Bartezzaghi da Repubblica si sofferma sul solito problema degli anglicismi, parole di lingua inglese correntemente usate in italiano. Giustamente, si afferma che la questione va affrontata con creatività. E allora ecco che l’esimio enigmista figlio di enigmista, laureato in semiotica con Eco, ci propone una simpatica poesiola di Mario Barenghi, italianista:
Qui c’è il browser con il server, ed il setter con il pointer,
c’è il bestseller, c’è l’hamburger con le chips e le blue chips;
c’è il reporter col revolver, c’è il designer col decanter,
qualche wafer, molti woofer, ma di welfare quasi più;
c’è il fund-raiser dentro il bunker, molti mixer, troppi mister,
più decoder che pullover, e gameover, stop, reboot;
c’è il caregiver con le cover e il dispenser di spinnaker,
ma nessun golden retriever ha la fiasca con il rum;
c’è lo hacker con lo shaker che col toner sporca il boiler,
e c’è il pusher che dal corner sintonizza la tivù
con i trailer dei blockbuster, rapper, speaker, leader, bomber,
e magari Jack the Ripper ne squartasse one or two
Gli apporti della lingua inglese – Lessico e nuvole – Repubblica.it
l’uso degli inglesismi dipende da una capacità estetica: quella dell’interazione della differenza. quella che riguarda la nostra lingua e quella inglese. Credo.
A presto.
yes, mauro savino
e trovandomi in casa mia su questo blog, come ti mostrerei in casa mia un oggetto (un canovaccio con la scritta, una copertina di libro, un paesaggio dalla finestra) pertinente con il discorso, qui mi sento di mostrarti il footer stesso del blog, quelle parole trace | ecart riflesse in uno specchio, roba da filosofo francese anni sessanta, e terribilmente centrate sulla questione della differenza.
altrimenti detto, sull’intraducibilità.
credo però si potrebbe almeno provare ad essere creativi, e trovare sinonimi costruiti anche con parole nuove per designare oggetti culturali che magari le altre lingue hanno già codificato. e per parole nuove, intendo proprio suoni come /suominda/ oppure /tarmogna/ ehehhe