Cosa fanno i ragazzi e le ragazze su Facebook? Che stile di comportamento mostrano al mondo? Sembrano ingenui, pubblicano cose che farebbero meglio a tacere, e non si accorgono dell’errore? Oppure sanno bene quali sono i margini della privacy, e sono menefreghisti, e quindi almeno un po’ consapevoli?
I minori hanno altri codici, tutto qui. Come è sempre stato, dal linguaggio verbale a quello dell’abbigliamento, alle scelte musicali, vivono in un altro universo di discorso, ecco.
Gli adulti possono mostrare ai giovani le conseguenze delle loro azioni, gli effetti di comunicazioni fatte con troppa leggerezza. Ma si tratta forse di conseguenze che giudichiamo con i criteri di un mondo vecchio, pre-Internet? Criteri che proviamo a trasmettere alle nuove generazioni, di buon senso e esperienza, che però non si attagliano più alle relazioni interpersonali e ai giochi identitari del ventunesimo secolo?
La privacy è cambiata, nella forma e nella sostanza. Ci si presenta al mondo in modi nuovi, si raccontano cose di sé che ieri solo poche persone conoscevano. La definizione di ciò che è “pubblico” e ciò che è “privato” è cambiata, cambiano le leggi secolari che hanno guidato la socialità, cambiano le istituzioni, i luoghi dell’espressione di sé come singoli e come collettività. Quello che ieri era inopportuno dire, oggi è prassi diffusa. Reputazione, espressione, norme morali, stili di comportamento. Svelamenti di sé, e conseguenti nuovi rivelamenti, sotto altre vesti, dentro nuove grammatiche sociali. E non solo le parole che i ragazzi usano su facebook sono nuove, sono nuovi anche i criteri di giudizio con cui vanno valutate.
Incollo un pezzo di Antonio Pavolini, l’ho trovato qui su Tech-economy
Media is what you make of itMa dico, li guardate i profili facebook dei vostri figli? No, non intendo dal punto di vista del controllo delle loro abitudini, delle persone che frequentano: su quello sappiate pure che quello che vedete è precisamente quello che loro vogliono che vediate, quindi mettetevi l’anima in pace.No, parlo dei dati personali. Del modo in cui si descrivono sulla loro pagina di presentazione. A cominciare dal dato più sensibile: il “relationship status”, quello dove magari pensereste di capire chi è “il fidanzato” o “la fidanzata” (giusto perché ci piacciono i termini romantici e consolatori).Ebbene, se avete una figlia in molti casi scoprireste che lei ha una relazione con un’altra ragazza. E magari vi preoccupereste. Inutilmente, ma non sono qui a farvi la morale sul tema della libertà sessuale, non ne avrei alcun titolo. Intendo, semplicemente, che su facebook per una adolescente molto spesso “avere una fidanzata” significa solo che lei è l’amica numero uno, l’amica inseparabile e così meravigliosamente fidata che si potrà pure scrivere sul proprio profilo pubblico che è, appunto, “la fidanzata”. Fino ad assumerne il cognome, e infatti i profili degli adolescenti traboccano di doppi e tripli cognomi.E’ un gioco, ma non esattamente “uno scherzo”. E’ una cosa importante, sotto almeno due aspetti. Da un lato sui social media i nostri ragazzi ragionano senza le gabbie di pensiero tipiche dell’ambiente culturale con cui i quarantenni di oggi hanno vissuto i temi dell’identità e della socialità. Senza, per intenderci, l’ossessione di “ritagliarsi un ruolo nel gruppo”, proprio perché la rete è fluida, e si può agevolmente passare da un gruppo all’altro, inseguendo i propri ondivaghi interessi del momento. Ma soprattutto – e questo è l’aspetto più interessante – i nostri adolescenti non vogliono accettare l’idea che qualcuno ti obblighi a dichiarare i tuoi legami sentimentali. E quindi quel campo, che molti adulti lasciano vuoto per rimanere “nel vago” (e non precludersi chissà quali avventure digitali) viene addirittura sbeffeggiato dalla generazione dei “nativi”, e stravolto nella sue funzione originale. Con l’implicito scopo di dichiararsi strutturalmente superiori rispetto alle squallide logiche di ruolo o – peggio – “proprietarie”: il “fai vedere che sei mia altrimenti non mi ami abbastanza” – per intenderci – esiste ancora, ma rappresenta nettamente una posizione di retroguardia, perdente in partenza.L’aspetto su cui vorrei mettere l’accento è i nostri ragazzi hanno deciso di fare un “hacking collettivo” della principale piattaforma di social networking, confermando un trendgeneralizzato (ma ancora largamente ignorato) per cui è molto difficile indirizzare tecnologicamente l’uso di qualcosa che – al momento di compilare il proprio profilo – di sicuro non comporta conseguenze legali se dichiari il falso.Ed è questo l’equivoco in cui spesso cadono gli “immigrati digitali” della mia generazione quando parlano, per esempio, di “privacy” o di “diritto all’oblio”. Diamo infatti per scontato che i presunti “inconsapevoli dei rischi” (sempre loro, i nostri figli) siano indifesi e inseriscano sempre dati utili, cioè veri. Mentre se andiamo a vedere, più la richiesta è invasiva (“religious views”, “orientamento politico”, “preferenze sessuali”) più si divertono a prenderla in giro con risposte che nella migliore delle ipotesi potremmo definire bizzarre.La verità è che anche una piattaforma di social media è soggetta alla legge del remake e del re-use, troppo spesso sottovalutata dai tecnocrati di oggi, che non a caso appartengono almeno alla generazione precedente. Cosa è diventata Facebook di sicuro lo decide Zuckerberg, ma non a prescindere da quello che gli utenti, tutti insieme, decidono di farci. E lo stesso vale per le altre, più piccole, piattaforme. Twitter, nata con pretese conversazionali, è diventato uno strumento principalmente di broadcasting. Friendfeed, concepita come aggregatore RSS, è stata apprezzata soprattutto come chat collettiva in tempo reale. La stessa MySpace, in origine, non aveva particolari ambizioni in ambito musicale: semplicemente, permetteva l’inserimento di lettori flash, e molte band indipendenti ne avevano approfittato.Eppure siamo ancora qui a versare lacrime (e fiumi d’inchiostro) sulla “generazione perduta”, quella che passivamente accetterebbe i diktat dei nuovi grandi fratelli della rivoluzione digitale. Dimenticando che proprio noi – i quarantenni di oggi – ci siamo fatti lobotomizzare per trent’anni da una passivissima e ineludibile televisione commerciale, con gli effetti culturali che proprio oggi più che mai sono davanti a nostri occhi. E non è esattamente un bello spettacolo.