Ormai nel discorso pubblico a una domanda precisa si risponde attingendo al repertorio dei luoghi comuni e delle frasi fatte, ampi cataloghi, ricche antologie storiche pronte a soddisfare qualsiasi posizione esistenziale, morale, psicologica, politica, economica, comportamentale, e così guadagnarsi con facilità una vittoria dialettica definitiva potendosi giovare della secolare conferma sociale della bontà di quelle frasi, della loro giustezza, del loro essere depositarie di verità profonde e inconfutabili, ormai proverbiali.
L’abilità dell’interlocutore consiste nel saper sagacemente collocare questi format premasticati di risposta nel giusto contesto enunciativo, lasciando riecheggiare e intravedere significati al di là di quella, rimandi culturali e letterari sofisticati, alimentando complessità interpretative, sempre però sancendo la fine della conversazione con una locuzione definitiva, indubitabile nel contenuto, perentoria nell’espressione.
D’altronde, non si vive di solo pane.
Per diradare la nebbia delle post-verità, per bonificare la palude dell’immobilismo semantico dei botta prevedibilissima e risposta semi-automatica, per fare lo sgambetto ai rituali retorici dei cerimoniali pubblici quali le conferenze stampa di un Presidente del Consiglio serviva un eroe senza mantello, nel nostro caso il giornalista situazionista Alexander Jakhnagiev che ha chiesto a Giorgia Meloni se lei, quando cammina, calpesta o meno le formiche. Questo perché, secondo un proverbio della nonna di Jakhnagiev, “quando si calpestano le formiche poi piove”, e qui entriamo di prepotenza nel reame delle fiabe di animali e di magia con contenuti che certamente mal s’attagliano alla situazione istituzionale della conferenza stampa.
In realtà la strategia di Jakhnagiev è chiara, serve un detonatore, un grilletto (ok, un trigger), una dislocazione, un granello di sabbia nell’ingranaggio oliato e concordato del cerimoniale, uno spostamento degli assi cartesiani del qui-e-ora per destabilizzare Meloni, impedendole di rispondere con frasi fatte e concetti rimasticati, portandola a riformulare un nuovo imprevisto universo di discorso, a richiamare archivi semantici differenti e diversi stili linguistici espositivi, ad adottare una diversa postura comunicativa, quei gesti un po’ goffi che facciamo per ritrovare l’equilibrio dopo uno sgambetto o dopo essere incespicati.
La domanda, in quel contesto, veicola certamente dei significati ma non reclama senso, anzi confligge con il cerimoniale: il senso della domanda fuori luogo è proprio impedire che l’interlocutore si rifugga in luoghi comuni. Il senso della domanda è nella direzione della risposta, nell’intero comportamento di risposta.
La necessaria rapida riorganizzazione dei saperi e delle conoscenze, l’articolazione della risposta sul piano dell’espressione e dei contenuti farà emergere proprio il senso che cerchiamo con una domanda peregrina ovvero il contenuto è il modo stesso con cui l’interlocutore si riposiziona esistenzialmente, la tattica improvvisata a cui ricorre per fronteggiare l’imprevisto.
Ma lì, nei gesti e nei tentennamenti dell’altro, nel cambio di postura fisica e concettuale, nelle pause del discorso necessariamente meno formale e preimpostato e nelle scelte linguistiche, traspare e scorgiamo autenticità come saetta luminosa, come verità sensibile, possiamo ripristinare le giuste coordinate della circostanza di enunciazione, cogliamo il senso profondo dello scambio relazionale, lo svelarsi e rivelarsi delle persone nella loro autenticità.
Servono più sgambetti, scarti laterali, per farsi gioco e ri-valutare e rinnovare le pre-aspettative mie e dell’altro.
Non lavoro sul messaggio ma lavoro sul contesto, modificandolo affinché i significati situazionali cadano poi in nuove aggregazioni e correlazioni, ben sapendo che la differenza e lo scarto all’interpretazione sono segni e tracce simmetriche e speculari del senso.
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