Un commento su Facebook.
La questione riguardava l’identità friulana, e le azioni politiche della classe dirigente, la loro visione.
Hai (avete) usato dati solidi su cui poggiare l’argomentazione: andamento demografico, politiche del lavoro, statistiche macroeconomiche.
Poi avete accennato – scientemente – alla questione della “identità” forse come un grimaldello, un espediente retorico per muovere le passioni e la conversazione, ma si tratta di una nebulosa di contenuto, stratificata e sedimentata negli ultimi cinquanta e più anni, dai mille aspetti e dalle mille concettualizzazioni, e come sottolinei proprio questa ha “bucato” lo schermo.
Tutti guardano lo specchietto, ci dici, tutti guardano il dito e non la Luna.
Allora qui giustamente ritorni sul nodo della questione, il capitale sociale.
Di una società profondamente cambiata nei suoi valori profondi, peraltro, nelle sue prassi socioeconomiche: non è il Friuli di Pasolini, non è il Friuli del terremoto, non è più nemmeno il gaudente Friuli degli anni Novanta.
“Chi siamo” è un costrutto post-hoc, viene dal guardare cosa abbiamo fatto e interpretarlo secondo codici culturali mutevoli, viene dal cosa facciamo. Emerge.
L’Io emerge dalle relazioni, viene dopo, non è un nodo ontologicamente fondato.
Relazioni interne con parti di me, concetti di me, ri-conoscimenti, interpretazioni, narrazioni di me a me stesso e agli altri.
Relazioni con gli altri, con la loro idea di me, con l’idea che ho di loro, con il loro sentire, rapporti, somiglianze, nella rete ogni giorno tessuta della socialità, nell’intersoggettivo delle relazioni di cui aver cura. E già stabilire un “dentro” e un “fuori” di me, un Io cartesiano, è obsoleto e non permette di cogliere la ricchezza dell’esistenza.
L’Io nasce dal Tu, il Noi si fonda sulla condivisione di un sentire e di un punto di vista, assolutamente senza ricorrere a un Voi che poi orribilmente diventa un Loro, un nemico contro cui contrapporsi (mossa classica per definirsi), e non invece scambio e confronto osmotico arricchente con culture altre.
Non amo l’identità, il nazionalismo, il patriottismo, notoriamente. Sono inganni e manipolazione, colonizzazione dell’immaginario.
Ma quel capitale sociale di cui parli va innervato con una visione del domani, valori etici transgenerazionali, quel senso di appartenenza o meglio ancora direi quel *sentimento di appartenenza* che scaturisce sempre dalle pratiche di partecipazione sociale – nella post-modernità sempre meno diffuse, sempre meno vissute da ognuno di noi – e che poi diventa un modo di essere noi stessi, un riconoscerci, pronunciare le nostre parole e il nostro discorso originale al mondo, un essere intellegibili agli altri come un nostro peculiare stile dell’abitare, dello stare al mondo, dell’aver cura del territorio su cui la collettività risiede, dell’aver cura appunto delle relazioni interumane che tante piccole comunità riescono ad intrecciare avendo a mente e a cuore delle finalità nuove, rinovellate nelle narrazioni corali e massmediatiche, autentiche.
Gli obiettivi li abbiamo: transizione ecologica (qui son tutti a suonare nell’orchestrina del Titanic), dignità del lavoro, progettazione sociale e territoriale coraggiosa, visione politica alta, lungimirante, da statisti capaci di interloquire con il futuro delle generazioni. Anche le azioni da intraprendere sono chiare, con queste premesse.
Sulla politica però mi fermo, siamo dentro il balletto dei programmi elettorali, figurati.
E nessuno ha voglia di essere impopolare.