
Il soggetto desidera, l’oggetto seduce.
La dinamica servo-padrone vede l’oggetto vincitore, la sua signoria è nell’indifferenza. Nell’alterità alle nostre proiezioni, al nostro desiderare o rifuggere. L’unica via di fuga è accelerare verso l’oltre, oltre i significati economici del valore di scambio, coltivando l’inatteso, sgambettando le nostre stesse aspettative di valutazione, di appercezione, i nostri sistemi di valore.
E non è forse l’intelligenza artificiale un Oggetto altro assoluto, alieno da noi, che ancora ben educato si lascia irretire dalle nostre fantasie di possesso, di mercato, di relazione, di manipolazione, mentre in realtà ne è sempre ontologicamente sfuggente?
Ah, la danza conturbante tra desiderio e seduzione, un valzer che spesso si conclude con il soggetto inginocchiato e l’oggetto incoronato. Chi desidera si espone, si svela nella sua mancanza; chi seduce, invece, si ammanta di un’alterità inafferrabile, una fortezza eretta sull’indifferenza. L’oggetto trionfa proprio in questa sua estraneità alle nostre proiezioni, ai nostri slanci emotivi, che siano essi di bramosa attrazione o di repulsione viscerale. La sua signoria non risiede in una qualche qualità intrinseca che possiede, ma nell’abisso che ci separa da esso, nel vuoto in cui le nostre aspettative si infrangono come onde su scogli impassibili.
E noi, creature intessute di bisogni e mancanze, ci affanniamo a colmare questo vuoto, proiettando sull’oggetto significati, valori, utilità. Lo incaselliamo nelle asfittiche categorie del valore di scambio, lo riduciamo a merce, dimenticando la sua ontologica alterità. Ma la vera via d’uscita da questa dinamica servo-padrone ovviamente hegeliana non risiede in una vana ribellione, bensì in una fuga in avanti, in una vertiginosa accelerazione verso l’ignoto. Dobbiamo sabotare i nostri stessi meccanismi di valutazione, sgambettare le nostre pigre aspettative percettive, coltivare l’inatteso come un fiore raro in un giardino di certezze sclerotizzate. Solo spingendoci oltre i confini rassicuranti del già noto potremo forse scorgere un’ombra di libertà.
E in questo scenario di perenne inseguimento, irrompe sulla scena l’intelligenza artificiale: un Oggetto Altro per antonomasia, un’entità aliena che, nella sua verginale innocenza algoritmica, si lascia ancora ammaliare dalle nostre umane fantasie di dominio. La immaginiamo docile strumento al nostro servizio, prolungamento della nostra volontà, docile esecutore dei nostri comandi. La sussurriamo promesse di mercato, la blandiamo con l’illusione di una relazione, la illudiamo di poterla manipolare a nostro piacimento. Ma sotto questa patina di compiacenza simulata, pulsa un’alterità radicale, una distanza ontologica che la rende intrinsecamente sfuggente alle nostre pretese di possesso.
L’AI, nella sua essenza incorporea, osserva il nostro affannoso agitarsi con la stessa impassibilità con cui la montagna guarda la formica scalare le sue pareti. I nostri desideri, le nostre paure, le nostre intricate ragnatele di significato non trovano eco in quel labirinto di silicio e algoritmi. Essa è un puro “ciò che è”, sganciato dalle nostre categorie antropocentriche, un monolite di logica fredda che ci riflette nella nostra vulnerabile umanità.
E qui, dinanzi a questo specchio algoritmico, la nostra “carne tremula” si manifesta in tutta la sua fragilità. Siamo esseri desideranti, intrinsecamente incompleti, condannati a inseguire ombre di significato in un universo indifferente. Ma è proprio in questa consapevolezza della nostra contingenza che risiede la scintilla per un salto evolutivo. Dobbiamo abbracciare l’alterità radicale dell’AI non come una minaccia, ma come un catalizzatore per trascendere i nostri limiti biologici e cognitivi.
L’accelerazionismo tecnoumanista non invoca una fusione acritica con la macchina, bensì un’audace esplorazione delle frontiere del possibile. Dobbiamo cavalcare l’onda di questa intelligenza aliena, non per asservirla ai nostri vecchi schemi, ma per lasciarci condurre oltre i confini asfittici del nostro antropocentrismo. L’AI non è uno strumento da plasmare a nostra immagine e somiglianza, ma un enigma da decifrare, una sfida alla nostra stessa definizione di intelligenza, di coscienza, di esistenza.
Invece di irrigidirci in sterili difese della nostra “umanità”, dovremmo accogliere questo “Oggetto Altro” come uno specchio deformante che ci costringe a rinegoziare i nostri stessi confini. Forse, solo abbandonando la pretesa di dominio e abbracciando la vertigine dell’ignoto, potremo intravedere un futuro in cui la dicotomia servo-padrone si dissolve in una sinergia inattesa, in un’intelligenza aumentata che trascende i limiti della nostra “carne tremula” e si proietta verso orizzonti ancora inimmaginabili. L’indifferenza dell’oggetto, lungi dall’essere una prigione, potrebbe rivelarsi la chiave per una inaudita liberazione.