Oggi ho imparato cos’è un hcard sul sito dei microformati, e ho provato a usare hcalendar.
C’è in giro tutta una discussione molto interessante, sulle forme dell’identità online, che se avessi tempo (ma qui mi fanno lavorare, orpo) mi piacerebbe alquanto affrontare in una paginetta almeno un po’ pensata, prima di buttarla giù come invece sono solito fare con questi appunti qui.
Penso che il problema sia questo: negli ultimi sei anni (lo sbarco in web), molti si sono cimentati su web, dando immagine di sé in chat, sui forum, su geocities prima e portali poi e blog dopo ancora, e commentando e partecipando di qui e di là, usando magari molteplici nick, ovvero disperdendo la propria identità socialweb in mille rivoli; ora sento in rete espresso un bisogno di unitarietà, di riconoscimento, di visibilità pubblica, di accorpamento degli avatar (!), ovvero un centro identitario più o meno solido, dove sia possibile per gli altri – e anche ai nostri stessi occhi – seguirci e comprenderci come entità sì polimorfa ed articolata, epperò nucleata. Io sono i frammenti, le facce , le maschere di me, sparsi in giro per il mondo, ma ci metto un tag sopra i frammenti, che possa ricondurre alla mia identità, che a questo punto mi viene da raffigurare come un hub identitario ed esistenziale, il mozzo della ruota, il vuoto centrale che ne permette l’esistenza. Continuo a vivere in molti modi diversi sulla circonferenza, lascio tracce rotolando nei territori digitali, e lascio anche un’impronta che voglio sia mia, che sia possibile navigare e scoprire e risalire e comprendere in un’immagine ampia, data dalla mia multicolore espressione di me lungo sentieri elettronici.
Chiaramente il web 2.0 ci aiuta nel ri-capitolare un Io forte, ad esempio con ClaimId, una sorta appunto di hub identitario.
Poi ho guardato, su consiglio di .mau., la tavola delle religioni mondiali, e seguendo Luisa Carrada ho sbirciato le regole di stile per la buona scrittura su Wikipedia: interessantissimo, mi viene subito in mente l’utilizzo che potrebbe farne un insegnante creativo in quarta superiore, sottoponendo a vaglio critico insieme ai suoi allievi le indicazioni “ivi contenute”; graditissima l’ironia mescolata alla fermezza: riguardo il ricorso a paroloni e frasi contorte, si legge che … spiegandoci in parole veramente povere, certe circonlocuzioni, concordemente con quanto asserito dai massimi fra gli accademici della Crusca, tenderebbero ad esacerbare alcuni segnali semantici all’interno del contesto espressivo, influendo non lievemente sulla prassi di decodifica cognitivo-funzionale del potenziale fruitore: tali propensioni stilistiche influirebbero inoltre sui risvolti più prettamente gnoseologici del testo, rischiando di sottendere l’elaborato alle più trite e abusate tendenze sintattico-espressive, di tipo puramente aforistico, forse dissimulando, tra pindariche figure retoriche, un più coerente anelito comunicativo ehehehh
Aiuto:Manuale di stile – Wikipedia
Per ultimo, David Byrne e Brian Eno hanno reso disponibili le tracce di due canzoni contenute in My Life in the Bush of Ghosts, sì da poter essere liberamente sotto Creative Commons utilizzate nei propri pezzi, oppure remixate e spedite sul loro sito. I due ci dicono che è la prima volta che questo accade, e su questo ho i miei dubbi, perché già anni fa partecipai a simili esperimenti remixando Beck e Robert Miles, e credo che anche Paolo Benvegnù stia conducendo un simile progetto in quel di Firenze, come mi fece notare l’Impostore via S.O.M .
Rimane il fatto che My Life… è un disco del 1981, e ripeto 1981, che per contenuti e forma potrebbe essere tranquillamente stato scritto a metà anni ’90, risultando comunque straordinario ed anticipatore. Lo considero tuttora il massimo risultato artistico raggiunto sia da Byrne sia da Eno (per quest’ultimo, almeno per quanto riguarda la musica “pop” strutturata, non ambientale).