Non è necessario implementare subito ogni nuova tecnologia o ambiente digitale nella socialità, però si può ragionare di tecnosocialità o di paesaggi mediatici, oppure di diritti umani, rischi e opportunità.
Diventa però sì necessario esplorare le potenzialità della democrazia elettronica, dove più che gli elettroni che viaggiano dobbiamo ideare e comprendere nuove strutture tecnosociali che possano sostenere il peso della responsabilità e della affidabilità. Piattaforme o ambienti digitali partecipativi, per la consultazione o la deliberazione politica.
Innanzitutto bisogna prendere il problemone e spezzettarlo in tanti problemi più piccoli, come al solito.
Le soluzioni di e-democracy praticate in altri Paesi o città, oggi o ormai trent’anni fa, sono tutte diverse, in quanto strumenti progettati con obiettivi e risultati attesi differenti.
Va stabilita una scala di situazioni, elaborati dei modelli di intervento, padroneggiare in noi quote di sperimentalismo dove anziché varare un’arca di Noè gigantesca e buona per tutti si provano meccanismi locali, o dai contenuti limitati, o da forme partecipative limitate – mi è sempre piaciuta l’idea che si possano commentare le iniziative cittadine a esempio urbanistiche con testi lunghi 300 caratteri, su piattaforme governative gestite da personale qualificato e ben retribuito, per aver cura dei forum e della community locale o iperlocale.
A quel punto avremo più dati, più informazioni, e potremo decidere meglio i prossimi passi da compiere.
Perché ogni tentativo di incrementare la partecipazione è democratico, tutto qui, da qui viene la necessità di intraprendere un percorso ragionato.
Tutte le critiche e le perplessità le conosciamo da trent’anni, siano esse di carattere tecnico o giuridico o etico. Non bloccatevi di fronte al Leviatano: restate flessibili, morbidi, curiosi, critici, sappiate vedere sentieri nel bosco.
Da una parte teniamo ferma la possibilità di alimentare le democrazie rappresentative con nuovi metodi di partecipazione.
Dall’altra riflettiamo sulla gravità del fatto che i contenitori della deliberazione pubblica e (quante volte lo abbiamo già visto) poi politica siano le piattaforme commerciali che tutti, metà degli italiani, usiamo giornalmente, molte ore al giorno, ogni giorno.
Questo significa – è necessario, di nuovo – che la politica deve superare un’alienazione, sappia portare a coscienza in sé i possibili preconcetti attribuiti alle forme di partecipazione digitale, affrontarli smontarli e ricostruire un modello adeguato alla realtà odierna. Quindi progettare nuovi ambienti e strumenti di partecipazione civica, motivare le persone e le collettività a utilizzarli per il bene comune, scongiurare l’allontanamento tra cittadini e istituzioni.
Credo una simile riprogettazione sociale dei meccanismi della partecipazione e della decisionalità politica porterà nel medio termine a profonde modifiche nelle strutture sociali, nelle organizzazioni lavorative pubbliche, nella percezione e nell’azione amministrativa, nella formazione dell’opinione pubblica, nella narrazione della cultura di una nazione, nel sentimento di appartenenza a comunità edificate secondo criteri di pertinenza a noi ancora invisibili, in quanto or ora emergenti dalle nuove pratiche di conversazione e dal nostro abitare digitale.
Dobbiamo navigare e aver coraggio: fatto il punto nave, dobbiamo ricalcolare la rotta verso le nuove migliori forme di democrazia partecipativa che siamo capaci di concepire e realizzare. Ci serve un buon cibernauta.
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