In Regione esistono dei Comitati dei Pendolari. Sì, i comitati di quelli che quotidianamente o comunque con notevole frequenza prendono dei treni per recarsi sul posto di lavoro, e ogni giorno possono notare le criticità (pulizia, riscaldamento, puntualità, linee soppresse) delle Ferrovie. Negli anni scorsi, in maniera assolutamente spontanea, molti pendolari han fatto passaparola tra loro, riuscendo in tal modo a essere talvolta ascoltati nelle loro richieste di miglioramento dei servizi ferroviari.
Cercando in Rete, ho trovato il blog del Comitato Pendolari Gemona Udine e quello del Comitato Pendolari FVG: su quest’ultimo trovate, a questo indirizzo, un interessante intervento di Marco Chiandoni intitolato “Acqua e ferrovia” dove con gli opportuni distinguo viene tentato un parallelo tra le reti di distribuzione dell’acqua e le reti di distribuzione di umani, ovvero i binari, e le conseguenze di una loro privatizzazione, come in molte parti è successo.
Contro la spesa a chilometri zero. Certo, il più delle volte ridurre le distanze tra produttori agricoli e consumatori migliora la qualità dell’ambiente, in quanto evita di immettere nell’atmosfera quintali di anidride carbonica prodotta dai necessari trasporti delle derrate.
Ma bisogna porre attenzione: dobbiamo sempre procedere pragmaticamente, senza che una visione ideologica (il km0 è sempre preferibile) condizioni i nostri comportamenti d’acquisto.
Un articolo di Dario Bressanini, nella rubrica “Scienza in cucina” sull’Espresso, spiega che le cose non sono semplici come sembrano. A esempio, metà dell’inquinamento è provocato dal consumatore, non dal produttore e dalla filiera dei trasporti. Se devo fare 20 km in auto per fare il giro dei negozietti alimentari che vendono prodotti a km0, inquino di più di quanto farei se andassi direttamente in un unico luogo di grande distribuzione, dove tutte le merci convergono.
E’ da comprendere un fenomeno che si chiama economia di scala. L’ipotesi che un cibo locale richieda sempre meno energia si è rivelata falsa. Produrre carne d’agnello in una grande fattoria in Nuova Zelanda e portarla ad Amburgo richiede meno energia che l’allevamento in Germania, dove visto il clima dovrebbero essere inclusi nel ragionamento anche gli sprechi dovuti al riscaldamento delle fattorie, i mangimi, la cura.
Se compro pomodori in un Farmer’s Market a febbraio a Udine, sicuramente sto comprando pomodori cresciuti in serra: potrebbe facilmente darsi che il consumo energetico complessivo per produrli in FVG sia superiore a quanto gli stessi pomodori richiederebbero se fossero stati coltivati in SudAfrica, tenendo conto anche del trasporto per portarli sulle nostre tavole.
Il fotovoltaico ha bisogno di una filiera. Per potenza installata l’Italia, dopo il boom degli ultimi due anni, si trova al secondo posto nella classifica in Europa dopo la Germania per potenza installata. Se però allarghiamo lo sguardo allìintera filiera di produzione dei pannelli fotovoltaici le cose purtroppo cambiano decisamente in peggio.
Basti pensare che l’industria italiana delle energie rinnovabili complessivamente deve importare circa i tre quarti della componentistica necessaria. Un problemino che non incide negativamente solo (si fa per dire) sullo sviluppo occupazionale ed economico che invece potrebbe derivarne, ma che fa salire anche i prezzi mettendo a rischio il raggiungimento degli obiettivi che su scala europea toccherebbero all’Italia, ovvero il 17% di produzione da fonti rinnovabili al 2020. E a dirlo è la Commissione europea, che ha già fatto cattivi pronostici per il nostro paese.
Quando invece, secondo uno scenario condotto da Iefe-Bocconi, se l’industria italiana riuscisse a coprire almeno il 70% del fabbisogno interno di componenti per la generazione di energia rinnovabile da qui al 2020, si potrebbero creare almeno 175 mila nuovi posti di lavoro e un fatturato di circa 70 milioni di euro.