La comprensione culturale di un mondo che cambia così in fretta richiede una ridefinizione dei parametri che utilizziamo per orientarci. Tuttavia è fortemente probabile che la scuola avrà il compito di occuparsi dell’educazione tradizionale, dai classici alla matematica. Quindi il senso dello spirito del tempo, la comprensione culturale, l’educazione ai media saranno un problema delle famiglie. E starà a noi riportare sull’uomo la centralità dell’azione, che le tecnologie abilitano e che oggi ha nuove potenzialità. Il governo stesso della nostra vita emozionale, dei nostri affetti, dei nostri interessi e la tutela dei nostri diritti, la difesa dei nostri valori: sono tutti aspetti che possiamo, oggi, gestire in maniera accresciuta.
Ma se sapremo guadagnarci, o se guadagneremo, solo ansie, dipenderà solo da noi, dalla decisione di cominciare a governare culturalmente il cambiamento o di subirlo lasciando ad altri (i nostri figli) il compito di affrontarlo e di gestirlo. Loro, non potranno farne a meno. (grassetto mio)
Queste riflessioni le trovate su Piovono rane, la rubrica di Alessandro Gilioli su L’Espresso. Sono le righe conclusive dell’anticipazione del nuovo libro di Giuseppe Granieri, “Umanità accresciuta” (Laterza, in libreria il 17 aprile), dove uno dei migliori studiosi italiani di tutte queste cose di social web e abitare in rete prova a fare il punto della situazione attuale e a delineare qualche scenario futuro, con sensibilità tutta umanistica.
Per questo la posizione pragmaticissima di Granieri, riguardo il fatto che con estrema probabilità tutti questi apprendimenti non avverranno tramite educazione formale, mi fa male, perché ha ragione.
La Scuola sta perdendo tempo, simili tematiche verranno con dignità (dentro la testa dei docenti, dentro i curricoli, nella stessa organizzazione didattica) affrontate solo tra molti anni, quando i ragazzi di adesso saranno già parte attiva della popolazione, adulti che affronteranno la complessità del mondo futuro con una preparazione abborracciata tipica del loro essere abitanti digitali nativi (evito l’etichetta “barbari” – oppure leggete seriamente cosa dice Baricco – perché questi parlano molto, altro che balbettare, hanno una cultura vivacissima, e perché è parola eccessivamente razzista nel connotare il loro nuovo e vincente stile abitativo biodigitale rispetto alla nostra morente civiltà del pensiero scritto e stampato), alla cui formazione nessun insegnante grazie al filtro della propria sensibilità ed esperienza ha potuto contribuire, educandoli alle forme di significatività del mondo e alla costruzione consapevole della propria identità sociale.
Perché gli insegnanti, tranne ovviamente i soliti illuminati che ora soffrono come cani per le difficoltà che incontrano nel provare a introdurre degli ammodernamenti didattici o organizzativi resi possibili dalle TIC, di queste cose non capiscono nulla, non avendone appunto esperienza. Nulla.
E i nuovi insegnanti che vedo arrivare nelle scuole o che provano timidamente ad affacciarsi qui in Rete con dei propri Luoghi personali o professionali, sono lì a perder tempo con le stesse domande che ci facevamo dieci anni fa, con gli stessi software tipo Ufficio, senza avere nemmeno l’umiltà di leggersi qualche libro aggiornato oppure di scandagliare le profondità della rete, su quei forum e bacheche dove da anni fioriscono le riflessioni sui risvolti educativi delle ex-nuove tecnologie… poi qualcuno mette una parola di finto buon senso, “l’apprendimento è così e cosà”, “alla fin fine niente sostituirà mai un buon libro”, “l’approccio pedagogico di TaldeiTali”.
Tutti pensieri fatti da gente, autori prestigiosi o educatori, che magari vent’anni fa avevano tutta la loro ragion d’essere, ma oggi non funzionano, e cadono inesorabilmente fuori luogo.
Perché questa gente non ha un blog, non commenta sui blog o sui forum, non ha un account su YouTube, non usa un aggregatore, non frequenta Luoghi websociali, usa la Rete solo per rubare come predoni nomadi, ma non abitano, non hanno cura dei territori digitali dove i ragazzi vivranno, non donano niente, non costruiscono niente. E poi tutti baldanzosi di essere alfieri del web20, ovvero della ormai banale normalità del vivere in Rete, giungono con fare messianico a dire agli altri cosa devono fare, di quello che loro stessi non fanno e non sanno fare.
“Eh, signora mia, qui non si più come vestirsi, non ci sono più le mezze stagioni”.
Ma soprattutto, “qui una volta era tutta campagna”: nel frattempo il web è diventato il principale Luogo di socialità del pianeta, struttura e flusso costitutivo del nostro essere cittadini consapevoli e critici della modernità, qui è dove ci informiamo e dove discutiamo e dove agiamo professionalmente e ludicamente, e non esisterà un futuro senza Rete, potete esserne certi.
Loro non lo sanno, ma i loro figli si!
Forse dal pragmatismo di Giuseppe si evince una speranza. Parlarne in famiglia può essere la chiave di svolta!
I genitori magari non ascoltano i figli, ma si preoccupano di quello che dicono e fanno. E forse da li nascerà l’interesse a questi nuovi stili di vita dove si fonde cultura, linguaggio, comunicazione, tendenza, nuove modalità di ……tante cose.
Certo, Gigi, in famiglia se ne parla, spero. Ovviamente una ocsa non esclude l’altra, anzi l’integrazione scuola-famiglia e l’apporto dell’intera comunità educante (fino al parroco o l’allenatore di calcio etc.) sono fondamentali per costruire intorno al giovanissimo un ambiente e un clima ottimale per lasciar emergere le valenze educative degli approcci.
Ma a me scoccia che la scuola faccia poco, ecco. Potremmo fare l’esempio della patente di guida: sono sicuro che molti genitori potrebbero fare gli insegnanti, ma decisamente mi piace che esistano le scuole guida (a parte i business loschi) e che qualcuno della Motorizzazione (qualcuno responsabile) certifichi l’abilità e la consapevolezza di quelli che per la prima volta toccano un volante.
Con la differenza, qui fondamentale, che nessun genitore è oggi per definizione un nativo digitale, e per pochi “illuminati” ci sarebbero molti a fare danni.
Infatti, il paradosso che si sta determinando è molto complesso. Da una parte “pochi” genitori illuminati che accompagnano a una crescita, anche digitale, consapevole, etica e portatrice di nuove opportunità.
Dall’altra giovani virtuosissimi …….si può dire anche “scafati”, nell’ambito digitale, che diventano dei veri e propri “technology steward”!
Un po’ con le scule e le università ci lavoro e noto che spesso anche i docenti si fanno trascinare più dalla parte intrigante delle tecnologia (geek addicted si può diventare facilmente), ma poi non ne capiscono la possibile declinazione culturale che potrebbe far emergere anche valori quasi scomparsi. Cito la socialità e la riscoperta della condivisione, come esempi.
Devo ancora leggere il libro di Giuseppe ma ho letto il suo “La società digitale” e già intravedevo nelle sue riflessioni la domanda che, IMHO, non può avere risposta. Chi guida, o meglio chi facilita con armonia e con consapevolezza questa nuva cultura (digitale)? La scuola, la famiglia, il lavoro o tutti assieme?
L’unica che non facilita, tanto per cambiare, è la politica. Ma questo è un male incurabile.
Io mi sto approcciando a un lavoro sulle “città digitali” e sullo status di “cittadino digitale” e li è ancora peggio. Chi sono i driver? Non certo le istituzioni. Purtroppo.
beh, teniamoci aggiornati su “web e territorio” e “città digitali”… abbiamo amici comuni che lavorano lì intorno, i miei interessi li conosci… ciao!
rileggendo il passaggio di giuseppe, mi e’ venuto in mente il concetto di “analfabetismo di ritorno” a cui possiamo dare oggi un altro, diverso significato. In mancanza di un’educazione scolastica – efficace – torneremo a dover fronteggiare il problema che larghe fette della popolazione saranno analfabete.
ps: sulle citta’ digitali, se non siete gia’ troppo avanti (-> Venezia 2.1 secolo), io sono molto interessato e sempre disponibilissimo ;-)