’ignoto, ma senza perdere di vista la qualità della comunicazione  e l’economia della nostra attenzione.
Anyway, il web è sempre sulle prime pagine dei giornali.
Si tratti di politici, giornalisti, imprenditori, innovazioni territoriali, fughe di notizie, regolamenti e normative, ogni giorno si parla di cose in cui c’entra internet, e questa narrazione è ben alta nelle agende delle redazioni.
Ci hanno scoperti. Qualcosa cambierà sicuramente nel prossimo futuro, l’attenzione è tutta lì, che il Potere intenda controllare le cose si è sempre visto, perché il primo scopo del Potere è mantenere il Potere.
E allora io farò il panegirico dell’Età dell’Oro, questa dozzina d’anni in cui si è potuto fare quello che si voleva qua dentro, e penso alla gigantesca ondata di contenuti culturali che mi ha investito, penso che anziché vedere 100 film ne ho visti 1000, anziché leggere 1000 libri ne ho letti 10.000, e conosciuto persone che usano bene la testa, anche se fanno cose incomprensibili e magari un domani illecite. Quel che Internet doveva fare, l’ha fatto: ha creato persone diverse, ha nutrito la loro testa con modi e contenuti nuovi, ha cambiato il DNA culturale delle collettività, ha mostrato possibilità e opportunità per migliorare la vita.
Perché dell’industria culturale non mi preoccupo, visto che il cambiamento è più grande di loro, e chi rimane fermo a lamentarsi o a cercare di monetizzare alla vecchia maniera giustamente morirà, mentre chi ha saputo inventarsi cose adeguate è diventato ricco comunque. Per lo meno ora l’immaginario viene arredato da tutti noi, e non da Hollywood soltanto.
Dei politicanti invece mi preoccupo, perché oltre a voler “naturalmente” controllare tutto (analoni) sono anche ignoranti della questione, e quindi vogliono normare nel modo sbagliato.
L’impreditore web cerca di conquistare il mercato, ma prima deve capirlo. Il politico web no, non capisce o se ne fotte, gli serve solo il riflettore mediatico per essere paladino di questo o quest’altro. Ma i media siamo noi, e ne faremo un sol boccone.

Gestire le città

via Downloadblog

Grazie ad IBM, la città texana di Corpus Christi, che conta 280000 abitanti, potrebbe diventare un esempio di efficienza e di sostenibilità ambientale. Il progetto di IBM battezzato Smarter Planet promette di usare le tecnologie più avanzate per trasformare le città mediante software per la misurazione, il monitoraggio e l’ottimizzazione delle risorse idriche, delle strade, degli aeroporti, parcheggi e tutte le infrastrutture fondamentali per la vita di un centro urbano.
Il software sviluppato da IBM permette una visione in tempo reale dello stato delle risorse controllate ed, insieme ad una rappresentazione su una mappa dettagliata del territorio, mette in evidenza le zone che presentano delle criticità da affrontare. I cittadini di Corpus Christi hanno già risparmiato molti litri d’acqua grazie all’uso dei sistemi di controllo messi a loro disposizione dal colosso americano: piccole falle nel sistema di tubature, che causavano enormi perdite globali, sono state individuate e pian piano sono in via di riparazione.
Altre città sarebbero all’attenzione dei tecnici: presto grandi centri come Londra, Stoccolma, Sydney, Dublino ed Amsterdam potrebbero adottare un sistema simile per gestire le loro risorse in maniera più intelligente. La somiglianza di questo sistema con giochi come SimCity salta all’occhio immediatamente e già ci si immagina il sindaco o l’amministrazione comunale con un mouse in pugno a cercar di risolvere ingorghi stradali o ristrutturazioni di edifici fatiscenti. Per fortuna nessuno avrà l’opzione di inviare alieni, uragani o terremoti con un semplice click come nel gioco della Maxis.

Maggiori informazioni sul sito IBM (in inglese).

Esperienze immersive di lettura (e non distrarsi)

Un paio di riflessioni su due articoli recenti, argomento ebook e editori e forme narrative.
Il primo post è quello di Letizia Sechi, su FinzioniMagazine, intitolato La pratica degli ebook.
C’è una suggestione iniziale, dove si ragiona su come un editore sia originariamente uno che usa i libri, come lettore, e quindi comprendendone la tecnologia specifica organizza il suo fare professionale poggiando sulla comprensione del funzionamento del supporto. Cartaceo.
E l’esposizione delle scelte implicite è molto netta e chiara, nel tradursi nella qualità della fruizione che intrattengo con il libro, nella relazione che ho con l’oggetto in quanto interfaccia.
Sono secoli che libro e lettore e contenuto ballano tutti insieme, e insieme si evolvono, e il libro via via s’inventa formati caratteri interlinea materiali copertine.
Quindi si parla di ebook, e si ripercorre il ragionamento, stabilendo come le nuove potenzialità tecnologiche offerte dal supporto non potranno che dar luogo a nuove forme/formati.
E quindi c’è in corso una rivoluzione che stavamo aspettando (e siamo già nel campo delle aspettative del lettore rispetto al testo offerto dalla narrazione dei supporti alla narrazione) nei settori dell’editoria elettronica, e una “rivoluzione narrativa”, perché dice Sechi che quelli di noi che sanno cosa sono le narrazioni ipermediali aspettano qualcosa (sempre orizzonte di attese: siamo già calati nell’interazione lettore-testo) di più dall’ebook, un po’ di fuochi d’artificio per salutar la nuova era della narrazione e mostrare modi nuovi.

Alla domanda “se la tecnologia dell’ebook è tanto simile al Web, perché usarla in modo così depotenziato?” la replica è persino troppo ovvia: se il Web è il mezzo adatto per realizzare il genere narrativo del futuro, perché hai bisogno degli ebook (e degli editori) per iniziare a narrare storie in modo nuovo?

Qui mi sembra che ci siano più piani che si intersecano.
La contrapposizione web-ebook è ancora forse prigioniera (esagero i termini per esposizione) di un punto di vista che al massimo li integra, ma non riesce a pensarli insieme.
Anzi, credo servirebbe una bella matrice, per affrontare tutti i casi possibili.
Scrivere un testo lineare che vive da solo su qualsiasi supporto (fosse anche scritto sulla sabbia), scrivere un testo che in sé è organizzato ipertestualmente, ma senza apporti contenutistici esterni, scrivere un testo che prevede connettività esterna a sé stesso e sullo stesso supporto mostra l’extratestuale, scrivere un testo che invece proprio nella sua forma narrativa prevede l’irruzione di altri testi già in rete, scrivere un testo che non abita in forma conchiusa su un dispositivo ma anzi è da subito pensato come webbico, e talvolta diventa qualcosa che si muove dentro i dispositivi, ma la sua narrazione e il lavoro di noi lettori avviene dentro e fuori il dispositivo, oppure tramite il dispositivo ma fuori dal testo, e quindi assomiglia come da qualche parte già dicevo a una polla d’acqua di risorgiva, che fa sgorgare in superficie qui e là (nei dispositivi ebookreader, in luoghi web) delle messinscena del testo, ne fa emergere certi aspetti che richiamano una narrazione più ampia e dislocata e multicodice.
La questione della connettività è cruciale.
Non credo proprio in futuro verranno prodotti ebookreader che NON potranno connettersi, sprovvisti di browser.
Quindi nasceranno testi da parte di Autori che prevedono la classica lettura lineare, solo che sono fruiti su schermo elettronico e non su schermo cartaceo (la pagina, che fisicamente comunque perde senso come unità di misura e va articolata).
Poi nasceranno testi che invece sono costruiti secondo un’idea “aumentata” di sé e corrispettivamente (ma anche qui la dislocazione imporrebbe alcune ridefinizioni di questi concetti che stiamo usando) della pratica della lettura, dove alla linearità si aggiungono ipertestualità e ipermedialità. Ma siamo ancora dentro il libro, o dentro l’ebookreader.
E poi ci sono quei testi che nasceranno dislocati, indifferenti al supporto inteso come palcoscenico della loro messinscena, e la sfida nostra sta nel riuscire rapidamente a impossessarci e acquisire stabilmente nella nostra competenza di lettori una “mappa ecologica” che ci permetta di percepire e apprezzare esteticamente un oggetto che vive sulla Nuvola.
Qui c’entrano maggiormente i ragionamenti di Granieri, in questo pezzo “In difesa del libro tecnologicamente povero“, dove vengono trattati quelli che sono conosciuti come “movimenti cooperativi del lettore”, ovvero il lavoro attivo che siamo chiamati a svolgere nel decodificare un testo sempre concepito come una “macchina per produrre senso”, però appunto da riempire con le emozioni e i contenuti che noi e solo noi, con la nostra enciclopedia personale, possiamo riversarci dentro, mentre leggiamo e costruiamo nella nostra testa il “film” dell’esperienza.
Granieri, con Cerami da lui citato, insiste su un ragionamento classico di McLuhan, quello relativo ai massmedia “caldi” e “freddi”, che riprende il discorso di Letizia Sechi sull’ebook lato produzione per portarci a riflettere sul lettore e sulla sua interazione con il contenuto e il supporto.
Il libro è un media “freddo”. Su un solo canale, quello della vista, usando un solo codice, quello del Sistema Fonologico e codici della scrittura, allestisce dei segni (una singola parola, o un intero libro, o un’enciclopedia tutta, o una biblioteca considerata come insieme dei testi) che ci chiamano a interpretarli, e questo nostro riversare i nostri contenuti (esperienziali, emozionali, come immaginarci lo scenario e la fisionomia dei personaggi di un libro giallo, e ognuno di noi in realtà legge un libro diverso) nella macchina del testo avviene in quantità elevate, nel confronto di media “freddi”, che chiedono di essere scaldati.
Un libro narrativo da questo punto di vista è un diagramma di flusso, un algoritmo, un protocollo per direzionare l’immaginazione, un set di regole e procedure per la messinscena mentale, a cui poi appiccichiamo i giudizi estetici, a seconda di quanto ha saputo intrattenerci e sfidarci e giocare con noi, e con più sottigliezza ci chiama a giocare, incastrandosi meravigliosamente con le mie esperienze di vita e di lettura di altri testi, con più favore sono disposto a considerarlo.
E come dice Granieri, la forma classica e lineare della scrittura narrativa occidentale è ottima. E’ la forma che ha assunto l’algoritmo nel tempo dei secoli, nell’interazione tra opera e lettore e meccanismi editoriali. E’ perfetta per veicolare storie che si dipanano e emozioni da suscitare abilmente, nella capacità che la forma offre all’Autore nel progettare la propria narrazione.
Quindi il discorso cade su: le nuove forme di narrazione aumentata rese tecnologicamente possibili dai nuovi dispositivi di lettura, e conseguentemente le nuove modalità interazionali che come Autore devo prevedere tra il testo e il Lettore, sapranno ricreare quell’esperienza così coinvolgente e totalizzante, che è la Lettura?
Seguendo McLuhan, a parte il fatto che parlando di multimedialità esco un po’ dai suoi ragionamenti che sono più concentrati sulla densità informativa potenzialmente veicolabile dal media in considerazione (e paragonare la Radio con il Cinema è operazione da compiere con le molle), il fatto di avere a che fare con un media più caldo – il libro aumentato, ricco di apporti, diversamente organizzato, indifferente magari alla linearità – modifica radicalmente la nostra partecipazione alla costruzione del senso, limitandola.
Non sono più chiamato a “immaginare” molte cose, visto che posso “vederle” direttamente sulla “pagina”. Video, grafici, bacheche, sitiweb, applicazioni specifiche, gallerie fotografiche, audio musicale e parlato, recitazioni in video. 
La soluzione è nel tempo: come è già successo per gli altri media via via inventati, vedremo delle innovazioni linguistiche, vedremo la nascita di alcune poetiche (pensate al cinema del Novecento), vedremo un giorno la nascita di un’opera che romanticamente nasce perfetta nel suo sapersi allestire sui nuovi supporti, nei nuovi linguaggi, nei nuovi Luoghi in cui il testo abiterà.
Allora al contempo noi avremo sviluppato nuove competenze come lettori, saremo meno spiazzati dinanzi alle nuove forme della narrazione possibili, verrà emergendo un’estetica che ci saprà orientare nella valutazione delle nuove opere letterarie (che più tanto letterarie non saranno, quindi urge trovare anche nuove parole o nuovi sensi di vecchi significati, al mutar delle situazioni enunciative, ma siam qui per quello).
Rimane validissimo l’accenno di Granieri alla “facilità” con cui avverranno le interazioni tra testo e lettori, ovvero alla trasparenza delle interfacce, siano esse forme linguistiche o ergonomia dei dispositivi o codici interpretativi diffusi nell’Enciclopedia delle comunità linguistiche.
Il libro è molto trasparente, ci rapisce e ci dimentichiamo di tenere in mano un chilo di carta con sopra dei piccoli segni a inchiostro: ci educano da piccoli a leggere, e via via maturiamo un’abitudine alla lettura che si innerva, diventa automatica.
Quando leggiamo una frase, noi non leggiamo ogni singola lettera che compone il testo, piuttosto abbiamo maturato delle capacità che ci permettono di volare sulle parole scritte, e trattenerne/costruirne il senso. Siamo dimentichi del media.
Se però incontriamo un refuso, ecco che rapidamente vengono richiamate in superficie delle competenze linguistiche grammaticali che di solito facciamo girare in background: da qualche parte interrompiamo il meccanismo automatico, e ci concentriamo su quello che di solito non notiamo, la forma della parola e la sua adeguatezza formale.
Questo è qualcosa che comunque dovremmo raggiungere, a patto che si intenda costruire delle opere narrative che intendano catturare il lettore proprio con strumenti quali il farlo cadere in un’esperienza totalizzante, che sappiano allestire un mondo narrativo che ci coinvolge al punto di dimenticarci di essere seduti su una poltrona in salotto.
E prestare continuamente attenzione ai meccanismi di narrazione, ai refusi, al link che non funziona, al dispositivo che fa le bizze o riproduce malamente un inserto multimediale, o semplicemente un forma della narrazione che ci costringe a essere più attenti che rapiti difficilmente riuscirà a catturarci nello stesso modo in cui ci cattura un libro.
E’ come su un libro, lo abbiamo visto negli esperimenti delle Avanguardie, cambiasse continuamente disposizione del testo scritto, o scrivesse in verticale con tipografie differenti, o cambiasse sempre la qualità della pagina e dell’inchiostrazione, insomma quei libri che non vogliono farsi dimenticare mentre vengono letti, e continuano a dirti “guarda che stai leggendo un libro, eccomi qui”, si fanno notare, portano la nostra attenzione sul processo di lettura e sul funzionamento del media piuttosto che sul contenuto che intendono veicolare.
Ma spesso in quei casi storici il contenuto di quel testo era proprio farti riflettere sul processo di rappresentazione (come ingarbugliare tipograficamente il testo, oppure tagliare la tela di un quadro e metterlo in mostra, oppure Brecht che voleva che gli spettatori a teatro fumassero liberamente e faceva girare dei cartelli didascalici su quanto stava succedendo in scena, proprio per evitare che avvenisse eccessivamente l’immedesimazione con gli attori, e quindi venisse persa una visione critica che sempre doveva restar vigile), e quindi possiamo considerarli testi “riusciti” nel loro intento, di coinvolgerci secondo certe modalità esperienziali, dove è buona cosa che il flusso venga spezzato, l’esperienza interrotta per dislocare la nostra attenzione su altri livelli di contenuto.
Qui invece si cerca di ricostruire l’esperienza classica della fruizione di un libro di carta però secondo forme di narrazione radicalmente diverse. Progettare l’immersione, ma essere sempre distratti.
Messa così, non funziona. Piuttosto nasceranno nuove categorie estetiche di ricezione, nuovi tipi di esperienza di letture. “Leggere un buon libro davanti al caminetto” non è qualcosa che è sempre esistito, e si tratta di qualcosa che ha significati diversi nel tempo.
Stiamo aspettando abitudini, ecco.

ps. tutti i refusi qui dentro sono per non farvi distrarre, vadasé.

Migrazioni di massa

Più che Diaspora, che ha il vantaggio di connotare il fenomeno come movimento e processo ma aggiunge un lato disforico, parlerei di colonizzazioni. C’è gente che fa terraforming, crea Luoghi dove andare a abitare, li arreda con facilities e commodities (doppi servizi), videocitofoni efficientissimi, panorami sulle cerchie sociali.
Allora un po’ di noi vanno a vedere com’è, se si tratta di un ambientino confortevole, e avvengono migrazioni e poi comportamenti stanziali e fondazione di villaggi. 
Chissà quanti social abiteremo nei prossimi vent’anni, ciascuno che aggiunge un qualcosina in più per meritarsi la colonizzazione di milioni di persone, sul piano della facilità della conversazione orientata tematicamente o geograficamente, chissà se tra un po’ i social più antichi che però riescono a stare vivi&vegeti aggiungeranno nell’header un “Fondato nel 2003” come le assicurazioni o le case vinicole, come i quotidiani dell’Ottocento.
La teoria dei social network sarà quella che vedremo volgendoci indietro, in prospettiva. Vedremo le case, o i loro ruderi. Brandelli di miliardi di conversazioni, sapremo se ci hanno arricchito come persone, oppure se han saputo far emergere un’idea o un fenomeno sociale che ha migliorato la qualità del nostro vivere come collettività.
giorgiojannis@joindiaspora.com, comunque, è il mio indirizzo là dentro, ma non c’è nussuna fretta, nessuno parte con alti lai o panegirici immaginifici, siamo all’alpha, una propagazione iniziale dei contatti – quante volte da noi già ripetuta, ormai? – e un allestimento identitario minimal. Quell’opensource scritto per realizzare l’ambiente ci conforta, sì, è bello poter controllare come collettività l’intero terraforming o socialforming dei Luoghi dove abitiamo, almeno è garanzia di aver potenzialmente sempre voce in capitolo nel decidere come organizzare l’ambiente sociale.

DireFare a Pordenone: visioni di comunità

Sul Messaggero Veneto di oggi, 30 novembre, a pagina 5 del fascicolo di Pordenone:


DirefarePn.it, giovedì cominciano gli eventi
La rassegna sul futuro della città: protagonisti i pordenonesi residenti all’estero
Da giovedì a sabato, il ristrutturato Palazzo Badini in piazzetta Cavour ospita “DireFare.pn.it”, tre giorni di incontri, forum e workshop per condividere idee, informazioni, esperienze tra la città e i giovani pordenonesi nel mondo che per studio o per lavoro risiedono in altri paesi. La scorsa settimana, alla presentazione dell’evento, promosso dal Comune di Pordenone con la consulenza dal sociologo Luca Romano che coordina il progetto, il Sindaco Sergio Bolzonello aveva detto che «Direfare.Pn.it non è un evento sulla “fuga dei cervelli”, ma un modo di creare valore mettendo in rete le competenze tra chi è rimasto e chi è altrove, un modo per coinvolgere insieme in progetti scientifici e sociali, made in Pordenone. Per questo – aveva concluso – abbiamo deciso di dialogare con i “pordenonesi altrove”, giovani che per scelta personale e professionale hanno deciso di trasferirsi all’estero e li abbiamo invitati qui a Pordenone».
Il programma comprende incontri, forum, workshop dedicati all’innovazione d’impresa, alle reti internazionali dei saperi, della cura, dei mercati e della società digitale, della sostenibilità, un confronto con i “Pordenonesi altrove” che provengono dalla Spagna, Inghilterra, Stati Uniti, Francia Ecuador, Germania, Giappone, Danimarca, Mozambico, Egitto, Francia, Israele. Si comincia giovedì 2 dicembre alle 15 con il forum “La cura e l’aiuto sociale nella società che cambia” tema affrontato in due sessioni : “La cura e l’aiuto tra locale e globale”, con il confronto tra operatori che lavorano nel campo dell’aiuto alle persone in ambito sociale e sanitario e “Impresa innovativa chiama welfare comunitario”con il contraddittorio sulle “Buone pratiche” tra Piergiorgio Angeli, Direttore Risorse umane Operations di Luxottica Group e il finlandese Martti Launonen, amministratore delegato di Vantaa Innovation Institute.
Alle 17.30 l’inaugurazione dell’esposizione “Pordenone, una strategia per l’urbanistica sostenibile” nello spazio espositivo al primo terra. Dalle 18 alle 20 Giuseppe Granieri, autore per Laterza del saggio La società digitale e Giorgio Jannis, semiologo e progettista di spazi sociali in rete, introdotti e moderati dal giornalista Sergio Maistrello dialogheranno su “La società si fa rete, nuovi processi di partecipazione e responsabilità”. In un’altra sala i “Pordenonesi altrove” che operano nel campo della sostenibilità ambientale si confrontano con istituzioni, imprese e operatori impegnati a Pordenone sviscerando tematiche legate a sviluppo delle nuove tecnologie di produzione delle energie rinnovabili, sulla gestione dei rifiuti, del ciclo idrico, su verde urbano, sui materiali per la bioedilizia, sui mezzi di trasporto pubblico ecocompatibili, sull’ampliamento piste ciclabili e sulla mobilità ecologica.

direfare.pn.it, testi eloquenti e tessuti urbani

Ho comprato un telaietto di legno per fare i braccialetti di perline, devo regalarlo a mia nipote che trionfalmente compie otto anni. Dinanzi all’arte del tessere, rimango sempre in contemplazione. Capisco cosa significa che Atena fosse dea della Sapienza e di questa tecnologia donata all’Umanità, guardo quel telaio e guardo il mio pensiero che si organizza in ordito e trama,  scopre procedure e significati, un ordine che si imprime nelle cose e diventa disegno leggibile. Ci sono i fili fermi, le cose, e sopra intrecciamo le parole, i flussi, dando senso. Toh. Oppure, facciamo così: anziché riferire questo tessere al nostro pensare, oggettiviamoci.
Guardiamo ai gruppi sociali, alle collettività, al fare complessivo dell’abitare un territorio, operando sul suo spazio nel tempo dei secoli. Abbiamo un ordito, le risorse materiali disponibili e le reti tecnologiche di produzione e distribuzione di manufatti, energia e informazione. Abitare queste reti, viverle, è il nostro tessere la trama, quell’infilare perline di un certo colore in un certo ordine facendo emergere alla percezione una figuratività riconoscibile, un senso narrabile. Dal tessere al testo il passo è etimologicamente brevissimo, come sappiamo.
Tutti questi flussi di merci persone e parole stanno diventando sempre più leggibili, perché abbiamo inventato i computer, che ben programmati sono macchine perfette per scovare delle semantiche nei flussi di dati, e perché inventando internet abbiamo creato un Luogo tecnologico guarda caso perfetto per rendere visibili gli accadimenti sotto forma di informazioni organizzate, testi scritti, audio, video, tutti i modi del raccontare inventati nella storia dell’umanità, a patto che possano fare a meno o essere dignitosamente surrogati da narrazioni indifferenti al supporto fisico, corpo o carta o terracotta o pellicola cinematografica, su cui originariamente abitavano.
Quell’abitare fisico delle collettività sui territori oggi può essere tracciato e cartografato con una precisione (una granulometria sempre più fine) fino a ieri impensabile, e possediamo strumenti potenti per rappresentare dinamicamente ciò che succede in tempo reale.
Questo vale anche per la produzione e la distribuzione di opinione pubblica, che dal punto di vista massmediatico intendiamo come la reintroduzione nel sistema informativo territoriale delle idee e dei punti di vista che emergono dalla collettività dei portatori di interesse, su tematiche riguardanti riflessivamente il territorio, il suo funzionamento e il modo di interpretarlo.
Atti degni di menzione, un terremoto o un passo falso di un assessore regionale, venivano dibattuti nei bar e nei salotti, i punti di vista circolavano fino a raggiungere un giornalista o un confezionatore di narrazioni, ampliavano la propria portata comunicativa dilagando nei media tradizionali, inducevano la nascita di ulteriori opinioni e storie le quali rientravano nella filiera della chiacchiera collettiva, sul telaio su cui confezioniamo la Storia narrata e narrabile degli eventi. E la Storia la scriveva chi aveva il controllo dei centri di produzione e distribuzione dell’Informazione, come si è capito un secolo fa.
Ma la Rete è un media che disintermedia. Cioè, permette di togliere di mezzo intermediari. Offre contenitori di socialità dentro cui le persone fanno quello che riesce loro meglio, chiacchierare scambiarsi opinioni e costruire relazioni. Individui, gruppi, collettività che macinano idee e le allestiscono nei flussi comunicativi in Rete.
E tutta quella parte del Discorso umano che dicevo sopra, quella che riflessivamente pone come argomento delle collettività precipuamente la qualità dell’abitare sopra il proprio territorio, trova Luoghi di narrazione nuovi e potenti in cui mettere in scena i mille fili di cui la socialità è intessuta, di cui la socialità è costituita.
Community, ambienti tipo socialnetwork, a gestione governativa o commerciale. Luoghi tematici, dentro cui esplicitamente viene chiesta ai cittadini una partecipazione attiva all’amministrazione e alla progettazione socioterritoriale. Il tempo e il proliferare delle iniziative ci insegnerà come ottimizzare i processi, stabilendo a esempio le giuste estensioni geografiche delle community in relazione alle tematiche trattate, e come organizzare proficuamente le categorie della narrazione sociale pubblica, a esempio inventando Luoghi dedicati a segnalare e risolvere problemi nei settori della viabilità e dei trasporti, della burocrazia, della sostenibilità ambientale, dell’incontro dei mercati.
Questo autunno in Friuli Venezia Giulia hanno visto la luce tre Luoghi di socialità digitale, esplicitamente progettati e arredati con l’intento di promuovere partecipazione attiva e far convergere l’espressione dei cittadini verso la costruzione collaborativa di una visione del futuro del territorio.
Tre Luoghi dove tessere le aspettative le proiezioni le analisi e i desideri delle collettività interessate, in modo da far emergere un disegno nuovo, o almeno nuove grammatiche con cui provare a pensare il domani, e da questa lettura trarre migliori indicazioni per la progettazione socioterritoriale da intraprendere ora, nel Ventunesimo secolo fatto di socialità disintermediata e collettività connesse.
La Camera di Commercio di Udine, vi raccontavo qua, ha varato il progetto Friuli Future Forum.
Un attore sociale territoriale, il Partito Democratico di Trieste, promuove un questionario e un ambiente di discussione online tra i cittadini, Tra la gente, e spero tra non molto gli ottimi Enrico Marchetto e Enrico Milic o comunque la redazione dell’iniziativa di comunicazione pubblichino qualche dato e qualche suggestione tratta dall’esperienza.
Il Comune di Pordenone ha deciso di tastare il polso dell’immaginazione della collettività allestendo un progetto chiamato DireFare, a cui ho collaborato personalmente insieme a Sergio Maistrello e a Piervincenzo DiTerlizzi, per capire come progettare e realizzare il contenitore mediatico maggiormente adeguato a raccogliere le opinioni di tutti.
In realtà il progetto prevede anche iniziative territoriali: tutta la fase attuale di raccolta delle opinioni sul futuro della città per come essa viene immaginata e desiderata dalla comunità vivrà un momento di visibilità fisica nel corso della tre giorni che si terrà a Pordenone il 2, il 3 e il 4 dicembre prossimi, sotto forma di convegni e dibattiti pubblici in un palazzo storico in pieno centro.
Far emergere attraverso le videointerviste o le narrazioni di cronaca del territorio uno scenario dentro cui ambientare le progettazioni sociali non è certamente attività che si può ritenere conclusa con una presentazione pubblica, perché assomiglierebbe un po’ a mostrare un fotogramma per parlare di tutto il film, quel film senza fine che produciamo vivendo sui territori e che oggi ha trovato schermi migliori su cui essere rappresentato, schermi digitali che sono Luoghi sociali in cui abitiamo comodamente e attivamente, esprimendo opinioni e punti di vista che alimentano e arricchiscono l’esperienza del nostro partecipare alla pubblica conversazione.
In quanto luogo di impegno civile, nel suo tematico orientarsi al miglioramento della qualità dell’abitare, DireFare potrebbe facilmente trasformarsi un domani nel contenitore delle riflessioni della collettività pordenonese, o perlomeno dal suo funzionamento concreto come macchina mediatica potranno essere tratte preziose indicazioni su come impostare iniziative di comunicazione bidirezionale tra la Pubblica Amministrazione e la Cittadinanza, scoprendo nuovi modi di promuovere edemocracy consultiva e decisionale.
Non è qualcosa da cui si possa tornare indietro, a meno che chi governa non voglia passare per retrogrado o reazionario, impedendo la libera circolazione delle idee. Fioriranno nei prossimi mesi e anni decine di simili contenitori di socialità iperlocale, dentro cui a vario titolo saremo tutti chiamati a partecipare, ciascuno secondo le proprie competenze, in tutti i settori della vita sociale di cui sia possibile parlare, dall’educazione alla viabilità alle riflessioni politiche alle strategie economiche di un territorio.
PS Il Comune di Udine sta procedendo bene nella sua intenzione di moltiplicare i canali di comunicazione con la PA messi a disposizione del cittadino. Non si tratta in questo caso di un ambiente specifico interamente dedicato a svolgere la funzione di contenitore digitale delle visioni della collettività, ma di singoli strumenti che via via vengono aggiunti alle pagine del sito comunale per offrire maggiore interattività.
Di recente introduzione è il sistema di segnalazione dei disservizi, che utilizzando la piattaforma esterna ePart permette ai cittadini di pubblicare informazioni su problemi e criticità relativi a viabilità e trasporti e rifiuti e visualizzarli su una mappa. Sembra abbastanza frequentato dagli udinesi.

Ebookfest2010: gli atti liquefatti

Eccoli, gli atti del convegno Ebookfest2010: da subito pubblicati in forma liquida con licenza CreativeCommons, vedranno ovviamente la luce sotto forma di ebook pdf/epub, dove le parti stampabili potranno ricevere un ISBN e circolare ufficialmente. Tutto un blog loro dedicato, con relazioni, piccoli saggi, divagazioni, resoconti su quello che è successo a Fosdinovo il 10 settembre, ragionamenti intorno alla teoria e alla pratica dell’ebook.
Trovate anche una mia riflessione, più o meno inerente la tematica della tavola rotonda a cui partecipai, ma decisamente più interessanti delle mie parole sono i contributi di quelli che veramente in questi mesi stanno cercando professionalmente di capire cosa stia succendendo nel mercato dell’editoria digitale in Italia.

Complimenti a Noa Carpignano e Maria Grazia Fiore: io come parte della Redazione del convegno avrei dovuto curare la documentazione video, ma montare i video è una cosa noiosa e lunga, e il portatile su cui ho windows per fare videoediting sta collassando. La prossima volta si fa webtv con Livestream o con UStream, viene meglio. Trovate qualcosa qui, sul canale YouTube di Ebookfest2010, via via aggiungerò altri video, iscrivetevi.

Qui il sito dell’evento http://www.ebookfest.it/
Qui il blog con tutti gli atti: http://ebookfest2010.bibienne.net/

Bambini, pennarelli e autoblu

Non so quante siano le autoblu in italia, qui dice circa novanta mila, quelle proprio destinate ai papaveri, e di queste circa trenta mila sono quelle veramente blublu, con autista e tutto.
Almeno un miliardo di euro all’anno, scrivono qua e là.
A parte il fatto che ne basterebbe un decimo a stare larghissimi, io avrei una proposta per tutte questa auto di rappresentanza, una di quelle cose che un parlamento vota subito all’unanimità.
Fare dipingere le autoblu ai bambini delle scuole elementari. Seriamente, indelebimente. Voglio vedere i macchinoni di rappresentanza con gli arcobaleni e i pupazzetti e le casette col sentierino, tutti i colori sono ammessi anche contemporaneamente.
Prima di consegnare tutto al Governatore di turno le macchine vengono portate per una settimana presso una scuola primaria, dove sono già pronte le maestre con i progetti e i materiali, e lì l’attività giornaliera di quei bimbi è pitturare sopra quello che vogliono.
E non venitemi a parlare della rispettabilità, essere un uomo di governo e arrivare con una macchina disegnata dai bambini è il massimo della dignità.