Archivi autore: Giorgio Jannis

Falliti incontri

(fonte: Scorfano)

Falliti incontri

Oggi finisco in aula magna, con la mia classe prima, a sentire una «lezione» su un argomento del tutto marginale rispetto al nostro curriculum scolastico, ma che dovrebbe avere molto a che fare con la loro (e forse anche mia) coscienza civica, ambientale, ecologica e cose del genere. Finisco quindi in aula magna a sentire un signore che ci parlerà di una di queste cose e, di buon umore, mi siedo vicino ai miei primini, per evitare che parlino troppo e si facciano notare da quel signore coscienzioso.
Il signore comincia quasi subito a parlare. Ma parla poco, e fa invece passare sul megaschermo un video che sta su YouTube e che dovrebbe subito illuminarci sulla sua teoria; solo che lui non è capace ad alzare il volume del video su YouTube e quindi noi non sentiamo quasi niente, e i ragazzi cominciano a ridere un sacco, finché qualcuno dalle prime file si alza e va sul palco e prende in mano il mouse e alza il volume del video su YouTube, e sono intanto passati 3 minuti e mezzo in cui il video è stato incomprensibile. Poi il signore mette su un altro video, di nuovo preso da YouTube. Ma è un video in danese, lingua a noi tutti ignota. Lui se ne rende conto, e infatti dice al microfono: «Strano, ieri c’erano i sottotitoli…» Io penso che boh, saranno scappati i sottotitoli, nel frattempo.
Poi, ed è passata quasi mezza lezione (ma no, non si chiamano «lezioni», si chiamano «incontri»: che non vi venga mai in mente di chiamarli «lezioni», che poi la gente – tipo quel signore lì – si offende, chissà perché: forse perché le «lezioni» sono molto noiose e le fanno solo quelli un po’ sfigati, come me; gli «incontri» invece li fanno quelli brillanti, come lui, con i video presi da YouTube); ma insomma, quando già siamo quasi a mezza lezione, il signore che tiene l’«incontro» mette su il terzo video, preso da YouTube, che si vede e si sente bene (anche se noi capiamo subito che lui non sa usare la funzione «schermo pieno»), ed è pure in italiano, per miracolo, solo che nel frattempo a lui squilla il cellulare (suoneria molto invadente, com’è ovvio) e lui allora, sul palco, mentre il video di YouTube procede per suo conto a schermo ridotto, lui risponde a un messaggio che gli è arrivato, davanti a tutti noi, picchiettando sulla tastiera del suo cellulare.
Io taccio. O almeno ci provo. Perché a un certo punto, Paoletta, che è una delle ragazze più sveglie della classe (e che ha pure preso 6 nell’ultima verifica di latino, ma ancora non lo sa) e che è anche proprio giovane, perché ha fatto la cosiddetta «primina», qualche anno fa, e dunque ha compiuto i 14 anni da meno di due settimane, Paoletta mi guarda e mi dice: «Ma prof, questo signore si rende conto che la sua lezione è stata un fallimento?» (E usa proprio queste due parole, «lezione» e «fallimento», che fanno un po’ impressione, soprattutto la seconda, su una faccia giovane e pulita come la sua). Io non rispondo. Le faccio solo il gesto di stare attenta, e zitta, e di guardare i video.
Ma Paoletta, dopo qualche minuto, mentre gli altri ragazzi fanno casino e applaudono a qualunque frase che il signore, dal palco, sta dicendo, Paoletta mi dice: «Ma prof, questo signore si rende conto che tutti lo stanno prendendo in giro?» (e non usa esattamente l’espressione «prendere in giro» perché, per quanto giovani e innocenti, sono ragazzi che sanno usare la lingua italiana con grande icasticità, quando vogliono: e quindi usa la parola «culo», come vi siete ben immaginati). E io non le dico niente, nemmeno questa volta; ma le faccio di nuovo cenno, imperiosamente, di stare attenta.
Ma dovrei dirle che no, non se ne rende conto. Non si rende conto, questo signore, del suo fallimento e nemmeno del fatto che i ragazzi lo stanno (e pure giustamente, sia chiaro) prendendo per il in giro. E non ce ne rendiamo conto noi che, da anni, lasciamo che venga questa gente, nelle nostre scuole, e che magari la paghiamo anche, questa gente che organizza gli «incontri», che non sono lezioni e che non servono mai a niente e a nessuno, se non a far perdere a tutti noi un po’ di tempo, come se ne avessimo, di tempo da buttare. Ma noi lo buttiamo, come buttiamo soldi ed energie, in tutte queste cose inutili. Poi l’ora finisce e noi torniamo a casa e quel signore non ha nemmeno capito che la sua lezione è stata un fallimento, misero e ridicolo; e non sa alzare il volume dei video di YouTube e nemmeno gli importa di saperlo, probabilmente. Ma immagino che sia in grado di offendersi se io chiamassi «lezione», e non «incontro», questa cosa che è venuto a fare oggi nella nostra scuola. Questa cosa patetica e ridicola, per cui mi è onestamente molto difficile trovare un nome; talmente ridicola che anche una ragazzina di quattordici anni appena compiuti si è fermata e, un po’ stupita, ha forse provato un po’ di pena per quel signore e per il suo (e nostro) fallimento.

Post di servizietto

L’Agenzia per la diffusione delle tecnologie dell’innovazione ha pubblicato (link diretto) il resoconto, a cura di Pierluca Santoro, dell’evento Innovatori Jam, tenutosi lo scorso settembre: ne parlavo qui su NuoviAbitanti.

In quell’occasione svolgevo il compito di facilitatore nei forum dedicati all’e-tourism, provando a bilanciare ragionamenti che andavano dalle cartografie digitali ai possibili emergenti format digitali di narrazione territoriale, con cui arredare le mappe oppure provvedere autonomi “percorsi di senso” dell’abitare un territorio, quando oggidì possiamo noi stessi “scriverci” sopra, raccontandolo.

Il Report rappresenta la sintesi dei contributi di coloro che hanno partecipato ai 10 focus del Jam, e mi fa piacere segnalare come la discussione appena descritta sia stata messa in rilievo, a testimoniare la buona qualità degli apporti.

Nel frattempo vado in giro a raccontare cose di web a insegnanti e studenti: a Pordenone, domani 24 febbraio alle 17.30, presso l’ex convento di San Francesco.

Web e noia

La pubblicità è l’anima del commercio. Una volta. E’ cambiata la pubblicità, il commercio, e anche l’anima.
“Sì, ma la gente dovrà ben conoscermi, no?” dice il commerciante. Certo, ma se tu spammi pesantemente sciocchezze e t’inventi mille trucchi oh così smart oh così virali oh così duepuntozero, una parte di quelli che non ti conoscevano non verrà a trovarti, e quelli che già ti conoscono dicono uffa. Smettila di pensare alla quantità, in un luogo dove cerchiamo di costruire qualità. Smettila di pensare dentro il Novecento, suvvia.
Perché tu sei già qui, la gente ti trova, e se ti vengono a cercare è perché sono interessati. Il mazzetto buono, quelli che poi parleranno bene di te. 
Su, dài, impegnamoci tutti, ché questa internet qui sta diventando pallosa.

Sgranare l’interpersonale

In un liceo, un diciassettenne mi ha detto la frase quella là.
– Ma, guru (seh), sarà ben meglio alla fine incontrarsi al bar?

Stavo parlando di chat, di FB, di bacheche social da Myspace in qua con gente che cinque anni fa era in seconda media. Tutto questa velocità d’innovazione del web di cui noi qui dentro da anni (liberateci) parliamo, il fatto che FB e Youtube siano roba del 2005, vive in una dimensione prospettica radicalmente diversa dentro le menti dei fanciulli. Che ci son cresciuti dentro, conoscono FB e gironzolano un po’ qua e là in internet, si scocciano forse. Immagino siano esistite persone che hanno sempre guardato le automobili con un po’ di meraviglia, per tutta la loro vita, essendo nati e cresciuti in un mondo senza automobili.

E forse io guardo ancora con meraviglia cose che accadono qua dentro, robe di socialità o dispositivi che permettono di accedere meglio alla conoscenza depositata o a quella che insieme stiamo ora tutti costruendo.
Magari per loro tutto è dato. Ci son cresciuti dentro, la Rete c’è. E’ lì da quando sono nati, a metà Novanta. Millennials.
– Certo che alla fine è meglio incontrarsi in un bar – gli ho detto a quel tipo. Si arriva sempre lì, e la Rete ha permesso incontri tra persone. Forse l’errore è pensare che UNA chat, UNA serie di commenti su un social sia  la novità, l’evento puntuale dentro cui tutta la novità dei new media si sprigiona. Mentre bisogna anche pensare un po’ lungo, nel tempo. Fino a ieri potevo solo telefonare a una persona a casa, o scriverle una lettera (tutto un universo) o incontrarla, per avere esperienza di lei. Adesso mi arriva un twit, vedo un suo status, chatto con lei, le mando una mail a cui mi risponde subito, un sms e poi un altro. Dopo un anno, son successe cose. Centinaia, migliaia di cose. E la mia conoscenza di quella persona è ora sostenuta da questa nuvola fitta di scambi interpersonali, che non può non contribuire a edificare la mia idea di lei. Sfaccettature.
Non subito, ma dopo mesi, anni, cosa succede?

Ansia da conversazione

Cosa ho fatto in questi matti mesi invernali? Incredibile, ho anche lavorato. Ho scritto degli articoli, tenuto dei seminari per gente della Pubblica Amministrazione, partecipato a un paio di convegni, ho perfino fatto un po’ di formazione in azienda (una farmaceutica a Firenze, toh). Gli argomenti erano sempre quelli, socialmedia e comunicazione istituzionale.

Si raccontano le novità e le peculiarità dell’ambiente web, si prova a descrivere quale potrebbe essere la miglior postura comunicativa per un’organizzazione lavorativa, si imbastisce un discorsetto sulla progettazione della comunicazione avendo a mente l’adeguatezza tra messaggio e contesto, tra colonizzare gli spazi sociali in Rete o piuttosto riuscire a innescare spinte partecipative nelle community di riferimento, sapendo ascoltare e sapendo tessere conversazione.

“Bisogna progettare esperienze per una community, non messaggi per un target”, dice Mafe de Baggis nel suo ottimo libro World Wide We. E solo aprire questa frase, spiegarla nelle sue implicazioni, significa riposizionare oggetti nella mente degli ascoltatori, rivedere quarant’anni di stile comunicativo pubblicitario classico, quello dei media lineari, significa lottare contro abitudini e schemi interpretativi depositati profondamente dentro di noi, che siamo fatti di libri e di televisione. Ci son cose che vanno riconfigurate, e si tratta di atteggiamenti e comportamenti, visioni del mondo.

Sei un’azienda e arrivi sui social, e la tua mentalità è “voglio raggiungere almeno due milioni di visite al mio canale youtube”, oppure “devo promuovere una campagna su Facebook, reclamizzare” stai usando male i nuovi linguaggi e i nuovi ambienti. Puoi farlo, certo, ma i destinatari non sono quelli televisivi, sprofondati in poltrona e passivi: in Rete le persone ci stanno perché possono parlare e esprimersi, e subito potrebbero giudicare male il tuo aziendale voler proporre messaggi senza cercare un coinvolgimento, nella conversazione.

Che poi, appunto, è conversazione. Non c’è un Io che parla, c’è sempre anche un Tu che ascolta. Ovvero, la conversazione è un Noi dentro una situazione, nel tempo, nel dialogo.

E se internet è nata quando siamo scesi dagli alberi (Gibson, vedi da Granieri), mi vien da pensare che una scimmia protoumana abbia da qualche parte messo un like, le comunità sono venute a saperlo e poi tutti ci siam messi a camminare su due zampe nella savana.

Così, per una Storia della conversazione. Balletti attoriali nelle circostanze di enunciazione.C’è la memoria, il ritmo, il tono e la stilistica. Tutto multimediale, oggi, con facilità, per tutti. Creare belle storie, cornici di storie, contenitori di storie, e puntare alla qualità nell’abitare la propria nicchia ecologica su Web. Non importano i cinque milioni di contatti, conta la meraviglia di trovare soluzioni inaspettate e out-of-the-box grazie a una community partecipante, alto coinvolgimento, con tante idee e punti di vista che circolano liberamente, fecondandosi. E sotto i valori di fiducia, collaborazione, reputazione, quelle cose lì.

Cose affettive, direi, perché non è con il crudo cognitivo che arrivi dritto al coinvolgimento. Persuadere e argomentare, sì. E i moderni sofisti che ora chiamandosi “professionisti della comunicazione” inventeranno nuovi modi per stringere le community, per provocarle, per sedurle, facendo leva se serve su empatie gruppali, su sentimenti diffusi nella pancia delle collettività su web, per suscitare risposta.

Ma non si può comandare una community, dice sempre Mafe. Quelle sono persone, hanno i loro obiettivi, possono spostarsi su altri posti di discussione, la tua ansia di controllo è decisamente fuori luogo.

Grammatica dei contenuti editoriali – Un libro

La prefazione di Luca De Biase al libro “Io editore tu rete. Grammatica essenziale per chi produce contenuti” di Sergio Maistrello.
L’argomento riguarda ovviamente i cambiamenti dell’editoria elettronica, e della forma generale della Cultura per come essa ora vive nei supporti e nei processi digitali.

Gli editori sono in fermento. Internet sta cambiando radicalmente gli scenari del loro business. La tecnologia digitale sta trasformando i linguaggi espressivi e le filiere produttive. Le condizioni a contorno, nell’epoca della conoscenza, stanno mutando e facendo di ogni azienda, organizzazione, gruppo sociale e singola persona, un soggetto potenzialmente in grado di produrre e distribuire contenuti di valore pubblico. In questo contesto, gli editori vedono contemporaneamente uno scenario di crisi e una situazione densa di nuove opportunità. E la variabile essenziale che li conduce a privilegiare il giudizio ottimistico o pessimistico è la loro capacità di costruirsi una competente visione della situazione. E’ probabilmente il primo motivo di interesse per questo libro. Il secondo motivo discende dal fatto che il destino degli editori è importante per tutta l’evoluzione della capacità di generazione culturale delle società.

La storia dell’editoria moderna parte probabilmente all’inizio del Settecento nel momento in cui la corporazione degli stampatori riesce a ottenere il privilegio per ciascun affiliato di poter essere l’unico a pubblicare il libro di un autore con il quale si è messo d’accordo per la gestione del suo copyright. Tecnologia e diritto sono fin dal principio alla radice del business editoriale. In particolare il controllo della tecnologia di accesso ai contenuti, consentiva agli editori di far valere senza particolari problemi anche il loro diritto allo sfruttamento delle opere. Ma le trasformazioni attuali sembrano aver sottratto agli editori il controllo delle tecnologie strategiche e, di conseguenza, la tenuta del sistema del copyright. La leadership dello sviluppo delle tecnologie per pubblicare e distribuire contenuti sta progressivamente ma inesorabilmente passando alle piattaforme online, ai motori di ricerca, ai servizi di vendita di libri e giornali in rete, alle aziende che producono computer, tablet, cellulari, lettori dedicati alla lettura e così via. In qualunque business, l’impresa che non ha alcun controllo sulla tecnologia fondamentale per lo svolgimento del business rischia di essere marginalizzata.

L’impresa che non governa la sua tecnologia può superare con successo il rischio di perdere quote di mercato se conserva in qualche modo una relazione privilegiata con il suo pubblico o con i suoi fornitori. E indubbiamente i marchi e le testate aiutano gli editori a resistere nel cuore del pubblico, mentre possono conservare un’attrattiva nei confronti degli autori se riescono a convincerli di essere ancora il miglior interlocutore per generare reddito con il loro lavoro. Ma entrambe le difese sono superabili.

La struttura del mercato editoriale sta cambiando radicalmente. Un tempo la scarsità fondamentale era sotto il controllo dell’offerta: ciò che era scarso era lo spazio per la pubblicazione. Oggi, su internet, quello spazio è illimitato, mentre la scarsità fondamentale è sotto il controllo della domanda: ciò che è scarso è, prima di tutto, il tempo e l’attenzione del pubblico. Sicché, nel mercato editoriale, la domanda controlla le fonti del valore mentre l’offerta deve conquistare il suo spazio centimetro per centimetro. Contemporaneamente, nella relazione con il pubblico, gli editori si trovano di fronte nuovi agguerriti competitori, spesso dotati di marchi importanti e meglio posizionati sul piano tecnologico: quelli dei motori di ricerca, quelli dei negozi online, quelli dei produttori di device. Inoltre, molti ex inserzionisti pubblicitari sono partiti alla conquista del tempo e dell’attenzione del pubblico direttamente su internet senza la mediazione degli editori. E del resto, anche per gli autori stanno emergendo molte e interessanti opportuità per valorizzare le loro opere che a loro volta non passano per la mediazione degli editori. 

Il primo capitolo di chiunque operi nel business editoriale diventa la dimostrazione dell’unicità del suo servizio a vantaggio del pubblico. Segue, subito dopo nella scala di priorità, la riconquista di una forma di controllo della tecnologia. E in terza posizione c’è la rigenerazione della sua relazione con gli autori. In tutti i casi si tratta di fare un salto di qualità culturale: le vecchie soluzioni e le inveterate abitudini semplicemente non funzionano più: il salto culturale deve condurre a comprendere non come controllare ma come servire il pubblico, a trasformarsi da passivi fruitori ad attivi innovatori della tecnologia, a passare da rentier del copyright a promotori e valorizzatori dell’accesso alle opere degli autori. Si tratta di salti culturali che, spesso, appaiono troppo alti per gli editori troppo tradizionali. E che quindi favoriscono in certi casi i nuovi entranti nel business. 

Sta di fatto, che il pubblico cerca ancora le funzioni fondamentali che in passato erano svolte solo dagli editori, per scegliere a che cosa dedicare il tempo, per riconoscere autorevolezza e credibilità agli autori, per accedere in modo comodo e a un prezzo giusto alle opere. Le protezioni che favorivano gli editori nello sfruttamento di queste funzioni non ci sono più, ma le funzioni hanno ancora valore. E il riconoscimento di questa opportunità potrebbe rivelarsi la spinta decisiva per gli editori a rinnovarsi profondamente, per sincronizzarsi con la storia attuale e allo scopo di scrivere la storia futura.

Parole dentro le parole

Avevo questa teoria, secondo cui le parole dentro le parole modificano un po’ il senso che diamo a quelle parole.
Prendiamo mascarpone, sappiamo che è un latticino, che viene dal norditalia, che è calorico. Attenzione, non è un formaggio. Neanche la ricotta è un formaggio, eh. Caglio, siero, un mucchio di microbi come catalizzatori, zangole per battere la panna e farne il burro, filiere alimentari, procedure. Oh, tecnologia, il linguaggio dell’abitare.
Insomma, scarpone. dentro mascarpone. Quindi non so a voi che effetto fa (siamo dentro dizionari personalissimi), ma dentro il mascarpone c’è lo scarpone. Si fosse chiamato mafarfalla, avrei avuto un’idea diversa di quel formaggio.
Oppure in inglese: pensate a irony, ironic.
Per me assomiglia più al sarcasmo, l’ironia degli anglofoni. Perché dentro irony c’è iron, il ferro.
E poi c’è europe. Che pronunci come You rope. La “rope” è la corda per impiccarsi. Lennon dice “money for dope, money for rope”. Anche Frank Black coi Pixies dice “Can you swing from a good rope”.
E allora se pensate a cosa pensa un inglese, quali aree neuronali si attivano per simpatia nel pensare Europe, gli vengono in mente cose così, anche se non lo sa.

Come emerge un hashtag?

Giovanni Arata mette giù delle considerazioni interessanti sull’ecologia degli hashtag (di cui parlavo qui).
Lo sfondo della riflessione riguarda in questo caso la comunicazione e l’agire politico, ma il problema del “nominare la rosa” è sempre centrale, implicando autorevolezze e crowd-tagging.

Perché i cancelletti, come osservava @jeffjarvis in un suo magistrale post di qualche tempo fa, sono boe di senso potenzialmente decisive, intorno alle quali si catalizzano idee e persone. E perché, soprattutto, sono boe sulle quali nessuno può decidere a priori, a partire dalla propria autorevolezza o da qualsiasi altra fonte di legittimazione. Sono i cittadini della Rete stessi, attraverso l’impiego che fanno di una o dell’altra formula, a decidere quale di essa debba sopravvivere ed affermarsi. Sono, in una certa misura, oggetto di una dialettica politica che deve meno alle gerarchie preordinate, e più all’autorevolezza guadagnata con l’interazione.

Update: anche Claudia Tigella Vago prova a riflettere sugli hashtag (grazie del link!)

Consumo collaborativo

Quando c’era Napster non è che mi avesse preso quella gran smania di scaricare tutto e avere lì nelle cartelle. Nemmeno in seguito, coi film. Voglio poter fruire sempre e ovunque, tutto qui. Nel possesso, in epoca di disponibilità del bene alla fruizione, non ho interesse. Quindi escludiamo anche l’idea feticistica.
Su Apogeonline c’è un articolo interessante pieno di link dedicato al tema del “consumo collaborativo”.

… sembrano segnali che anche in Italia si stia cominciando a sperimentare un diverso comportamento d’acquisto, basato sulla condivisione e il riciclo dei beni piuttosto che sulla loro proprietà.

WikiPD, quasi

Ragiono di comunicazione politica su web, eh, poteva essere Renzi come un altro/a.
Ma il fatto che ci fosse questa cosa della stazione Leopolda e del wikiPD mi teneva desta l’attenzione, ovviamente, sulle modalità partecipative online che Renzi o il suo spin doctor con master in socialmedia e e-partecipation (immagino) avrebbero allestito, per rendere onore a quel termine “wiki” dentro il programma, lo slogan, le parti forti della comunicazione di Renzi.
In effetti le 100 idee per l’italia ci sono, e sono state pubblicate sul sito Leopolda2011, ma il documento o lo leggi online, o lo scarichi come pdf. E io come faccio a prendere queste idee e aggiungerci del mio, volessi collaborare? 
Dovrei riportare tutto su un mio documento, riscrivendo, a poi inviarvi le mie osservazioni per mail? O utilizzare il form dei contatti del sito, facendo copiancolla lì dentro?
La prima parte delle manovre comunicative di Renzi ha visto l’utilizzo di un plugin di Facebook riportato sul sito Leopolda, la qual cosa non è il massimo dell’etica e della pulizia di comportamenti. Però magari ci stava, bisognava sollevare un po’ di fumerone per innescare partecipazione, e utilizzare le identità di FB elimina il gradino dell’account con cui esprimersi. 
Ora questa cosa del pdf. Mah.

UPDATE: massì, dài, ora hanno organizzato meglio l’ambiente e suddiviso le tematiche, con struttura tipo forum

Sottoesporsi ai flussi

Un lettore mp3 portatile, grande come un pacchetto di fiammiferi, contiene 40.000 canzoni.
Un walkman faceva girare una cassetta, quindi magari qualcosa in più di un’ora e mezza di musica, ma diciamo venticinque (25) canzoni, così per fare numero.
Ora pensate alle vostre strategie affettive nella fruizione sia dell’oggetto hardware, sia del contenuto musicale. Che amore è.
Chiaro, no?

Netizen

O lavori sulla bellezza o sull’utilità di abitare connessi, per muovere a una Cittadinanza digitale ben compresa.

Quindi o mostri alle persone l’arricchimento della vita sociale nel piacere della partecipazione, oppure spieghi in che modo una macchina più efficiente (Internet) può garantire una maggiore nostra efficacia nel fare cose, muovere situazioni, modificare territori e stili dell’abitare.

Ma noi siamo già Netizen.

La SIAE è un brontosauro

Altro delirio.
LA SIAE vuol far pagare migliaia di euro all’anno ai siti che mettono su un video con un trailer del film.
Anche se il trailer l’hai preso da Youtube, per dire.
E nella loro lettera di oggi ci spiegano anche (loro!) che bella cosa è internet per le nuove possibilità di sviluppo economico, per fare business.
Dal testo del loro comunicato, bella ‘sta frase

Dov’è la sorpresa se un’impresa deve pagare quando si procura le materie prime per fare business?

MA se le “materie prime” sono gratuite come la mettiamo? Beni disponibili in Rete, creati per essere facilmente ripubblicati altrove, come embeddare i video di YouTube.
Come al solito, l’inghippo è nella parola “materia”.
Qui non abbiamo materia.

… ‘spetta che ti spiego

Son due settimane che scrivo nuovamente qualcosa per Apogeonline. E’ un problema di pigrizia, lo so. Passo anche molto tempo a cambiare accordatura alla chitarra. Dovrei riuscire a mantenere il ritmo di una rubrica settimanale, vedremo. Animale social, si chiama la rubrica.