Giovanni Boccia Artieri riflette su Apogeonline sulla forma storica che assume oggi la partecipazione ai movimenti di massa, e quindi mostra l’attivismo della e-partecipation, lo stile nuovo dell’essere impegnati e le potenzialità a cui le azioni civiche online possono dar luogo, nel dialogare con i vecchi dispositivi e sistemi sociali, con il concreto costruire strategie per meglio amministrare la cosa pubblica.
Il dialogo è difficile, perché mancano le parole per dire cose nuove, e perché molti di quelli che dovrebbero ascoltare non hanno orecchi per intendere. Ma ogni nuovo esperimento è benvenuto, perché arricchisce il nostro vocabolario.
Da un’osservazione dell’articolo, prendo spunto: “non ci sono più i movimenti di massa del ‘900”. Sembra banale, sembra “non ci son più le mezze stagioni”, più che altro perché il ‘900 è finito. Ma non si è ben capito cosa significa. Significa che non c’è più bisogno, com’era sempre successo, di avere delle idee per radunare delle persone.
Cioè, il problema era radunare le persone, ovvero muoverle all’azione. Per innescare un cambiamento – la partecipazione a movimenti di piazza, in questo caso, l’aderire a un’ideologia – bisognava aspettare che due o tre pensatori per ogni generazione riuscissero tramite la filiera editoriale pesante (il cartaceo) e elettronica (la televisione, in tempi recenti) a produrre delle idee-bandiera, attrno alle quali si potesse poi coagulare un sistema di programmi narrativi, un consenso che desse forza.
Le persone erano poche, sparse in giro per il mondo, la diffusione delle idee era lenta, per fare massa critica numerica bisognava avere costanza nell’azione di distribuzione delle nuove ideologie, che però pian piano emergevano, se in grado di occupare bene la loro nicchia ecologica nei sistemi di pensiero di cui ogni epoca si nutre, ciascuna i suoi. Il Cattolicesimo o il Romanticismo o il Sistema della Moda o il brand di un’azienda alla moda (i valori etici e estetici collegati in connotazione, il riflesso sulla nostra identità) sono tutte ideologie, come sistema organizzato di valori e credenze.
E se nel ‘900 avevamo bisogno di ideologie per radunare la gente, e poi sarebbero arrivati i partiti per organizzare il consenso (strutture per la gestione, già forme di “solidificazione” dei movimenti), oggi abbiamo milioni di persone che partecipano con la mente, essendo connessi a Luoghi digitali sociali, e poi magari mettono in moto anche il corpo e si recano alla manifestazioni di piazza, ma in origine è partecipazione “al netto”, non ancora orientata a uno scopo, a una tematica.
Noi abitando in Rete siamo già lì. Pubblicando e commentando qua e là sui social gli accadimenti, replicando a un twit e mettendo un like, già partecipiamo, al punto che è possibile misurare le aggregazioni spontanee, a esempio registrando il successo di iniziative di comunicazione informali come trendingtopics su Twitter o gruppi su Facebook.
Abbiamo la gente, e non abbiamo l’ideologia.
Il sistema sociale che nei secoli abbiamo raffinato per fare emergere idee di miglioramento della qualità del vivere (chiamatelo Progresso, se volete) si è sviluppato tenendo ferma come costante del ragionamento la dimensione geografica del nostro abitare, le distanze dei paesi e delle nazioni, ora caratteristica superata dal nostro essere connessi.
Tutto il calderone della comunicazione complessiva di una società (di nuovo, scegliete voi il grado di pertinenza: se osservare le collettività iperlocali, o i mille rivoli dell’opinione pubblica a livello nazionale, o planetario) è oggi molto più caldo: molto più veloce è il cuocere delle pietanze. Le culture umane nel pentolone, ma sotto abbiamo acceso un fuoco notevole, inventando Internet che tutti e tutto connette simultaneamente, abolendo le distanze.
Ora siamo qui, cosa facciamo? Viviamo di memi? La notiziola che ci fa parlare tutti per un pomeriggio, l’argomento grosso che si trascina in una tregiorni di querelle sui socialnetwork e rimpiattino sulla TV, che poi parla della Rete e quindi la Rete reagisce alle critiche?
Il nostro essere in Rete, l’aver espresso con la nostra presenza (identità digitale riconosciuta) la nostra partecipazione a un’idea o a una proposta di azione legislativa, il nostro aver costituito con le nostre firme o i nostri like un “movimento di massa digitale” che va riconosciuto nella sua efficacia di modificare la narrazione sociale, deve aver la possibilità di incidere sulle scelte della gestione della cosa pubblica.
Bisogna attribuire il ruolo di “parlante ratificato” alla voce che emerge da iniziative organizzate in Rete, sancirne la legittimità del suo dire e essere ascoltato. Fuori da logiche partitiche, perché il modello storico dell’organizzare il consenso tramite queste strutture “solidificanti” dei valori e degli atteggiamenti – su cui poggerebbe poi l’azione politica parlamentare, secondo meccanismi elettorali e criteri di rappresentatività, è appunto ormai storia passata, espressione di un’epoca non connessa.
Il ‘900 aveva sviluppato i suoi sistemi di innovazione sociale, con i suoi tempi e le sue distanze. Noi siamo tutti qui senza geografie e dobbiamo inventare i nuovi modi e modelli per facilitare la partecipazione civica, organizzarla in consenso per darle rilevanza democratica significativa rispetto alle collettività interessate al cambiamento, scoprire per prove e errori come progettare il software sociale che meglio interagisca con l’hardware dei territori e delle collettività che li abitano. Progettazioni sociali che grazie al contributo di tutti ottimizzano l’ingegneria del nostro abitare.