Archivi autore: Giorgio Jannis

E-partecipation e progetti europei

Un brano di Alberto Cottica, l’ho preso qui: il ragionamento comincia valutando la consistenza dell’impegno economico sui progetti europei di promozione della e-partecipation, ne sottolinea l’insostenibilità indagando cause e metodi, e continua mettendo a nudo le inefficienze del sistema delle Pubbliche Amministrazioni, per quanto queste siano costutivamente inadeguate a proporre innovazioni nel rapporto tra Istituzioni e Cittadini – il difetto è nel manico, si direbbe. Oppure come dice Cottica parlando della burocrazia: “il suo potere discrezionale è molto limitato by design“. E propone un patto di fiducia, su cui concordo. E’ dai valori relazionali, dal clima affettivo che si intende instaurare negli ambienti di lavoro che discendono la motivazione, l’enpowerment degli individui e delle organizzazioni, la diversa postura da adottare per poi ottenere risultati visibili e consistenti.

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550 euro per un post: il fiasco inevitabile dell’e-participation

Pedro Prieto-Martin, ricercatore spagnolo e occasionale commentatore di questo blog, ha pubblicato un saggio in cui fa il punto sull’e-participation in Europa. La sua diagnosi è impietosa:

  • la Commissione Europea è stata il primo motore della disciplina, lanciando diversi programmi di ricerca dedicati.
  • dal 2000 sono stati finanziati almeno 74 progetti in questa direzione, per un costo totale di circa 187 milioni di euro; una rete di eccellenza per altri 6; e, più tardi, una serie di iniziative di valutazione e di messa in rete delle esperienze fatte. Questo ha consentito l’emersione di una comunità di ricercatori che lavora sul tema.
  • uno di questi programmi, eParticipation Preparatory Action, è stato oggetto di una valutazione sistematica. Progetti finanziati: 20. Costo medio: 715.000 euro. Numero medio di utenti per progetto: 450. Numero medio di contributi user generated (post o firme a petizioni) per progetto: 1300. Costo medio del post o della firma alla petizione per il contribuente europeo: 550 euro.
La comunità di ricerca sull’eparticipation è riuscita a ignorare questi numeri. Gli studi di valutazione dei progetti della Preparatory Action sono “unanimemente positivi”. Nonostante la richiesta della Commissione di una rigorosa analisi costi-benefici nessuno di questi studi avrebbe mai citato il dato dei 550 euro. E la Commissione stessa ha deciso, se pur con qualche correzione, di continuare sulla stessa strada: la principale differenza tra questa prima generazione di progetti e quella successiva (progetti approvati nel 2009 e 2010) è, secondo il saggio, il budget, che è cresciuto fino a raggiungere la cifra media di 2,8 milioni di euro. Come spiegare un’omissione così clamorosa? Secondo l’autore
Temi di questo tipo sono come il proverbiale elefante nel soggiorno di casa: trattarli è problematico, perché la loro stessa esistenza tende a essere negata a causa della loro complessità e dell’imbarazzo che causano. Il risultato è che non si riesce nemmeno a riconoscere che esistono e a discuterli, figuriamoci a risolverli.
Prieto-Martin pensa che la ragione della performance insoddisfacente dei progetti di e-participation sia essenzialmente questa: in linea con la tradizione delle politiche europee dell’innovazione, hanno seguito una logica “push”. Questa consiste nel fornire incentivi ai produttori di tecnologie innovative a fornirle a utenti più o meno acquiescenti, nella forma che più conviene ai produttori stessi. E i produttori hanno risposto con entusiasmo; purtroppo – in parte a causa della generosità dei finanziamenti – si trattava di soggetti non molto adatti ad innovare. I “soliti sospetti”: organizzazioni abituate alla progettazione europea, che si muovono bene nelle regole burocratiche di questi programmi. Queste regole sono nate per garantire il buon utilizzo del denaro pubblico ed un’assegnazione imparziale ma – come spiega bene Augusto Pirovano di CriticalCity in questo video fulminante – finiscono per essere escludenti nei confronti delle piccole imprese e associazioni esponenti della società civile, i veri innovatori.
Prieto-Martin è fortemente critico, e a ragione. D’altra parte non credo che abbia senso incolpare la Commissione Europea per questo fiasco. È una burocrazia weberiana: il suo potere discrezionale è molto limitato by designCome ho già scritto, tutte le burocrazie faticano molto ad avere rapporti con le comunità in rete: le comunità sono fatte di persone, e vivono nel rapporto tra persone, le burocrazie weberiane agiscono, invece, sulla base di regole standardizzate, che prescindono completamente dall’individualità. Quello che ho scritto in quell’occasione mi convince ancora:
[…] vedo solo una possibilità: un new deal tra la pubblica amministrazione e le donne e gli uomini che lavorano per essa. Il new deal funziona così: la PA deve dare fiducia e spazio per lavorare ai suoi servitori; e poi valutarne i risultati, premiare chi fa bene e punire chi fa male. Se ci sono abusi, si affronteranno caso per caso: progettare un intero sistema con l’obiettivo di prevenirne i possibili abusi rischia di renderlo rigido e disfunzionale.
Non sono un giurista, ma non credo proprio che le burocrazie weberiane possano autoriformarsi in questo senso: immagino che per questo ci sia bisogno di una normativa che proviene dall’esterno della burocrazia stessa, cioè dal legislatore. Fino a che questo non avverrà, un certo numero di elefanti accampati in soggiorno sarà inevitabile.

LAB2011 – 100 anni di McLuhan

Nicola Strizzolo, sociologo all’Università di Udine, ha presentato i due relatori d’eccezione, Derrick de Kerckhove e Giovanni Boccia Artieri, presidente del corso di laurea di Scienze della Comunicazione a Urbino: riguardo al primo vi rimando a Wikipedia, del secondo linko la pagina sul suo blog Mediamondo, dove proprio prende in esame alcuni passaggi-chiave del pensiero di McLuhan.
Conosco Nicola da qualche anno, Derrick pure per esserci incontrati in qualche convegno qua e là per la penisola, mi mancava invece lo scambiar quattro parole con Giovanni, che stimo moltissimo per il taglio culturologico che mette nelle cose che scrive in giro, per le sue originali osservazioni sui cambiamenti sociali attuali, per le sue considerazioni sulla nostra identità mediata, come individui e come collettività.
Era l’occasione giusta per devirtualizzarci, dopo anni che ci leggiamo e commentiamo sui blog e sui social.
Ho preso degli appunti di quello che i relatori hanno detto: li metto qui sotto, in forma sintetica.

Derrick De Kerckhove mostra un video fatto al Salone del Libro di Torino, dove scherzosamente si chiede ai visitatori se conoscono Marshall McLuhan (pochi), poi parte a commentare il ‘decalogo’ di McLuhan 1962, le sue famose dieci profezie

The next medium, whatever it is –
  1. it may be the extension of consciousness –
  2. will include television as its content, not as its environment,
  3. and will transform television into an art form.
  4. A computer as a research and communication instrument
  5. could enhance retrieval,
  6. obsolesce mass library organization,
  7. retrieve the individual’s encyclopedic function
  8. and flip it into a private line
  9. to speedily tailored data
  10. of a saleable kind.
Derrck accenna il discorso sui media come protesi del corpo e dei sensi umani, poi con Harry Potter porta la platea a ragionare sulla magia moderna, mostra un video di un tipo che muove cose sullo schermo con il pensiero, onde cerebrali. Sta parlando di realtà aumentata, di informazione geolocalizzata, e sottolinea come il tutto sia “magico”, un po’ medievale nella forma della narrazione, intendendo stupore e meraviglia.
Interessante quando commentando il punto 3 chiede un parere sul significato della televisione come forma d’arte, e indica Youtube come esempio concreto.
Derrick fa scorrere sul muro dietro di sé una composizione di icone, cliccando sulle quali fa partire un video o apre un’immagine che poi gli serve per argomentare il proprio discorso. Seleziona un’illustrazione di Pinocchio, racconta come la favola italiana sia conosciuta nel mondo ovunque lui vada, poi spiega come Pinocchio rappresenti l’uomo nel passaggio all’industrializzazione, dalla toscana rurale alla meccanizzazione, quindi il nucleo narrativo sia quello del tornare umano, la sfida ovvero la prova dell’eroe… E questo avviene attraverso la balena, matrice del cambiamento (sulla parola “matrice”, rapidamente cita i film recenti che trattano di queste problematiche, centrali nella cultura attuale, come appunto Matrix, Avatar, Atto di forza, Blade runner). La personificazione, il diventare un’identità, e non si può arrestare, si poteva forse fare due secoli fa fermando la stampa, ma ora no, c’è FaceBook, siamo oltre.
Questo è la rivoluzione del terzo linguaggio, dopo orale e scritto ora c’è l’elettrico, e noi personalmente, in noi, portiamo questo linguaggio, grazie a lui significhiamo.
A conclusone del convegno avrebbe poi aggiunto alcune considerazioni “politiche” sul nostro essere ormai connessi planetariamente, del nostro aver maturato consapevolezza riguardo l’effettiva forza del nostro agire quando coordinato e potenziato da Internet: i riferimenti sono le Tweet Revolutions del nord Africa dei mesi scorsi e le forme della censura cinese su Internet, e Derrick dice che o i Governi imparano a fare meno della censura, oppure noi qui in Rete impariamo a fare a meno dei Governi.
Giovanni Boccia Artieri esordisce indicando la sua volontà di ragionare attorno alcune “sonde” di McLuhan, quei passaggi divenuti poi proverbiali nel descrivere il pensiero dell’autore e il suo impatto sulla riflessione odierna riguardo la natura dei massmedia.
Le ‘sonde’ di McLuhan sono degli slogan, sono idee che poi si propagano, il futuro è il presente.
1. Medium is the message
La forma dei media hanno implicazioni più profonde dei contenuti che veicolano; non si tratta banalmente di sminuire i contenuti, ma di porre come oggetto di analisi proprio la forma storica che veicola quei contenuti, e il modo in cui questa modifica profondamente il nostro pensare. A esempio FaceBook: le nuove forme della connessione interumana sono il nocciolo da osservare, lì c’è il cambiamento.

“La tv è tattile” e le molte altre frasi di McLuhan, apparentemente paradossali, cercano di far capire proprio questo, una sorta di dislocazione dell’attenzione che permetta di inquadrare i fenomeni mediatici secondo altri punti di vista. McLuhan: “Le società sono sempre state plasmate più dalla natura dei media attraverso i quali gli uomini comunicano che non dal contenuto della comunicazione”.

Fermarsi alla superficie dei contenuti non va arrivare alla cosa importante: l’esperienza che facciamo del mondo è sempre un’esperienza autentica, e la realtà fisica vale tanto quanto Second Life per come sono da noi vissute. La stessa notizia sul giornale, sulla radio, in tv sono tre esperienze diverse, che ci costruiscono. Quello che è in ballo è la forma della rappresentazione, quindi le diverse modalità relazionali, le occasioni percettive differenti – nella realtà aumentata sul cellulare vivo diversamente il reale… le tweet revolution in africa sono state rese possibili perché le reti tecnosociali hanno reso visibili le reti di persone, costruendo nelle collettività una percezione nuova di se stesse.
Determinismo tecnologico di McLuhan? Nodo storico e cruciale del suo pensiero, con cui si tende a scartare l’importanza l’importanza del pensatore muovendo facili critiche. Partendo dal famoso esempio mcluhaniano dell’invenzione della staffa per poggiare i piedi stando a cavallo, Boccia Artieri illustra il significato della nascita della cavalleria pesante nel Medioevo, quindi nasce la professione di soldato, quindi il feudalesimo (staffa sta a feudalesimo, dice semplificando, come Twitter sta a Africa nei recenti movimenti di piazza e rivoluzioni).
E’ da comprendere però come il ragionamento vada inteso correttamente: nel sistema dei media noi siamo fuori dalla causalità, siamo sistemici, “circolarità delle intenzioni”, quindi va compresa la nozione di “cause negative”.

Riferendosi al pensiero di Debray, Boccia Artieri mostra come sia errato riferirsi a una correlazione causa-effetto nella considerazione di certi processi culturali o nell’invenzione tecnica degli strumenti, compresi i ragionamenti massmediologici: la staffa non “determina” il feudalesimo (o la stampa a torchio del protestantesimo), ma lo “autorizza”, ne costruisce la condizione di possibilità. Non ne è causa, ma senza staffa niente feudalesimo, senza Gutenberg nessun Lutero. Le causalità sistemiche sono negative. A non produce B, ma se non-A allora nessun B.

2a sonda: i media sono metafore attive, traducono l’esperienza in forme nuove.
Esempio del cellulare: noi oggi siamo sempre connessi, always on, e anche l’esperienza dei luoghi è diversa.
Rapporto tra media e corpo, apparato neuropercettivo: noi nei media impariamo il mondo, gli schemi d’interpretazione, i media sono ambienti evolutivi per la storia vitale, luoghi dove si sviluppano emozioni e sentimenti, atti reali, basta con il pensiero di una separazione.
E’ mutato il senso della nostra POSIZIONE nella comunicazione… Da oggetto della comunicazione (cittadino, consumatore, audience…) a soggetto della comunicazione: questo è quello che la rete sta facendo, enpowerment dell’individuo, e il senso dell’abitare cambia, per singoli, per enti privati e pubbblici (i cittadini enpowerati dalla partecipazione).
Arriviamo in modo diverso all’informazione, oggidì tutto passa attraverso filtri diversi, sociali, amicale, cerchie.
User generated content: persone e contenuti sono strettamente collegati, e la fiducia e la credibilità sono i valori che circolano, quello che funziona, non la quantità. Reputazione.
McLuhan: “il contenuto è l’utente”.
UPDATE: trovate un buon resoconto anche qui
Personalmente, non saprei cosa aggiungere qui ora su McLuhan. Perché McLuhan è un universo intero di discorso, peraltro dislocato rispetto alle grandi correnti di analisi massmediologica di fine Novecento.
Ne ha fatto cenno anche Boccia Artieri: McLuhan non viene insegnato per bene nelle Università. Quella massa di ragionamenti espressi con stile originale e a volte paroliberisticamente paradossale (d’altronde, come raccontare nel 1962 ciò che non può essere capito, in quale altro modo far passare nella pubblica opinione il messaggio che intende far porre attenzione sulla forma del messaggio, se non sabotando le narrazioni e le aspettative d’ascolto?), spesso dipinta come un insieme disordinato dove qui e là brillano delle intuizioni e delle suggestioni  in forma di slogan, mi è personalmente arrivata sotto forma di un paio di capitoletti dentro i manuali di teoria della comunicazione o di sociologia della ricezione, ma non mi sono mai imbattuto in un monografico dedicato al massmediologo canadese, pur avendo avuto la fortuna di avere professori universitari liberi o addirittura “selvaggi” nel loro approccio alla disciplina.

Il medium è il massaggio“, appunto. Quei quattro sensi della lettura, come in Dante: Message and Mess Age, Massage and Mass Age. Quel massaggiare il sensorio della cultura umana, quell’innescare brividi agendo direttamente sugli organi di senso delle collettività, ovvero sui massmedia. Agire cambiamento.
Appena ho dieci anni liberi, mi ributto a studiare McLuhan.

Friuli Social Network

Oh, giusto per dire che Hubert Londero, giornalista che lavora per il settimanale “Il Friuli”, mi ha fatto un’intervista di quelle vere, come ai bei tempi, seduti a un tavolo di un bar in centro, dove io sproloquiavo a ruota libera e lui prendeva appunti su un blocnotes. L’argomento è stato “Il dilagare del pensiero platonico in Italia a Padova e Firenze, a seguito della caduta di Costantinopoli del 1452”.
Ok, scherzavo, abbiam parlato di social network e cose umane (troppo umane), pensa tu.
Qui il link per l’articolo sul giornale.

Far saltare il dispositivo Maastricht, E poi?

Bifo, da qui

Rivolte nelle strade di Londra di Roma e di Atene, occupazione di centinaia di piazze nelle città spagnole. Quel che è accaduto tra l’autunno 2010 e la primavera 2011 non è stata un’improvvisa effimera esplosione di rabbia ma l’inizio di un processo che continuerà per anni e crescerà raccogliendo forza e visione strategica.
Un processo simile è iniziato nelle città arabe. Quella che vediamo là non è una rivoluzione per la democrazia, come dicono ipocritamente gli occidentali. Non è in vista nessuna democrazia nei paesi arabi, né alcun segnale di stabilizzazione post-rivoluzionaria. Quel che vediamo in Nord Africa come nel Medio Oriente è l’emergenza di una nuova composizione sociale fondata sul lavoro precario cognitivo, sull’intelligenza sociale collettiva che è sottoposta al dominio dell’ignoranza religiosa della privatizzazione economica e della corruzione. E’ l’inizio di una rivolta dilungo periodo destinata a convergere con quella europea.
Dieci anni fa, in seguito al dotcom crash che segnò la crisi della new economy, il semiocapitalismo finanziario iniziò lo smantellamento della forza politica dell’intelletto generale.
La privatizzazione delle risorse comuni della conoscenza e della tecnologia, la precarizzazione e lo sfruttamento crescente del lavoro cognitivo avanzarono insieme. Ora, in seguito al collasso finanziario del settembre 2008 il capitalismo finanziario ha lanciato l’aggressione finale. La spesa sociale viene tagliata, la scuola pubblica e l’università vengono distrutte, la ricerca è sottoposta a strategie di profitto di breve termine. L’insieme della società viene aggredita, impoverita, minacciata e umiliata, per imporle di pagare il debito accumulato dalla classe finanziaria.
Nei prossimi mesi le lotte sono destinate a proliferare radicalizzarsi. Questo è inevitabile, perché è la sola alternativa alla miseria e alla depressione generale.
Combatteremo uniti. Ma non basterà. Il problema che dobbiamo affrontare adesso è un problema d’immaginazione, non di forza. Cosa verrà fuori dalla insurrezione che si prepara in Europa?
Tutti vediamo il pericolo del crollo d’Europa: il ritorno dei peggiori incubi è già percepibile nell’espansione del nazionalismo del populismo mediatico e del razzismo nella psiche sociale.
L’assassino nazista di Oslo e i figuri leghisti che si riuniscono a Monza per celebrare i loro riti razzisti fanno parte dello stesso processo: la frustrazione ignorante e il fanatismo si saldano in una miscela tremenda di tipo nazista che è già forza di governo in paesi come l’Ungheria.
Cerchiamo di capire le premesse di questa situazione.
L’Unione Europea, che nel dopoguerra ha rappresentato una speranza di solidarietà sociale, negli anni della svolta neoliberista venne riprogrammata come congegno di governance monetarista, con una fissazione centrale: ridurre il costo del lavoro, ridurre la quota di reddito che va ai lavoratori.
In ossequio al nuovo dogma liberista e monetarista, nel 1993 venne costruito un dispositivo politico-finanziario che prese nome di Trattato di Maastricht.
Questo dispositivo comporta alcuni criteri che debbono essere rispettati dagli stati che non vogliano essere espulsi dall’UE. I criteri fondamentali sono questi:
Il rapporto tra deficit pubblico e PIL non deve essere superiore al 3%.
Il rapporto tra debito pubblico e PIL non deve essere superiore al 60% .
Il tasso d’inflazione non deve superare l’1,5% rispetto a quello dei tre Paesi più virtuosi.
Il tasso d’inflazione a lungo termine non deve essere superiore al 2% del tasso medio degli stessi tre Paesi.
L’ordine monetario dell’unione europea viene sottoposto alla supervisione della Banca Centrale Europea, il cui statuto prevede una completa autonomia rispetto alle decisioni del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali, e stabilisce una finalità primaria dichiarata, che è quella di contenere l’inflazione.
Questo ferreo dispositivo giuridico-finanziario sul quale si fonda l’Unione Europea funziona come un automatismo che governa i processi di decisione politica e in ultima analisi costituisce un limite per le possibilità di immaginazione della società europea. Funziona in modo tale da costringere i paesi dell’Unione a ridurre il costo del lavoro, a ridurre la massa di risorse investite nel benessere della società, per contenere l’inflazione, per ridurre il deficit pubblico e per aumentare il profitto finanziario.
Naturalmente si potrebbero perseguire strategie differenti, come quella di tassare le transazioni finanziarie e di tassare i grandi patrimoni. Ma nel dispositivo neoliberista queste misure sono interdette, impronunciabili. Di conseguenza l’applicazione dei criteri di Maastricht ha prodotto negli ultimi due decenni uno spostamento gigantesco di risorse dal lavoro verso il capitale e dalla società verso la rendita finanziaria.
L’Europa è un continente ricco, ricchissimo. Milioni di tecnici, ingegneri, medici, progettisti, architetti, poeti, artigiani, biologi, insegnanti, donne e uomini di ingegno e cultura raffinata hanno reso questo continente agiato, comodo, piacevole. Da cinque secoli la borghesia, classe laboriosa e disciplinata ha progettato le città, le fabbriche, le strutture della vita civile. Una classe operaia vastissima, addestrata, qualificata e costretta alla disciplina ha innalzato ponti e grattacieli, prodotto milioni di macchine e macchinette.
Con la lotta sindacale e politica la classe operaia ha imposto alla borghesia di condividere parte della ricchezza prodotta, così che una parte vastissima della società europea ha potuto godere dei prodotti del lavoro industriale, e ha potuto avere accesso ai servizi che rendono la vita tollerabile, talvolta perfino piacevole.
Poi è arrivata la deregulation, la competizione internazionale si è fatta sempre più feroce, e la borghesia industriale ha dovuto cedere il posto di comando a una classe eterogenea, più spregiudicata e poliglotta, spesso arricchita grazie ad affari criminali, che detiene e maneggia un capitale immateriale, puramente semiotico: la classe detentrice del capitale finanziario.
Si tratta di una classe de territorializzata che possiamo definire come classe virtuale, in quanto essa sfugge all’identificazione fisica, territoriale, eppure i suoi movimenti e le sue scelte producono effetti visibilissimi nel corpo vivente della società. La classe finanziaria ha carattere virtuale perché essa non si presenta con un volto riconoscibile, ma piuttosto agisce come pulviscolo di innumerevoli scelte compiute da agenzie impersonali, come sciame guidato da una volontà inconsapevole.
Per quanto non identificabile e pulviscolare la classe de territorializzata della finanza sta imponendo all’Unione Europea il dogma secondo cui la società europea deve diventare povera, miserabile, infernale per essere competitivi sui mercati internazionali.
Il dispositivo Maastricht ha cominciato a funzionare come un sistema di automatismi tecno-finanziari il cui effetto è il contenimento e la riduzione della spesa sociale e l’aumento della rendita finanziaria.
Questi criteri non sono affatto naturali né inevitabili, ma neppure sono il risultato lineare di scelte politiche individuabili. Essi si impongono con la forza dell’automatismo. Possiamo definirli come dispositivo, cioè prodotto dell’azione umana che si sottrae alla volontà e si sovrappone all’azione umana, automatismo che pre-dispone l’azione umana a ripetere una procedura. Dopo il 2008, dopo la crisi dei mutui immobiliari americani e il successivo sconquasso della finanza occidentale, la rigidità dei criteri di Maastricht ha impedito qualsiasi flessibilità della decisione politica.
Il dispositivo Maastricht ha fatto fallimento. La crisi greca e tutto quel che segue é dimostrazione del fatto che questi criteri non hanno prodotto dei buoni risultati. Andrebbero rivisti, in modo da rilassare un po’ il respiro degli europei, in modo da restituire risorse alla società.
Ma l’autorità europea (che è un’autorità unicamente finanziaria, dal momento che l’autorità politica non conta niente) applica questi criteri in maniera tanto più fanatica quanto più fallimentare.
A partire dalla crisi greca della primavera 2010 l’effetto del dogmatismo neoliberista e monetarista è visibile: peggioramento delle condizioni di vita della società, aumento della disoccupazione, smantellamento delle strutture della vita civile e dei servizi sociali, insomma impoverimento generalizzato.
La classe finanziaria (le banche, le assicurazioni, il mercato borsistico), che pure hanno lucrato sul rischio (ad esempio imponendo alti interessi sui Credit Default Swaps) ora rifiutano di assumersi le conseguenze di quel rischio, e vogliono scaricarlo sulla società.
Per pagare il debito accumulato negli ultimi decenni dalla classe finanziaria, la società europea viene sottoposta a un dissanguamento generalizzato:
il sistema educativo, che costituisce il pilastro fondamentale per lo sviluppo civile, viene de finanziato, ridimensionato, impoverito, privatizzato in parte.
Il sistema sanitario viene definanziato e tendenzialmente privatizzato.
Le strutture di trasporto e di approvvigionamento energetico vengono privatizzate e quindi sottoposte a logiche economiche del tutto estranee ai bisogni della collettività e funzionali soltanto agli interessi del ceto finanziario, e agli obiettivi strategici della Banca centrale.
Insomma, la società europea viene drasticamente impoverita, tendenzialmente devastata e imbarbarita, pur di non scalfire il castello d’acciaio della cosiddetta stabilità finanziaria.
Se questo è il prezzo dell’adesione all’Unione Europea, presto nessuno vorrà più pagarlo, e allora si rischia il crollo dell’Unione, la cui conseguenza può essere la moltiplicazione dei populismi territorialisti e mediatici, il diffondersi della peste fascista e razzista ai quattro angoli del continente. l’Italia ha anticipato questa tendenza, con il lungo predominio del partito mafioso di Berlusconi e del partito razzista di Bossi.
L’insurrezione europea è nell’ordine dell’inevitabile. Il problema non è organizzarla, si organizza da sé. Il problema è immaginarne l’esito, costruire le istituzioni che rendano possibile l’autonomia della società dalla catastrofe inarrestabile dell’economia capitalista.
Bifo
25 luglio 2011

L’ossimoro del capitalismo ecologista

Una buona intervista a Severino, su Il Manifesto.

… andiamo verso un tempo in cui il mezzo tecnico, essendo diventato la condizione della sopravvivenza dell’uomo – ed essendo anche la condizione perché la Terra possa esser salvata dagli effetti distruttivi della gestione economica della produzione – è destinato a diventare la dimensione che va sommamente e primariamente tutelata; e tutelata nei confronti di tutte le forze che vogliono servirsene. Sommamente tutelata, non usata per realizzare i diversi scopi «ideologici», per quanto grandi e importanti siano per chi li persegue. Ciò significa che la tecnica è destinata a diventare, da mezzo, scopo. Quando questo avviene, capitalismo, sinistra mondiale, democrazia, religione, ogni «ideologia» e «visione del mondo», ogni movimento e processo sociale, diventano qualcosa di subordinato; diventano essi un mezzo per realizzare quella somma tutela della potenza tecnica, che è insieme l’incremento indefinito di tale potenza.. Perciò spesso dico che la politica vincente, la «grande politica», sarà delle forze che capiranno che non ci si può più servire della tecnica. La grande politica è la crisi della politica che vuole servirsi della tecnica. Non si tratta di un processo di «deumanizzazione», o «alienazione», come invece spesso si ripete, dove l’uomo diventerebbe uno «schiavo» della tecnica; perché in tutta la cultura – anche in quella che alimenta ogni più convinto umanesimo – l’uomo è sempre stato inteso come essere tecnico. Le sto descrivendo il futuro: non prossimo, ma neanche remoto. In questo senso appunto parlo da decenni di inevitabilità del tramonto del capitalismo.

Andatevene

C’è gente vecchia, in giro. Gente vecchia dentro, potrebbero anche avere quarant’anni, ma pensano come si pensava quarant’anni fa. Alcuni di questi occupano posizioni chiave dei settori economici, politici, culturali. 
Per mantenere lo status quo che garantisce loro il potere di decidere le linee di sviluppo della società contemporanea, di decidere delle nostre vite, del nostro benessere individuale e sociale, queste persone possono fare delle leggi statali, stabiliscono politiche per la gestione della cosa pubblica, nutrono scientemente i sistemi di informazione di paccottiglia per imbonirci, di cortine fumogene per plasmare i nostri pensieri, per fare in modo che l’attenzione venga distolta e nemmeno nasca la voglia di farsi troppe domande. 
Perché non è detto che il mondo debba essere per forza così. Potrebbe essere diverso, migliore, se tutti potessimo accedere alle informazioni, alimentare e formare criticamente la nostra opinione sui fatti, se potessimo esprimerla liberamente insieme agli altri, decidendo collettivamente e collaborativamente quali strade intraprendere per il futuro, senza dipendere dalle scelte interessate di pochi.
Questa è la battaglia odierna per la libertà della Rete, il sistema operativo della Conoscenza umana, il Luogo della memoria e del dialogo interpersonale dei NuoviAbitanti.
Quella gente deve sparire rapidamente, è un intralcio per la civiltà.
Qui sotto il discorso di Juan Carlos De Martin per La Notte della Rete, ripreso da Mantellini via La Stampa.

La rete: il più grande spazio pubblico della storia. Il sogno REALIZZATO della possibilità di poter permettere a tutti di esprimersi facendosi potenzialmente udire da chiunque al mondo. E senza dar fastidio a nessuno, senza megafoni, senza pioggie di volantini, senza coercizioni o intrusioni di sorta.

Semplicemente: Chi vuole parla – chi vuole ascolta.
La rete: il sogno a portata di mano di poter leggere tutti i libri mai scritti, in qualsiasi lingua, non importa quanto minoritaria.
La rete, cioe’, che porta nel 21 secolo – potenziandola – la straordinaria conquista della biblioteca pubblica. La rete che potrebbe far lo stesso per tutta la musica mai composta, le fotografie mai scattate, i film mai fatti, i quadri mai dipinti.
La rete che potrebbe rendere possibili – e in parte già lo fa – nuovi modi di sostenere gli autori, consentendo loro di dedicarsi alla loro arte per il beneficio e la gioia di tutti noi.
La rete che potrebbe presto mettere a disposizione quel grande bene comune che sono i risultati della scienza – mettendo sullo stesso piano la giovane ricercatrice africana e il professore di Harvard.
La rete, straordinaria piattaforma di innovazione, per beneficiare della quale non servono conoscenze o tasche profonde: basta un cervello, un computer e un accesso a internet.
La rete: di certo grande strumento di mobilitazione sociale. Ma anche strumento, se saremo bravi, per infondere sangue nuovo nelle nostre democrazie anche in fase di governo, per ripensare i partiti politici, per dare sostanza al dialogo tra eletti ed elettori sempre, non solo in occasione delle elezioni.
La rete: tutto questo e molto, molto altro ancora.
L’abbiamo costruita noi, tutti noi.
Noi ingegneri nelle Universita – Università che tra l’altro farebbero bene a tornare a interessarsi molto piu’ attivamente del benessere della Rete.
Noi amanti delle soluzioni pratiche e del consenso di massima in IETF e in Internet Society.
Tutti noi che l’abbiamo letteralmente popolata di milioni, miliardi di siti – e di migliaia di applicazioni. Che abbiamo creato insieme la più grande enciclopedia della storia.
Che abbiamo volontariamente creato un commons di decine di migliaia di software liberi e di miliardi di testi, fotografie, slide, video rilasciati con licenza Creative Commons e altre licenze libere.
La rete: tutto questo e molto altro ancora.
L’abbiamo costruita tutti noi.
Non i Governi, che se avessero capito per tempo, ci avrebbero senz’altro bloccato.
Non i grandi poteri economici tradizionali, che se avessero capito per tempo avrebbero provato a comprarci o avrebbero chiesto ai Governi di bloccarci.
Non i poteri mediatici tradizionali, che se avessero capito per tempo avrebbero subito acceso i loro riflettori per attirare l’attenzione di Governi e poteri economici (tranne che in sciagurati paesi come l’Italia dove i tre poteri coincidono).
Non i Governi e certi poteri economici che, una volta che Internet c’era, l’hanno trasformata in una gigantesca macchina di sorveglianza.
L’Internet delle enciclopedie, dell’informazione dal basso, di un nuovo discorso pubblico, della mobilitazione orizzontale, eccetera l’abbiamo costruita tutti noi.
Non loro.
E spesso nonostante loro.
Dobbiamo esserne orgogliosi.
Ora pero’ qualcuno vorrebbero impadronirsi di questo patrimonio collettivo.
Vorrebbe rendere Internet piu’ docile, piu’ controllabile – in economia, in politica, nella cultura.
Non fanno più neanche mistero dei loro obiettivi.
Con l’eG8 di Sarkozy a Parigi sono caduti anche le ultime ipocrisie.
Ce l’hanno detto chiaramente, infatti, quasi con arroganza: vorrebbero rimanere a decidere tra di loro, i big boys dell’economia e della politica (e chi li distingue e’ bravo).
Vorrebbero decidere loro su cio’ che abbiamo costruito noi.
A questo spudorato tentativo di espropriarci dobbiamo rispondere con calma e determinazione: NO.
Non che si possa dire che rifiutiamo il confronto.
O che rifiutiamo la politica.
Anzi: abbiamo spesso cercato sia l’uno sia l’altra.
Ma, nonostante gli sforzi, abbiamo avuto scarsissimo successo.
Si vede che altri interlocutori hanno strumenti di persuasione – come dire? – molto piu’ efficaci dei nostri.
Comunque, la nostra offerta di collaborazione è ancora valida:
uomini del potere tradizionale: deponete la vostra arroganza e ascoltateci.
Ascoltate noi: non solo i grandi amministratori delegati delle aziende di Silicon Valley, che non ci rappresentano.
Ascoltateci senza pregiudizi, senza slogan, senza agende nascoste.
Per affrontare insieme i problemi – che ci sono – e soprattutto per capire insieme come cogliere le straordinarie opportunità di crescita sociale, culturale ed economica rese possibili dalla Rete.
Noi – statene certi – saremo all’altezza.



Giusto per completezza, aggiungo qui il link alla Dichiarazione d’Indipendenza del Cyberspazio di Barlow, 1996. Sono almeno quindici anni che raccontiamo il futuro, quindici anni che lottiamo.

Hashtag, o del passaparolachiave

In un messaggio privato di qualche tempo fa scrivevo

ci starebbe una riflessione accademicosa sulle qualità linguistiche dell’hashtag in quanto “lato visibile” dello tsunami. Un #qualcosa che sappia stare tra l’informativo e il lol, bello comodo da maneggiare per tutti quelli a seguire. Adeguato, circostanziato. Lì c’è il brainstorming, dinanzi al fatto immagino ci sia un’esplosione di possibili hashtag, poi nella dura battaglia della crowdselezione uno s’impone. Se diventa riconoscibile e maneggiabile vuol dire che si è diffuso il codice che lo rende tale, e allora lui può esser segno. Vediamo come funzionerà ilprossimo, roba di giorni credo. 

Lato ricezione, c’è da agganciarsi a nuvole di significato pertinenti, va compreso e memorizzato il richiamo semantico su cui l’hashtag fa leva, variamente espresso nella parola chiave da utilizzare su Twitter.
Più informativo di tanto non può essere, è una parola sola o due tre unite, spesso sono i nomi dei luoghi dove sta avvenendo qualcosa (e sappiamo possono essere immaginari) oppure il nome del personaggio protagonista, parole che con il cancelletto davanti # diventano il nome dell’accadimento appunto diversamente connotativo, nonché strumento stesso della ricerca di informazioni sull’accadimento-degno-di-menzione sul web, nei flussi in tempo reale di Google o di Twitter stesso.
In questi giorni ci sono gli episodi del NoTAV in Piemonte Val di Susa, e un hashtag dell’evento è #saldi, esplicitamente ricavato da nervi saldi, ma a me vengono in mente anche i saldi dei negozi che partono più o meno ora, e la locuzione “siamo ai saldi” su area semantica “saldare il conto” quindi indicazione di temporalità per le ultime fasi di un contratto o situazione, e se vogliamo ci sarebbe anche il “saldare” con la fiamma ossidrica, unire metalli in modo fermo, e torniamo ai nervi.
Coloriture di significato che allertiamo nell’interpretare e maneggiare l’hashtag, e su di lui si riverberano.

Lato produzione è tutto da ridere. L’hashtag è l’emergere spontaneo (ma non nel senso di inconsapevole o ignaro di sé, anzi) della parola adeguata, attraverso un filtro fatto di magari decine di migliaia di twit, di persone che lo hanno visto e riutilizzato nel partecipare alla comunicazione complessiva di quell’atto o evento da tenere sotto occhio mediatico. Immagino per ogni accadimento la nascita spontanea di molti hashtag diversi, poi dal loro stesso girovagare per le reti sociali (di maggior o minor influenza) vengono abrasi o levigati come ciottoli di fiume, e avviene la selezione verso uno o due hashtag “ufficiali” dell’evento.
Tra l’altro, già cominciamo a assistere a hashtag progettati a tavolino, prima dell’evento, a esempio nei team professionali delle web agency che si dovranno dedicate alla copertura mediatica.
Quello sgorgare immediato, o talvolta elaborato e ponderato, di una parola-chiave nelle testa e sulla tastiera di un singolo già molte volte è accaduto nei brainstorming delle redazioni che devono curare il flusso in uscita, o reinoltrare aggregando l’informazione emergente dalle genti connesse.
Bullarsi simpaticamente dell’onore di aver creato e diffuso un trending topics di Twitter rivela una realtà mentale già ora presente nei professionisti della comunicazione anche italiani, orientata a scoprire congetturando i modi per bucare il muro grigio dell’informazione indifferenziata che ci scorre davanti, per guadagnarsi visibilità e diffusione, per guadagnare la nostra attenzione.
Certo, i fattoidi ora possono dilagare. Come mostravano certe avanguardie artistiche, creare la comunicazione di un evento è già costruire l’evento, al punto che quest’ultimo può anche non aver luogo. E se l’evento ha luogo, non è un fatto, è un fattoide, come una partita di calcio trasmessa in tv, di quelle nate solo per la tv, e se non vi fosse la copertura mediatica loro non esisterebbero, non avrebbero luogo. Fisico.
Perché se l’evento è a sua volta mediatico, fatto di bit, una rapresentazione, può essere traquillamente una menzogna, progettata e consapevole. Però ripresa e reinoltrata da decine di migliaia di persone, che diventa trending topic, che giunge fino ai media tradizionali (il che non è garanzia di qualità o significatività, perché dipende a sua volta da altre agende e punti di vista, e cose di cui parlano milioni di persone in Rete possono venire completamente ignorate da un TG nazionale).
E sono cose che nascono dalla Rete, sia nello sgorgare di un hashtag da una singola persona, sia come etichetta situazionale più o meno ponderata da appiccicare a tutto un flusso livestreaming.
E progettare spreadability di un hashtag è buona scommessa, visto che poi può accadere di tutto a quel segno, una volta immesso nei flussi vorticosi di una comunicazione rapida, nei torrenti delle segnalazioni spontanee, nei passaparola.

Noi in Rete non siamo più solo redattori, possiamo come caporedattori mettere i titoli delle notizie, dare a un evento il suo nome e vederne la propagazione istantanea nel Web, di bocca in bocca, o meglio di becco in becco trattandosi di cinguettii.
Anche qui, di nuovo: sbaglio a suggerire una dimensione gerarchica, una scala di importanza tra semplice twittare e twittare qualcosa con un hashtag, o inventare proprio l’hashtag. Si tratta semplicemente di possibilità che il sistema mi offre, potenzialità tecniche offerte indifferentemente a tutti noi, come connaturate e native degli strumenti di trattamento dell’informazione di cui dispongo. Così ridisegnamo il senso degli accadimenti, parlandone con altri.

Odifreddi anagrammato (beyond logic, human beings)

Come dicevo qua e là, ieri ero a Milano. Piergiorgio Odifreddi ha pubblicato un libro per Mondadori, Mondadori ha chiesto a Mafe e Gallizio di organizzare una presentazione pubblica, Mafe e Gallizio hanno invitato una ventina di persone per far domande a Odifreddi, e lì in mezzo, in una sala underground di un albergone di Milano proprio dietro il Duomo, c’ero anch’io.

Il libro di Odifreddi si chiama “Caro Papa, ti scrivo”, gli avevo dato una letta veloce, praticamente Odifreddi riprende degli scritti di Ratzinger di quarantanni fa e anche più recenti, e ribatte punto su punto a tutte le posizioni filosofiche e teologiche là argomentate contrapponendo la propria visione scientifica, le contraddizioni logiche, utilizzando le stesse parole del Papa per mostrare l’assurdità del credere. Questioni filosofiche e teologiche piuttosto approfondite, si scorazza avanti e indietro nei secoli partendo da Pitagora e arrivando all’epistemologia contemporanea, passando per un mucchio di logici medievali, cose di cui parlerei anch’io volentieri con Odifreddi, personcina a modo, spiritosa e chiacchierina, a tuppertù.
Ma molti di quei tipi presenti lì per fare le domande, economisti fisici markettari matematici letterati scienziati e anche uno toh cattolico si sono messi a fare le domande proprio sui contenuti del libro, l’incontro si è trasformato rapidamente in un match filosofico con citazioni e sottili distinguo, esplicitazioni e svisceramenti con Pietro Abelardo e Paul Feyerabend e altri venti pensatori degli ultimi mille anni gettati nella mischia, tutti a misurarselo con Odifreddi per vedere chi ce l’aveva più lungo, lo sguardo, e più larga, la comprensione.
Credo lo stesso Odifreddi si sia rotto le scatole a un certo punto, e abbia cominciato a rispondere un po’ trollando un po’ schivando i contenuti, perché un’ovvia lettura situazionale avrebbe dovuto subito rendere chiaro che il vero contenuto dell’incontro non era quello di imbastire un certamen logico-filosofico sui presupposti scientifici del Vangelo e sulla scientificità della fede religiosa, quanto quello di inquadrare il significato storico attuale di una pubblicazione di un pensatore dichiaratamente ateo che in una sorta di lettera aperta argomentata si contrappone al Papa reazionario e furbetto che oggi siede sul soglio pontificio, incastrandolo anche con fatti di cronaca recenti tipo quello dei casi di pedopornografia negli Stati Uniti.
In un mondo mediatico, in una situazione mediatica (tutto in streaming e #caropapa) progettata e realizzata per fare tamtam mediatico all’oggetto mediatico “Libro di Odifreddi contro il Papa”, il giorno stesso in cui i giornali raccontano come il Papa abbia inaugurato il suo Twitter personale utilizzando un iPad, la FORMA della situazione (il piano dell’espressione, sì) era il vero CONTENUTO di cui bisognava trattare.
Io ci avevo anche provato, durante il giro di tavolo di presentazioni iniziali, a chedergli questa cosa di Twitter, e lui mi ha prevedibilmente risposto dicendo che da sempre la Chiesa usa i massmedia (un conto è però un’enciclica, un conto sono i 140 caratteri di Twitter, gli avrei detto dopo). Bisognava parlare del suo parlare.
Verso la fine il discorso è andato a finire proprio sullo stile con cui negli ultimi anni Odifreddi abita dentro i massmedia, ospite dei talkshow a argomento similreligioso, e sono per fortuna arrivate alcune gustose descrizioni di cose che gli sono successe mentre era ospite da Vespa o da Augias in televisione, coloriture di contesto che hanno contribuito a chiarire (molto più di una disquisizione sulla natura ontologica della transustanziazione dell’Ostia, di cui si dibatte da 1800 anni senza risultato, fondamentalmente perché what cannot be told, must be silent, e la metafisica è cosa futile quindi squisitamente umana) la situazione attuale in italia di una conversazione pubblica riguardante la Chiesa e la religione – volevano censurare una sua battuta a rai3, per dire.
Questo era quello di cui si sarebbe dovuto parlare, imfho, il discorso attuale dell’ateismo e dell’agnosticismo nella realtà sociale italiana e internazionale, la politica della comunicazione della Chiesa, l’opportunità e il destino di una pubblicazione odifreddiana nuovamente e apertamente in contraddizione e nemica della visione cattolica.
Nel corso di quell’incontro dove tutti cercavano di essere logicamente intelligenti, spiritualmente argomentativi, mi ha fatto piacere che Odifreddi stesso abbia accennato al delirio psicopatologico, o al pensiero innescato da droghe psichedeliche, per mostrare come i valori di verità e di realtà del discorso umano scientifico e religioso siano semplicemente (parole mie) piani di narrazione e di autonarrazione, grammatiche storiche e storicizzate, e consapevolezza per lo meno da parte del discorso scientifico del valore ipotetico delle asserzioni, come buona epistemologia ci insegna, come la storia stessa del pensiero umano ci mostra.
E volendo uscire dalla pretesa verità di un discorso logico, quello stesso sottile e capzioso argomentare logicofilosoficoteologico di qualcuno sciocchino lì presente, alla fine mi sono affidato all’arte combinatoria degli anagrammi che tanto mi piace, per la sua capacità di costruire senso laddove nessuno pensa ve ne possa essere, per mostrare una volta di più l’arroganza di chi secoli dopo Cartesio sta ancora a perdere tempo con la metafisica classica (mentre vedo in Odifreddi un pensatore quattrocentesco, per la fiducia nell’Uomo e nella Natura e nella Ragione da indagare partecipando e vivendo, in sintonia, oltre le obsolete posizioni di volontà e logica sempre riconducibili a un Io fondamentalmente mal posto, di sé e della situazione inconsapevole, come quelli che facevano domande intelligentemente stupide).
Allora ho anagrammato “Piergiorgio Odifreddi”, e gli ho letto pubblicamente questa poesiola, che poi gli ho regalato con dedica.
Dio freddo, pigio rigore,
derido frigido ripiego.
Frigido Iddio porgerei, 
Iddio oggidì preferirò.
Chissà cosa significa. Però mi fa pensare, mi piace. La favola parla di lui, dalla favola veniamo narrati.
ps: grazie di cuore a Mafe e Gallizio che mi hanno ospitato a Milano, ho rubato connessioni e albicocche dal frigo, mi son lavato i denti con un dentifricio Paperino’s dal sapore improbabile e poi me ne hanno dato uno dal sapore orribile macrobiotico biologico, vino bbuono. Ma preferisco stare in strada al fresco a bere birra al tramonto con amici, Gallizio, che stare al chiuso nel caldone a sudare bevendo vino squisito :)

AGCom, Calabrò, la censura in Rete, la feccia

Quante volte ne ho scritto, di censura sul web? Ne abbiamo scritto, in tanti. Di Cassinelli e di D’Alia, della Carlucci anni fa, del wifi libero, di Mediaset e Youtube, dei blogger processati negli ultimi anni. Abbiamo firmato petizioni, promosso campagne mediatiche per informare e far conoscere le manovre oscure di chi teme la Rete e la sua libertà di espressione, oppure più banalmente deve proteggere imperi televisivi e business pluridecennali.
Gestione del potere, lotte, schifezze di uomini e donne al governo e nei posti chiave dell’economia italiana, feccia umana. 
Dice giustamente Nicotra di AgoràDigitale che avevamo sbagliato obiettivo, o meglio che avevamo sottovalutato il nemico, identificandolo con poche teste, mentre qui è da comprendere rapidamente come tutto il sistema sia marcio. “Non è così. Dobbiamo dirlo altrimenti non si capisce perche’ stiamo urlando ai bari. Non c’era nessuna partita. L’intera Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni è un enorme imbroglio, un gioco di prestigio del potere.” 

Un’authority come AGCom che emette un provvedimento “di frontiera”, come lo ha definito Calabrò stesso, che arriva a normare e normalizzare pesantemente i comportamenti  di noi cittadini digitali, forse anche al di là di quanto le è concesso fare, senza precedenti in Europa, in modo stolto e punitivo, senza aver nemmeno idea della quantità di procedimenti (segnalazioni, ingiunzioni di rimozione dei contenuti pubblicati in Rete, blocco degli IP sia su siti italiani sia esteri), ben oltre il decreto Romani del 2005, ben oltre le varie leggi-bavaglio di questi anni. Gente arrogante, ominicchi, feccia: “… la partita era ben più grande, di un livello che tocca invece quell’enorme conflitto di interesse del nostro Presidente del Consiglio e proprietario di Mediaset e tutti i suoi (ex?) dipendenti all’interno del Ministero dello Sviluppo Economico e nell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni. O cominciamo a dire che è questa la partita o non ci capirete, non capirete perchè ci agitiamo e sbraitiamo.” (sempre Nicotra). 



Alcune fonti per approfondire (via AgoràDigitale):

Un dinosauro moribondo, ecco chi abbiamo davanti, e dobbiamo fronteggiare gli ultimi disperati colpi di coda.  La notizia non circolerà molto su tv e giornali, figuriamoci. Ci sono anche altre emergenze (la battaglia NOTAV in Val di Susa, i rifiuti di Napoli) che bucano molto di più la sfera mediatica italiana, eppure qui ne va di mezzo la libertà di espressione di noi tutti, il poter parlare e informare delle cose che succedono. Entro il 6 luglio vedremo alzarsi la solita cortina fumogena, esploderanno dichiarazioni e accadimenti congegnati a arte per distogliere l’attenzione da questo provvedimento dell’AGCom, che mina alla base il nostro stesso poter raccontare.
Giorni di tam tam ci aspettano, e saranno tamburi di guerra.

Cosa prevede la delibera [Tratto dalla sintesi di www.valigiablu.it
Secondo la delibera AGCOM, se il titolare dei diritti di un contenuto audiovisivo dovesse riscontrare una violazione di copyright su un qualunque sito (senza distinzione tra portali, banche dati, siti privati, blog, a scopo di lucro o meno) può chiederne la rimozione al gestore. Che, «se la richiesta apparisse fondata», avrebbe 48 ore di tempo dalla ricezione per adempiere. CINQUE GIORNI PER IL CONTRADDITTORIO. Se ciò non dovesse avvenire, il richiedente potrebbe, secondo la delibera ancora in bozza, rivolgersi all’Authority che «effettuerebbe una breve verifica in contraddittorio con le parti da concludere entro cinque giorni», comunicandone l’avvio al gestore del sito o del servizio di hosting. E in caso di esito negativo, l’Agcom potrebbe disporre la rimozione dei contenuti. Per i siti esteri, «in casi estremi e previo contraddittorio», è prevista «l’inibizione del nome del sito web», prosegue l’allegato B della delibera, «ovvero dell’indirizzo Ip, analogamente a quanto già avviene per i casi di offerta, attraverso la rete telematica, di giochi, lotterie, scommesse o concorsi in assenza di autorizzazione, o ancora per i casi di pedopornografia».

Strategie fatali

Quel che una donna non vi perdonerà mai d’altronde non è di non amarla (con l’amore o col sesso, ci si mette sempre d’accordo), è di non averla sedotta, o di non avervi mai sedotto. Solo questo è inespiabile, e nonostante l’amore o la tenerezza che le date finirà sempre per vendicarsene crudelmente. Non avendovi potuto sedurre, cercherà di annientarvi. I peccati di sesso o d’amore si possono assolvere tutti, perché non sono un’offesa. Solo la seduzione colpisce nel vivo dell’anima, che non ha pace se non nell’assassinio. 
Di qui proviene quel che chiamiamo lo scaltro genio della passione. Nel cuore dei movimenti più appassionati, più belli e disperati, c’è questo genio scaltro che veglia per prendere l’altro in trappola. Stessa tentazione diabolica, nel momento più sincero e più travolgente dell’amore, di scongiurarlo ironicamente con un atto perverso. 
C’è qualcosa di più forte della passione: l’illusione. Più forte del sesso o della felicità: la passione dell’illusione. Sedurre. sempre sedurre. Sventare la potenza erotica con la potenza imperiosa del gioco e dello stratagemma – perfino nella vertigine disporre nelle trappole, e al settimo cielo conservare ancora la padronanza delle vie ironiche dell’inferno -, tale è la seduzione, tale è la forma dell’illusione, tale è lo scaltro genio della passione.
Jean Baudrillard, Le strategie fatali

Facebook per genitori

Consiglio vivamente la lettura dell’ebook di Giovanni Boccia Altieri “Facebook per genitori”, pubblicato da 40K

[http://www.bookrepublic.it/book/9788865860649-facebook-per-genitori/ ] Riporto qui di seguito l’appendice del libro, sintesi sul tema in discussione, che condivido pienamente.

15 CONSIGLI PRATICI di Giovanni Boccia Altieri

FATTI UN’IDEA

1. Accetta il fatto che la presenza dei giovani sui social network è un fenomeno culturale destinato a durare e a espandersi;

2. Ragiona sulla necessità di capire che la presenza online dei nostri figli sta sviluppando un modo diverso di comunicare tra ragazzi e adulti (genitori, insegnanti, educatori, allenatori, ecc.);

3. Tieni conto che non esistono nativi digitali, solo adulti e ragazzi che imparano o non imparano ad abitare la Rete;

4. Ricorda che la vita in Rete non è qualcosa di diverso dalla vita di tutti i giorni, ma ne è parte importante;

5. In Rete ci sono dei pericoli. Nella vita quotidiana ci sono dei pericoli. Come genitori dobbiamo insegnare ai nostri figli come abitare il mondo offline e online e impararlo noi per primi;

6. Riconosci che imparare a stare su Facebook per i ragazzi significa trovare un giusto equilibrio tra tutela della privacy e voglia di esporsi in pubblic;

COSA DEVI FARE

7. Se un figlio adolescente decide di aprire un profilo su Facebook discuti con lui/lei le motivazioni che lo portano ad aprirlo e le possibili conseguenze;

8. Per capire cosa fa tuo figlio in Rete devi starci anche tu: trova i tuoi luoghi di esperienza;

9. Non chiedere l’amicizia online a tuo figlio. Se proprio vuoi farlo concordalo prima;

10. Stare in Rete è un’esperienza che riguarda la vita del singolo. Ma trova dei momenti per condividerla con i tuoi figli: naviga qualche volta insieme a loro;

11. Nelle conversazioni quotidiane parla di quello che succede su Facebook e in Rete a te e tuo figlio: fai in modo che diventi un’abitudine non un’eccezione;

12. Ascolta i racconti che quotidiani e televisione fanno dei ragazzi su Facebook ma considera anche il punto di vista di chi quegli ambienti li abita: commentali con i tuoi figli o con persone più esperte;

13. Quando giudichi il comportamento di un adolescente online tieni conto che ti trovi in un contesto diverso che ha le sue regole formali e informali. Per giudicare bene prova a conoscerle;

14. Quando scopri su Facebook qualcosa di tuo figlio che non ti piace (una foto particolare, un commento sopra le righe, un aggiornamento di status maleducato) prima di giudicare chiedi: meglio fare domande anche scomode che darsi risposte da soli;

15. Il più potente meccanismo che abbiamo per rendere sicuro lo stare in Rete dei nostri figli è lasciare che imparino loro stessi a prendersi cura della loro sicurezza

(da una nota di Agostino Quadrino su Facebook)

Io sul web. Curation e Reputazione.

E’ un po’ che parlo di Curation e Reputazione.
E se il flow-chart della Curation è costituito da ascolto-aggregazione-selezione-reimpaginazione-ripubblicazione-feedback, tenere monitorata la propria Reputazione (o quella del proprio brand) è certamente una di quelle azioni da incorporare nella Curation del proprio webabitare.
Ora c’è anche Google, il servizio si chiama “Io sul Web” e lo trovate nella vostra dashboard: semplicemente vi arriveranno nella mail le social mention riferito al vostro nome. Non potevo non dirlo, capirete. Parlerò di queste cosette ancora un po’, per via della mia passione per i momenti aurorali, poi passerò a altro, ché mi stufo presto.
Ma molti ne stanno parlando.
L’argomento “Reputation” è ricco, variopinto, innesca riflessioni pluridisciplinari, è già parola chiave dei professionisti che gestiscono la visibilità e la conversazione delle aziende. 
I SEO non vi vendono più soltanto il posizionamento sui motori di ricerca, non vi tontonano più soltanto sulla spreadability viraleggiante dei vostri contenuti pubblicati, ora la mission è progettare costruire e gestire la reputazione del brand.
Uso i miei strumenti di Curation per restare sintonizzato sulla Reputazione: qui trovate lo Scoop tutto dedicato e ben impaginato, qui uno Storify relativo al tema più ampio dell’essere Netizen oggidì, dove ovviamente segnalazioni sulla Reputation non mancano, essendo il valore di quest’ultima legatissimo alla qualità del nostro essere Cittadini digitali.
Su Curated ho un bundle nuovo dedicato all’identità, sempre robe che si intrecciano alla reputazione.
Oltre a Scoop, Storify e Curated, di cui già parlavo su Apogeonline aprile scorso, ora mi trovo anche per le mani due nuovi strumenti di Curation: Bundlr e Shareist. Il primo mi sembra più un reimpaginatore elegante, mentre il secondo è decisamente più complesso e articolato, permettendo di maneggiare i flussi e arredare spzi web con maggior raffinatezza.
Chiaramente, gestirli tutti sta diventando un casino: per lo stesso argomento, a esempio Reputazione, o creo lo stesso bundle su tutti i servizi di Curation fin qui elencati (e non starei nemmeno molto a tenerli tutti aggiornati con quelle news pertinenti al tema in cui mi imbatto, è sufficiente cliccare quei quattro cinque bookmarklet), o uso ciascun servizio per argomenti diversi (ma perché?), oppure qua tra poco s’imporra la scelta definitiva, già lo so.
Incollo qua sotto il widget di Scoop sulla Reputazione, giusto per.

Inter-nos

Internet è la rete delle reti. La rete che connette le reti. 
Ma sono anni che lo diciamo, la rete degli umani viene prima, è che la tecnologia ha costruito buone connessioni, dato visibilità, reso efficiente lo scambio interpersonale, fatto emergere le relazioni, al punto che ora ci abitiamo, qua dentro.
Quindi d’ora in poi io questa cosa qui la chiamo inter-nos, quel “tra di noi” è l’essenza della Rete.
La Rete siamo noi, io sono rete.

Jannis al convegno AIF

Venerdì 10 giugno vado a Bologna, mi han chiamato a parlare alla 10° Giornata nazionale dell’Associazione Italiana Formatori AIF, qui trovate le opportune indicazioni e il programma del convegno.
Parlerò di Cultura digitale, delle metafore su cui potrebbe essere vantaggioso costruire le narrazioni mediatiche del cambiamento tecnosociale, degli scenari che si stanno delineando riguardo le caratteristiche social della Società della Conoscenza. Poi vi racconto.

T’è piaciuto?

Dopo il quadrato attanziale costruito sul nostro stile d’influenza (e quindi di riflesso una misurazione della nostra reputazione, Klout), va tenuto presente questo ambo estratto da Google, con il +1 plasuàn e PageRank, in pochi giorni.
Ne parla il Tagliablog, dicendo

penso che, a parità dei tradizionali fattori SEO (on-page e off-page), un contenuto che riceve qualche Like, Retweet e/o +1 si possa posizionare meglio sul motore rispetto al contenuto che riceve “solo” dei link. E penso anche che l’acquisizione di PostRank accrescerà ulteriormente il valore e il peso che Google imputerà alle varie interazioni sociali.

e sottolineando il termine engagement usato nella comunicazione. 
Qui il sito di PageRank: si riferiscono esplicitamente all’attenzione che riceviamo dagli altri, noi e i contenuti che produciamo/spammiamo 

then because it’s interesting, inspiring, or controversial, they get “hooked” and decide to take further action 

e questo restare agganciati è quello che intendono per engagement, innescare azioni, eventi, conversazione.
Nelle cerchie sociali (vorrei integrare quelle di Google con altri social) avvengono sostanzialmente i soliti fenomeni di gruppo, scissioni attacco-fuga, a cui la potenza dei social forse aggiunge spazi di comunicazione laterale: ci sono diversi social a far circostanza, diversi ambienti e strumenti, ruoli attoriali e partecipazione fluida a sottogruppi di appartenenza.

Ma mi sembra un approccio adolescenziale.
Gruppo dei pari, stili di personalità mutuati da altri, gestione potere e leadership, necessità di porre/individuare un limite per posizionarsi esistenzialisticamente rispetto a esso, “sono un ribelle mamma”.
Quale sintomo, guardate la diffusione dei tormentoni, le parole di moda per tre mesi, lo stile degli opinion leader.
E quello che troveremo (anche senza cercarlo, sì) su Google risentirà di quello che chi conosciamo ritiene meritevole di condivisione. Spinta al conservatorismo delle opinioni, se assomigliano a luoghi comuni e l’odioso buon senso.
D’altronde, è necessario. Fase necessaria.
Forme della socialità.

Tecnologie educative, teorie e teorie

Un riflessione di PierCesare Rivoltella, su ilSussidiario.net, riguardo l’annosa questione dei nativi digitali. Anzi, riguardo la retorica con cui questo argomento viene affrontato, e le narrazioni a cui dà luogo.

Il racconto di chi, entusiasta, pensa che i “nativi” abbiano una marcia in più, è un racconto di emancipazione. Questo racconto recita: “I giovani, grazie ai nuovi media, sono diversi. Il mondo degli adulti – la scuola in primis – è in ritardo rispetto a loro. Occorre cambiare tutto per intercettare il nuovo”. Al contrario, il racconto di chi, scettico, pensa che i “nativi” non sappiano più dove sta di casa la cultura, è un racconto di conservazione. Questo racconto recita: “I giovani, per colpa dei nuovi media, sono diversi. Il mondo degli adulti – la scuola in primis – detiene ancora per fortuna i contenuti e i valori che loro stanno perdendo. Occorre difenderli per neutralizzare il nuovo”.