Archivi autore: Giorgio Jannis

Ansia da conversazione

Cosa ho fatto in questi matti mesi invernali? Incredibile, ho anche lavorato. Ho scritto degli articoli, tenuto dei seminari per gente della Pubblica Amministrazione, partecipato a un paio di convegni, ho perfino fatto un po’ di formazione in azienda (una farmaceutica a Firenze, toh). Gli argomenti erano sempre quelli, socialmedia e comunicazione istituzionale.

Si raccontano le novità e le peculiarità dell’ambiente web, si prova a descrivere quale potrebbe essere la miglior postura comunicativa per un’organizzazione lavorativa, si imbastisce un discorsetto sulla progettazione della comunicazione avendo a mente l’adeguatezza tra messaggio e contesto, tra colonizzare gli spazi sociali in Rete o piuttosto riuscire a innescare spinte partecipative nelle community di riferimento, sapendo ascoltare e sapendo tessere conversazione.

“Bisogna progettare esperienze per una community, non messaggi per un target”, dice Mafe de Baggis nel suo ottimo libro World Wide We. E solo aprire questa frase, spiegarla nelle sue implicazioni, significa riposizionare oggetti nella mente degli ascoltatori, rivedere quarant’anni di stile comunicativo pubblicitario classico, quello dei media lineari, significa lottare contro abitudini e schemi interpretativi depositati profondamente dentro di noi, che siamo fatti di libri e di televisione. Ci son cose che vanno riconfigurate, e si tratta di atteggiamenti e comportamenti, visioni del mondo.

Sei un’azienda e arrivi sui social, e la tua mentalità è “voglio raggiungere almeno due milioni di visite al mio canale youtube”, oppure “devo promuovere una campagna su Facebook, reclamizzare” stai usando male i nuovi linguaggi e i nuovi ambienti. Puoi farlo, certo, ma i destinatari non sono quelli televisivi, sprofondati in poltrona e passivi: in Rete le persone ci stanno perché possono parlare e esprimersi, e subito potrebbero giudicare male il tuo aziendale voler proporre messaggi senza cercare un coinvolgimento, nella conversazione.

Che poi, appunto, è conversazione. Non c’è un Io che parla, c’è sempre anche un Tu che ascolta. Ovvero, la conversazione è un Noi dentro una situazione, nel tempo, nel dialogo.

E se internet è nata quando siamo scesi dagli alberi (Gibson, vedi da Granieri), mi vien da pensare che una scimmia protoumana abbia da qualche parte messo un like, le comunità sono venute a saperlo e poi tutti ci siam messi a camminare su due zampe nella savana.

Così, per una Storia della conversazione. Balletti attoriali nelle circostanze di enunciazione.C’è la memoria, il ritmo, il tono e la stilistica. Tutto multimediale, oggi, con facilità, per tutti. Creare belle storie, cornici di storie, contenitori di storie, e puntare alla qualità nell’abitare la propria nicchia ecologica su Web. Non importano i cinque milioni di contatti, conta la meraviglia di trovare soluzioni inaspettate e out-of-the-box grazie a una community partecipante, alto coinvolgimento, con tante idee e punti di vista che circolano liberamente, fecondandosi. E sotto i valori di fiducia, collaborazione, reputazione, quelle cose lì.

Cose affettive, direi, perché non è con il crudo cognitivo che arrivi dritto al coinvolgimento. Persuadere e argomentare, sì. E i moderni sofisti che ora chiamandosi “professionisti della comunicazione” inventeranno nuovi modi per stringere le community, per provocarle, per sedurle, facendo leva se serve su empatie gruppali, su sentimenti diffusi nella pancia delle collettività su web, per suscitare risposta.

Ma non si può comandare una community, dice sempre Mafe. Quelle sono persone, hanno i loro obiettivi, possono spostarsi su altri posti di discussione, la tua ansia di controllo è decisamente fuori luogo.

Grammatica dei contenuti editoriali – Un libro

La prefazione di Luca De Biase al libro “Io editore tu rete. Grammatica essenziale per chi produce contenuti” di Sergio Maistrello.
L’argomento riguarda ovviamente i cambiamenti dell’editoria elettronica, e della forma generale della Cultura per come essa ora vive nei supporti e nei processi digitali.

Gli editori sono in fermento. Internet sta cambiando radicalmente gli scenari del loro business. La tecnologia digitale sta trasformando i linguaggi espressivi e le filiere produttive. Le condizioni a contorno, nell’epoca della conoscenza, stanno mutando e facendo di ogni azienda, organizzazione, gruppo sociale e singola persona, un soggetto potenzialmente in grado di produrre e distribuire contenuti di valore pubblico. In questo contesto, gli editori vedono contemporaneamente uno scenario di crisi e una situazione densa di nuove opportunità. E la variabile essenziale che li conduce a privilegiare il giudizio ottimistico o pessimistico è la loro capacità di costruirsi una competente visione della situazione. E’ probabilmente il primo motivo di interesse per questo libro. Il secondo motivo discende dal fatto che il destino degli editori è importante per tutta l’evoluzione della capacità di generazione culturale delle società.

La storia dell’editoria moderna parte probabilmente all’inizio del Settecento nel momento in cui la corporazione degli stampatori riesce a ottenere il privilegio per ciascun affiliato di poter essere l’unico a pubblicare il libro di un autore con il quale si è messo d’accordo per la gestione del suo copyright. Tecnologia e diritto sono fin dal principio alla radice del business editoriale. In particolare il controllo della tecnologia di accesso ai contenuti, consentiva agli editori di far valere senza particolari problemi anche il loro diritto allo sfruttamento delle opere. Ma le trasformazioni attuali sembrano aver sottratto agli editori il controllo delle tecnologie strategiche e, di conseguenza, la tenuta del sistema del copyright. La leadership dello sviluppo delle tecnologie per pubblicare e distribuire contenuti sta progressivamente ma inesorabilmente passando alle piattaforme online, ai motori di ricerca, ai servizi di vendita di libri e giornali in rete, alle aziende che producono computer, tablet, cellulari, lettori dedicati alla lettura e così via. In qualunque business, l’impresa che non ha alcun controllo sulla tecnologia fondamentale per lo svolgimento del business rischia di essere marginalizzata.

L’impresa che non governa la sua tecnologia può superare con successo il rischio di perdere quote di mercato se conserva in qualche modo una relazione privilegiata con il suo pubblico o con i suoi fornitori. E indubbiamente i marchi e le testate aiutano gli editori a resistere nel cuore del pubblico, mentre possono conservare un’attrattiva nei confronti degli autori se riescono a convincerli di essere ancora il miglior interlocutore per generare reddito con il loro lavoro. Ma entrambe le difese sono superabili.

La struttura del mercato editoriale sta cambiando radicalmente. Un tempo la scarsità fondamentale era sotto il controllo dell’offerta: ciò che era scarso era lo spazio per la pubblicazione. Oggi, su internet, quello spazio è illimitato, mentre la scarsità fondamentale è sotto il controllo della domanda: ciò che è scarso è, prima di tutto, il tempo e l’attenzione del pubblico. Sicché, nel mercato editoriale, la domanda controlla le fonti del valore mentre l’offerta deve conquistare il suo spazio centimetro per centimetro. Contemporaneamente, nella relazione con il pubblico, gli editori si trovano di fronte nuovi agguerriti competitori, spesso dotati di marchi importanti e meglio posizionati sul piano tecnologico: quelli dei motori di ricerca, quelli dei negozi online, quelli dei produttori di device. Inoltre, molti ex inserzionisti pubblicitari sono partiti alla conquista del tempo e dell’attenzione del pubblico direttamente su internet senza la mediazione degli editori. E del resto, anche per gli autori stanno emergendo molte e interessanti opportuità per valorizzare le loro opere che a loro volta non passano per la mediazione degli editori. 

Il primo capitolo di chiunque operi nel business editoriale diventa la dimostrazione dell’unicità del suo servizio a vantaggio del pubblico. Segue, subito dopo nella scala di priorità, la riconquista di una forma di controllo della tecnologia. E in terza posizione c’è la rigenerazione della sua relazione con gli autori. In tutti i casi si tratta di fare un salto di qualità culturale: le vecchie soluzioni e le inveterate abitudini semplicemente non funzionano più: il salto culturale deve condurre a comprendere non come controllare ma come servire il pubblico, a trasformarsi da passivi fruitori ad attivi innovatori della tecnologia, a passare da rentier del copyright a promotori e valorizzatori dell’accesso alle opere degli autori. Si tratta di salti culturali che, spesso, appaiono troppo alti per gli editori troppo tradizionali. E che quindi favoriscono in certi casi i nuovi entranti nel business. 

Sta di fatto, che il pubblico cerca ancora le funzioni fondamentali che in passato erano svolte solo dagli editori, per scegliere a che cosa dedicare il tempo, per riconoscere autorevolezza e credibilità agli autori, per accedere in modo comodo e a un prezzo giusto alle opere. Le protezioni che favorivano gli editori nello sfruttamento di queste funzioni non ci sono più, ma le funzioni hanno ancora valore. E il riconoscimento di questa opportunità potrebbe rivelarsi la spinta decisiva per gli editori a rinnovarsi profondamente, per sincronizzarsi con la storia attuale e allo scopo di scrivere la storia futura.

Parole dentro le parole

Avevo questa teoria, secondo cui le parole dentro le parole modificano un po’ il senso che diamo a quelle parole.
Prendiamo mascarpone, sappiamo che è un latticino, che viene dal norditalia, che è calorico. Attenzione, non è un formaggio. Neanche la ricotta è un formaggio, eh. Caglio, siero, un mucchio di microbi come catalizzatori, zangole per battere la panna e farne il burro, filiere alimentari, procedure. Oh, tecnologia, il linguaggio dell’abitare.
Insomma, scarpone. dentro mascarpone. Quindi non so a voi che effetto fa (siamo dentro dizionari personalissimi), ma dentro il mascarpone c’è lo scarpone. Si fosse chiamato mafarfalla, avrei avuto un’idea diversa di quel formaggio.
Oppure in inglese: pensate a irony, ironic.
Per me assomiglia più al sarcasmo, l’ironia degli anglofoni. Perché dentro irony c’è iron, il ferro.
E poi c’è europe. Che pronunci come You rope. La “rope” è la corda per impiccarsi. Lennon dice “money for dope, money for rope”. Anche Frank Black coi Pixies dice “Can you swing from a good rope”.
E allora se pensate a cosa pensa un inglese, quali aree neuronali si attivano per simpatia nel pensare Europe, gli vengono in mente cose così, anche se non lo sa.

Come emerge un hashtag?

Giovanni Arata mette giù delle considerazioni interessanti sull’ecologia degli hashtag (di cui parlavo qui).
Lo sfondo della riflessione riguarda in questo caso la comunicazione e l’agire politico, ma il problema del “nominare la rosa” è sempre centrale, implicando autorevolezze e crowd-tagging.

Perché i cancelletti, come osservava @jeffjarvis in un suo magistrale post di qualche tempo fa, sono boe di senso potenzialmente decisive, intorno alle quali si catalizzano idee e persone. E perché, soprattutto, sono boe sulle quali nessuno può decidere a priori, a partire dalla propria autorevolezza o da qualsiasi altra fonte di legittimazione. Sono i cittadini della Rete stessi, attraverso l’impiego che fanno di una o dell’altra formula, a decidere quale di essa debba sopravvivere ed affermarsi. Sono, in una certa misura, oggetto di una dialettica politica che deve meno alle gerarchie preordinate, e più all’autorevolezza guadagnata con l’interazione.

Update: anche Claudia Tigella Vago prova a riflettere sugli hashtag (grazie del link!)

Consumo collaborativo

Quando c’era Napster non è che mi avesse preso quella gran smania di scaricare tutto e avere lì nelle cartelle. Nemmeno in seguito, coi film. Voglio poter fruire sempre e ovunque, tutto qui. Nel possesso, in epoca di disponibilità del bene alla fruizione, non ho interesse. Quindi escludiamo anche l’idea feticistica.
Su Apogeonline c’è un articolo interessante pieno di link dedicato al tema del “consumo collaborativo”.

… sembrano segnali che anche in Italia si stia cominciando a sperimentare un diverso comportamento d’acquisto, basato sulla condivisione e il riciclo dei beni piuttosto che sulla loro proprietà.

WikiPD, quasi

Ragiono di comunicazione politica su web, eh, poteva essere Renzi come un altro/a.
Ma il fatto che ci fosse questa cosa della stazione Leopolda e del wikiPD mi teneva desta l’attenzione, ovviamente, sulle modalità partecipative online che Renzi o il suo spin doctor con master in socialmedia e e-partecipation (immagino) avrebbero allestito, per rendere onore a quel termine “wiki” dentro il programma, lo slogan, le parti forti della comunicazione di Renzi.
In effetti le 100 idee per l’italia ci sono, e sono state pubblicate sul sito Leopolda2011, ma il documento o lo leggi online, o lo scarichi come pdf. E io come faccio a prendere queste idee e aggiungerci del mio, volessi collaborare? 
Dovrei riportare tutto su un mio documento, riscrivendo, a poi inviarvi le mie osservazioni per mail? O utilizzare il form dei contatti del sito, facendo copiancolla lì dentro?
La prima parte delle manovre comunicative di Renzi ha visto l’utilizzo di un plugin di Facebook riportato sul sito Leopolda, la qual cosa non è il massimo dell’etica e della pulizia di comportamenti. Però magari ci stava, bisognava sollevare un po’ di fumerone per innescare partecipazione, e utilizzare le identità di FB elimina il gradino dell’account con cui esprimersi. 
Ora questa cosa del pdf. Mah.

UPDATE: massì, dài, ora hanno organizzato meglio l’ambiente e suddiviso le tematiche, con struttura tipo forum

Sottoesporsi ai flussi

Un lettore mp3 portatile, grande come un pacchetto di fiammiferi, contiene 40.000 canzoni.
Un walkman faceva girare una cassetta, quindi magari qualcosa in più di un’ora e mezza di musica, ma diciamo venticinque (25) canzoni, così per fare numero.
Ora pensate alle vostre strategie affettive nella fruizione sia dell’oggetto hardware, sia del contenuto musicale. Che amore è.
Chiaro, no?

Netizen

O lavori sulla bellezza o sull’utilità di abitare connessi, per muovere a una Cittadinanza digitale ben compresa.

Quindi o mostri alle persone l’arricchimento della vita sociale nel piacere della partecipazione, oppure spieghi in che modo una macchina più efficiente (Internet) può garantire una maggiore nostra efficacia nel fare cose, muovere situazioni, modificare territori e stili dell’abitare.

Ma noi siamo già Netizen.

La SIAE è un brontosauro

Altro delirio.
LA SIAE vuol far pagare migliaia di euro all’anno ai siti che mettono su un video con un trailer del film.
Anche se il trailer l’hai preso da Youtube, per dire.
E nella loro lettera di oggi ci spiegano anche (loro!) che bella cosa è internet per le nuove possibilità di sviluppo economico, per fare business.
Dal testo del loro comunicato, bella ‘sta frase

Dov’è la sorpresa se un’impresa deve pagare quando si procura le materie prime per fare business?

MA se le “materie prime” sono gratuite come la mettiamo? Beni disponibili in Rete, creati per essere facilmente ripubblicati altrove, come embeddare i video di YouTube.
Come al solito, l’inghippo è nella parola “materia”.
Qui non abbiamo materia.

… ‘spetta che ti spiego

Son due settimane che scrivo nuovamente qualcosa per Apogeonline. E’ un problema di pigrizia, lo so. Passo anche molto tempo a cambiare accordatura alla chitarra. Dovrei riuscire a mantenere il ritmo di una rubrica settimanale, vedremo. Animale social, si chiama la rubrica.

Riprendiamoci il potere di dire cos’è arte

L’arte è il luogo che ci siamo inventati per raccontarci. Più di uno specchio, perché è situata. Contiene in sé una proposta di lettura, prevede un percorso dello sguardo, nasce da uno sguardo che nota qualcosa, un click, e magari possiede anche abilità artigianali per rappresentare questa visione in un qualsiasi media.
E’ il luogo dove riflettere (su) chi siamo, dove nascono i punti di vista per dare il nome al nostro abitare sul pianeta, per svelare i paradossi di quello in cui crediamo, per fare lo sgambetto, chiudere il circuito, mostrare ciò che sta dietro e a fianco dei messaggi che girano impazziti per tutta la semiosfera.
“Hey, ma l’Economia gestisce i Musei!” han notato gli attivisti dellal protesta Occupy.WallStreet, e adesso occupano i Musei, e giustamente De Biase rileva l’artisticità dell’azione.
Cerchiamo di ristabilire chi è che ha il diritto di dare un nome alle cose, e di smascherare inganni. Nel mondo moderno, NOI TUTTI diciamo cosa è arte – potendolo finalmente fare – e non di certo il mercato.
ps ho scritto “Hey” perché l’ho scritto in inglese americano.

Quel tumblero di un Obama

Tumblr ha saputo crescere, negli anni. Lentamente, ma costantemente, senza politiche aggressive di lancio, ma sfruttando il passaparola, costruendo un ambiente minimal, gratificando i suoi utenti con un’esperienza a mio parere unica in Rete, dal punto di vista affettivo. 
Tumblr è un posto pieno di storie, a guardare la dashboard sprofondi in mondi altri, insegui dei guizzi, rimani incantato, fuggi il tempo che ti sfugge.
Alcuni ci fanno un po’ di social sopra, ci sono dei botta e  risposta.
E un’altra feature interessante è quella di permettere a altri di postare sul proprio microblog, facendo diventare quella pagina un ambiente collaborativo.
Ovvero, innescare conversazioni tramite l’apporto di tutti.
Ora Barack Obama ha aggiunto Tumblr alla panòplia di strumenti di comunicazione web utilizzati per la sua campagna elettorale, vuole che le persone in perfetto crowdsourcing gli suggeriscano cose e cosette, segnalazioni, discussioni. Partecipazione, coinvolgimento, appartenenza, siam sempre lì.
Il tumblr di Obama lo trovate qui http://barackobama.tumblr.com/.
Quello che intendo sottolineare è il tono della comunicazione scelto.
Dritto, americano, concreto, colloquiale, spiritosetto. Che meraviglia.
Prendete l’ultima frase del post di lancio, a esempio, qui http://barackobama.tumblr.com/post/11867127866/hi-tumblr:

You can send us a few paragraphs about how your latest phonebanking gig went or why you’re in for 2012. Share the latest chart you saw that made you go “woah.” Ask a question. Upload a photo of 2012 t-shirts or signs you see out in the wild. Pass along jokes, particularly if they’re funny. And if you’re among the Tumbl-inclined, send us posts you’ve published on your own Tumblr that we should look at re-blogging.

There will be trolls among you: this we know. We ask only that you remember that we’re people—fairly nice ones—and that your mother would want you to be polite.

Tua madre vorrebbe tu fossi educato, non trollare.
UPDATE via GigiCogo ecco una riflessione professionale sulla strategia e sulla effectiveness, il “ritorno” di tutto questo impegno obamiamo. E’ riferita alla campagna elettorale, ma contiene ragionamenti interessanti su quali grammatiche sono necessarie per comprendere e progettare comunicazione su web.

Dalle idee alle persone, dalle persone alle idee

Giovanni Boccia Artieri riflette su Apogeonline sulla forma storica che assume oggi la partecipazione ai movimenti di massa, e quindi mostra l’attivismo della e-partecipation, lo stile nuovo dell’essere impegnati e le potenzialità a cui le azioni civiche online possono dar luogo, nel dialogare con i vecchi dispositivi e sistemi sociali, con il concreto costruire strategie per meglio amministrare la cosa pubblica.

Il dialogo è difficile, perché mancano le parole per dire cose nuove, e perché molti di quelli che dovrebbero ascoltare non hanno orecchi per intendere. Ma ogni nuovo esperimento è benvenuto, perché arricchisce il nostro vocabolario.

Da un’osservazione dell’articolo, prendo spunto: “non ci sono più i movimenti di massa del ‘900”. Sembra banale, sembra “non ci son più le mezze stagioni”, più che altro perché il ‘900 è finito. Ma non si è ben capito cosa significa.  Significa che non c’è più bisogno, com’era sempre successo, di avere delle idee per radunare delle persone.

Cioè, il problema era radunare le persone, ovvero muoverle all’azione. Per innescare un cambiamento – la partecipazione a movimenti di piazza, in questo caso, l’aderire a un’ideologia – bisognava aspettare che due o tre pensatori per ogni generazione riuscissero tramite la filiera editoriale pesante (il cartaceo) e elettronica (la televisione, in tempi recenti) a produrre delle idee-bandiera, attrno alle quali si potesse poi coagulare un sistema di programmi narrativi, un consenso che desse forza.

Le persone erano poche, sparse in giro per il mondo, la diffusione delle idee era lenta, per fare massa critica numerica bisognava avere costanza nell’azione di distribuzione delle nuove ideologie, che però pian piano emergevano, se in grado di occupare bene la loro nicchia ecologica nei sistemi di pensiero di cui ogni epoca si nutre, ciascuna i suoi. Il Cattolicesimo o il Romanticismo o il Sistema della Moda o il brand di un’azienda alla moda (i valori etici e estetici collegati in connotazione, il riflesso sulla nostra identità) sono tutte ideologie, come sistema organizzato di valori e credenze.

E se nel ‘900 avevamo bisogno di ideologie per radunare la gente, e poi sarebbero arrivati i partiti per organizzare il consenso (strutture per la gestione, già forme di “solidificazione” dei movimenti), oggi abbiamo milioni di persone che partecipano con la mente, essendo connessi a Luoghi digitali sociali, e poi magari mettono in moto anche il corpo e si recano alla manifestazioni di piazza, ma in origine è partecipazione “al netto”, non ancora orientata a uno scopo, a una tematica.

Noi abitando in Rete siamo già lì. Pubblicando e commentando qua e là sui social gli accadimenti, replicando a un twit e mettendo un like, già partecipiamo, al punto che è possibile misurare le aggregazioni spontanee, a esempio registrando il successo di iniziative di comunicazione informali come trendingtopics su Twitter o gruppi su Facebook.

Abbiamo la gente, e non abbiamo l’ideologia.

Il sistema sociale che nei secoli abbiamo raffinato per fare emergere idee di miglioramento della qualità del vivere (chiamatelo Progresso, se volete) si è sviluppato tenendo ferma come costante del ragionamento la dimensione geografica del nostro abitare, le distanze dei paesi e delle nazioni, ora caratteristica superata dal nostro essere connessi.

Tutto il calderone della comunicazione complessiva di una società (di nuovo, scegliete voi il grado di pertinenza: se osservare le collettività iperlocali, o i mille rivoli dell’opinione pubblica a livello nazionale, o planetario) è oggi molto più caldo: molto più veloce è il cuocere delle pietanze. Le culture umane nel pentolone, ma sotto abbiamo acceso un fuoco notevole, inventando Internet che tutti e tutto connette simultaneamente, abolendo le distanze.

Ora siamo qui, cosa facciamo? Viviamo di memi? La notiziola che ci fa parlare tutti per un pomeriggio, l’argomento grosso che si trascina in una tregiorni di querelle sui socialnetwork e rimpiattino sulla TV, che poi parla della Rete e quindi la Rete reagisce alle critiche?

Il nostro essere in Rete, l’aver espresso con la nostra presenza (identità digitale riconosciuta) la nostra partecipazione a un’idea o a una proposta di azione legislativa, il nostro aver costituito con le nostre firme o i nostri like un “movimento di massa digitale” che va riconosciuto nella sua efficacia di modificare la narrazione sociale, deve aver la possibilità di incidere sulle scelte della gestione della cosa pubblica.

Bisogna attribuire il ruolo di “parlante ratificato” alla voce che emerge da iniziative organizzate in Rete, sancirne la legittimità del suo dire e essere ascoltato. Fuori da logiche partitiche, perché il modello storico dell’organizzare il consenso tramite queste strutture “solidificanti” dei valori e degli atteggiamenti – su cui poggerebbe poi l’azione politica parlamentare, secondo meccanismi elettorali e criteri di rappresentatività, è appunto ormai storia passata, espressione di un’epoca non connessa.

Il ‘900 aveva sviluppato i suoi sistemi di innovazione sociale, con i suoi tempi e le sue distanze. Noi siamo tutti qui senza geografie e dobbiamo inventare i nuovi modi e modelli per facilitare la partecipazione civica, organizzarla in consenso per darle rilevanza democratica significativa rispetto alle collettività interessate al cambiamento, scoprire per prove e errori come progettare il software sociale che meglio interagisca con l’hardware dei territori e delle collettività che li abitano. Progettazioni sociali che grazie al contributo di tutti ottimizzano l’ingegneria del nostro abitare.

Udine, un convegno sulla Media Education

Si terrà il 15 ottobre presso l’Università di Udine il convegno L’urgenza della Media Education in collaborazione col MED Friuli [Facoltà di Scienze della Formazione, via Margreth 3].
Il programma prevede gli interventi di Maria Bortoluzzi (Università di Udine), Serena Zanolla (Università di Udine), Alberto Parola (Università di Torino), Angela Bonomi Castelli (MED). Nel pomeriggio workshop su Fotografia, Videogame, Dispositivi tecnologici mobili, Informazione, Tecnologie e progetti educativi nel territorio.

Il convegno è aperto a tutti, in particolare a insegnanti, educatori, operatori dei media, studenti, genitori.

Per scaricare il programma: http://www.mediaeducationmed.it/component/docman/doc_download/69-brochure-med-udine.html

Fonte: Altrascuola