Archivi autore: Giorgio Jannis

Report agée

Ho guardato Report stasera, si parlava di cose web. Magari racconta qualcosa di interessante sui social network, mi son detto, ma in realtà ho visto un minestrone fatto con tutto, con interviste a esperti sconosciuti, con affermazioni da facepalm continuo. Spunti interessanti ce n’erano, certo. Soprattutto però emergeva il tono dei commenti, della voce fuori campo, degli intervistati, della stessa Gabanelli: finita la trasmissione un’altra volta gli italiani hanno visto confermate le opinioni che da sempre qui accompagnano il racconto della Cultura digitale, dove a banalità e scandalismi si accompagnano poi le emozioni della paura, del sospetto, dell’allarmismo.
Report è trasmissione d’inchiesta, ma non c’era alcun bisogno di adottare quella cifra stilistica, stavolta.
Sul piano giornalistico della ricerca e dell’analisi dei fatti e delle fonti, mi preoccupa che non abbiano saputo documentarsi meglio, rivolgendosi a qualcuno che quando parla di Rete sa di cosa parla. E abitando in Rete si impara a conoscere quelli che la Rete stessa fa emergere come opinion leader su queste tematiche.
E proprio qui sta il problema, secondo me: un giornalista può non conoscere i minimi dettagli dell’argomento che intende trattare, ma sapendosi orientare nella propria rete sociale, sapendo filtrare le fonti, dovrebbe comunque riuscire a costruire un’informazione di qualità, circostanziata.
Quindi Report può anche (per finalità divulgative, a esempio, che però non è il nostro caso, avendo a che fare con una trasmissione di inchiesta e approfondimento) magari limitarsi a tratteggiare il fenomeno in modo superficiale, ma quello che è successo stasera mostra come nel fare una trasmissione sulla Rete non abbiano saputo usare la Rete per arrivare a offrire documentazione e punti di vista di qualità.
Questo va poi inesorabilmente a intaccare la reputazione di Report, cosa grave per un programma che vuole distinguersi nel panorama mediatico italiano.
Milena Gabanelli, ti chiedo: che senso ha aver dato alla trasmissione questo taglio? Quale contributo hai dato al dibattito italiano sul cambiamento socioculturale veicolato dalla Cultura digitale?
UPDATE: su L’Unità la sera stessa della trasmissione è uscito questo articolo di Maddalena Loy, dove venivano ripresi i commenti alla trasmissione pubblicati tramite Twitter. Anche le domande che ho scritto qui nel blog sono state riportate, le stesse domande che il giorno sarebbero state poste a Milena Gabanelli, in una audiointervista sempre su L’Unità. La Milena non ne esce benissimo, dice che il loro mestiere non è fare i sociologi (mentre io le chiedevo conto del fare giornalistico, proprio), dice che dovevano rivolgersi al pubblico televisivo, alla signora Cesira, e quindi han dovuto semplificare.
Poi oggi c’è stata la replica di Stefania Rimini, autrice del servizio “Il prodotto sei tu” trasmesso da Report, e decisamente emerge la visione poco chiara con cui ci si è mossi nel confezionare il servizio. Anzi, tutto quel suo parlare di “aspettative” lascia vedere in controluce proprio come le strategie dell’Autore, a partire dalla propria concezione di Lettore Modello (l’idea che un autore si fa del proprio pubblico, del destinatario) siano state decisamente fuori mira, invischiate in una visione massmediatica classica, obsoleta, non congruente con i temi stessi trattati nella puntata. La Tv che guarda la Rete, senza rendersi conto di essere lei stessa in Rete, ormai parte di un tutto più grande, dove i meccanismi conversazionali son altri. E nella stessa puntualizzazione della Rimini, il tono e la supponenza ahimè son quello che emerge.

In seguito alla nostra puntata del 10 aprile “Il prodotto sei tu” (dedicata ai social network e alla privacy, sicurezza e libertà in rete) ci saremmo aspettati una mobilitazione del “popolo della Rete” italiano in difesa della libertà d’espressione su Internet, visto che l’Autorità garante delle comunicazioni sta ancora conducendo audizioni al riguardo e il momento giusto per farsi sentire è adesso. Invece, nessuno ha mosso un dito per digitare una mail di protesta. Ci saremmo aspettati ancora di più una mobilitazione in difesa del soldato Bradley Manning, che sta rischiando la vita accusato di tradimento, in nome della libera circolazione delle informazioni – qualsiasi informazione – in Rete. Invece no, la mobilitazione non è “salvate il soldato Manning”, ma “salvate il soldato Zuckerberg”. Potenza della Rete. Ci torneremo su, come di consueto, nel prossimo aggiornamento

Encyclomedia per la scuola, Eco e il filtraggio

A metà degli anni Novanta vedeva la luce Encyclomedia, l’enciclopedia multimediale su CDrom curata da Umberto Eco. Ogni curatissima uscita editoriale prendeva in considerazione la storia della cultura europea organizzandola secondo criteri temporali (il Cinquecento, il Seicento), conteneva migliaia di voci relative alla filosofia e all’arte e alla letteratura e al pensiero scientifico, ma soprattutto offriva la possibilità di seguire i collegamenti tra idee e autori in modo finalmente ipertestuale, sfruttando thesaurus di parole-chiave e cronologie interattive: le nuove tecnologie informatiche abilitavano una fruizione radicalmente nuova, un nuovo modello di lettura e studio, dove con pochi click si poteva accedere a tutti i materiali documentali dei vari campi dello scibile inerenti all’argomento che intendevamo approfondire.
Oggi Encyclomedia abita sul web. Essendo nata da subito digitale e ipertestuale, non dev’essere stato difficile liberarla dall’ambito angusto del CDrom per lasciarla vivere su queste pagine online, libera di allungarsi e di sgranchire le gambe nello spazio infinito della Rete.
L’editore Laterza promuove in questi giorni il progetto Encyclomedia per la Scuola, lo trovate qui http://scuola.encyclomedia.it/.
Umberto Eco in persona ha presentato il progetto, dando come al solito magnificamente corpo e parola a quella visione della Cultura dove tutto si tiene con tutto, e i nuovi supporti della Conoscenza permettono appunto di costruire delle enciclopedie (opere intertestuali per definizione) dove concretamente lo studente o lo studioso possono indagare i mille percorsi di lettura che nascono seguendo i collegamenti ipertestuali.
Poi Eco dice una frase che non mi piace: “La scuola dovrebbe insegnare, oltre che grammatica e calcolo, anche una tecnica di filtraggio, ma una tecnica del filtraggio non esiste, non si può insegnarla”. Il discorso prende le mosse da un classico ragionamento sulla qualità delle fonti disponibili su Web e sui rischi dell’information overload: le persone con una certa competenza critica nell’analisi delle informazioni disponibili in Rete sono capaci di separare il grano dal loglio, i giovani studenti potrebbero invece incorrere in errori grossolani, se putacaso dovessero svolgere una ricerca sui campi di concentramento nazisti e non sapessero identificare correttamente un sito web che promuove una visione negazionista.
Certo, mancherebbero loro le basi culturali generali per essere in grado di far la tara su quanto incontrano navigando, ovvero sui contenuti pubblicati in Rete, ma soprattutto va visto in loro un deficit di competenze nel saper leggere il contesto dentro cui quell’informazione (errata, o mistificante) si colloca.
Eco stesso nell’articolo dice che i ragazzi magari non sono “esperti in niente” sul piano dei contenuti specifici di una materia o argomento, ma probabilmente – qui vi è una concessione all’idea dei nativi digitali, che sappiamo non significa automaticamente smanettoni o abitanti consapevoli della Rete – possiedono già competenze nella fruizione della Rete superiori a quelle dei loro stessi insegnanti. Velocità, colpo d’occhio, modelli di pensiero desunti da videogames o televisivi che superano i vecchi schemi dell’organizzazione della Conoscenza e del modo di attingervi.
E quelle competenze riguardano a esempio il saper collocare nel giusto contesto quanto si incontra navigando, desumendo informazioni para-testuali dal modo stesso con cui l’informazione viene presentata e allestita sulla singola pagina web.
Anni di navigazione in Rete costruiscono in noi delle grammatiche che ci aiutano nel disambiguare il messaggio. Dalla grafica utilizzata per arredare quella pagina, allo stile del discorso (refusi, sintassi approssimativa, stilistica) al riconoscimento di una autorialità storicamente rintracciabile all’offerta di link di approfondimento, chi abita in Rete matura nel tempo una sensibilità e specifiche competenze di lettura che lo aiutano a individuare quei contenuti pubblicati che valgono davvero la pena di essere letti o studiati.
Purtroppo si tratta di competenze implicite, che molti di noi possiedono ma non sanno di possedere, perché non vengono portate in luce da una seria Media Education. Molte volte abbiamo qui scritto di come almeno un paio di generazioni non abbiano avuto, fin dalle scuole di base, nessuna infarinatura riguardo le grammatiche dei massmedia classici, giornali e televisione, quando la maggior parte della nostra formazione personale da decenni passa attraverso questi strumenti. Lo stesso errore gravissimo lo stiamo facendo rispetto alla Cultura Digitale, affrontata dalla Scuola (e spesso male, senza nemmeno il supporto di una buona Cultura Tecnologica) perlopiù come informatica di base e come istruzione agli applicativi ufficio, senza tenere in considerazione le definizioni e l’analisi delle peculiarità specifiche dei massmedia del nostro tempo, ovvero quell’Internet dentro cui oggi tutto si muove, informazioni e valori di reputazione e di fiducia, aziende e Pubbliche Amministrazioni, giornali online e enciclopedie libere come Wikipedia o commerciali e autoriali come Encyclomedia.
I bambini di sei anni vanno a scuola che sanno già parlare, eppure nessuno pensa di mettere in discussione la necessità di una alfabetizzazione secondaria, ovvero quelll’esplicitare la grammatica della lingua italiana (l’analisi logica, l’analisi grammaticale) che poi permetterà agli allievi già in terza elementare di maneggiare con maggior potenza e raffinatezza il loro scrivere e il loro esprimersi verbalmente. Oggi ci si esprime sul Web, dentro i social network, si traggono informazioni e punti di vista da centinaia di Luoghi digitali, eppure nelle scuole si compie lo stesso errore fatto con la televione e i giornali: non si parla di cittadinanza digitale e di valori di reputazione, non viene insegnato come funziona il sistema dei media, non vengono esplicitati i codici grazie a cui già ora noi tutti, ragazzi compresi, troviamo significatività e senso dentro la nuvola tutta dello Scibile umano, che oggi abita nelle infinite connessioni di Internet, come la mente abita il cervello, come il software abita l’hardware (già questo è un modello di pensiero vecchio, prendetelo con le molle).
Ebbene, io credo che quelle competenze di lettura e di interpretazione relative al web possano e debbano essere esplicitate e formalizzate, al fine di poter essere trasmesse (o suscitate) nelle pratiche scolastiche, come materia di apprendimento.
E’ necessario oggi provvedere a studenti e soprattutto agli insegnanti, ancora preda di una certa ingenuità dinanzi alla Cultura digitale oppure dichiaratamente colpevoli nella sottovalutazione dell’importanza di quest’ultima, delle grammatiche che li rendano in grado di comprendere appieno la profondità e l’estensione dei contenuti in cui si imbattono navigando in Rete, e soprattutto degli strumenti concettuali che permettano di situare le opinioni e l’informazione in un contesto, superando il rischio di essere travolti dall’information overload e di errare nell’attribuzione di valore a quanto vediamo pubblicato, facendo maturare in loro un vero atteggiamento critico indipendente dall’autorevolezza della fonte che non sia comprovata da una visione sociale (il modello mentale della biblioteca è obsoleto) del web moderno, fatto di relazioni tra persone (il vero filtro contro la fuffa, ma dipende da noi il saperle coltivare nella qualità) e non solo di testi che si richiamano l’un l’altro in un universo scintillante ma scarnificato.
Altrove provavo a indagare perché la visione di Umberto Eco riguardo il funzionamento concreto delle pratiche umane in Rete sia errata, in quanto fondata su una non perfetta comprensione del web sociale: qui trovate il link, se volete approfondire il discorso.

Dal WEB dei documenti al Web dei Dati per una conoscenza interconnessa

Linked Open Data: perché solo Open data non basta, neppure in Italia.
By TITTICIMMINO | Published: DECEMBER 24, 2010
Il valore di una licenza “open” sta nel fatto che i dati rilasciati con tale licenza possono essere condivisi e ri-usati senza restrizioni. Per poter rivolgersi alla comunità degli sviluppatori l’apertura delle licenze è il primo step: senza questo passo il resto è come un castello di carte.

Ma la licenza “open” ha anche un altro valore: per effettuare mash up di dati o per linkarli se i dati sono allocati in differenti database , tipo Europeana o DBpedia, è necessario avere schemi di licenze compatibili per evitare di incorrere in alcuni set di dati per i quali la licenza d’uso sia restrittiva, restituendo così, di fatto, un insieme di dati incompleto o per nulla efficace.

Un validissimo esempio di Linked Data è quello dei Linked Geo Data, i dati spaziali sono cruciali per interconnettere risorse geografiche garantendo faciltà di browsing e di authoring.

Linked Open Data: cui prodest?

Andiamo per ordine: perchè solo Open Data non basta.

Il web dei documenti diventa il web dei dati, questi descrivono “cose” che hanno “proprietà” a cui corrispondono determinati “valori”.
Immaginando una tabella: le righe sono le “cose” , ogni colonna rappresenta le “proprietà”, e l’intersezione rappresenta la proprietà della cosa.
In sintesi tendiamo a pensare a dati in questo modo: “cosa”, “proprietà”, “valore”.
Ogni “cosa” può avere più proprietà e più cose possono essere in relazione. Dal punto di vista grafico, immaginando un grafo i nodi sono le cose e gli archi le relazioni tra le cose.

Precipua questione è quella della identificazione delle cose globalmente e univocamente dal punto di vista di un database. La chiave di volta dei Linked Data sono gli URIs che appunto consentono la identificazione di cui sopra. GLi URIs identificano le cose che vengono descritte, piuttosto che azioni su quelle cose, e se due persone creano dati usando lo stesso URI, allora essi stanno descrivendo la stesa cosa rendendo facile il merging di dati provenienti da data sources distinti, con la possibilità di riconoscere la distinzione tra le risorse e le rappresentazioni di tali risorse: lo stesso URI potrebbe restituire una diversa rappresentazione della risorsa, come ad esempio HTML o XML o JSON.
Quindi, se abbiamo intenzione di pubblicare i dati sul web, abbiamo bisogno di uno standard per esprimere i dati in modo che un client ricevente i dati possa capire che cosa è una cosa, che cosa è una proprietà, che cosa è un valore e, dal momento che questo è il web, anche cos’è un link. Questa è la norma fondamentale di cui abbiamo bisogno e questo è ciò che dà RDF: i dati espressi in formato RDF possono usare URI provenienti da differenti siti web. Se due insiemi di dati utilizzano lo stesso URI poi è molto facile lavorare quando parlano della stessa cosa, ad esempio, permettendo di riunire le informazioni pubblicate da una scuola con le informazioni rilevate da indagini statistiche altrove pubblicate secondo lo standard , naturalmente. E la cosa grandiosa del modello RDF (che fa uso di URI per identificare le proprietà) è che quelle serie di dati possono essere combinate automaticamente, perché lo standard consente di sapere dove cercare le informazioni necessarie.

Usare URI HTTP facilita il recupero di un documento dal web. Ciò consente di programmare, on-demand, l’accesso alle informazioni. Gli sviluppatori non devono scaricare enormi database mentre sono interessati ad una piccola parte di quei dati. Come possiamo creare facilmente dati strutturati e riutilizzabili da formati Excel o (peggio) dai file PDF? Come affrontare i cambiamenti nel tempo, e registrare la provenienza delle informazioni che mettiamo a disposizione? Come possiamo rappresentare le informazioni statistiche? O informazioni sulla localizzazione? Queste sono cose che si imparano mettendosi all’opera!

E ‘ complicato cominciare ad adottare i Linked Data, sia per ragioni sociali, culturali che per motivi tecnologici. Non succederà nulla dalla sera alla mattina, ma a poco a poco ci saranno gli effetti di rete: URI più condivisi, più vocabolari condivisi, il che rende più facile da adottare i Linked Data patterns offrendo più vantaggi per tutti.

Una volta descritti i dati e modellizzati, occorre interrogarli e questo avviene con un linguaggio standard per query: lo SPARQL.
In realtà, ciò che è necessario è la creazione di serie di dati più grandi, riunendo i linked data più granulari in elenchi e grafici, questo è essenzialmente quello che fa SPARQL.

Dunque per pubblicare Linked Data occorre
1) comprendere i principi (Uso di RDF data model con RDF links, link tipizzati tra due risorse, per collegare i dati relativi alle stesse cose)
2) comprendere i dati (con i Vocabolari condivisi FOAF SIOC Dublin Core, geo, SKOS, Review)
3) scegliere URI (http URIs) per le cose espresse nei dati (cose come Persone, posti, eventi, libri, film, concetti, foto, commenti, reviews)
4) linkare ad altri data set (con i link RDF)
In sintesi RDF è il formato per i Linked Data; RDF usa URIs per dare un nome alle cose; quando un URI è chiamato, esso restituisce descrizioni RDF delle cose chiamate con gli stessi e sempre via RDF si descrivono le relazioni tra le cose. Infine lo zenit si raggiunge linkando differenti data set.

A dispetto di problemi e questioni che si potrebbero sollevare circa le difficoltà di sviluppatori o esiguità di risorse, ritengo che il Linked Open Data data sia l’approccio migliore a disposizione per la pubblicazione di dati in un ambiente estremamente vario e distribuito, in modo graduale e sostenibile.

Perché? Linked Open Data significa pubblicare i dati sul web mentre si lavora con il web.

Linked, Open, Data!

La Rete e l’identità territoriale

Un altro articolo che ho scritto per “La Patrie dal Friûl”. Per leggerlo in friulano andate qui.
La Rete e l’identità territoriale 
Qual è lo stile con cui le collettività abitano i territori? L’argomento qui in ballo è quello della partecipazione spontanea delle comunità umane alla costruzione della propria identità massmediatica, e non stiamo parlando solo di immaginario. La rappresentazione mediatica che emerge dall’opinione pubblica locale dà visibilità a tematiche molto concrete, come a esempio l’organizzazione logistica del tessuto urbano, la viabilità o lo spostamento di merci e persone. Oppure riguarda il mondo dell’informazione e della conversazione tra Enti locali e cittadini, se proviamo a ragionare di piattaforme web istituzionali per la partecipazione pubblica della cittadinanza a forme di progettazione sociale condivisa e collaborativa.
Il fare comunicativo della comunità locale, ovvero l’insieme dei discorsi e delle posizioni dei singoli individui nonché degli attori sociali gruppali o istituzionali, veicola a esempio le descrizioni fisiche o le caratteristiche concrete di un ambiente rurale o urbano, le valutazioni putacaso estetiche sul paesaggio o sulle filiere di distribuzione economiche e produttive locali, e contribuiscono con la loro polivocalità a dipingere l’immagine dinamica di quel territorio, per come essa emerge dall’incessante conversazione sociale. Si tratta certo di qualcosa che è sempre esistito, ma che oggi risulta potenziato e reso maggiormente visibile grazie al web moderno, capace di accogliere le voci di tutti.
Nell’Ottocento l’identità friulana, per come essa riusciva a trovare rappresentazione di sé presso l’opinione pubblica, viveva nelle arti figurative, nella letteratura oppure nel teatro popolare. Il Novecento a questi luoghi di espressione identitaria ha aggiunto i massmedia quali i giornali quotidiani, la radio e la televisione: durante lo scorso secolo è sicuramente aumentata la diffusione delle informazioni e la circolazione dei punti di vista, ma la produzione culturale mediatica rimaneva comunque appannaggio di pochi centri economici governativi o commerciali. 
Quello che fino a ieri non poteva materialmente esistere, ovvero permettere a chiunque di stampare il proprio giornale o di accendere il proprio canale televisivo, oggi è diventato prassi comune per il singolo cittadino, grazie alle nuove tecnologie digitali.
Tornando a concentrare la nostra attenzione sull’abitare in Rete da parte delle collettività umane, proviamo a pensare ai primi cento risultati che il motore di ricerca di Google restituisce ricercando il termine “Friuli”: otteniamo una sorta di fotografia dinamica e cangiante del nostro territorio. Solo alcune di queste voci saranno espressione di una comunicazione istituzionale progettata e pubblicata, mentre altre occorrenze, molto più numerose, emergeranno dai ragionamenti e dai documenti multimediali pubblicati da qualche blog importante della zona, dai forum di discussione, dalle conversazioni che avvengono su qualche social network, dai siti commerciali che fanno del collegamento al territorio un loro punto di forza nel marketing, da testate giornalistiche che riflettono gli accadimenti locali. 
Il Friuli agli occhi del mondo è questo.
Un giapponese compra una bottiglia di vino, legge sull’etichetta “Friuli”, decide di indagare su Internet, chiede a Google di raccontagli qualcosa della nostra Regione. La sua opinione complessiva dipenderà dai percorsi di narrazione che il motore di ricerca rende praticabili, nel mostrare luoghi e narrazioni, la personalità e l’identità mediatica che emerge dal territorio.
L’insieme delle narrazioni di un territorio costituisce la sua carta d’identità. Si tratta di una sorta di scrittura corale di storie (e di Storia) sopra una geografia, dove le parole che quella comunità utilizza per raccontarsi, le parole di ognuno di noi, possono ora grazie alla tecnologia web interagire con le mappe satellitari e con i telefoni cellulari, espandersi e prendere corpo e vigore dentro i blog e i social network, alimentare centinaia o migliaia di flussi di conversazione, dove prima eravamo costretti a accontentarci di poche voci. 

Tanti, diversi, insieme

Stavo scrivendo, sforzandomi di pensare in un’altra lingua, eppure rimuginavo, inventavo e disponevo parole per un’altra cosa. Qualcosa che riguarda l’Unità d’italia, i miei sentimenti, il poter dire magari tra un po’ di tempo, sotto la spinta di cambiamenti che vedo intorno a me, “Vedi? io l’ho detto e l’ho scritto, prendi questo link”.
Ma prima un paio di brevi premesse.
Innanzitutto, sia ben chiaro a tutti che amo l’italia. Lo scrivo minuscolo da mesi, italia, solo perché in questo momento non è nemmeno all’altezza di essere uno Stato serio tra gli altri. Amo un’italia matta e piena di colori, struggente da strapparmi il cuore, vivace da farmi sorridere sempre. E se mi gioco la retorica, è perché la retorica sui sentimenti è cosa italianissima, dentro una stilistica o strappalacrime o canzonatoria, da generazioni e generazioni.
Una narrazione secolare e tutta italiana che conosco bene, nella lingua e nella letteratura, nelle arti e nella musica e nel teatro, nei mille canovacci di una Commedia dell’Arte che è vita verissima italiana dal bar all’angolo al Palazzo, negli arrotolamenti barocchi e capziosi ma ficcanti di linee intellettuali che han saputo nutrire la storia delle idee di questo pianeta. Nella pizza e nella furberia, nelle peculiarità del vivere di ciascuno dei suoi diversissimi abitanti, nelle linee del paesaggio, nel design e nello stile.
Come seconda cosa, vorrei dire nuovamente NO ai leghisti, alla loro ignoranza e al loro volersi appropriare delle cose storiche, rinominandole e banalizzandole, e usarle come stendardo della loro battaglia.
Tanto quanto mando vaffa quelli che, ignoranti anch’essi, non sanno contrapporre ai leghisti giusto un paio di argomenti circostanziati, evitando in tal modo di cadere dentro una dialettica “italia sì, italia no, se famo du’ spaghi”, che poi torna tutta a vantaggio dei primi. 
Io credo che i tempi per uno Stato italiano, amministrativamente unitario, siano superati.
Vi erano necessità storiche – peraltro secentesche nell’impianto (Francia, Inghilterra) e in seguito pronunciate con la forza rivoluzionaria del fine ‘700… ma qui noi arriviamo sempre dopo, con il Risorgimento  – di avere certe conformazioni governative sul territorio, certi sistemi che richiedevano una bacino d’utenza di un certo ordine di grandezza, per innescare certi sentimenti e valori e organizzazioni statali, province e regioni e podestà e prefetti e parlamenti nazionali e tecnologie per la democrazia, nell’inventarsi il modo con cui dare rappresentatività al popolo nell’espressione di sé, nei meccanismi governativi.
Il modello dello Stato che abbiamo è stato pensato secoli fa. Con i postiglioni e i cavalli, con la penna d’oca, parlando francese o veneziano o spagnolo o una delle molte lingue della nostra penisola. 
Non credo automaticamente sia ancora il più adeguato. 
E forse quel sentimento patriottico, in me debolissimo e nullo se comparato al fanatismo di certi, è stato indebitamente esteso su retoriche che non comprendo, su realtà geografiche semplicemente al di là del mio orizzonte antropologico. 
E forse quel sentimento patriottico per una porzione di territorio arbitraria e storicamente mutevole induce pensieri di appartenenza e contrapposizione agli altri in cui non mi riconosco, che non sento vivere in me, e potrebbero se manipolati dare propulsione a concetti bassamente nazionalistici, come il Novecento ci ha mostrato.
Io credo che la dimensione regionale sia maggiormente adeguata oggidì al governo del territorio e all’espressione di sé delle collettività che lo abitano.
Con i massmedia diffusi, con i sistemi di trasporto di merci e persone sviluppati negli ultimi cinquant’anni, possiamo far emergere molta ricchezza narrativa da aree geografiche di superficie molto minore rispetto alle dimensione degli Stati europei, su cui poter innestare più efficienti forme di governo locale, maggiormente adeguate alla specificità dei luoghi e delle genti, più efficaci nel comprendere e nel progettare in modo partecipativo il presente e il futuro dell’abitare su un dato territorio.
Regioni che potrebbero anche essere ridisegnate, sulla base di referendum per l’autodeterminazione, e dar luogo a estensioni geografiche ben diverse, magari con confini (odiosi confini) tracciati in modo meno arbitrario, più ancorato all’orizzonte antropologico degli abitanti di una certa area locale.
Sto pensando molto semplicemente a un federalismo vero.
Sto pensando abbastanza ai Lander tedeschi, come forma storica realizzata più vicina di altre a un ideale di federalismo reale. 
E giusto per collegarmi a un pensiero che ritengo dignitosissimo e tuttora modernissimo, per giunta recentemente elogiato dallo stesso nostro Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, un ragionamento che definitivamente scacci stolidi spettri leghisti per la sua radicalmente diversa impostazione politica e filosofica, dico espressamente che ho fiducia in un’Europa delle Regioni, in un federalismo europeo e perché no, mondiale. 
Non sono disposto a dare ascolto a persone che non sanno chi sia stato Altiero Spinelli, che non sanno cosa sia il Manifesto di Ventotene, sia ben chiaro.
Non si sono disposto a tollerare ignoranti di destra e di sinistra che si cimentano con il gioco delle tre carte, nascondendo e camuffando la verità con gesti abili e parole di propaganda interessata, e approfittando dell’altrui ignoranza ridisegnano il significato dei sentimenti dell’abitare e dell’appartenere ai Luoghi.
Sono e rimango cosmopolìta, tutelo e proteggo la diversità culturale umana e le minoranze linguistiche perché ritengo siano la ricchezza della specie umana, tutte senza distinzioni.
Semplicemente dico che vorrei abitare in un mondo fatto di unità amministrative governative locali di taglia inferiore rispetto agli attuali Stati nazionali, in possesso di propri strumenti costituzionali di tipo legislativo giudiziario e esecutivo per gestire il proprio territorio autonomamente, e che rispondono a un’autorità di respiro europeo.
Non penso all’italia, penso agli italiani, e alle possibilità di organizzare meglio, di ottimizzare il loro abitare sulla Penisola.

E libero da pastoie, spero di poter finalmente dire “Viva il centocinquantenario”, per celebrare l’inizio di una fase storica che l’italia doveva necessariamente vivere e attraversare, per prendere maggiormente consapevolezza di sé in contesti geopolitici più ampi, nei sentimenti della propria nazionalità.
Ma senza cristallizzazioni, senza blocchi evolutivi, senza voler irrigidire quello che deve scorrere: il farsi della civiltà, in molteplici forme, lo sperimentarsi, il crescere nel rispetto di tutti.

Come si fa

Una cosa di Bifo, una cosa che è un atteggiamento, un pezzo di cuore, una visione, un suggerimento per i suoi studenti.
Figuriamoci se linko.
Potrebbe essere su Facebook, ma in realtà è altrove.

Come si fa
(è il testo con cui ho aperto stamattina la mia lezione nel cortile di Brera. A differenza del testo che ho pubblicato qualche giorno fa, che è di Rainer Maria Rilke, questo testo è mio, mi scuso per l’accostamento, e potrete trovarlo nella rivista CANgURA che uscirà il 21 marzo per le edizioni Luca Sossella)

Anche l’amore nel tempo precario
è diventato una cosa per vecchi,
un privilegio di anziani amanti
che hanno del tempo da dedicarsi.
Noi eredi di un secolo feroce
che rispettava soltanto il futuro,
siamo il futuro promesso,
l’ultimo forse però, perché il profitto
non rispetta né il domani né l’adesso.

Il patto è stato cancellato
perché la regola non vale nulla
quando non c’è la forza per imporla.
Ora ciascuno è privato,
e solitario elabora segnali
sullo schermo mutevole che irradia
intima luce ipnotica. Riceve
ordini telefonici, e risponde
con voce allegra perché non è concesso
ch’altri conosca l’intima afflizione
che ci opprime.
Talvolta sul contratto di assunzione
è compresa una norma che ti impegna
a non suicidarti.
Questo non ferma certo l’espansione
dell’esercito immenso di coloro
che levano la mano su se stessi.

Nel solo mese di maggio
all’azienda trasporti di Bologna
si sono uccisi tre lavoratori.
Dieci anni fa erano tremila
i conducenti degli autobus cittadini,
oggi sono soltanto milleduecento
e il traffico non è certo meno intenso.
Alle officine Foxsson
si danno fuoco giovani operai.
A migliaia s’immolano
i contadini indiani,
alla Telecom France
si ammazzano a decine per il mobbing.
In molte fabbriche italiane
minacciano di buttarsi giù dal tetto.
E’ un sistema perfetto
razionale, efficiente, produttivo.
Chi s’ammazza è un cattivo
cittadino che non ha capito bene
come funziona il nuovo ordinamento.
Devi essere contento,
partecipi allo sforzo collettivo
che rilancia la crescita e impedisce
che il deficit sorpassi il tre per cento.

Brucia ragazzo brucia
brucia la banca centrale
e quella periferica.
A poco servirà, purtroppo
Perché i numeri che ti rovinano l’esistenza
Non sono conservati in nessuna banca,
neppure in quella centrale.
Vagano nell’infosfera
E nessuno li può cancellare.
I nemici nascosti sono numeri
Null’altro che astratte funzioni,
integrali, algoritmi e deduzioni
della scienza economica.
Ma come puoi chiamare scienza
questo sapere che non sa niente
questo assurdo sistema di assiomi
di tecniche che spengono la vita
per non uscire dalle previsioni
di spesa?
Non è una scienza, è una superstizione
che trasforma le cose in astrazione
la ricchezza in miseria
e il tempo in ossessione.

Meglio andarsene di qui, ecco come si fa.
Meglio lasciare vuoto
il luogo dell’obbedienza e del sacrificio.
Meglio dir grazie no a chi ti propone
sopravvivenza in cambio di lavoro.
Impariamo a essere asceti
che non rinunciano al piacere né alla ricchezza
ma conoscono il piacere e la ricchezza
e perciò non li cercano al mercato.
Come gli uccelli nel cielo
e come i gigli nei campi
non abbiamo bisogno di lavoro
né di salario, ma di acqua e di carezze,
di aria, di pane, e dell’infinita ricchezza
che nasce dall’intelligenza collettiva
quando è al nostro servizio, non al servizio
dell’ignoranza economica.

Se vuoi sapere come si fa
io posso dirti soltanto
quello che abbiamo imparato dall’esperienza.
Non obbedire a chi vuole la tua vita
per farne carcassa di tempo vuoto.
Se devi vendere il tempo in cambio di danaro
sappi che non c’è somma di danaro
che valga il tuo tempo.

E’ comprensibile che qualcuno pensi
Che solo con la violenza
Possiamo avere indietro
Quello che ci han sottratto.
Invece non è così,
– dispongono di armate professionali
che la gara della violenza la vincerebbero
in pochi istanti.
Quel che puoi fare è sottrargli il tempo della tua vita.
Occorre diventare ciechi e sordi e muti
quando il potere ti chiede
di vedere ascoltare e parlare.

L’esodo inizia adesso
andiamocene via
ciascuno col suo mezzo di trasporto.
Meglio morto
che schiavo dell’astratto padrone
che non conosce
dolore né sentimento né ragione.
Ma meglio ancora vivo
senza pagare né il mutuo né l’affitto.
Quel che ci occorre non è nostro
se non nel breve tempo di un tragitto.
Quando arrivi parcheggi,
lasci le chiavi e lo sportello aperto
per qualcun altro che deve spostarsi
nella città, sui monti o nel deserto.

Ecco come si fa.
Si smette di lavorare
ché di lavoro non ce n’è più bisogno.
Occorre svegliarsi dal sogno
malato della crescita infinita
per veder chiaramente
che c’è una bolla immensa di lavoro inutile
che si gonfia col nostro tempo.
Inventiamo una vita che non pesa,
Che non costa.
Una vita leggera.

E poi sai che ti dico?
Non ti preoccupare del tuo futuro
Che tanto non ce l’hai. E’ tutto destinato
A pagare l’immenso debito accumulato
Per ripianare il debito delle banche.
Il futuro di cui parlano gli esperti
è sempre più tetro ogni giorno
che passa. E’ meglio che diserti
e comunichi intorno
il lento piacere dell’essere altrove.
Ecco come si fa.

Luglio 2010

Prestami un libro

Le stesse cose dette da Riccardo Cavallero di Mondadori a Rimini al convegno EbookLab Italia di qualche giorno fa, tramortendo la platea degli editori presenti, ora riappaiono in questa intervista a El Paìs, riportata da repubblica e dal Post.
Si potrebbe discutere dei modelli economici, delle “forme del contenuto” editoriale, ma la visione d’insieme del cambiamento culturale in atto è assolutamente condivisibile.
E interessante è l’accenno alle biblioteche, che presto potrebbero vedere rivitalizzato il loro ruolo e la loro importanza nel mercato dell’editoria elettronica, come a esempio prova da anni a spiegare Giulio Blasi di MLOL.

via Post

Da vendere i libri ad affittarliIl capo della Mondadori ha spiegato al Pais cosa pensa del futuro dei libri

Il direttore generale di Mondadori Libri, Ricky Cavallero, ha dato un’intervista al quotidiano spagnolo El Pais (Cavallero ha lavorato a lungo in Spagna prima di essere nominato a Segrate l’anno scorso) sulle prospettive del mercato dei libri, ripresa oggi da Repubblica nelle pagine di cultura.
L’era Gutenberg non è finita, anzi è destinata a continuare, ma sarà la rivoluzione digitale di Internet a segnare il futuro dei libri. «Il potere passa dall’editore al lettore, è lui a decidere cosa vuole, quando lo vuole e a quale prezzo»: a dirlo, in un’intervista uscita ieri sul País, è Riccardo Cavallero, direttore generale dei Libri del gruppo Mondadori in Italia, Spagna e America latina (compresi dunque i marchi Einaudi, Piemme, Sperling & Kupfer, oltre alla newyorchese Random House). Manager di segno cosmopolita, è nato 48 anni fa vicino a Torino, ha vissuto in America, poi in Spagna, e ora è a Milano. Tra le sue preferenze letterarie, indica anche Gomorra di Saviano.
A suo dire, intanto non è il libro on line a determinare quel cambiamento radicale nell’universo dell´editoria che paragona a una rivoluzione copernicana. Cavallero: «L’e-book in sé non vale niente. Nasce già vecchio. Quel che conta è la rivoluzione digitale. Come avvenne per i dinosauri, per sopravvivere bisognerà cambiare habitat, e invece molti editori non sono ancora pronti, non hanno la forza mentale per cambiare il proprio modo di lavorare, tenendo conto dei gusti di chi sta dall´altra parte. Finora siamo vissuti in una bolla di lusso dov’era possibile prescindere dal lettore: ora invece, per la prima volta, dovremo capirlo».
Più difficile da dire è come cambieranno gli editori, in che tempi, e soprattutto: che fine faranno i diritti d’autore? Azzarda Cavallero, un po’ ridendo: «L’editore diventerà un bibliotecario: non venderà qualcosa, ma lo presterà. Nel mondo digitale, avrà qualcosa di simile alla televisione a pagamento, con alcuni canali che vengono venduti a sottoscrizione… Inevitabilmente, si dovrà trovare anche una formula nuova per liquidare i diritti e non sarà più possibile farlo nel modo semplice di oggi: per ogni esemplare venduto. Il cambiamento avverrà tra una ventina d’anni, probabilmente, ma già ora il digitale fa nascere un mucchio di problemi agli avvocati che devono quantificare la somma destinata al pagamento dei diritti d’autore»

Anagrammi pordenonesi

DireFare.PN.it può essere visto, diciamo così, come una macchina per produrre senso. Macina parole e idee, punti di vista e flussi di persone: gettando dei crivelli, delle sonde negli spazi sociali e nelle reti relazionali dei pordenonesi, fa emergere nuovi percorsi di narrazione, intrecciando voci e spunti che risulterebbero difficili da “progettare” a tavolino. C’entra il caso, la serendipità, la combinatoria. Proprio come in certe vecchie e nobili arti dedicate all’interpretazione dei testi sacri o letterari, dalla Cabala fondata sull’alfabeto ebraico fino ai giochi metalinguistici dei Surrealisti, provare a giocare con la superficie del testo può far scaturire nuovi significati, associazioni d’idee, storie e linee di racconto. Con divertimento, lasciamo risuonare per una volta da sole le parole che abitano dentro/dietro/tra le lettere che formano l’indirizzo di questo sito, direfare.pn.it., ascoltiamo gli anagrammi, smontiamo e ricostruiamo la macchina, mescoliamo gli ingredienti nel calderone della socialità pordenonese.


Per dare finti entri pèrfida:
fa per ridenti, arde per finti.
Fa indi per tre, fa treni perdi
per dati freni di freni parte.
Fa prende tiri, fa prendi reti,
fa nidi per tre, perni di frate,
dita per freni, prenda feriti,
frati in prede, dirà per finte.
Far intrepide, per far nitide
fendi per tira, fai prendi tre.
Dipinte fra re, di fra’ in prete
perdita freni freni petardi
denti far pire, di far pentire
Ride per finta, finti re padre
Fa riti prende riprende ti fa,
fai prendi tre, prenditi fare.
Per irti fenda, fendi reparti
finti per dare, finti perderà
Né fra trepidi, né tra perfidi
far nidi prete, nidi per frate.
Far tre pendii, ferita prendi,
far nitide per  fari perdenti
fate riprendi, ferri pedanti
frane di preti, denti per fari.
Fare ti prendi, frenàti perdi:
fra intrepide frane trèpidi.
Intrepide far, prendi rifate.
Fine per tardi, tardi per fine.

#ebooklab, e gioie della vita.

Nella primavera del 2007, dopo aver partecipato a qualche barcamp, provavo a scrivere qualche indicazione su come meglio organizzare gli eventi pubblici tipo convegni e conferenze, siano essi più o meno destrutturati, siano essi più o meno occasioni sociali “aumentate” dall’utilizzo di tecnologie come streaming video, wifi diffuso, uso massiccio di twitter e relativo feedback tramite twittervision proiettato nella stessa sala dove i relatori relazionano relazioni e tutti gli altri si relazionano tra loro.
Giovedì e venerdì scorso sono stato a Rimini, ospite dell’EbookLab Italia
Ospite, perché avevo contribuito a pompare il buzz preparatorio dell’evento, scrivendo una cosetta pubblicata su EbookLab e anche qui
Ospite, perché nonostante io per lavoro sia un libero professionista che cerca di raccontare e/o progettare iniziative in senso largo relative alla Cultura digitale, difficilmente mi sarei potuto permettere di pagare centinaia di euro per l’entrata al convegno. E so bene che per raccogliere bisogna dissodare, seminare, concimare (ah, questi soldi simbolicamente cacca), innaffiare il terreno: semplicemente il ROI mi sembrava sproporzionato, per quanto interessante sulla carta il convegno stesso si annunciasse, per la qualità dei relatori invitati e per la sua peculiare posizione narrativa, rispetto al discorso generale che in Italia si sta tenendo riguardo all’economia – oikos-nomos, sì, siam sempre lì – dell’editoria digitale. 
E invece la sala era sempre piena, centinaia di persone confermate ogni giorno, paganti e attente.
Una prima scommessa vinta, tutto sommato.
L’estate scorsa avevo contribuito a organizzare l’EbookFest a Fosdinovo, conosco da anni molte delle persone che sarebbero arrivate a Rimini e anche qualche relatore: questa occasione aveva le carte giuste per stabilire il punto di partenza delle riflessioni nazionali e professionali del settore; ho assistito a una fiera seria, con personaggioni, parole ufficiali, prese di posizioni che rappresentavano il punto di vista dei principali gruppi editoriali italiani. Non bazzecole. Nessuna bambola da pettinare.
E mi sono divertito, ho imparato cose. Gino Roncaglia che approfondisce via via nel tempo il suo discorso sul social reading, Ricky Cavallero di Mondadori spavaldo e cinico e cosmopolita (nel senso “non strozzato da una visione provinciale” come molti altri, che provocano le tempeste in un bicchiere giusto per sentirsi vivi e darsi importanza) che ha fatto più volte sobbalzare la platea con affermazioni durissime e proiezioni radicali sul futuro del libro, Maragliano e Rotta e Quadrino per i ragionamenti sull’editoria scolastica (settore surreale, paradossale, miope oltre ogni criterio), Tallone&Balocco squisiti e suggestivi nel dipingere lo sviluppo storico secolare dell’arte tipografica, dai caratteri aldini alla grazia del corsivo italiano al palatino tedesco all’elzeviro ai caratteri moderni, scherzosamente intrecciando tipografia e genius loci.
Ma ora dovrebbero pubblicare i video integrali degli interventi, restate sintonizzati sul sito di EbookLab, anzi sarebbe bello se Tombolini (Simplicissimus, promotore dell’evento) riuscisse a distillarne un sunto video, un documentario di una mezz’oretta ben montato e commentato, una narrazione, ekkemminkia, di un evento che si occupa di libri e di editoria e di forme della narrazione del XXI secolo.
Altrimenti il prossimo convegnone, chiunque lo organizzi, dovrà ripartire da zero o quasi, e qui non riusciamo a fare costruzione cumulativa della Conoscenza, riprendiamo i discorsi sempre dallo stesso punto. Vergognoso, nella nostra epoca, con gli strumenti che abbiamo.
A parte i contenuti, riprendo a parlare dell’organizzazione dell’evento. Anzi, linko Gianluca Diegoli, che ha scritto un ottimo post metalinguistico, ragionando proprio sul come organizzare un convegno di successo, e lui era tra quelli che si occupava di far filare tutto liscio là a Rimini.
Fondamentalmente, badare alla qualità. Semplice, eh? Ma a quanto pare per niente facile, ci vuole professionalità, come l’artista che nasconde la mano. Badare alla qualità dei relatori, badare alla qualità degli spazi relazionali (a partire dalla semantica dello spazio convegnistico, l’arredamento della sala, la forma e la disposizione dei tavoli), badare ai servizi offerti (un wifi serio, e una password per tutti uguale, finalmente), aver cura del clima – nevicava fuori, ma dentro era ben riscaldato da chiacchiere e incontri informali come sempre assai fecondi. Progettare il coffe-break, come dicevo anni fa, è la chiave del successo, o una delle.
Anzi, aggiungo un’ideuzza.
Come accade spesso, i relatori si ripetono. Quando fanno i preamboli, dicono le stesse cose. E sono decisamente stufo di sentirmi raccontare (anche malamente) la storia di Napster e la bolla del 2000, soprattutto da gente che vede ancora la Rete come uno strumento, e non come un ambiente, non come un territorio.
Allora ecco un suggerimento per chi organizza. 
Pensiamo al convegno tutto come una riunione di lavoro. 
Le posizioni dei parlanti, quello che rappresentano nella loro veste ufficiale, è la ricchezza del discorso, ma al contempo è un limite rispetto a quello che possono pensare, a quello che potrebbero dire.
Se il convegno, la riunione, il discorso, hanno come finalità quella di proiettarsi nel futuro, di stabilire linee d’azione e non solo di sancire l’esistente e fare il punto, allora c’è bisogno di pensiero laterale.
Vanno rotti certi schemi, servono visioni. 
Vi ricordate di DeBono, no? Metodologie per sprigionare la creatività, permettere al discorso di raggiungere e dissodare terreni che l’impostazione classica di un convegno impedisce di praticare, per il modo stesso con cui storicamente pensiamo la forma-convegno.
Prendete i sei cappelli per pensare, e fatene una versione social-convegnistica. Un sociodramma organizzato, direi. Un brainstorming su diversa scala.
La prima mattina, si comincia con il cappello bianco: voglio sentire relatori che parlano di dati, numeri, economia, tirature di libri, trend di mercato, prezzi all’ingrosso e al dettaglio. Relatori che sappiano di cosa parlano, solidi e concreti. Tutti avrebbero subito l’orizzonte.
Poi toccherebbe al cappello rosso, e vorrei sentire le emozioni risuonare. Il panico del libro che muore, le piccole case editrici che urlano spaventate, la nostalgia, l’indignazione per le politiche errate, la vergogna dei milioni di euro buttati in cose stupide. Ci vorrebbero relatori istrionici, contrapposti ai “ragionieri” del cappello bianco, capaci di dare corpo a tutto quello che si agita nella pancia del settore editoriale italiano, e spesso non trova parole per essere espresso e raccontato.
Con il cappello nero e con il cappello giallo siamo nel classico: i detrattori disfattisti e gli apologeti entusiasti, gli ottimisti e i pessimisti, il discorso prenderebbe quota e verrebbero a delinearsi i contenuti su cui vale la pena discutere, avendo tutti ben presente il COSA e il COME stiamo parlando, dopo i primi due cappelli.
Poi verrebbero i creativi, quelli del cappello verde, che dopo aver ascoltato per bene tutto proverebbero a individuare soluzioni out-of-the-box per risolvere il problema specifico posto dal convegno come situazione comunicativa, a esempio “Come evitare di farsi del male reciprocamente e come costruire Cultura in Italia dal punto di vista delle politiche editoriali, nei prossimi dieci anni“.
Il cappello giallo è già uno che potrebbe proporre soluzioni, ma tipicamente rimane dentro uno schema di pensiero statico, mentre nelle situazioni di cambiamento occorre uno che sappia vedere il bosco, non solo gli alberi. Uno che mette in dubbio e pone il dito su cose talmente ovvie da essere invisibili, su quello che le abitudini spesso nemmeno ci lasciano più pertinentizzare e quindi problematizzare, una persona un relatore o un manipolo di relatori che sappia pensare sistemicamente il tutto, senza settorializzare, ma alzandosi in volo e scorgendo nuovi territori da abitare per l’editoria.
Poi c’è il cappello blu, che sappiamo rappresenta il meta-cappello: il moderatore, quegli attori della situazione in grado di mantenere il focus dei discorsi centrati sul problema, e gestire i turni e la circolazione della parola, che provano a stabilire i punti fermi emersi dalla discussione complessiva affinché questi possano costituire il gradino su cui salire tutti per far progredire il discorso.
Insomma, ci siam capiti: minimizzare le occasioni di parlarsi addosso, e lavorare per dare sostanza e profondità.
Volevo aggiungere ancora una cosa, mia personale.
Io ero ospite di Mario Guaraldi, persona che stimo enormemente per la sua storia personale, per il suo essere personaggio, per il suo essere editore che pubblica quello che gli piace, e gli piacciono cose matte e bellissime.
La prima sera del convegno sono andato a mangiare carne e a bere vino rosso (come in un’ecatombe sulla spiaggia, dentro l’Odissea, quando Ulisse e i suoi scendevano a terra per la notte) con lui, con Sergio Metalli (scenografo famosissimo e visionario per i migliori teatri italiani, e non solo), e con Paolo Fabbri.
Cioè, Paolo Fabbri. Quello che considero tuttora uno dei migliori intellettuali italiani, quello che diciassette anni fa ha firmato il titolo della mia tesi al DAMS in narratologia, quello che tra un boccone di piada e un brindisi mi ha spiegato (lui settantenne a me!) i risvolti pop-culture di Lady Gaga, per dire, intrecciandoli con i codici del melodramma italiano settecentesco.
Questi tre qui son tutti di Rimini, si conoscono da decenni, ora si occupano tra l’altro della Fondazione Fellini, tutti e tre potrebbero parlare per ore dell’essere vitelloni e delle zingarate fatte nel corso degli anni, aneddoti a piovere, ridono e scherzano e si divertono molto, si palleggiano le parole lievemente mentre raccontano spezzoni della vita culturale italiana degli ultimi quarant’anni, amabili e romagnoli e vivaci.
Nella foto qui sotto, Metalli Jannis Fabbri e Guaraldi.
Io sono quello anziano.
Allorquando Pitagora trovò
Il suo gran teorema,
Cento bovi immolò.
Dopo quel giorno trema
De’ buoi la razza, se si fa
Strada al giorno una nuova verità.

Crogioliamoci

Vedo che in giro periodicamente riprendono quota le discussioni sui nativi digitali.

Ne ho parlato spesso. E ho sempre detto che al di là della pochezza della definizione, la questione è serissima, perché i ragazzini di oggi sono veramente gente diversa dalla generazione precedente, cento volte più divergenti di quanto lo sono stato io rispetto ai miei genitori, per essere semplicemente cresciuto immerso in un ambiente cognitivo intessuto di televisione 24/7 e radio in FM e e VHS e videogiochi.

E’ la solita riflessione sul ritmo tecnologico, e sulle ricadute antropologiche. Mi sono stancato di parlarne, dopo quest’ultima dozzina d’anni. Parlerò d’altro, in futuro, perlomeno qui sul mio blog.

Ma il seguente fetta di vita riportata da Axell spiega molto. Spiega che ogni sei mesi che stiamo qui a discutere di puttanatine e moralismi, perdiamo tre anni di vita nostra e loro, tre anni in cui il mondo va avanti di dodici anni, e intanto questi dodicenni abitano il loro mondo, com’è giusto che sia.

Luogo: Autobus 64 – direzione centro storico

Contesto: Scolaresca delle medie in visita (non so dove, forse GAM)

Protagonisti: 3 bimbi, 11/12 anni…

Bimbo 1: Hey, l’avete sentito l’ultimo album di Shakira?

Bimbo 2: No, ma è quella di Vacca Vacca?

Bimbo 3: Ah ah ah… Sì è lei, quella troia che canta Waka Waka.

Bimbo 1: L’ho scaricato con Bittorrent.

Bimbo 2: Mio padre lo usa per scaricare i pornazzi, li ho visti sull’hard disk

Bimbo 3: Per quelli c’è YouPorn… che scarica a fare? Vedi che non capiscono un cazzo i vecchi?

Bimbo 2: Sì, non capiscono un cazzo.

(risata collettiva)

Cultura digitale

Carlo Infante:

La cultura digitale è in primo luogo l’opportunità per riconfigurare gli assetti sociali e culturali nell’era post-industriale, liberando le potenzialità collaborative nella disintermediazione delle risorse, a partire da quelle informative. Da subito si capì (già trent’anni fa) che si poteva diventare editore di sè stessi. In questo senso il web si sta rivelando un nuovo spazio pubblico, coniugando l’interattività digitale con una straordinaria interazione sociale possibile che va ben oltre il rumore dei social network massivi (che comunque ci fanno molto comodo perchè disseminano con una velocità sorprendente le nostre performance mediali). La creatività sociale delle reti ci permetterà di mettere in gioco una disponibilità che si rivelerà come una nuova rete del valore (nuovo paradigma che supera quello lineare della catena di montaggio, modello fondante del sistema meccanicistico che stiamo superando) grazie alle dinamiche del web 2.0 che non è un semplice update tecnologico ma un netto salto paradigmatico, un’evoluzione antropologica. E’ qui che si gioca la scommessa più ardua, nell’intercettare quei nativi digitali che oltre a vivere come naturale questa nuova condizione artificiale (come tutte le culture, dopotutto) possono essere coinvolti nella costruzione di un ponte tra civiltà, riconoscendo il valore di trasformazione culturale avviato in questi ultimi decenni. Credo, in particolare, che vadano trovati i termini per mettere in relazione il mondo dell’avanguardia (che ha anticipato molti elementi delle culture digitali) con quella cultura dell’innovazione che non deve rimanere schiacciata nell’avanzamento esponenziale dell’offerta tecnologica. Servono nuove chiavi interpretative, mobili, dinamiche, come quelle che permettano un’interazione sensibile con il territorio, con le sue biodiversità, le sue architetture, il suo genius loci, per valorizzarlo e inscriverlo in un futuro digitale sostanzialmente glocal e sostenibile.

Cose di scuola

Leonardo:

Chi costringe chi a far cosa

Cari cattolici riformisti, liberali, o chiunque voi siate: io vorrei che fosse chiaro che, contrariamente a quanto sostiene Berlusconi, nessuno in Italia vi costringe a far studiare i vostri figli in una scuola pubblica. Voi potete, e da sempre, iscrivere vostro figlio a qualsiasi scuola vi pare e piace. E a me sta bene.

Purché ve la paghiate.

Perché in questo momento le cose stanno in questo modo: io, in quando contribuente, sono costretto a pagare, oltre per il servizio pubblico (come è giusto che sia), anche per i vostri buoni scuola. Ed ecco, questa idea che voi siate liberi di fare quello che volete, ma a spese mie, è la cosa che sopporto di meno in assoluto.

Sarà una coincidenza che l’unica volta in cui compare, nella nostra Carta Costituzionale, questa brusca espressione, “senza oneri per lo Stato”, sia proprio in quel famoso art. 33? “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. Possiamo pagare per molte cose, ma per la scuola dei vostri figli, grazie, no. Fatevene una migliore coi soldi vostri, se siete così bravi.

Jannis in friulano – Licôf

“La Patrie dal Friûl” è una rivista culturale mensile in lingua friulana, fondata nel 1946. Qui trovate la relativa voce su Vichipedìe, qui trovate il sito webqui il gruppo su Facebook.
Qualche giorno fa è uscita la prima pubblicazione del 2011, e dentro c’è anche un mio pezzo sulla Cultura digitale e sull’abitare in Rete. La Patrie infatti ospita da qualche tempo degli articoli dedicati al web e alla socialità in Rete, esplorando come la comunità friulanofona nel mondo dia immagine di sé in Internet. Per tutto il 2011 curerò sulla rivista una rubrica intitolata “Licôf”, dove proverò a ragionare spero senza annoiare troppo riguardo le modificazioni socioculturali che le tecnologie dell’informazione e della comunicazione stanno apportando ai nostri stili di vita.
Io capisco bene il friulano, però lo parlo poco e di questo un po’ mi vergogno (sono uno studioso dei linguaggi, e avere l’opportunità di conoscere un’altra lingua e non praticarla mi sembra davvero uno spreco notevole), e decisamente scriverlo è un “affar serio”, come si dice dalle mie parti, per via della grafia ufficiale della lingua friulana.
Ringrazio Andrea Dree Venier e Christian Romanini, che mi aiutano in questa avventura.
Insieme al Dree, e con Matteo Baldan e Michele Calligaris, mi trovate anche sul blog collettivo Furlans digjitait furlan, dove vengono riproposti gli articoli relativi alla Cultura digitale pubblicati su La Patrie dal Friûl insieme a molte altre segnalazioni e riflessioni attinenti.
Qui sotto incollo l’articolo che ho scritto, in italiano. Per leggerlo in friulano, fraccate qui.

Licôf
Allargare lo sguardo sulla Rete

Giorgio Jannis per La Patrie dal Friûl

Una volta si diceva “navigare” in internet, ma quel verbo oggi non soddisfa più, non è più adeguato. L’idea del web come di un mare da esplorare, di archivi e biblioteche elettroniche come isole da visitare e forse razziare non corrisponde più ai nostri comportamenti odierni.
Noi oggi abitiamo stabilmente in Rete. Lì dentro abbiamo la posta, la banca, il Comune e le imprese, giornali e libri, il cinema e la radio. In quindici anni abbiamo costruito sul web Luoghi di socialità frequentati da milioni di persone, piazze e salotti dove ogni giorno partecipiamo al dibattito pubblico leggendo e commentando quello che altri hanno scritto. Noi stessi produciamo contenuti che poi pubblichiamo nelle nostre nuove case digitali, sui blog e sui social network che frequentiamo.
In Rete ci siamo costruiti un’identità sociale, ritrovato o coltivato affetti e relazioni, abbiamo una reputazione e sappiamo a chi dar fiducia. Esprimiamo liberamente noi stessi nelle conversazioni, e pian piano stiamo diventando consapevoli dei nostri diritti come cittadini digitali.
Questa visione più chiara e leggibile del nostro fare può essere beninteso riferita anche a soggetti ampi come le collettività umane, agli attori sociali e alle comunità locali che grazie alla Rete possiedono oggi strumenti partecipativi aperti e democratici per dare immagine e racconto mediatico del loro concreto abitare sul territorio. Finalmente può emergere una identità sociale realmente polivocale e pluralista, nei nuovi Luoghi del territorio digitale.

Ma se ho delle nuove case da abitare, allora ci vuole un’inaugurazione.

Il licôf come inaugurazione, lo sappiamo, è da intendere come un rituale sociale festoso per “bagnare” con dei brindisi quello che abbiamo creato, quello che prima non c’era. In quella frasca di pino apposta sul tetto delle case appena costruite, ricongiungendo Natura e Cultura, leggiamo in prospettiva mitologie e narrazioni che l’umanità mette in scena per sé stessa, nel suo costruire manufatti e adattare tecnologicamente il territorio alle proprie esigenze insediative.

Con queste pagine espressamente dedicate alla Cultura Tecnologica e Digitale la Patrie dal Friûl inaugura ufficialmente una sezione editoriale che parla di Luoghi web e di socialità online, e questo è un primo licôf. La Patria al contempo sta consolidando i propri Luoghi web, assume in modo sempre più forte e definito identità e connotazione anche nel mondo digitale, e questa può essere considerata una seconda inaugurazione.

Vi è forse spazio per un parallelo: nel mondo fisico il licôf viene festeggiato al momento della costruzione del tetto della casa, ma quest’ultima è ancora lungi dall’essere abitabile, dovendo ancora essere ultimate le strutture interne, gli impianti, l’arredo. Nel mondo digitale, avendo a che fare con oggetti e ambienti immateriali, sappiamo bene che al di là della pubblicazione sempre rivedibile e migliorabile di un sito o di un blog il vero impegno consiste nel mantenimento della comunicazione, per “arredare” in modo sempre più confortevole i Luoghi di socialità web, per immettere nel dialogo pubblico contenuti di qualità.

Questo licôf digitale, segno di un impegno, indica la promessa di un lavoro nel tempo, come nel tempo avviene l’azione dell’abitare, quel mantenere e avere cura dei territori oggi indifferentemente fisici o digitali dove viviamo e esprimiamo noi stessi, nella civile conversazione.

Narrazione costante

Le conversazioni che quotidianamente produciamo in rete, nei blog e nei siti di social network, rappresentano una ricchezza straordinaria per lo sviluppo di una cultura civica che si struttura attorno alle pratiche discorsive. In particolare quelle che sono in grado di rappresentare e dare visibilità a minoranze e gruppi, a culture che proprio in rete trovano nuovi modi e forme di riconoscersi e affermarsi attraverso una narrazione costante che consente loro di definirsi.


GBA, somewhere on the ‘net.

Agenda Digitale per l’Italia

Un articolo di Stefano Quintarelli per il Sole24ore

In Australia, l’anno scorso, la strategia sulla rete digitale è diventata per i media «uno dei punti di divergenza più drammatici tra i partiti in campagna elettorale». Dopo le elezioni, sono risultati decisivi i parlamentari indipendenti che hanno orientato il loro voto verso i Labor proprio per il programma di rete in fibra più coraggioso.

Il commissario europeo per la Società dell’Informazione, Neelie Kroes, ha lanciato l’Agenda digitale europea per indicare la strategia fino al 2020 e la considera elemento cardine di sviluppo e sostenibilità socioeconomica.

Secondo uno studio di Boston Consulting Group, nel Regno Unito la «internet economy» vale il 7,2% del Pil, più del settore sanitario, e il governo ha sviluppato il piano «Digital Britain» per garantire al paese un futuro tra le maggiori economie del sapere digitale. Il Technology Strategy Board ha definito le linee guida strategiche per settori fortemente condizionati dalle tecnologie digitali quali l’Ict, l’elettronica e la fotonica, la generazione e fornitura di energia, i materiali avanzati e la manifattura ad alto valore aggiunto.

L’Italia affronta da tempo un ritardo, non solo economico, ma anche infrastrutturale e culturale, rispetto alle principali economie occidentali. Abbiamo subito una perdita di competitività anche rispetto ai nostri principali partner europei. Tra il 1998 e il 2008 il costo del lavoro per unità di prodotto nel settore privato è aumentato del 24 per cento in Italia, del 15 in Francia; è diminuito in Germania. L’affermarsi dell’economia della rete digitale rende necessario affrontare trasformazioni radicali dei modelli di sviluppo. Secondo un rapporto del l’International Telecommunication Union al mondo ci sono 161 paesi che si sono dotati di una strategia digitale, ma l’Italia non è in questo elenco.

Non mancano le iniziative significative in Italia. Ma non c’è una visione né un dibattito politico in materia. Eppure, molti studi indicano che i differenziali di crescita e di produttività che si sono sviluppati negli ultimi 10 anni tra i principali paesi sono spiegati dalla diversa intensità con cui imprese, pubbliche amministrazioni e individui hanno investito in Ict. Per questo molte persone si sono unite all’appello per un’Agenda digitale per l’Italia che si trova su www.agendadigitale.org.

Appunti sul mondo editoriale

Cultura digitale, flussi di narrazione, socialità in Rete.

Una parola sul dizionario può possedere molti significati, ma è il qui-e-ora della situazione enunciativa, è il reale contesto conversazionale in cui essa viene pronunciata che determinerà il senso di quella parola, fosse anche dentro un libro che dialoga col lettore. E’ il contesto che, selezionando e negoziando i significati pertinenti rispetto all’orizzonte di attese degli interlocutori, stabilisce una certa omogeneità nell’interpretazione e quindi una narrazione nel tempo, grazie alla cooperazione di tutti gli attori coinvolti nella circostanza. 
L’editoria, intesa qui come secolare attività umana tecnologica industriale e economica, si accorge in quanto attore sociale dell’inadeguatezza del proprio discorso, del proprio fare attuale. Sono cambiate le circostanze, le pratiche umane della produzione e della fruizione di oggetti culturali, i modi della comunicazione, la forma tutta della società e della socialità. 
Oggi c’è la Rete Internet, ovunque, tra di noi. La indossiamo con i telefoni cellulari, siamo permanentemente connessi, i flussi informativi e documentali con cui interagiamo abitano su molti dispositivi e in molti Luoghi digitali. Trattandosi di tecnologie abilitanti, le innovazioni abitano già anche dentro la nostra testa, nel modo in cui pensiamo la progettazione editoriale e la relativa opera di pubblicazione. Anzi, i significati di parole come “libro”, “autore” o “lettore”, “massmedia”, “biblioteca” o “libreria”, “filiera editoriale” hanno già concretamente oggidì assunto un altro senso, alla luce della rivoluzione sociale che il Web e la Cultura Digitale hanno reso possibile.
Vi sono delle nuove caratteristiche tecnologiche da comprendere per i supporti della Conoscenza, c’è un nuovo pubblico e un nuovo mercato, ci sono nuovi ambienti sociali digitali dove tutto riecheggia, nell’incessante Grande Conversazione.
Sono necessarie abilità e competenze aggiornate per il mondo editoriale, a partire da un saper scorgere il cambiamento culturale in atto, al saper ascoltare le conversazioni delle cerchie sociali digitali e delle community, passando per l’acquisizione di nuove tecniche produttive, di rinnovati modelli di organizzazione aziendale e di strategia di mercato, arrivando a padroneggiare il management della reputazione e del proprio abitare in Rete.